ANNI 1760 - 1788

L'ITALIA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

(SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE E POI NAPOLEONE
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IL REGNO DELLE DUE SICILIE SOTTO IL GOVERNO DEI BORBONI: CARLO III; BERNARDO TANUCCI; FERDINANDO IV; MARIA CAROLINA; IL MARCHESE DELLA SAMBUCA; DOMENICO CARACCIOLO; L'AMMIRAGLIO ACTON; ABOLIZIONE DELLA CHINEA; LA SICILIA - LA TOSCANA SOTTO I LORENA: FRANCESCO II; PIETRO LEOPOLDO; LE RIFORME; SCIPIONE DEI RICCI; SEDIZIONI - LO STATO PONTIFICIO: CLEMENTE XI; INNOCENZO XIII; BENEDETTO XIII; CLEMENTE XII; BENEDETTO XIV; CLEMENTE XIII; LA LOTTA CONTRO I GESUITI; CLEMENTE XIV; SOPPRESSIONE DELL'ORDINE DEI GESUITI; MORTE DI PAPA GANGANELLI; PIO VI - IL DUCATO DI PARMA E PIACENZA: DON FILIPPO DI BORBONE; FERDINANDO; IL DU TILLOT; MARIA AMALIA D'AUSTRIA; RIFORME - IL DUCATO DI MODENA E REGGIO: FRANCESCO III; ERCOLE RINALDO; FINE DEGLI ESTENSI - LA REPUBBLICA DI SAN MARINO - LUCCA - LA REPUBBLICA DI VENEZIA: L'AMMIRAGLIO ANGELO EMO E LE SUE IMPRESE CONTRO I BARBARESCHI - LA LOMBARDIA SOTTO IL GOVERNO AUSTRIACO
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IL REGNO DELLE DUE SICILIE SOTTO I BORBONI:
CARLO III; FERDINANDO IV; MARIA CAROLINA; BERNARDO TANUCCI; ABOLIZIONE DELLA CHINEA


I napoletani sebbene avessero accolto con entusiasmo CARLO di BORBONE, col quale il regno acquistava vita propria, pure non pochi erano i malcontenti del suo governo e, fra questi, primi i nobili e gli ecclesiastici, i quali, quando scoppiò la guerra per la successione d'Austria, si rivolsero a Maria Teresa ed aiutati da lei cominciarono ad agitarsi e ad ordire trame contro il loro sovrano.
Il partito austrofilo del regno faceva capo, il conte THUN ambasciatore di Maria Teresa a Roma, il quale nell'inverno del 1744 mandò, ben provvisto di denari, a Napoli un certo FOX che diede nuovo vigore all'agitazione. Preoccupato dall'azione dei nemici interni, Carlo III ordinò arresti e processi, ma questi non riuscirono a far cessare l'agitazione, che anzi da Napoli si estese a tutte le province del regno. I principali cospiratori erano NICOLA CORTESE duca di Verzino, il duca PIGNATELLI di MONTELEONE e i principi di Scilla, di Cariati e di Bisignano. Quest'ultimo si era dato da fare per radunare armati ad Acri, Palude, Altomonte e nelle coste del mar Jonio, i quali dovevano essere sostenuti da una flotta inglese; il duca di VERZINO si era accordato con il colonnello austriaco conte di SORO, che doveva invadere gli Abruzzi e dare man forte ai ribelli. Ma il disegno dei cospiratori fallì: il Soro, passato il Tronto con poche milizie, fu facilmente messo in fuga; a Velletri, come altrove si è detto, l'esercito austriaco comandato dal LOBKOWITZ fu sconfitto e così CARLO III poté domare completamente la rivolta e consolidare il suo potere.

Annientato il partito austrofilo, il re dedicò tutta la sua attività al riordinamento dello Stato, aiutato dal suo ministro BERNARDO TANUCCI, già professore di diritto pubblico nell'ateneo pisano, uomo instancabile, di larghe vedute e di onestà a tutta prova. Una delle riforme, - scrive Ettore Callegari - che, prima di ogni altra, doveva divenire oggetto di studio per un accorto uomo di Stato, era l'unificazione di tutte le disposizioni legislative del Regno, che costituivano una bizzarra accozzaglia di elemento romano, barbaro, arabo, normanno, frammisto a decreti angioini, a costituzioni aragonesi, a prammatiche di viceré, a consuetudini paesane, a statuti feudali ed ecclesiastici. A questa si volsero con perseverante intelligenza re e ministro, e il paese risentì subito gli ottimi effetti di un provvedimento che da tanti anni si imponeva. Furono pure sottoposte ai pubblici pesi le proprietà del clero, e, mediante un concordato con Roma, ristretti il diritto di asilo e le attribuzioni del foro ecclesiastico; fu abbassata l'autorità dei baroni con la revoca di molte giurisdizioni e con il diritto d'appello per le sentenze dei giudici baronali. Favorì inoltre il principe il commercio; abbellì le principali città del regno, e incominciò gli scavi di Ercolano e Pompei.

Nel 1759, essendo morto il fratello FERDINANDO VI, Carlo III salì al trono di Spagna e lasciò il regno al figlio giovinetto FERDINANDO che si chiamò III in Sicilia e IV a Napoli. Le redini dello stato rimasero nelle mani del Tanucci, il quale, durante la minore età del re, proseguì nella politica delle riforme; abolì le decime, soppresse il tribunale dell'Inquisizione e quello della Nunziatura, che giudicava in appello le cause in cui erano coinvolti degli ecclesiastici, proibì l'acquisto di manomorte, soppresse conventi, istituì una giunta di vigilanza detta degli abusi, proibì ai vescovi di emanar bolle senza il regio consenso, espulse i Gesuiti, fondò scuole elementari in tutti i comuni e secondarie nei capoluoghi di provincia e fece rifiorire l'Università di Napoli.

