ANNO 1799

LA REPUBBLICA PARTENOPEA - LE GESTA DI FRA' DIAVOLO
L'ESERCITO "SANFEDISTA" DEL CARDINALE RUFFO


L'iniqua strage dei Sanfedisti ad Altamura
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CARATTERE DELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA - I PATRIOTTI E IL POPOLO - LE FORME REPUBBLICANE - IL GOVERNO NELLE MANI DEI FRANCESI - ORDINAMENTI - CONTRIBUZIONE MILITARE - IL COMMISSARIO FAYPOULT E SUA ESPULSIONE - MALCONTENTO CONTRO I FRANCESI - GOVERNO PROVVISORIO - FRANCESCO CONFORTI E LA POLITICA RELIGIOSA - II MACDONALD AL COMANDO DELL'ESERCITO DI NAPOLI - RITORNO DEL FAYPOULT - POLITICA DEL MACDONALD - NAPOLETANI IN FRANCIA. - CONTRASTI FRA IL MACDONALD E IL GOVERNO PROVVISORIO. - IL MAUTHONÈ - MISSIONE SEGRETA DI PARIBELLI - ANDREA ABRIAL COMMISSARIO - LE CORRENTI REPUBBLICANE - LE UNIONI REALISTE - BACCHER E LUISA SANFELICE - RIFORMA DELL'ABRIAL - L'INSURREZIONE REALISTA NEGLI ABRUZZI - MAMMONE E FRA DIAVOLO - LA RIVOLTA NEI PRINCIPATI, NELLA BASILICATA E NELLE PUGLIA - II CARDINALE FABRIZIO RUFFO IN CALABRIA L'ARMATA CRISTIANA E REALE - PROGRESSI DEL RUFFO - PRESA DI CATANZARO E COSENZA - PRESA E SACCHEGGIO DI COTRONE - PANE DI GRANO - SPEDIZIONE FRANCESE NELLE PUGLIA - IMPRESE DEL DUHESME, DEL BROUSSIER E DELL'OLLIVIER - I FRANCESI SI RITIRANO DALLE PUGLIA -. L'INSURREZIONE REALISTA A NAPOLI - I FRANCESI ABBANDONANO LA PARTENOPEA

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CARATTERE DELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA
I PATRIOTTI E IL POPOLO - LO CHAMPIONNET
ORDINAMENTO DELLE PROVINCE
CONTRIBUZIONE MILITARE IL COMMISSARIO FAYPOULT
MALCONTENTO VERSO I FRANCESI E IL GOVERNO PROVVISORIO
RICHIAMO DELLO CHAMPIONNET.

"...La nostra rivoluzione fu una rivoluzione passiva; per condurla a buon fine, bisognava cominciare con il guadagnare l'opinione del popolo; le idee della rivoluzione non erano popolari, meno ancora che nelle province, a Napoli; anzi in generale dir si poteva che il popolo della capitale era più lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso dai tributi é più vezzeggiato da una corte che lo temeva...".

Così scriveva VINCENZO CUOCO in un magistrale saggio sulla rivoluzione napoletana, e non possiamo dire che non vedesse e giudicasse giustamente. Se a Napoli e nelle province i patrioti non mancarono, ed alcuni tra loro furono ardenti repubblicani, la gran massa del popolo rimase estranea al mutamento, a quella rivoluzione alla quale esso non era preparato, che non aveva voluto, che non era uscita dal suo seno ma era stata portata dagli stranieri, che, infine, non veniva a porre rimedio ai bisogni reali dei Napoletani e parlava di diritti, di libertà, di fratellanza, d'uguaglianza, - cose cui pochissimi pensavano - e non sanava invece le piaghe, non leniva la miseria, non alleviava le gravezze, non toglieva gli abusi, le ingiustizie, le prepotenze.

"…Inoltre i nuovi stati mancavano di forze. La base sociale degli ordinamenti repubblicani era troppo esigua per dar luogo ad un vero rinnovamento; una certa limitata adesione al nuovo regime si ebbe soltanto nella Cisalpina, mentre a Roma, per esempio, madame de Stael osservava che solo le statue erano repubblicane. Ben nota è la fedeltà dei contadini e dei "lazzaroni" del mezzogiorno alla dinastia borbonica, ma neppure altrove i regimi istaurati dai francesi ebbero l'appoggio delle masse, e la mancanza di un consenso popolare spiega la facilità con cui le repubbliche furono rovesciate in questo 1799. A quest'ostilità non era estranea naturalmente la natura ambigua dei rapporti fra questi regimi con la Francia della cui protezione militare essi non potevano fare a meno ma che si serviva di loro per sfruttare economicamente gli italiani.

"Agli occhi del popolo i nuovi governanti significavano soprattutto tasse pesanti e un calendario incomprensibile e offensivo del sentimento religioso…poi qualche concessione, come gli sgravi fiscali dei padri di oltre 10 figli, o l'introduzione dei brevetti a difesa degli inventori, che non erano certo misure capaci di risolvere i problemi latenti della società italiana. Alle masse rurali analfabete i patrioti non avevano nulla da offrire; la propaganda giacobina non poteva avere sul contadino una presa paragonabile alle prediche del parroco. I veri repubblicani erano una minoranza che in definitiva rappresentava soltanto se stessa.

" Ancora meno rappresentativa fu la pattuglia di coloro che sotto l'influsso degli ordinamenti repubblicani o dello sfruttamento francese abbracciarono l'ideale unitario. I governanti avevano il nome, ma non la sostanza del potere; nelle questioni importanti essi non erano mai liberi di decidere, controllati com'erano da generali e commissari francesi che intrigavano con altri italiani contro di loro e, se necessario, li rovesciavano con uno dei tanti colpi di stato. Il direttorio parigino talvolta disapprovava la condotta dei suoi rappresentanti ma ne sosteneva senza esitazione la generale funzione di controllori dell'azione dei governi presso i quali erano accreditati. Così condizionati, gli italiani dovevano levare imposte per l'esercito francese e attirarsi l'odio dei contribuenti a esclusivo vantaggio della "grande nation".
Nell'impossibilità di porre rimedio alla debolezza economica e finanziaria dei loro stati, essi non potevano fare nulla per guadagnarsi la fiducia dei conquistatori, che facevano e disfacevano a loro arbitrio, fin troppo pronti a scambiare le aspirazioni all'indipendenza e la probità per sentimenti antifrancesi e unitari. Le repubbliche italiane, insomma, avevano il destino segnato fin dalla nascita" (J.M.Roberts, Storia del Mondo Moderno, vol.9, Cambridge University, Garzanti ed.)

Se il popolo napoletano subì rassegnato la rivoluzione fu solo per merito dello CHAMPIONNETT, il quale, procedendo con tatto, con prudenza e con abilità, non facendo violenza ai costumi, ai sentimenti e ai pregiudizi, carezzando l'amor proprio della plebe e assecondandone il sentimento religioso, seppe acquistarsi il favor popolare. In lui i Napoletani videro un padre buono ed amoroso e lo amarono, ma per lui non amarono né i Francesi né la rivoluzione, di cui non furono mai contenti. Né contenti, in verità, dell'una e degli altri furono gli stessi patrioti. Essi avevano sognato la repubblica e la libertà, ma in sostanza non avevano conseguito né quella né questa. Erano stati piantati gli alberi soliti, era stato imposto al Gigante di Palazzo il berretto frigio, erano stati aboliti gli stemmi, i titoli nobiliari e tutti quei nomi che ricordavano il passato regime, era stata proclamata la libertà di stampa, erano stati aperti circoli o sale d'istruzione: a prima vista poteva sembrare un fatto compiuto l'indipendenza repubblicana, ma, guardando bene, ognuno poteva costatare che di mutato c'era soltanto la forma e che, andato via un tiranno, ne erano venuti degli altri.