II Tanucci, che tanto prezioso si rese al regno di Napoli, però non volle o non seppe addestrare al governo il suo giovine re; forse non volle, temendo che il sovrano gli togliesse l'autorità immensa che aveva e lo ostacolasse. Nella politica riformatrice, come ci fanno sospettare le parole dell'imperatore Giuseppe II che, secondo il Reumont, lasciò scritto: "…II Tanucci lascia il re in un'imperdonabile ignoranza dei suoi affari ed interessi; mentre impedisce agli altri ministri di tenerlo informato delle cose. Egli non pensa se non a se stesso, approfittando di ogni mezzo lecito e illecito. Testimone dell'infame educazione data al giovane re, avrebbe potuto cambiarlo. Ogni giorno potrebbe distoglierlo dai suoi divertimenti puerili, facendogli a poco a poco gustare il lavoro e l'occupazione; ma ciò non entra nei suoi disegni; e quantunque, allorquando gliene tenni discorso, fingesse di desiderarlo sommamente, ma non durai fatica ad assicurarmi che il misero uomo tremava per la paura che io aprissi al re gli occhi ".

Così Ferdinando IV crebbe ignorante, infingardo, dedito alle baldorie sguaiate, pur essendo dotato d'ingegno e di cuore, e prima lasciò completamente al Tanucci le cure del governo, poi, unitosi in matrimonio con MARIA CAROLINA, figlia di Maria Teresa e sorella di Giuseppe II, si lasciò dominare dalla moglie.
Era, questa, frivola, di facili costumi, desiderosa di tener tutte nelle sue mani il potere. Fu tale l'ascendente che essa seppe acquistarsi sull'animo debole del marito da indurlo nel 1777 a licenziare il Tanucci, al quale fu sostituito il marchese della SAMBUCA.
Credeva Maria Carolina di avere nel nuovo ministro un fedele esecutore dei suoi ordini, che aderisse completamente alla politica austrofila da lei caldeggiata; invece il Sambuca si mantenne devoto a quella spagnola e per ciò non godette la stima della regina e fu costretto, dopo sette anni di governo, nel 1784, e dimettersi.

All'allontanamento del Sambuca influì molto l'opera dell'ammiraglio ACTON, di nascita irlandese e devotissimo alla sovrana. Egli era potente alla corte e per mantenersi nei favori di Maria Carolina ne assecondava la politica, opponendosi alle riforme e cercando con grave dispendio di dare al regno una forte marina ed un esercito numeroso. Se accrebbe la flotta, egli però non seppe creare un esercito veramente forte, che rimase un organismo privo di disciplina e di spirito marziale.

Con il ritiro del marchese della Sambuca la politica del regno si orientò decisamente verso l'Austria e furono rotte le relazioni tra Napoli e Madrid. Si tentò da diverse parti, specialmente dalla Francia, di conciliare le due corti, ma ogni tentativo per la caparbietà della regina di Napoli riuscì inutile.
Al duca Sambuca, come primo Segretario di Stato, successe il marchese DOMENICO CARACCIOLO, al quale si deve l'abolizione della chinea, l'omaggio cioè di un cavallo bianco che in segno di vassallaggio si presentava ogni anno nel giorno di S. Pietro, insieme con l'offerta di settemila ducati d'oro, alla Santa Sede.
L'idea dell'abolizione era stata del Tanucci che nel 1776 aveva annunziato di voler sopprimere la chinea, mantenendo il censo annuo sotto forma di offerta devota agli SS. Apostoli. Ma l'omaggio della chinea continuò fino all'anno 1787 e fu soppresso solo nel 1788, nonostante le proteste della Curia Romana che si rinnovarono ogni anno fino al 1858. II censo dei settemila ducati fu in forma privata depositato nel Monte di Pietà di Roma a credito della Camera Apostolica.

Anche in Sicilia, fin da quando era ministro a Napoli il Tanucci, sierano effettuate delle riforme, e durante il periodo di tempo (1755-1773) in cui vi fu viceré GIOVANNI FOGLIANI il governo fu improntato a giustizia; ma il vero progresso dell'isola ebbe inizio quando nel 1781 vi fu mandato come viceré il marchese DOMENICO CARACCIOLO.
Egli rafforzò l'autorità regia, abbassò quella dei baroni, ne restrinse la giurisdizione, ne corresse gli abusi e ne diminuì i privilegi, migliorò l'amministrazione della giustizia e la sicurezza del paese, che fu provvisto di nuove strade; introdusse nella Deputazione quattro delegati delle città e quattro del Clero ed abolì il tribunale dell'Inquisizione di Palermo, ordinando che si bruciassero i processi.

""…L'autorità del re - scrive Augusto Franchetti - era e frenata in Sicilia e quasi sfrenata nel Regno, dove a mere apparenze si riducevano i così detti "seggi" di Napoli e il sindacalo del denaro pubblico, che doveva farsi in un annuo cimento dagli "Eletti" dei cittadini, secondo le antiche prammatiche aragonesi richiamate recentemente in vigore. Ma i migliori principi intristiscono e fuorviano quando mancano abiti e virtù civili: onde nelle due parti del Reame vi era, con nomi diversi, pari ingiustizia ed oppressione. Aggiunsero poi nuovi mali la peste che infierì a Messina nel 1743, la carestia del 1764 (funesta per se stessa ed anche per i rimedi che dettò l'ignoranza delle leggi economiche; l'eruzione del Vesuvio del 1779, e per ultimo i calamitosi terremoti delle Calabria del 1783, ove parve sconvolto l'ordine della natura e intieri villaggi perirono inabissati o distrutti.."".
""...Ciò nondimeno la popolazione -secondo il Denina- era assai cresciuta in quel secolo, perché uno stato del 1670 contava cinquecento mila famiglie ossia un tre milioni e mezzo di anime; e nel 1795 lo fa ammontare a quasi sette milioni. Appartenevano pure alla corona i Presidii della Toscana comprendenti Portolongone nell'isola d'Elba, Orbetello, Porto-Ercole ed altri luoghi della Maremma senese. Da quella per ultimo dipendevano, con vincolo feudale, Malta e Piombino: l'una posseduta dal nobilissimo e scaduto ordine cavalleresco di S. Giovanni di Gerusalemme, l'altro retto, come principato dai Boncompagni-Ludovisi, residenti quasi sempre a Roma. Con Piombino andava unita la massima parte dell'isola d'Elba, la quale aveva tre padroni: Portoferraio apparteneva alla Toscana, Portolongone dello Stato dei Presidii e il rimanente del Principato di Piombino.."".

""...Rispetto all'estensione di domini e al numero dei sudditi del Regno non sembrerebbe sproporzionata una entrata di quasi 17 milioni e 809 mila ducati, compresi i proventi feudali, ed esclusa la prestazione di un milione e 30 mila ducati che la Sicilia pagava per le spese comuni. Pure gravissimi riuscivano i tributi per la non equa ripartizione e per la moltitudine dei privilegiati. Tolti i tre milioni e 236 mila ducati che dovevano sopperire al debito dello Stato, rimanevano, nel 1783, un avanzo di quattro milioni e 892 mila ducati. Non avevano dunque impoverito l'erario gli abbellimenti di Napoli, il teatro di S. Carlo, gli scavi di Ercolano e di Pompei incominciati nel 1738 e le magnifiche strade eseguite, sotto Re Carlo, assai più per il fasto delle "cacce reali" che per l'utile pubblico..."".
""...Ora peraltro i lavori immaginati dall'abate GALIANI, come assessore di economia nella sopraintendenza del fondo di separazione, o le spese militari dell'Acton, davano origine a nuovi bisogni. Per provvedervi fu istituito nel 1782 un Consiglio di Finanza, chiamandovi validi dotti economisti, il marchese PALMIERI, lo stesso Galiani, ingegnoso e paradossale scrittore, e dopo di lui, GAETANO FILANGIERI, ma non se ne ebbero i frutti sperati, perché le sue attribuzioni mal definite si intralciavano con quelle dell'antico Tribunale della Camera della Sommaria.."".

""...Nella confusione e nell'indeterminatezza degli uffici stava -avverte il BIANCHINI- il vizio principale dell'amministrazione napoletana. Miserabile, poi era la condizione delle plebi, sopratutto nelle terre feudali. Riferisce il GALANTI, geografo e filosofo, di averne ""…visitata una, nel 1789, a quindici miglia dalla metropoli, ove solo i ministri del barone abitavano in case, mentre tutte le altre genti, cioè duemila uomini, donne e bambini, riparavano sotto pagliericci o dentro delle grotte. Mentre 2265 erano le città e luoghi abitati del Reame, i non feudali erano 50 nel 1734 e 290 nel 1789! Tuttavia in mezzo agli splendori e alle ricchezze della natura, i più conducevano vita allegra e spensierata, e si confortavano con il giuoco del lotto, introdotto da Re Carlo .."".

LA TOSCANA SOTTO I LORENA: FRANCESCO II; PIETRO LEOPOLDO; LE RIFORME; SCIPIONE DEI RICCI; SEDIZIONI

Il 9 luglio del 1737 moriva GIAN GASTONE de' MEDICI e, secondo i trattati precedenti, gli succedeva sul trono granducale di Toscana FRANCESCO STEFANO, duca di Lorena e di Bar, il quale vi mandò il principe di CRAOU. Il 19 gennaio il nuovo granduca con la moglie Maria Teresa si recò a Firenze e vi rimase fino al 28 aprile. Durante il breve soggiorno nel suo nuovo stato ordinò la reggenza, che doveva in sua assenza governare, e confermò a capo di lei il Craou.
Sotto il governo della reggenza la Toscana decadde. Per le guerre che affliggevano l'Europa i commerci languivano, il denaro era mandato in Austria; il paese era stremato dalle guarnigioni straniere che doveva mantenere; il lavoro mancava e per di più mancava la voglia di lavorare; i nobili sciupavano i loro patrimoni nei divertimenti; la mancanza di una corte e, per conseguenza, dei favori da lei largiti, nonché la preferenza degli stranieri nell'amministrazione era causa di malcontento.

Non migliorarono le condizioni della Toscana quando al Craou successe il conte di RICHECOURT, che pure era onesto e volonteroso; peggiorarono invece sotto il governo del BOTTA-ADORNO che lo sostituì nel 1757 e si rese odioso a tutti. Quando nel 1765 cessò di vivere il granduca Francesco II, v le condizioni della Toscana erano veramente deplorevoli. Fortuna volle però che salisse al trono granducale un principe che dedicò tutta la sua attività a sanare le numerose piaghe da cui era afflitto il paese.
Fu questi PIETRO LEOPOLDO, il quale, appena assunto al trono, si circondò di ministri attivi ed intelligenti e pose mano all'attuazione di un vasto programma di riforme economiche, legislative e religiose. Per risollevare i commerci e le industrie ed alleviare il disagio economico concesse prima la franchigia per l'importazione dei grani forestieri, poi esentò da qualsiasi tassa o gabella l'importazione, l'esportazione e la circolazione del frumento e delle biade; abolì tutte le dogane, le tasse e i dazi di transito; riparti equamente la fondiaria, soppresse la servitù di pascolo, di legnatico e di pini che erano di ostacolo allo sviluppo dell'agricoltura e, aiutato dal Tavanti e dal Neri, diede libertà all'industria e al lavoro.

Anche all'amministrazione criminale e civile Pietro Leopoldo rivolse le sue cure, non dimenticando l'istruzione pubblica e le opere di carità. Abolì l'uso della tortura, e, salvo casi eccezionali, la pena di morte; volle soppressa la confisca dei beni dei delinquenti, decretò che i processi fossero eseguiti con maggiore speditezza e rese meno dure le prigioni. Riformò in parte l'amministrazione municipale; fondò scuole ed istituti quali il Museo di Fisica, l'Archivio diplomatico e l'Accademia delle Belle Arti; riformò e sussidiò molti istituti di beneficenza; bonificò la Valdichiana e iniziò la bonifica della Maremma.
Conseguenza delle sue sagge riforme e del suo illuminato governo fu che il debito pubblico fu estinto, le cose più gravi furono alleviate e crebbero le pubbliche entrate e la popolazione. Le rendite, che nel 1765 sommavano a 8.900.033, giunsero nel 1789 a 9.000.000; la popolazione che era di 945.063 anime salì a 1.058.000 individui.

Le cure maggiori Pietro Leopoldo le dedicò alle riforme ecclesiastiche. Tolse al clero immunità e diritti di asilo; soppresse conventi, abbazie e terzi ordini cui sostituì pie istituzioni; mise freni alle manomorte; abolì il tribunale della Nunziatura e quello del Sant'Uffizio cui il suo predecessore aveva tolto la censura della stampa; restrinse le giurisdizioni dei tribunali ecclesiastici.