Veramente, quelli che nella Repubblica Partenopea comandavano erano i Francesi. I membri del governo provvisorio erano stati scelti dallo Championnet sia pure in una lista di nomi presentata dai patrioti. Il Comitato Centrale di detto governo aveva, è vero, "la direzione e l'impiego di tutte le forze di terra e di mare, la negoziazione di tatti gli affari e di tutti gli interessi della repubblica con le potenze straniere, la missione di tutti gli agenti diplomatici, la corrispondenza con il Direttorio Esecutivo della Repubblica francese, con il Generale in capo e con le Repubbliche amiche della Francia, l'esecuzione delle leggi, la giurisdizione su tutte le misure di polizia generale e di pubblica amministrazione, la vigilanza su tutte le spese"; il Comitato Militare aveva facoltá di organizzare le truppe nazionali; quello di Polizia Generale il diritto di accusare i sospetti di complotto contro la Repubblica e l'obbligo di costituire i tribunali; quello dell'Interno doveva organizzare e dirigere tutte le autorità amministrative; quello delle Finanze aveva poteri vastissimi; ma tutte queste attribuzioni erano rese quasi nulle da quegli articoli di legge secondo cui tutti i decreti dell'Assemblea dei Rappresentanti non potevano andare in vigore se prima non ricevevano la sanzione del Generale in capo, alla cui approvazione erano anche sottoposte tutte le deliberazioni del Comitato Centrale.

Nelle mani del Generalissimo francese erano in realtà tutti i poteri ed egli li usava a suo piacimento. Anziché approvare, pubblicare e mettere in vigore la costituzione, preparata dietro suo incarico dal Comitato di Legislazione, lo Championnet emanava per proprio contro decreti che poi mandava al Comitato Centrale perché questi li facesse eseguire.
Tredici ne mandò il 9 febbraio. Con questi decreti era istituita una Tesoreria Nazionale e si fissavano le norme per l'organizzazione delle province fino allora trascurate. Tutto il territorio della repubblica fu diviso in undici dipartimenti (Monte Vesuvio, Pescara, Garigliano, Volturno, Sangro, Ofanto, Sete, Sagra, Frati, Idro e Bradano); ogni dipartimento fu suddiviso in cantoni; a capo di ciascun dipartimento fu messa un'Amministrazione tanti membri quanti erano i comuni che lo costituivano, a capo di ogni comune una municipalità.

Fu questa una "organizzazione che, se in teoria poteva esser buona, in pratica riuscì pessima, specialmente per l'ignoranza del francese BESSAL che a capriccio aveva stabilito la circoscrizione territoriale dei vari dipartimenti, provocando lagnanze da parte degli abitanti e creando immense difficoltà, alle autorità preposte alle amministrazioni".
(Furono ignorate tradizioni, costumi, abitudini di vita, le economie in certi casi gelosamente chiuse, con certi rapporti economici tra latifondisti che risalivano a medievali o addirittura a delle arcaiche consuetudini, che, di fatto, erano taciti contratti; cioè i confini dove ognuno operava - ma in certi territori vige ancora oggi)

Ora questa non era la libertà che avevano sognato i patrioti e che i Francesi si vantavano invece di aver data ai Napoletani. Lo stesso Championnet mentre da una parte solennemente dichiarava che la Francia ristabiliva il popolo napoletano "nel pieno esercizio di tutti i suoi diritti" e che un solo prezzo "si proponeva ritrarre dalla sua conquista, la gloria di aver dato la libertà al popolo napoletano e consolidata la sua felicità", dall'altra faceva disarmare la popolazione e imponeva una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati alla città di Napoli da pagarsi entro otto giorni e una di quindici milioni di ducati alle province.

Questa "taglia" imposta dai generosi "liberatori" fu dannosissima al prestigio e alla vita stessa della repubblica perché mise il governo provvisorio nella necessità, per riuscire a mettere insieme le somme, di riversare la contribuzione sulle popolazioni e non gli permise di togliere quegli aggravi fiscali pubblici che un regime non tirannico avrebbe per lo meno dovuto alleviare.
Il permanere dei pesi e la condotta del governo provvisorio, che trascurò di fare le leggi economiche che maggiormente si imponevano, non furono le ultime cause del malcontento che ben presto cominciò a serpeggiare nelle province e che fu provocato inoltre dalle violenze e dalle rapine dei soldati francesi e dalle odiose e rapaci spogliazioni dei commissari. Quelli commettevano continue prepotenze a danno dei cittadini, li minacciavano, li offendevano, li rapinavano e sovente pagavano, in risse o agguati, con la vita il fio delle loro violenze; questi dissanguavano il paese con sequestri, contribuzioni, requisizioni, taglie che resero odioso il nome francese in tutte le regioni d'Italia.

Al seguito dell'esercito dello Championnet, con l'incarico di commissario civile, si trovava il FAYPULT, da noi più volte ricordato, uomo ribaldo, duro ed orgoglioso. Questi, il 3 febbraio del 1799, fece affiggere a Napoli una notificazione, con la quale, valendosi (lei poteri conferitigli dai decreti direttoriali, dichiarava nulli tutti gli atti che nel campo a lui riservato fossero stati fino allora compiuti "…da qualunque persona di qualsivoglia Nazione e qualunque sia l'Autorità che gli avesse concesso facoltà di compierle.."; ordinava che soltanto a lui si pagassero le contribuzioni e dichiarava che in nome della Repubblica Francese avrebbe preso possesso di tutti i beni privati del Re, dei beni allodiali, dei diritti feudali del Sovrano, delle proprietà di tutti gli ordini cavallereschi, dei ministri e di tutti coloro che avevano seguito la Corte, dei domini ecclesiastici messi in vendita dal Re, della Tesoreria, della Zecca, dei porti, degli arsenali, dei magazzini del Lotto, dei Monti di Pietà, dei Banchi, dei Musei, delle Biblioteche, delle fabbriche e dei beni appartenenti ai sudditi di potenze in guerra con la Francia.

Quella notificazione non solo era un atto impolitico e per più versi ingiusto, ma offendeva apertamente lo Championnet. Il quale, con un proclama del 6 febbraio, qualificò la notificazione del commissario civile come "…un atto sedizioso, funesto negli effetti, assurdo nei principi suoi e tanto rivoltante per la sconvenienza e l'indecenza della forma, l'audacia ingiuriosa ed insolente delle espressioni e la perfidia delle insinuazioni che conteneva, quanto più contrario ai principii della Costituzione francese ed agli atti del Direttorio esecutivo…"; dichiarò nulla la notificazione medesima ed ordinò al Faypoult di lasciare Napoli entro ventiquattr'ore e il territorio delle repubbliche partenopea e romana entro dieci giorni.

Il Faypoult dovette ubbidire e per il suo atto di fermezza lo Championnet si guadagnò maggiormente le simpatie del popolo e dei patrioti, ma a Napoli e nelle province il malcontento verso i Francesi e il governo provvisorio repubblicano continuò.
In quei giorni ecco come scriveva il DE NICOLA nel suo "Diario":

"….La verità poi è che non si può essere contenti del Governo attuale. È cattiva la condotta dei generali francesi e di quelli che si sono posti alla testa degli affari. Tante belle promesse di felicità e libertà ed intanto siamo più infelici e schiavi di prima. I dazi e le imposizioni sono le stesse. Il numerario manca come prima. I viveri sono rari oltremodo; la tassa angustia tutti coloro che avevano qualche comodo; e ciò si rifonde anche a danno del restante della popolazione, perché chi meno ha meno spende: la gente non è impiegata, quelli che erano in corte non trovano padroni, gli artieri non hanno da poter fatigare, in conseguenza i malcontenti crescono e quelli che desiderarono la mutazione di governo ora hanno cangiato linguaggio. I francesi ufficiali per le case dei, particolari finiscono a disgustare con le loro impertinenze e se non altro col peso che recano a chi deve darli quanto li bisogna per alloggio e mangiare, e non si contentano di poco. I soldati non smettono di commettere impertinenze, e questo la Nazione non lo soffre. La Religione che si promise di non toccarsi, il popolo crede che sia vilipesa, perché i soldati francesi non hanno rispetto né per le chiese, né pel Santissimo, quando lo incontrano per Napoli .... I preti sono arruolati nella milizia urbana, si sente pubblicamente insegnare lo scioglimento dei voti, il matrimonio dei preti, il ripudio e il divorzio .... ".