Suo consigliere molto ascoltato era SCIPIONE DEI RICCI, fautore come il granduca delle dottrine gianseniste, che nel 1780 fu consacrato vescovo di Pistoia e di Prato. Convinto dell'utilità di una riforma religiosa, Scipione dei Ricci convocò a Pistoia una sinodo della propria diocesi alla quale intervennero teologi di altre province (18 settembre del 1786). Il sinodo dichiarò che ogni concilio nazionale fosse competente a decidere in materia di fede e che l'autorità del Papa era sottoposta a quella del Concilio ecumenico e stabilì di chiedere al Pontefice e al granduca alcune riforme sul matrimonio, sul catechismo, sulla confessione, sul giuramento, sulla giurisdizione dei vescovi e dei parroci, l'abolizione dei voti perpetui, la sostituzione della lingua volgare alla latina nelle preghiere, che le reliquie fossero tolte dalle chiese e in queste non fosse lasciato che un solo altare.
Naturalmente l'opera del Ricci trovò oppositori accaniti nella Curia Romana, nel clero toscano ignorante e corrotto e nelle stesse grezze popolazioni attaccate alle proprie tradizioni. Il popolo di Prato, temendo che si volesse togliere alla venerazione la Sacra Cintola della Madonna, tumultuò, invase il Duomo e bruciò gli stemmi, i libri e il trono del Vescovo. Questi offrì la propria rinuncia, ma Pietro Leopoldo lo protesse efficacemente contro le calunnie degli avversari.

Tutte le riforme del granduca però non erano apprezzate dai suoi sudditi. Quando, per la morte del fratello Giuseppe II, Pietro Leopoldo lasciò Firenze (1 marzo 1790) ed affidò il governo ad una Reggenza presieduta da ANTONIO SERRISTORI, poco mancò che tutta la sua l'opera non cadesse. La plebe, sobillata dal clero e spinta dalla scarsità del raccolto e dal caro prezzo del grano che si attribuiva alle nuove leggi economiche, si levò a tumulto.
Nell'aprile del 1790 Pistoia e la Valdinievole mossero contro Scipione dei Ricci, il quale, allontanato dal governo della diocesi, più tardi fu costretto a fuggire nel Chianti. Più grave fu invece la rivolta di Livorno, dove corse anche del sangue, e quella di Firenze in cui i facinorosi saccheggiarono case, assalirono il ghetto degli ebrei, obbligando questi a prestazioni di denaro, e costrinsero i rivenditori di generi alimentari a vendere a metà prezzo certi commestibili.

La reggenza, composta di gente inetta e non entusiasta delle riforme, istituì una guardia urbana, ma nello stesso tempo abrogò alcune disposizioni granducali; ma Pietro Leopoldo, quando seppe gli avvenimenti della Toscana, prese severissime misure, condannò a rigorose pene un centinaio di tumultuanti, ripristinò la pena capitale, proibì alla reggenza di derogare ulteriormente alle leggi e mandò a Firenze, per fare rispettare la sua volontà, un corpo di milizie tedesche.

LO STATO PONTIFICIO DA CLEMENTE XI A PIO VI
SOPPRESSIONE DEI GESUITI


Otto furono i Papi che pontificarono dalla morte di INNOCENZO XII (1700) al 1738. II primo di loro fu il cardinale ALBANI di Urbino che prese il nome di CLEMENTE XI. Durante il suo pontificato si combatte la guerra di successione spagnola. Non essendogli riuscito a formare una lega di principi italiani allo scopo di vietare un intervento straniero nella penisola, egli si dichiarò neutrale, fingendosi però favorevole ora alla Francia, ora all'impero.
La simulazione, adottata durante questa guerra, fu la base di tutta la sua politica estera. Essa, unita all'irresolutezza, all'incoerenza e a certa inopportuna intransigenza in materia ecclesiastica, lo mise in urto con le maggiori potenze d'Europa e con VITTORIO AMEDEO II di Savoia alle cui liti col Papa abbiamo altrove accennato.

Sotto il suo pontificato si ebbe una rinascita delle dottrine gianseniste per opera del QUESNEL, autore delle "Riflessioni morali". Clemente XI, eccitato da Luigi XIV, condannò cento e una proposizioni del libro del Quesnel e proibì che fossero pubblicati scritti in difesa delle dottrine quesneliane, ma come il re di Francia così il Pontefice non riuscì a sradicare il giansenismo, che trovò un valido difensore nel cardinale di NOAILLES, vescovo di Parigi.

È nota la scomunica lanciata contro l' ALBERONI da Clemente XI e nota è pure l'opera da lui svolta contro i Turchi in lotta contro l'impero e contro la repubblica di Venezia. II Pontefice ordinò al suo ammiraglio FRANCESCO MARIA PERETTI di recarsi con la flotta nelle acque del Levante e lanciò un appello ai principi cristiani perché si unissero in lega contro gli infedeli; ma la sua voce non fu ascoltata e si dovette solo a1 genio militare di EUGENIO DI SAVOIA se i Turchi poterono essere battuti.

Clemente XI cessò di vivere nel 1721. Gli successe il cardinale CONTI, che pontificò col nome di INNOCENZO XIII fino al 1724. Alla sua morte fu innalzato al soglio pontificio il cardinale ORSINI, che prese il nome di BENEDETTO XIII ed esercitò il potere per sei anni operando con la mitezza e le conciliazioni. Si deve a lui difatti se i buoni rapporti, turbati dalla politica di Clemente XI, con la Francia, l'impero e il re di Sardegna furono ristabiliti.
Benedetto XIII morì nel 1730. Nel febbraio di quest'anno si riunì il Conclave, che fu lungo e tempestoso per i maneggi dei principi, i quali volevano che fosse eletto un Pontefice non contrario ai loro interessi. Dopo parecchi mesi fu eletto il cardinale CORSINI, che si chiamò CLEMENTE XII e pontificò dieci anni.

Nel 1740 gli successe il cardinal LAMBERTINI, dotto ed arguto, che col nome di BENEDETTO XIV pontificò dal 1740 al 1758. Egli ebbe a sostenere delle liti con la repubblica di Venezia, prima perché con breve del 6 luglio del 1751 soppresse il patriarcato d'Aquileia e divise la diocesi friulana nei due arcivescovadi di Udine e di Gorizia, poi perché il senato veneziano, con decreto del 7 settembre 1754, soppresse l'ingerenza pontificia circa le domande d'indulgenza, le dispense matrimoniali e la rinuncia dei benefici ecclesiastici.
Fu per questa ragione che il governo della repubblica s'interessò molto, alla morte di Benedetto XIV, all'elezione del nuovo Pontefice. A soglio pontificio fu assunto il cardinale veneziano CARLO REZZONICO, che prese il nome di CLEMENTE XIII. I Veneziani si abbandonarono ad entusiastiche dimostrazioni di gioia per l'elezione del loro concittadino e, dietro sua preghiera, il 12 agosto del 1758, il senato revocò il decreto; ma alcuni anni dopo, nel 1767, i rapporti tra la Curia Romana e la repubblica furono nuovamente turbati per la pubblicazione di parecchi decreti con cui il governo della Serenissima vietava di intestare o donare beni stabili e rendite agli ecclesiastici, proibiva al clero di assumere tutele e amministrazioni di beni, limitava il numero dei religiosi regolari, restaurava l'autorità dei vescovi sui conventi, aboliva le carceri dei monasteri, vietava le questue agli istituti religiosi provvisti di mezzi, sopprimeva quelli che non avevano redditi tali da poter vivere e proclamava l'uguaglianza tra laici ed ecclesiastici riguardo al pagamento dei tributi.

Durante il pontificato di Clemente XIII cominciò in alcune parti d'Europa una lotta accanitissima contro i GESUITI, che terminò con la soppressione dell'Ordine in alcuni stati. ""… Le accuse, - scrive il Callegari - che si muovevano contro di loro, erano molte e gravissime: si affermava che erano ingordi, settari e senza alcun principio né di sana morale né di verace religione; era provato che avevano armato la mano di qualche sicario contro i loro nemici; che, nonostante le esortazioni ufficiali dei Generali dell'Ordine, che interdicevano ai loro dipendenti, confessori dei principi, d'immischiarsi nelle questioni temporali, questi, collocati in posizione eminente, avevano spesso preso parte attiva alle lotte politiche. S'incolpavano di aver per lo meno tollerato i riti pagani fra i cinesi battezzati, e fomentati disordini nelle repubbliche di Venezia e di Genova; di esser stati complici a Lisbona del tentato regicidio; di essersi mescolati nella rivolta di Madrid; di aver fatto i banchieri alla Martinica, e di esser falliti dolosamente, dopo aver accumulate ingenti ricchezze ""
Era provato da ultimo che intrigavano in tutte le Corti, ed avevano sbalzato dal Ministero francese CHOISEUL, per sostituirvi il duca d' AINGUILLON col favore della nota cortigiana DUBARRY; che portavano dovunque la discordia, le mene occulte, l'affarismo sotto l'ipocrita manto della religione, traendo seco una turba di donnicciuole e facili credenze, e sconvolgendo tutte le leggi del diritto e dell'onesto.."".

""...Nella metà del secolo XVIII l'avversione contro di loro si era fatta così generale in Francia, che LUIGI XV si sentì impotente a reagire contro l'opinione pubblica. Il Parlamento di Parigi aveva ingiunto a loro di presentargli un esemplare delle costituzioni dal loro Ordine, per esaminare se nulla contenessero contrario alle leggi del regno e ai principi della Chiesa gallicana, e proibì loro di tenere d'innanzi nelle chiese riunioni, note sotto il nome di congregazioni."".(Callegari)

Luigi XV, eccitato dall'opinione pubblica, il 14 giugno del 1763 ordinò che i beni dei Gesuiti fossero confiscati a beneficio dello Stato e, poiché essi continuavano a vivere insieme come preti secolari, il parlamento ordinò loro di giurare che si sarebbero sciolti e non avrebbero mantenuto più alcuna relazione col generale dell'Ordine.
Anche in Spagna, dietro l'esempio della Francia, iniziò la lotta contro i Gesuiti ed avendo questi suscitato delle sedizioni pericolose alla sicurezza dello Stato, CARLO III con decreto del 27 marzo 1767 ordinò l'espulsione dei Gesuiti, subito imitato dal Portogallo e dal re delle Due Sicilie.

Dei principi borbonici chi adottò più tardi altre misure rigorose contro i Gesuiti fu il duca di Parma, il quale consigliato dal suo ministro Du Tillot, dall'ambasciatore francese Aubeterre, dal ministro spagnolo Grimaldi e dal padre PAOLO MARIA PACIAUDI, e minacciato di scomunica da Clemente XIII se non avesse ritirate le riforme ecclesiastiche, il 3 febbraio del 1768 ordinò che fossero espulsi dal suo Stato i Gesuiti.
Un anno dopo moriva Clemente XIII, e dopo un lungo conclave era innalzato al trono pontificio col nome di CLEMENTE XIV il cardinale LORENZA GANGANELLI. Il nuovo Pontefice, cedendo alle pressioni della Francia e della Spagna, nel 1773, col breve "Dominus ac Redemptor noster", decretò la soppressione dell'Ordine dei Gesuiti. Alcuni mesi dopo, nella settimana santa del 1774, Clemente XIV, levandosi da tavola, fu colto da un improvviso malessere, che fu l'inizio di una misteriosa malattia, la quale il 22 settembre di quello stesso anno doveva condurlo alla tomba. Si sospettò che la causa della morte del Pontefice fosse dovuta a veleno propinatogli dai Gesuiti o dai loro fautori, ma i sospetti, sebbene avvalorati da gravi indizi, non sono stati finora e non saranno forse mai confermati da alcuna prova.

Il conclave si riunì il 5 ottobre, e il 15 febbraio del 1775 riuscì eletto il cardinale BRASCHI, che assunse il nome di PIO VI. Il nuovo pontefice afflitto dal vedere scaduta l'autorità ecclesiastica per opera delle riforme dei principi, tentò di arrestarle, recandosi alla corte di GIUSEPPE II, che era il più audace degli innovatori. Nel suo viaggio, che ebbe luogo nel 1782, ebbe grandi accoglienze a Cesena, e Rimini, a Bologna e a Ferrara; grandi onori gli furono tributati a Vienna, dove dimorò dal 17 febbraio al 22 aprile, ma nulla ottenne, anzi due anni dopo all'imperatore dovette accordare il diritto di nominare i vescovi del ducato di Mantova e di Milano.