Il De Nicola si scagliava contro FRANCESCO CONFORTI, che pur non era intemperante e, nominato ministro dell'Interno, tracciava un sobrio e illuminato programma in cui, per quel che riguardava la religione, scriveva: "… Lungi da noi lo spirito d'intolleranza, la quale urtando i pregiudizi già stabiliti, attaccando quanto vi è di più sacro, imprudente combatte fino le opinioni religiose con la filosofia e la ragione; non conviene allo stato di libertà che l'uomo sia disturbato fino ne' suoi più segreti pensieri, ma deve piuttosto con una saggia amministrazione dirigerli in modo che si rendano utili…"; quel Conforti, il quale - "come scrive il Cuoco" - credeva che la religione cristiana fosse quella che meglio di ogni altra si adattasse ad una forma di governo moderato e liberale; che il 12 febbraio istituiva una "commissione ecclesiastica" perché vigilasse sulla condotta del clero e dirigesse la predicazione ed istruzione del clero secolare e regolare; che, pur volendo un clero patriottico ed ossequiante al governo democratico, tanto consenso trovava nelle gerarchie ecclesiastiche della nuova repubblica…".

Intanto il Faypoult brigava per vendicarsi dello sfratto, presso il Direttorio francese, accusando lo Championnet di ribellione agli ordini dati da Parigi; e il 27 febbraio giungeva al generale l'ordine di consegnare entro diciannove ore al MACDONALD il comando dell'esercito di Roma e di Napoli e di tornare in Francia.
Lo Championnet ubbidiva senza recriminazione e la sera di quello stesso giorno usciva silenziosamente da Napoli, lasciando per la cittadinanza un nobile proclama, degno del soldato leale e del candido sognatore ch'egli era: "… Io parto, o cittadini, per Parigi, dove gli ordini del mio governo mi chiamano, e nel partire porto con me la dolce soddisfazione di lasciare alla Repubblica Napoletana, la quale mi sarà sempre cara, degli uomini virtuosi e repubblicani che non hanno altra ambizione che la sicurezza della libertà del loro paese. Porto con me un solo dispiacere, partendo, quello di non aver potuto regolare la contribuzione militare che vi era stata imposta. Essa, lo vedo, è al disopra delle forze delle repubblica, e se io non avessi dato parte di questo oggetto al Governo francese, l'avrei regolata in una maniera più confacente alla vostra situazione ed alle circostanze dispiacevoli nelle quali vi siete trovati. L'idea del mio successore non è sicuramente diversa dalla mia, ed io non mancherò dal canto mio di usare i mezzi più efficaci presso il Governo francese per ottenere le giuste moderazioni che voi avete domandate, e farvi subito pervenire le dilucidazioni cha voi impazientemente aspettate su quel tanto che riguarda i beni personali dell'ex-re. Salute e fraternità…"

IL MACDONALD - DEPUTAZIONE NAPOLETANA IN FRANCIA
CONTRASTI FRA IL MACDONALD E IL GOVERNO PROVVISORIO
MISSIONE SEGRETA DI CESARE PARIBELLI - ANDREA ABRIAL
LE UNIONI REALISTE - LA COSPIRAZIONE DEL BACCHER
LA RIFORMA DELL'ABRIAL

Lo Championnet si recò a piccole tappe a Torino, dove fu arrestato e tradotto a Grenoble davanti a un Consiglio di guerra, che, riconosciutolo innocente, lo rimise in libertà; il MACDONALD, nemico personale del suo predecessore, entrò a Napoli la sera del 28 febbraio e fu subito raggiunto dal FAYPOULT, che riprese il suo posto di commissario civile.
I Napoletani, che erano rimasti addolorati per la partenza dello Championnet, vivevano in grande ansia temendo che il nuovo generalissimo inaugurasse una politica opposta a quella tenuta dal primo. Ben presto i loro timori furono una certezza. Difatti il Macdonald, subito dopo il suo arrivo, si mostrò animato da spirito giacobino. Dopo avere, per mezzo del Comitato Centrale, minacciato di arresto tutti coloro che entro ventiquattro ore non pagavano la contribuzione militare, pubblicò il 4 marzo un terribile manifesto, in cui ordinava: "…Ogni città o terra la quale si ribelli sia tassata militarmente e militarmente punita; tutti i ministri del culto, non esclusi i cardinali, gli arcivescovi, siano tenuti colpevoli della ribellione dei luoghi ove dimorano, se non denunciano prima i fatti, siano puniti con la morte; ogni persona presa con le armi in mano - anche se per andare a caccia - sia considerata come ribelle; ogni complice, secolare o chierico, sia trattato come ribelle ed esiliato; lo spargitore di novelle (di notizie Ndr.) contrarie ai Francesi o alla Repubblica napoletana sia condannato a morte: il Governo è autorizzato ad arrestare qualsiasi cittadino sospetto; al suono della generale tutti, eccetto la guardia civica, si ritirino nelle loro case; in caso d'allarme si vieta il suono delle campane, sotto pena di morte; larghi compensi sono promessi a coloro che denuncino congiure e si dà loro la sicurezza che il loro nome non sarà svelato; si dichiara congiunta sempre alla pena di morte quella della confisca …"

Con altri proclami, pubblicati nei primi giorni del suo governo il Macdonald proibiva l'uso delle livree, chiudeva la via delle cariche pubbliche ai noli iscritti alla milizia urbana e istituiva due commissioni che dovevano l'una togliere dai monumenti le insegne monarchiche, l'altra raccogliere i documenti delle dilapidazioni della Corte.
A questi provvedimenti di carattere generale altri il Macdonald ne aggiunse diretti contro gli amici dello Championnet: il Bonnav e i generali Duhesme e Rey furono, dietro richiesta del Direttorio, mandati in Francia; molti Francesi venuti al tempo dell'occupazione e favoriti dal passato generalissimo, furono espulsi; il Julienne, segretario generale del Governo provvisorio, fu arrestato e sostituito con VINCENZO De FILIPPIS, il Bassal, fuggito, fu rimpiazzato, come ministro delle Finanze, da DOMENICO DE GENNARO.

Notando questi nomi italiani, significa che la condotta del Macdonald non dispiacque a parecchi repubblicani e allo stesso Governo provvisorio, che, il 6 marzo, scriveva ai suoi deputati presso il Direttorio francese: "… Il carattere del Macdonald è più austero e più fermo di quello dello Championnet. Le sue intuizioni non sono forse meno favorevoli alla Repubblica; ma pare che voglia giungere allo stesso scopo per una diversa via, ottenendo ciò con la severità che l'altro sperava dalla dolcezza…". Ma ben presto tutti coloro che approvavano l'energia del Macdonald dovettero accorgersi che essa era rivolta, più che a fortificare la democrazia napoletana, ad assecondare l'opera del Faypoult nello sfruttare la nuova repubblica tutto a vantaggio della Francia.