Accortosi che i tempi erano mutati, anche Pio VI si mise sulla via delle riforme. Fra le opere di pubblica utilità da lui promosse merita speciale menzione il prosciugamento delle Paludi Pontine. Quest'opera però richiese enormi spese, oberò il bilancio e fece crescere spaventosamente il debito pubblico. Pio VI pontificò fino al 1798: fu protettore delle arti e dei letterati e fondò il museo che poi fu detto Pio-Clementino; ma fu anche l'ultimo dei Papi nepotisti. Difatti chiamò a Roma i due figli della sorella Luigia e al primo diede la porpora cardinalizia, al secondo il ducato di Nemi. Per quest'ultimo infine fece costruire il palazzo Braschi, che sta tuttora a testimoniare il nepotismo di Pio VI.

IL DUCATO DI PARMA E PIACENZA: FILIPPO E FERDINANDO DI BORBONE; MARIA AMALIA; IL DU TILLOT

Con la morte del duca ANTONIO si estinse la linea maschile della casa FARNESE e nel 1731 don CARLO di BORBONE entrò nel possesso di Parma e Piacenza. Essendo questi, dopo la guerra di successione polacca, stato riconosciuto re di Napoli, i ducati di Parma e Piacenza passarono all'Austria e con il trattato di Aquisgrana, che poneva fine alla guerra di successione austriaca, furono assegnati a FILIPPO di BORBONE, secondogenito di Elisabetta Farnese.
Le redini del governo, durante il regno di Filippo (1748-1765) e durante la minorità del figlio FERDINANDO (1765-1769), furono in mano del ministro francese DU TILLOT, uomo accorto ed instancabile, che legò il suo nome alle più audaci riforme. Avendo egli messo freni alle manomorte, creata una sopraintendenza ai luoghi pii, imposto il tributo fondiario ai beni ecclesiastici e l'exequatur ducale per i ricorsi alla Curia Romana e per la collazione delle grazie e dei benefici, Clemente XIII, con breve del 30 gennaio 1768 annullò tutti i decreti ducali, minacciò il duca delle censure pontificie, ristabilì l'antica giurisdizione ecclesiastica nello stato, rivendicò alla S. Sede i diritti di sovranità sul ducato di Parma.
Le decisioni del Pontefice fecero schierare contro la Curia Romana le corti borboniche di Francia, di Spagna e di Napoli; Luigi XV fece occupare Avignone e il contado Venesino, Ferdinando IV di Napoli occupò Benevento e Pontecorvo e a Clemente non rimase che di protestare debolmente e di ordinare preci ai fedeli perché Iddio illuminasse le menti di quei sovrani e dei loro ministri.

Sotto il governo del Du Tillot Parma fu centro fiorente di cultura: fra i migliori ingegni si distinguevano il padre teatino PACIAUDI, bibliotecario, il padre VENINI, l'abate FRUGONI, poeta di corte cui successe il conte REZZONICO, l'abate di CONDILLAC; l'università sottratta ai Gesuiti, aveva valenti insegnanti quali il BOTTA, il DE ROSSI, l' AMORETTI e il poeta ANGELO MAZZA, e discepoli che dovevano salire in gran fama: il GIOIA e il ROMAGNOSI; il duca e il conte di SANVITALE, che con concorsi e rappresentazioni, promuovevano l'arte drammatica.

Dopo ventidue anni di governo, il Du Tillot, malvisto dalla duchessa Maria d'Austria donna leggera e corrotta, che imperava sull'animo del debole duca, odiato da molti e mal sostenuto dalla diplomazia francese e spagnola, dovette lasciar Parma e ritirarsi nel 1771 a Madrid.
Gli successero prima lo Liano, poi il conte SACCO e PROSPERO MANARA, che non seppero o vollero seguire la via delle riforme promosse dal Du Tillot. Alcune di queste anzi furono abrogate; fu ripristinato il tribunale dell'Inquisizione, furono restituiti i benefici tolti al clero, e i Gesuiti ritornarono, istituirono a Colorno un noviziato e in breve acquistarono grandissimo ascendente a Corte.

IL DUCATO DI MODENA E DI REGGIO E GLI ULTIMI ESTENSI

Sul trono del ducato di Modena e Reggio a RINALDO d'ESTE, morto nel 1737, successe il figlio FRANCESCO III, che diciassette anni prima aveva sposato AGLAE CARLOTTA D'ORLÉANS. Nella guerra di successione austriaca egli si schierò dalla parte dei Franco-Ispani e fu nominato comandante supremo delle forze spagnole in Italia. Perduto il ducato, lo riebbe dopo la pace d'Aquisgrana.
Dal suo matrimonio non ebbe che un solo figlio, ERCOLE RINALDO, il quale sposò Maria Teresa, ultimo stipite della famiglia Alderano-Cybo, duchessa di Massa e Carrara. Da queste nozze nacque nel 1750, una figlia, MARIA BEATRICE RICCIARDA, che il nonno, nel 1753, promise in sposa all'arciduca FERDINANDO d'Austria.

FRANCESCO III fu ricompensato di questo trattato nuziale con il titolo di amministratore del ducato di Milano e l'assegno annuo di duecentotrentaquattromila lire; ma il governo del paese fu di fatto tenuto prima dal conte BELTRAME CRISTIANI, poi dal conte di FIRMIAN. Egli visse quasi sempre in Lombardia, e a Varese si spense nel 1780.
Gli successe il figlio ERCOLE RINALDO III, che nel 1771 vide la figlia andare sposa all'arciduca d'Austria e nel 1791 perdette la moglie Maria Teresa. Ercole Rinaldo, aiutato dal ministro MUNARINI, spese tutta la sua attività ad amministrare lo stato e ad accrescere con una rigorosa economia il suo patrimonio.
Di quest'economia del duca, un ambasciatore lucchese, NICOLAO MONTECATINI-GIGLI, così scriveva al suo governo nel 1791: ""…Soppresse moltissime cariche e riformate quasi tutte le feste e i divertimenti della Corte, venne considerevolmente a diminuire quello splendore con cui prima si distingueva la Serenissima Casa d'Este. In seguito a queste economiche massime il militare ha pur sofferto una gran riforma, ma quello che ne rimane è in ottimo piede. L'ammasso del denaro che va facendo questo principe è grandissimo né si comprende l'uso che ne voglia fare..""

Travolto dagli avvenimenti prodotti dalla rivoluzione francese, Ercole Rinaldo III abbandonò il suo ducato e riparò a Treviso dove cessò di vivere nel 1803. E con con lui si spense in Italia il nome estense.

SAN MARINO - LUCCA - LA REPUBBLICA DI VENEZIA - L'AMMIRAGLIO ANGELO EMO E LE SUE IMPRESE CONTRO I BARBARESCHI

Nemiche delle riforme, che nella seconda metà del secolo XVIII cominciarono a svecchiare l'Italia, erano le repubbliche di San Marino, di Lucca e di Venezia.
La prima, che contava circa cinquemila abitanti, era governata da un consiglio di sessanta membri, cui era affidato il potere legislativo; l'esecutivo era esercitato da due capitani che duravano in carica un semestre, il giudiziario da un podestà forestiero.

La repubblica di Lucca, che contava centoventimila abitanti, era retta da un governo oligarchico, la cui forza consisteva nel discolato, specie d'ostracismo col quale si esiliavano quei cittadini designati in tre successivi scrutini come rei di macchinazioni contro lo stato. L'unica riforma effettuata a Lucca avvenne nel 1764 con la pubblicazione di una legge che frenava gli acquisti delle manomorte ecclesiastiche. Meno fortunata di S. Marino, che riuscì a mantenere la sua millenaria indipendenza, la repubblica lucchese fu travolta dai rivolgimenti politici che in seguito alla rivoluzione francese trasformarono l'Italia.

Pure oligarchico era il governo di Venezia, la quale, dopo l'ultima guerra coi Turchi, aveva perso la Morea e rimaneva in possesso delle isole Ionie, di parte dell'Albania e della Dalmazia oltre la Marca Trevisana, la Patria del Friuli, il Polesine di Rovigo e le province di Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e Crema.
La repubblica manteneva sempre il maggior consiglio, costituito dai patrizi, il quale ogni anno eleggeva un senato di centoventi membri, cui era affidata la cura della politica estera, del commercio e della navigazione. Il potere esecutivo era nelle mani dalla Signoria, composta dal Doge, da tre capi della Quarantia e da sedici Savi. Il potere giudiziario era principalmente nelle mani di tre Quarantie civili e di una criminale, presso di cui facevano da pubblici accusatori i tre Avagadori del Comune. I delitti dei nobili erano giudicati dal Consiglio dei Dieci, il quale negli ultimi tempi preferiva delegare i processi ai tre Inquisitori di Stato.

Il governo era lo stesso dei tempi più gloriosi della Repubblica, ma le suo forze erano stremate, i commerci languivano, la marina da guerra era ridotta a ben minima cosa. Era una triste agonia dopo tante vicende gloriose. In tanta tristezza di condizioni Venezia ebbe tuttavia dei momenti in cui seppe ritrovare l'antica energia e imporre la sua volontà con le armi agli stati barbareschi d'Africa (Algeri, Tunisi, Tripoli e Marocco) che attentavano al suo commercio e coi quali nel 1763, 64 e 655 aveva stipulato patti, obbligandosi a pagare poco dignitosamente un tributo annuo.

Chi portò ancora le navi della vecchia repubblica contro il nemico secolare fu ANGELO EMO. Nel 1756 si era distinto nell'inseguire nelle acque di Corfù i pirati di Dulcigno; nel 1766, presentatosi davanti a Tripoli, aveva costretto quel bey all'osservanza dei patti e nel 1768 aveva obbligato quello d'Algeri a rinnovare gli accordi o a restituire prigionieri e le prede; più tardi aveva ridotto all'obbedienza gli abitanti di Butrinto e protette le isole Ionie dai pirati di Dulcigno e nel 1778 era tornato sotto Tripoli per imporre al bey il rispetto ai trattati.
Nel 1781, il bey di Tunisi Hamuda fece trattenere tutti i sudditi della Serenissima che risiedevano nella capitale del suo stato. Il governo della repubblica incaricò Angelo Emo di punire l'affronto e l'ardimentoso ammiraglio, con una flotta di circa venticinque navi e un corpo di millecinquecento uomini, il 21 giugno del 1784 salpava da Venezia, con il popolo che salutava per l'ultima volta le navi della patria veleggianti contro il nemico.

""…Arrivato alla Goletta - così scrive il Battistella - l'Emo chiuse prima di tutto la bocca del porto per impedirne ai pirati l'uscita, poi, respinte le intimazioni del bey, passò a bombardare Susa. Sopraggiunto l'inverno, si ritirò a Trapani per mettere a punto le navi e quindi per risalpare nella buona stagione. A primavera ripreso il mare, si ripresentò avanti a Tunisi, quindi, benché con poco risultato, si diede a bombardare Susa e Sfax e infine la Goletta, giovandosi di certe galleggianti, specie di zattere da lui inventate per navigare in quegli scogliosi bassi fondi. E avrebbe certo condotto l'impresa a buon fine se il senato, impaurito di certi movimenti dei Turchi e fors'anche della stessa propria temerità, come chi vuole scrollare un edificio e si spaventa dei calcinacci, non gli avesse comandato di sospendere le operazioni di guerra e ripigliare le trattative per un accomodamento. Durarono questi approcci per tutto il secondo inverno, ma non approdarono a nulla, anzi la palese arrendevolezza del senato veneziano non fece altro che incoraggiare la resistenza del bey ostinato a pretendere 100.000 ducati per ristabilire l'antico trattato..""".

La primavera del 1786, lasciato il ricovero di Malta, l'Emo ricominciò il bombardamento di Sfax e strinse il blocco di quel porto, recando così danni gravissimi alla città, poi si volse contro Biserta e di nuovo contro Susa e vi distrusse fortificazioni, magazzini, fondachi, ogni cosa; portando in quei disgraziati paesi lo spavento e la desolazione. Avrebbe desiderato di compiere l'opera con un colpo su Tunisi, ma il governo gli negò i richiesti soccorsi e preferì riannodare i negoziati, ordinando al suo ammiraglio di recarsi a Corfù e di lasciare nelle acque tunisine il suo luogotenente Tommaso Condulmer con alcune navi.
Da Corfù passò a Zante che riuscì a salvare dagli assalti dei pirati: intanto il Senato proseguiva a discutere gli accordi con il bey i quali, rinforzatosi dopo la partenza dell'Emo, non alla pace si preparava, bensì a ripigliare con maggior vigore la guerra. Infatti, nel giugno del 1790 alcuni legni di Sfax assalirono d'improvviso la squadra veneziana, la quale, però, ma soltanto dopo una furiosa mischia, riuscì a dominare il mare sconfiggendoli.