"…Il FAYPOULT, - scriveva più tardi il cittadino CESARE PARIBELLI - tornato a Napoli "sitibondo (=avido Ndr) d'oro e di vendetta" stese la sua mano rapace sopra tutte le proprietà pubbliche e private: non vi era cosa di qualche valore, nella Centrale e in tutta la Repubblica che non fosse munita di un suggello della Commissione civile. Le casse pubbliche, la Zecca, i Banchi, 1e Fabbriche ex-Regie, le Ville, le Cacce, le Delizie, l'Azienda Gesuitica, quella di Educazione, la Dogana, le saline di Barletta, le case degli assenti di Napoli e dei seguaci della corte, qualificati come emigrati, tutto insomma, non esclusi i beni maltesi e costantiniani e altre abbazie di Regia collezione, erano muniti del fatale suggello. Faypoult, dando una interpretazione larghissima ed arbitraria all'articolo 7° del Decreto Championnet, circa le riserve a favor della Francia dei beni personali dell'ex-Re e sua famiglia, voleva divorarsi tutta la Repubblica…"

Lo Championnet, nel decreto del 27 gennaio, in cui fissava la contribuzione militare alla Repubblica, aveva dichiarato che questa null'altro avrebbe dato alla Francia se non "una certa qualità di oggetti d'ornamento, vestimento e fornimento, le proprietà personali del Re e della famiglia sua, gli oggetti delle arti racchiuse nei Musei e Case Reali e lo scavamento dei luoghi riservati alla Corona.."
Per definire quali fossero i beni personali del Re e quali quelli da considerarsi, dopo la caduta della monarchia, appartenenti alla Repubblica, ed anche per ottenere una riduzione della pesante contribuzione militare e un esplicito riconoscimento dell'indipendenza, fin dai primi di febbraio, d'accordo con lo Championnet, il Governo provvisorio aveva mandato al Direttorio francese una deputazione composta da GIROLAMO PIGNATELLI di Moliterno, da Marcantonio Daria ex principe di Angri, dal letterato Leonardo Panzini e da Francescantonio Ciaja; ma i deputati non erano stati neppure ricevuti, che già il Direttorio, prima della loro partenza da Napoli, aveva decretato il richiamo dello Championnet.
Ora il Faypoult, con nota del 18 marzo, stabiliva per conto suo quali dei beni regi spettassero alla Francia, riconfermando la famosa notificazione del 3 febbraio che aveva provocato il suo allontanamento ed invocando a sostegno del suo giudizio la legge stessa emanata il 27 gennaio dallo Championnet, quasi volesse al medesimo, che con tanto affetto era ricordato dai Napoletani, attribuire la decisione che egli prendeva.

"…Il Governo provvisorio - scrive ancora il PARIBELLI, che ne era membro - si oppose vigorosamente a tante ingiuste pretese, e questo indispose molto il Generale e tutte le autorità francesi contro di lui; ma egli sicuro delle rettitudine delle sue intenzioni e della giustizia della sua condotta, senza tralasciare alcun mezzo di riconciliasi mantenne nella sua fermezza…".
Intervenne allora il Macdonald che, con il decreto del 27 marzo, - in cui, fra l'altre cose, aboliva la circoscrizione del Bassal e dava una nuova organizzazione alle province - "avvalorava tutte le ingiuste e stravaganti pretese di Faypoult. II Governo si oppose contro tale decreto e rifiutò di prestarvi la sua mano e dare il suo consenso per l'esecuzione. Il Generale rispose con una lettera fiera e laconica confermando il suo decreto ed omettendo perfino il saluto. Allora il Governo che aveva respinto ogni mezzo di conciliazione risolvette di dimettersi tutto piuttosto e di prestar mano allo spoglio della Nazione.."

Degna di esser tramandata ai posteri è la fiera risposta data da GABRIELE MANTHONE' membro del Governo provvisorio, al Macdonald. Si era recato con altri dal generale per protestare contro il decreto del 27 marzo e per ottenere che i diritti e le proprietà della Repubblica fossero rispettati; ma il Macdonald, con arroganza, aveva dichiarato che "...Napoli era terra di conquista e come tale doveva esser trattata..".
Sdegnato da quella affermazione ingiusta e brutale, il Manthoné, che era amante della patria e nemico accanito degli stranieri, rispose che i Francesi avevano potuto mettere piede dentro Napoli solo perché i patrioti avevano loro consegnato i castelli, e che vi erano rimasti solo per l'appoggio e la volontà dei patrioti medesimi. "… Uscite dalle porte di Napoli - esclamò - restituite i castelli a chi ve li ha dati, e poi provate venire a conquistar Napoli se vi fidate…".

Le dimissioni in massa del Governo provvisorio non ebbero luogo perché il 30 marzo giunse in qualità di commissario politico e munito di pieni poteri per organizzare la nuova repubblica, ANDREA ABRIAL, il quale esaminata la pericolosa situazione, persuase il Macdonald e il Faypoult (quest'ultimo fu poi sostituito dal Bodard) a recedere dalla loro intransigenza e i membri del Governo a non dimettersi. Si dimisero però Diego Pignatelli del Vaglio, Raffaele Doria, Vincenzo Bruno, Vincenzo Porta, Raimondo di Gennaro e CESARE PARIBELLI. Quest'ultimo motivò le sue dimissioni con il desiderio di ritornare a Sondrio, sua città natale; ma il vero motivo era un altro: egli era stato incaricato segretamente di raggiungere a Parigi la deputazione mandata nel febbraio e di esporre insieme con la stessa al Direttorio le reali condizioni della repubblica. Il Paribelli, infatti, partì il 15 aprile, ma a Roma seppe dal Panzini, uno dei componenti la deputazione, che questa non solo non era stata ricevuta, ma aveva avuto l'ordine di ritornare a Napoli e che a Parigi erano soltanto rimasti, da privati cittadini, il Ciaia e il Moliterno. Il Paribelli però proseguì lo stesso il viaggio; sorpreso dai rovesci francesi nell'alta Italia, riparò a Genova, dove si mise in rapporti epistolari con il Ciaia.

L'Abrial arrivava giusto in tempo a Napoli, dove già la lotta fra i vari partiti metteva in pericolo l'esistenza della repubblica. Nel Governo provvisorio si erano formate due fazioni: una era capeggiata da MARIO PAGANO, IGNAZIO CIAIA e FOGES DAVANZATI, l'altra dal LAUBERT, dal CESTARI, dal RIARIO, dal FASULO e dal BISCEGLIE; si stava formando un partito di aristocratici che aveva come esponenti il cav. LUIGI MEDICI, ex-capo della polizia borbonica, il principe FRANCESCO CARAFA di Colobrano e il principe di SANTO ANGELO IMPERIALE.

Ma il pericolo maggiore era rappresentato dal partito realista, che aveva carattere di organizzazione segreta ed era costituito dai "LAZZARONI" del Mercato e di Vicaria, dai marinai del Molo Piccolo, dai popolani dei vari quartieri, dai "CAMICIOTTI" (i soldati di Linea dell'ex-esercito regio), da nobili, preti, borghesi, negozianti e parecchi ufficiali borbonici passati al servizio della Repubblica e da questa minacciati di licenziamento. Il partito reazionario era sovvenzionato largamente dalla corte borbonica di Palermo ed era in contatto con essa e con gli insorti delle province. Esso era diviso in gruppi, detti "unioni realiste"; ciascuna unione operava in un quartiere; ogni affiliato, nell'atto di entrare nel gruppo, giurava sul Crocifisso di mantenere il segreto e di dar la vita per la Religione, per il Sovrano e per la famiglia reale e riceveva un segno di riconoscimento chiamato "biglietto di distinzione"; le "unioni" facevano raccolta di armi e di danaro e preparavano ed eseguivano attentati contro i Francesi ed una di esse, detta la "Compagnia dei Bollettini", capeggiata da due preti, GIOVANNI d'AQUINO e FRANCESCO OLIVETO, aveva l'incarico di spargere notizie contrarie alla repubblica e ai Francesi e di preparare e diffondere proclami, manifesti, versi rivolti a fomentare fra i cittadini l'odio contro gli stranieri e i democratici.

L'"unione" che, a quanto pare, aveva la direzione del movimento reazionario era quella del duca VINCENZO TUTTAVILLA di Calabritto, la quale operava alla Pignasecca; altre unioni erano quella del duca di SALANDRA, quella di FRANCESCO MARIA VILLANI, quella del cav. GAETANO FERRANTE, quella di DOMENICO SANSONE, quelle di FRANCESCO ANTONIO MONTI, di FLAVIO GALLUZZO, di ANDREA ANGIORGIO, di DOMENICO MONTI, di ANDREA CARLUCCI, e parecchie ancora, fra le quali degne di menzione quella dei fratelli CRISCUOLO; che operava nel Molo Piccolo, e quella dei BACCHER, capeggiata dal ricco negoziante BACCHER VINCENZO e dai figli GENNARO, ufficiale della Tesoreria di Marina, GERARDO tenente di cavalleria e mastro del Reggimento Moliterno, GIOVANNI e CAMILLO, capitano il primo e tenente il secondo del Corpo dei Cacciatori Reali.

Si deve all'imprudenza di GERARDO Baccher se la cospirazione realista, fino allora segreta, fu scoperta e mise i Francesi e il Governo provvisorio sull'avviso. In un convegno di capi di diverse "unioni", tenutosi il 31 marzo, si era concertato un colpo di mano, che doveva aver luogo il 1° di aprile. Si trattava di occupare con uno stratagemma, simile a quello dei patrioti, il forte di Sant' Elmo, liberare i carcerati e chiamare il popolo alle armi; il 1° aprile però, non essendo forse l'impresa ancora del tutto organizzata, il colpo fu rimandato al giorno 8. Il 2 aprile comparve nel Golfo di Napoli una squadra inglese del Nelson comandata dal Troubridge, che con la sua presenza diede animo ai cospiratori e preoccupò non poco i repubblicani e i Francesi.

I realisti erano così sicuri della riuscita della sollevazione che Gerardo Baccher, volendo proteggere dai pericoli della sommossa la bella LUISA De MOLINO, moglie del cavaliere ANDREA SANFELICE dei Duchi di Lauriano, di cui era innamorato; le consegnò un "biglietto d'assicurazione". Fu questo biglietto che rivelò la congiura. La Sanfelice infatti, volendo a sua volta salvare dalle rappresaglie realiste l'ufficiale della milizia civica FERDINANDO FERRI, ardente repubblicano, che amava, gli consegnò il biglietto.

In possesso di quel documento, il Ferri decise di rivelare la cosa al Governo provvisorio e poiché non voleva render di ragion pubblica il suo amore per la Sanfelice, si confidò con il procuratore del marito di lei, Vincenzo Cuoco, il quale scrisse di suo pugno la denuncia. Il Governo provvisorio nella notte del 5 aprile ordinò l'arresto di tutti i membri della famiglia Baccher, dei fratelli Ferdinando e Giovanni La Rossa e di Natale d'Angelo appartenenti all' "unione" del Molo Piccolo, e nei giorni successivi mise in prigione molte altre persone, sospette di cospirazione, fra cui il duca di Calabritto. Così l'impresa fallì e Luisa Sanfelice fu gridata come una salvatrice della repubblica; ma la maggior parte dei cospiratori non fu scoperta.

Erano a questo punto le cose quando, il 15 aprile, l'Abrial dichiarò sciolto il Governo provvisorio e lo sostituì con un altro - provvisorio anch'esso fino all'approvazione della costituzione - ma escluse quei membri del vecchio che a torto o a ragione erano stati colpiti da accuse. Nel nuovo governo i poteri furono nettamente separati e affidati a due corpi che presero il nome di "commissioni": la Commissione Legislativa fu composta di venticinque membri, la Esecutiva ne ebbe cinque; quest'ultima ebbe alle proprie dipendenze i ministri preposti ai quattro dipartimenti in cui era divisa la repubblica. Anche la Municipalità fu sciolta e fu sostituita con un dicastero Centrale di tre membri.
I membri delle commissioni e i ministri furono scelti dall'Abrial fra i nomi suggeritigli dai migliori cittadini. A presiedere la Commissione Esecutiva fu chiamato ERCOLE AGNESE, marito di una nipote dell'Abrial; gli altri quattro membri furono Ignazio Ciaia, Giuseppe Albanesi, Giuseppe Abbamonti e Melchiorre Deifico. Ministro della polizia e giustizia fu Giorgio Pigliacelli, degli Interni Vincenzo De Filippi, della Guerra e Marina Gabriele Manthoné, delle Finanze Luigi Macedonio. Fra i membri che composero la Commissione Legislativa bisogna ricordare Maria Pagano e Domenico Cirillo, che si avvicendarono alla presidenza, e il filosofo LUIGI RUSSO, l'utopista sognatore di una "Società Universale".

INSURREZIONE NEGLI ABRUZZI - MAMMONE E FRA DIAVOLO
LA RIVOLTA NEI PRINCIPATI, NELLA BASILICATA E NELLE PUGLIE
FABRIZIO RUFFO IN CALABRIA

La controrivoluzione intanto divampava in tutte le province. Il movimento repubblicano, dopo l'ingresso dei Francesi a Napoli, si era rapidamente propagato in tutte le regioni del Regno; ma il nuovo governo della repubblica non si era ancora consolidato, quando la reazione -favorita dall'oro e dagli emissari borbonici, capeggiati da tutti coloro che nel primo impeto della rivolta avevano dovuto cedere il campo e incoraggiata dall'assenza di truppe francesi- era scoppiata furiosa dappertutto. In qualche regione, come nell'Abruzzo, la reazione era cominciata al primo comparire delle armi di Francia. Incitate dal fuggiasco FERDINANDO ad opporsi agli invasori per salvare la Religione, l'onore, le proprietà e l'indipendenza, spronate dai vescovi di Aquila e di Teramo che predicavano la "guerra santa", le popolazioni abruzzesi ben presto insorsero con le armi in mano, si organizzarono in "masse" e "bande" e iniziarono una lotta spietata contro il Duhesme, il quale dovette aprirsi a viva forza la via tra gli insorti che lo assalivano di fronte e ai fianchi e gli distruggevano i piccoli presidii che si era lasciato alle spalle.

Riuscito, dopo tre settimane circa, a fare riconoscere l'autorità della Repubblica nelle maggiori città della regione, il Duhesme vi pose guarnigioni francesi, istituì municipalità democratiche, formò a Chieti un Consiglio supremo repubblicano sotto la presidenza del barone NOLLI, quindi affidò al generale COUTARD il comando dei vari presidi e per Sulmona, Casteldisangro e Isernia, combattendo sempre con gl'insorti, da cui fu lui stesso ferito, raggiunse lo Championnet sotto Capua e con lui, come si è visto, partécipò all'occupazione di Napoli.
Rimasto negli Abruzzi e messo il suo quartier generale a Pescara, il Coutard fece di tutto per mantenere l'autorità della Repubblica nella regione; ma era questo un compito molto difficile, perché nel retroterra valli e montagne erano in mano degli insorti e questi, facendosi sempre più numerosi, con colpi di mano scendevano al piano, tagliavano le comunicazioni agli invasori ed assalivano le città.

A capo degli insorti della provincia d'Aquila c'era GIOVANNI SALOMONE di Barisciano, valoroso ed audace figura, che era riuscito a raccogliere intorno a sé tutte le "bande" del paese e del circondario. Alla testa di queste, il 2 marzo mosse contro Aquila e l'assalì con tanto impeto che i Francesi, comandati dal Nollent, furono costretti ad abbandonarla e a chiudersi nel castello.
In loro soccorso fu mandata da Sulmona una colonna di milletrecento soldati, ma non riuscì nemmeno a superare le montagne custodite dai ribelli; più fortuna la ebbe un'altra colonna inviata da Rieti, che, piombata il 23 marzo su Aquila, ne cacciò dopo una sanguinosa mischia le bande e le costrinse ad asserragliarsi nel castello di S. Bernardino da cui nessuno uscì vivo.