""..Questo successo suggerì alla Repubblica di riprendere le armi e a rimandare l'Emo nelle acque di Tunisi. Recatosi a Malta dava inizio ai preparativi per preparare la nuova spedizione, allorquando, colto da una improvvisa malattia, il 1 marzo 1792 moriva tra la sorpresa e il compianto generale.
Corse voce fra il popolo che la sua morte era dovuta al veleno propinatogli dal Condulmer ambizioso di succedergli nel comando supremo; su questa voce si disputò a lungo e non si concluse nulla. Si può escludere forse il delitto, però si può attribuire al Condulmer una indegna, per non dire proditoria condotta nei confronti della Repubblica; infatti più tardi sottoscrisse a Malta, la democratizzazione del vecchio regime e la fratellanza o meglio sudditanza con la Franoia, incitando poi parecchi suoi ufficiali a seguire il suo esempio.."".
""..Con Angelo Emo periva l'ultimo cittadino generoso e ardimentoso, vorrei quasi dire, l'ultimo veneziano antico il quale avesse saputo tener alto l'onore della patria. La sua salma fu trasportata a Venezia sulla sua stessa nave ammiraglia nel maggio successivo; e fu accolta dal pianto del popolo affollato sul Lido e vi ebbe onoranze solenni e commoventi come meritava quel nobile spirito che aveva cercato di dar nuova vita alla potenza marinara veneziana e che, se le condizioni della Repubblica fossero state meno infelici, avrebbe condotto a termine quest'ultima guerra con ben altri risultati che essa non abbia ottenuto ..""" (Battistella)

LA LOMBARDIA SOTTO IL GOVERNO AUSTRIACO

Mentre la repubblica veneta si manteneva arroccata alla tradizione, nella Lombardia, che era costituita dai due ducati di Milano e di Mantova, per opera del governo austriaco si sanavano le piaghe prodotte dagli Spagnoli e s'introducevano utili ed opportune riforme.
Fu compiuto un catasto perciò si poterono ripartire più equamente la tasse; si abolì l'appalto delle regalie; si ridussero dazi e pedaggi e si creò un monte di crediti; si scavò il canale di Paderno; si aprirono il teatro della Scala e la Biblioteca di Brera; furono riordinate ed aumentate le scuole primarie e dato impulso all'Università.
In materia ecclesiastica si soppresse l'Inquisizione, si chiusero le carceri dei conventi, si abolì il diritto d'asilo, si tolsero al clero molti privilegi ed immunità, si pose un freno agli acquisti delle manomorte e furono sottoposti a regio exequatur gli atti della Curia Romana.

""…A tali riforme aveva volto l'animo GIUSEPPE II, dopo essersi recato a visitare minuziosamente la Lombardia nel 1769, zelantissimo com'era del bene, ma poco avveduto e poco temperante nei modi di conseguirlo. Già da quattro anni succeduto al padre nell'impero (1765), Maria Teresa lo aveva fatto allora correggente per gli stati austriaci. Morta poi la madre nel 1780, egli dette più libero sfogo alla mania di mutare e d'innovare che lo agitava senza posa; leggi civili, penali e di procedura promulgate, ordinamenti amministrativi rifatti, libertà dei traffici interni, affrancazioni dei vincoli feudali, emancipazione degli eterodossi inaugurate, biblioteche fondate, studi, industrie ed opere pubbliche promosse, appena bastarono a saziare il suo animo, che, oltre a vasti disegni politici e guerreschi, mirava, come disse, a fare della filosofia la legislatrice del suo impero, senza badare agli ostacoli frapposti dalle tradizioni, dai costumi, dall'indole di popoli diversissimi. Anche più attivismo manifestò nelle faccende religiose; ond'ebbe a sostenere aspre contese con la Corte di Roma.
Aiutato dalle ambizioni dei Principi ecclesiastici di Germania, e dalle dottrine teologiche di Gian Nicola di Honteim, coadiutore dell'arcivescovo di Treveri, il quale aveva nel 1764, con un libro allora famoso, sotto il nome di Febronio, combattuto l'assoluta supremazia del Pontefice, l'Imperatore si sforzava di sciogliere la subordinazione dei monaci e le relazioni dei sudditi con la metropoli religiosa; quindi proibiva la pubblicazione dei Brevi senza il regio assenso, faceva del matrimonio un contratto civile, autorizzava i vescovi a dar le dispense di parentela, modificava la liturgia, distruggeva 2024 conventi e con i beni incamerati creava un fondo del culto per salariare i parroci, infine pretendeva per la Lombardia la prerogativa che aveva per le altre province, di disporre dei benefici ecclesiastici; onde di propria autorità nominava alla Chiesa di Milano il suo arcivescovo - (Franchetti) .."".

Non tutte le riforme di Giuseppe II erano però accolte dalla maggioranza dei Lombardi, i quali, nonostante le nuove idee propagate da alcuni eletti ingegni, erano attaccati alle tradizioni. Ma ""....l'atto di Giuseppe II che più turbò la cittadinanza - cito ancora il Franchetti - " fu la capricciosa abolizione della congregazione generale dello stato e lo sconvolgimento degli antichi ordini municipali, da cui il paese era rappresentato. Senato, podestà, vicario, tribunale di provvisione, "giudice al gallo", magistrato camerale (di cui PIETRO VERRI era presidente, e consigliere CESARE BECCARIA), altarini collocati lungo le vie, seminari, confraternite, opere pie, tumulazione dei cadaveri, ogni cosa era rimescolata o distrutta ad un tratto, ogni ufficio concentrato nelle mani di un solo ministro, cui facevano capo otto intendenze politiche rispondenti ad altrettante province ".
Se ne accorse poi LEOPOLDO II, quando salì al trono, che le riforme di Giuseppe II non avevano accontentato i sudditi italiani, e stimò opportuno di invitare i Lombardi a manifestargli i propri bisogni e a comunicargli le loro proposte. Queste vennero in gran parte accolte e così il ducato di Milano fu nuovamente separato da quello di Mantova, furono soppresse le intendenze provinciali e furono ripristinati la congregazione generale, il magistrato camerale e i corpi civici.

L'Italia dopo questo periodo, relativamente si trovava finalmente in pace,
quando scoppiò in Francia la grande rivoluzione.


ed è il periodo italiano che va dal 1789 al 1792 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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