Gli insorti della provincia di Teramo erano capitanati dal prete De DONATIS di TAIETO, da un popolano detto CAPPUCCINO e da un certo ANGELINO, evaso dalle carceri. Questi furono assaliti la notte del 29 gennaio dalla milizia civica di Teramo e dalle legioni Cisalpina e Anconitana comandate dal PLARETA, furono sbaragliati. Assaliti una seconda volta il 12 aprile, presso Brozzi, dopo una giornata di accanito combattimento respinsero il Plareta sul colle della Romita. Qui si combatté ancora e i repubblicani avrebbero avuto nuovamente la peggio se la morte di Angelino, scoraggiati gli insorti, non li avesse indotti alla fuga.

Nella provincia di Chieti gli insorti, più numerosi che altrove, erano comandati da un valoroso e temerario, GIUSEPPE PRONIO di Intradacqua; ma la presenza del Coutard con la maggior parte delle sue milizie non permise che la rivolta, allora né trionfasse né che il Pronio guadagnasse seguaci.
Assalite il 3 febbraio a Ripa, con le "bande" costrette alla ritirata, il generale francese si accinse a rioccupare le terre dove il "bandito" aveva rialzato la bandiera borbonica. Il 25 febbraio il Coutard prese e saccheggiò Guardiagrele; qualche giorno dopo occupò Vasto e sottopose gli abitanti ad una orribile rappresaglie,; e verso la fine del mese mandò un distaccamento nel Molise, che riuscì ad impadronirsi di Termoli, occupata alcune settimane prima da una banda di oriundi albanesi.

Non meno numerose che negli Abruzzi furono le bande nel territorio tra Napoli e Roma, le quali molestarono duramente l'avanzata dei Francesi verso la capitale del regno di Ferdinando, poi cercarono di togliere le comunicazioni tra la repubblica romana e quella napoletana. Una di queste bande operava nel bacino del Liri ed era capeggiata dal terribile brigante GAETANO MAMMONE, di cui il COCO ci lascia questo ritratto: "…Gaetano Mammone, prima molinaro, indi generale e a capo degli insorti a Sora, è un mostro orribile di cui difficilmente si ritrova l'eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilare trecentocinquanta infelici, oltre del doppio forse uccisi dai suoi seguaci. Non si parla dei saccheggi, delle violenze, degli incendi: non si parla delle carceri orribili, nelle quali gettava gli infelici che cadevano nelle sue mani, non si parla dei nuovi generi di morte dalla sua crudeltà inventati. II suo desiderio di sangue umano era tale che si beveva tutto quello che usciva dagli infelici che faceva scannare; chi scrive lo ha veduto egli stesso bersi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercare con avidità quello degli altri salassati che erano con lui; pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di sangue e beveva in un cranio..". Suo luogotenente era il garzone di un fabbro, chiamato MOLITERNO perché guercio come il generale napoletano, giovane audacissimo e sanguinario che da S. Germano infestava tutto il territorio circostante.

Un altro bandito, che acquistò fama grandissima, con le spie e le sue imprese temerarie diede ampia materia alle leggende e ai romanzieri, era costui MICHELE PEZZA da Itri soprannominato FRA DIAVOLO. Pronto, violento e coraggiosissimo, raccolti intorno a sé a Fondi e a Itri quattromila uomini, tentò prima di impedire ai Francesi dello Championnet l'entrata nel regno di Napoli; poi portò aiuto a Gaeta investita dai Francesi e, quando questi la occuparono, la bloccò. Scacciati da Trajetto i Francesi, pochi giorni dopo fu sconfitto; abbandonato dalla maggior parte dei suoi, si rifugiò con pochi fedeli sui monti ai primi di febbraio, e iniziò un'accanita guerriglia contro il nemico.
Per due mesi fu il terrore della campagne poste sulla destra del Garigliano, assalendo con audacia e fortuna i distaccamenti francesi e intercettando ai nemici le comunicazioni tra le capitali delle due repubbliche, finché in aprile, avendo ricomposta la sua forte banda, assali ed occupò Itri e da quel momento diventò ancora più audace e più temuto.
(Di lui parleremo più avanti , e nella puntata della fine della Repubblica Partenopea)

Anche nei due Principati ben presto l'insurrezione prese piede. Nell'Ulteriore essa trovò un capo autorevole in un ex-colonnello dei fucilieri borbonici, COSTANTINO De FILIPPIS, il quale, istigata a ribellione Montoro, riuscì a penetrare ad Avellino e a farne un centro del movimento realista. Nel Citeriore invece gli insorti ebbero vari capi: il vescovo di Policastro mons. LUDOVICO LUDOVICI che, riunita una forte banda nella sua diocesi, la mise sotto il comando di ROCCO STODUTI; il vescovo di Capaccio, mons. TORRUSIO, che ribellò il Cilento; e VITO NUNZIANTE, che raccolti numerosi insorti nel territorio di S. Lorenzo della Paluda e battezzata la sua banda, prima col nome di "Reggimento della Santa Croce", poi con quello di "Reggimento Montefusco", la portò in provincia di Avellino per operare d'accordo con il De Filippis.

Ma il più famoso capobanda del Principato Ulteriore fu GHERARDO CURCIO, di Polla, soprannominato SCIARPA, il quale, formata una numerosa banda con i soldati regi, sbirri e armigeri baronali, e messo il suo quartiere generale nella Valle del Tanagro, diventò il terrore della regione, occupando villaggi, taglieggiando, saccheggiando e spingendosi fin sotto le mura di Salerno. Cercò lo Sciarpa di penetrare anche nella Basilicata, dove la reazione realista, ora trionfante, ora soccombente, si macchiava di atroci delitti, quali l'assassinio del Vescovo SERRAO e dei sacerdoti SERRA e SANSONE, ma trovò resistenza insuperabile ad Avigliano, Tito, Duro, Bella e Picerno, comuni della valle del Platano, che si erano confederati con Potenza e con altri paesi della valle del Rasento.

Nelle Puglie la reazione ebbe origine da un equivoco, che però esprime quanta devozione gli abitanti della regione nutrissero per la corte borbonica anche dopo la proclamazione della repubblica. Sette córsi, di sentimenti anglofili, rifugiatisi nel Regno e sorpresi dall'invasione francese (Casimiro Raimondo Corbara, Giovanni Boccheciampe, Giovan Battista De Cesare, Ugo Colonna, Lorenzo De Durazzi, Stefano Pittaluga e Antonio Guidono), mentre tentavano di imbarcarsi in uno dei porti dello Jonio, furono dalle popolazioni scambiati per principi borbonici e per alti personaggi del passato governo, e, prima costretti dalle circostanze, poi persuasi da due principesse borboniche, Adelaide e Vittoria, allora a Brindisi, a continuare a recitare la commedia, si misero alla testa di numerosi pugliesi e ridussero all'obbedienza a nome dell'ex re tutta la regione, eccettuate Bari, Barletta, Modugno, Altamura, Gravina e qualche altra città.

Tutte queste insurrezioni trovarono alimento e forza nell'impresa di un uomo, che privo di mezzi, ma pieno d'ardimento e sostenuto da un'invidiabile tenacia, si era offerto di combattere la rivoluzione repubblicana e di riportare le province continentali del regno all'obbedienza del sovrano borbonico. Quest'uomo era il cardinale FABRIZIO RUFFO, appartenente alla nobile famiglia calabrese dei duchi di Baranello e Bagnara. Al Papa aveva reso importanti servizi come tesoriere generale e come organizzatore della difesa dello stato, minacciato dai Francesi; sotto la monarchia borbonica aveva ricoperto la carica di intendente di Caserta; ora egli viveva a Palermo, dove, dopo la fuga del re, parecchi prelati del regno si erano come lui rifugiati sull'isola.

FERDINANDO IV, pur non avendo fiducia in quest'impresa, alla quale contribuiva soltanto con millecinquecento ducati al mese, accettò l'offerta del cardinale e il 25 gennaio del 1799 firmò il diploma delle Reali Istituzioni con cui dava incarico al Ruffo di portarsi nelle Calabrie, di difendere le province "..non ancora invase dai disordini.." e di riconquistare quelle invase compresa quindi la capitale.
Munito di pieni poteri e di poche migliaia di lire, in compagnia del marchese FILIPPINO MALSPINA, dell'abate LORENZO SPARZIANI e di quattro servitori, il 27 gennaio Fabrizio Ruffo si imbarcò a Palermo e fece vela per Messina, dove, presi accordi con le autorità regie di Palmi, Bagnara, Scilla e Reggio che ancora si mantenevano fedeli alla casa borbonica, con i suoi sei compagni ai quali si erano uniti DOMENICO PETROMASI e l'abate ANNIBALE CAPOROSSI, il 7 febbraio passò lo stretto e andò a sbarcare sulla punta di Pizzo presso il villaggio di Piale.

Ad aspettarlo trovò poche persone, fra le quali il giudice ANGELO FIORE, l'ex preside di Catanzaro ANTONIO WINSPEARE e il tenente di polizia FRANCESCO CARBONE. Con questi si recò in una villa vicina del duca di BARANELLO, suo fratello e da qui emanò "…un proclama ai vescovi, ai parroci ed ai governatori della Calabria con cui ordinava ad essi di convocare le proprie popolazioni e di invitarle a muovere in difesa della Religione e della monarchia, portando nel cappello come segno una croce bianca".

Primi a giungere, il giorno dopo, furono quarantadue uomini armati, inviati dal governatore di Reggio al comando del tenente NATALE SEREZ de Vera. Altri uomini giunsero nei giorni seguenti e il Ruffo riuscì a mettere insieme trecentocinquanta persone, che armò e vestì alla meglio con fucili militari, fucili da caccia, spade, scuri e lance, uniformi improvvisate. Con questa piccola schiera di cui solo duecentoventi formavano tre compagnie regolari, che pomposamente chiamò "Armata Cristiana" o "Reale" e che seguiva un vessillo portante lo stemma del re, la Croce, e il motto "In hoc Signo vinces", il Ruffo partì da Pizzo il 13 febbraio e, procedendo lentamente, andò a Scilla, a Bagnara, a Sinapoli, a Radicena, a Palmi e a Gioia, raccogliendo per via altri seguaci, mentre i pochi democratici si nascondevano o fuggivano a Monteleone dove si diceva volessero fare resistenza.

A Gioia il cardinale trovò due cannoni che il comandante di Messina gli aveva mandati con il tenente DOMENICO MAZZEI. Ora egli disponeva di millecinquecento uomini che a Rosarno si aumentarono di altri cento e con questi marciò su Mileto, dove il vescovo, mons. CAPECE MINUTOLO gli fece trovare una massa di gregari numerosa. Qui tutta la sua gente formava una imponente forza di circa diecimila uomini, ma gli armati regolari non superavano i quattrocento e questi divisi in otto compagnie e sotto il comando del colonnello ANTONIO DE SETTIS formarono il Reggimento dei "Reali Calabresi". Il cardinale si preparava ad investire Monteleone quando gli giunse la notizia che tutti i patrioti si erano radunati ed erano fuggiti a Catanzaro. Senza frapporre indugi si mise in marcia e il 1° marzo entrò trionfalmente in quella città accolto calorosamente dal clero, dai nobili e dal popolo.

La presa di Monteleone aumentò il prestigio del cardinale e diede animo ai fautori alla causa borbonica che, incoraggiati anche dall'emanazione di un generale indulto, accorsero numerosi da ogni parte sotto le bandiere del Ruffo. Il quale, confiscando beni, impadronendosi delle casse pubbliche e dei magazzini, imponendo taglie e ricevendo offerte spontanee, riuscì facilmente a fornirsi di armi, di denari, di viveri e di munizioni, a pagare regolarmente le sue truppe e a sistemare meglio il suo esercito.
Costituito uno squadrone di cavalleria, due compagnie di zappatori e un corpo di artiglieria con quattro cannoni, il Ruffo mandò una schiera verso Catanzaro e un'altra verso Nicastro in direzione di Cosenza, quindi con il grosso delle sue truppe lasciò Monteleone e si recò a Pizzo, dove prese accordi con un messo di mons. Lodovico Lodovici per organizzare l'insurrezione del Cilento.

Da Pizzo il cardinale mosse verso Maida con l'intenzione di piombare su Catanzaro, infrangervi la resistenza dei numerosi repubblicani che vi si trovavano e punire VINCENZO PETROLI, capo del Tribunale provinciale, che aveva posto una taglia proprio sulla testa del Ruffo e su quelle del Winspeare, del Di Fiore e del Carbone. Ma mentre il Ruffo era in marcia, un FRANCESCO GIGLIO, alla testa di un gruppo di masse realiste, aveva assediato Catanzaro ed, essendo fuggiti i democratici, era entrato in città e l'aveva messa a sacco, aiutato dal PETROLI che da democratico (cambiato subito casacca) era tornato ad abbracciare la causa del re.

Affrettati i suoi passi, il cardinale entrò a Catanzaro insieme con Petroli stesso che era venuto ad incontrarlo a Borgia, fece cessare i disordini provocati dalle bande del Giglio e si mostrò molto clemente con coloro che avevano favorito il movimento democratico o di esso ne erano stati i capi. Difatti nominò il Petroli "Auditore dell'Armata Cristiana" e i suoi colleghi li destinò a coadiuvare il giudice Di Fiore nella Commissione che doveva giudicare i giacobini tratti in arresto.

Mentre il cardinale si trovava a Catanzaro, si dichiaravano per il re Cutro, Santa Severina, Cariati, Luzzi, Corigliano, Strongoli e S. Giovanni in Fiore; intanto la spedizione inviata da Monteleone verso Cosenza assolveva pienamente (!!!) il suo compito. La comandavano Giuseppe Mazza, Pierantonio Tiratti e Giuseppe Licastro; questi entrarono senza colpo ferire a Nicastro; mentre penetrarono a viva forza ad Amantea e a Paola, che furono barbaramente saccheggiate, e, sostenuti e sollecitati dalle popolazioni dei paesi vicini (le invidie e i rancori reciproci di vicini paesi fanno parte del Dna di certe popolazioni), investirono Cosenza, messa anche questa a sacco e barbaramente saccheggiate, sebbene l'arcivescovo con il clero e con il corpo cittadino erano stati loro ad aprire le porte ed erano andati incontro con entusiasmo ai realisti. (che più realisti di così non potevano essere, quello che interessava loro era il saccheggio).

Dopo la presa di Cosenza tutta la Calabria citeriore poteva dirsi riconquistata al re. Solo Crotone rimaneva repubblicana ed era risoluta a resistere. Ma contro di essa si mosse di persona il Ruffo con le sue truppe da Catanzaro e si fece precedere da due compagnie regolari sotto il contando di NATALE PEREZ e da duemila uomini delle "masse" capitanate da DOMENICO SPADEA e da GIOVANNI CELIA, e lungo la via si aggiunsero numerosissimi realisti, tra i quali la feroce banda del brigante PANZANERA.
Il PEREZ giunse sotto Crotone il 21 marzo e spedì un parlamentare ad intimare la resa; ma il parlamentare fu imprigionato e condannato a morte e, all'alba del 22, il presidio uscì risolutamente dalla città per attaccare i realisti. Sopraffatti dalle truppe del Perez, i repubblicani si ritirarono precipitosamente a Crotone, ma insieme a loro vi entrarono i banditi del Panzanera; il castello capitolò e la città, invasa dalle "masse", fu orribilmente saccheggiata e data alle fiamme (da questi altri "liberatori").

Il 25 vi giunse dopo una faticosissima marcia, il cardinale Ruffo e vi si fermò fino al 4 aprile per ricostruire l'armata, che, alla vigilia del suo arrivo, si era in gran parte allontanata per mettere al sicuro il bottino; di là il cardinale andò a Rossano, dove si congiunse alle milizie del MAZZA, quindi si recò a Cosenza e vi rimase per tutto il resto del mese, dedicandosi a riordinare e rifornire le sue truppe e ad allacciare comunicazioni con gli insorti dei Principati dove, sotto gli ordini di NICOLA GUALTIERI, detto "PANE DI GRANO", inviò una banda di galeotti che aveva con sé, liberati dal re dai penitenziari in Sicilia; quelli che in precedenza durante il suo regno infestavano la Calabria.
Alla fine d'aprile il Ruffo lasciò la Calabria ed entrato nella Basilicata si diresse a Matera dove giunse il 5 maggio. Si preparava ad attaccare Altamura quando lo raggiunse una schiera di insorti pugliesi proveniente da Taranto comandata dal De CESARE. Con questa schiera anche la Puglia si metteva in contatto con il cardinale, la Puglia, dove la reazione realista minacciava di essere sopraffatta dalle armi francesi.
Ad annientare i francesi e i loro seguaci ci pensarono invece i Sanfedisti. Ad Altamura fecero una iniqua strage. Il quadro dell'eccidio è oggi nel Museo di San Martino a Napoli.

SPEDIZIONE FRANCESE NELLE PUGLIE
L'INSURREZIONE REALISTA ALLE PORTE DI NAPOLI
I FRANCESI ABBANDONANO LA REPUBBLICA NAPOLETANA
LORO RITIRO A ROMA

Fin da quando si erano delineati i primi successi del Ruffo, lo Championnet aveva pensato di soffocare con le armi la rivolta che divampava furiosa in tutte le province. Sua intenzione era di mandare il Duhesme con seimila uomini nella Capitanata e il generale Ollivier nel Cilento. Il primo, assoggettato quel territorio, doveva inviare un distaccamento negli Abruzzi e nel Molise in aiuto del Coutard; con il grosso quindi doveva scendere nelle Puglie e, per la Basilicata, invadere le Calabrie e unirsi con il corpo dell'Ollivier, sceso nel frattempo dal Cilento.

La spedizione dell'Ollivier fallì perché una colonna di soldati napoletani comandata da GIUSEPPE SCHIPANI, che la precedeva, dopo aver preso Rocca d'Aspide e Sicignano, fu costretta dai terrazzani di Castelluccio a ritirarsi precipitosamente verso la capitale. Più fortunata fu quella del Duhesme. Partito da Napoli il 19 febbraio prese senza incontrar resistenza Troia, Lucera e Bovino, il 23 entrò a Foggia e il 25 sconfisse dopo un furioso combattimento i realisti a S. Severo.

Ottenuti questi successi, il Duhesme si mosse contro Cerignola. Si trovava nel mese di marzo all'assedio di questa città quando il Macdonald, succeduto allo Championnet, gli ordinò di ritirarsi a Napoli, lasciando piccoli presidii a Foggia, ad Ariano, ad Avellino e a Nola; ma una diecina di giorni dopo il generalissimo inviava nelle Puglie una nuova spedizione comandata dal BROUSSIER, che il 16 marzo giungeva a Barletta e di qui, unitosi con una legione napoletana comandata da Ettore Carafa conte di Ruvo andava ad assalire il 23 Andria, la espugnava dopo un sanguinosissimo combattimento di parecchie ore, poi l'abbandonava al saccheggio.

Caduta Andria, fecero atto di sottomissione Giovinazzo, Bisceglie e Molfetta; Trani invece volle resistere, ma il 10 aprile fu assalita dalla legione del Carafa, e dopo averla invasa e occupata i Francesi la saccheggiarono. Raggiunta anche lui Trani, il Broussier mosse alla volta di Bari che da un mese e mezzo si trovava assediata dalle bande del De Cesare e del Bocchechiampe.
Lungo la via fu dato l'assalto a Carbonara, che dopo accanita resistenza fu espugnata ottocento persone furono passate a fil di spada e infine incendiata. La stessa sorte toccò a Ceglie, a Martino, a Montrone e ad altri villaggi. Bari, all'avvicinarsi dei Francesi, fa abbandonata dalle bande realiste, che si ritirarono a Casamassima, ma qui, raggiunte dal Broussier, furono il 5 aprile sgominate.

Quattro giorni dopo, il Broussier era richiamato con il Duhesme a Parigi e gli succedeva nel comando l'OLLIVIER, che subito marciò alla volta di Brindisi per raggiungere un battaglione francese, sbarcatovi l'8 aprile. Aveva già occupato Mola, Monopoli, Fasano ed Osterni, quando con la notizia delle sconfitte subite dallo Chérer in Lombardia gli giunse l'ordine del Macdonald di ripiegare rapidamente su Napoli per unirsi alle altre truppe francesi che si preparavano a partire per l'Alta Italia.

Il 15 aprile Ollivier, unitosi col battaglione di Brindisi, iniziò la ritirata. Sei giorni dopo era a Foggia e, lasciata la legione napoletana e ritirati i presidii della Capitanata, partiva per Avellino e di là, a marce forzate si portava su Napoli, dove il 26 aprile si trovarono concentrate tutte le forze francesi, all'infuori di quelle del Coutard che dagli Abruzzi dovevano direttamente passare in Toscana.

La partenza dei Francesi dalle Puglie fece rialzare il capo ai realisti, che in quei giorni videro comparire nelle acque di Brindisi e di Taranto due piccole squadre russo-turche, le quali sbarcarono qualche centinaio di soldati; il De Cesare, riunita sotto di sé una nuova schiera di insorti andò a raggiungere sotto le mura di Matera il cardinal Ruffo; e intanto dai due Principati avanzavano nelle penisola sorrentina le bande di PAN DI GRANO, mentre Castellammare, Sorrento e Salerno cacciavano i patrioti innalzavano la bandiera borbonica, le croci, la rivolta si estendeva rapidamente nei comuni vesuviani e FRA DIAVOLO prendeva accordi con il TROUDBRIDGE, che incrociava nel golfo di Napoli, per assalire Gaeta e Castel S. Elmo.

Il Macdonald intanto aveva già inviato i bagagli alla volta di Roma e riunito il suo esercito tra Caserta e Maddaloni. Tutto era pronto per la partenza; ma non voleva mettersi in marcia senza aver tentato di assicurarsi le spalle dagli insorti della regione vesuviana che potevano ostacolargli la ritirata. Dato ordine al generale Vatrennes di puntare su Avellino e Cava su Salerno, assecondato dalla flottiglia napoletana dell'ammiraglio CARACCIOLO, il 28 aprile piombò su Torre Annunziata, ricacciò e sconfisse a Sarno i realisti e ritornò con cannoni e prigionieri nemici a Napoli, dove poco dopo tornò, vittorioso anche il Vatrennes.

L'esercito francese partì da Caserta il 1° maggio. Giunto a Capua si divise in due corpi, uno comandato dal Macdonald, che per Terracina, continuamente molestato dalle bande di FRA DIAVOLO, giunse a Roma il giorno 16. Il secondo corpo lo comandò l'Ollivier. Difficilissima fu la marcia di quest'ultimo. Una prima seria resistenza la trovò a S. Germano, che, espugnata, fu messa a sacco e incendiata. Sorte uguale subì la Badia di Montecassino.
Una resistenza maggiore incontrò l'Ollivier ad Isola, la quale, dopo accanito combattimento, fu ridotta ad un cumulo di macerie (12 maggio). Quattro giorni dopo anche questo secondo corpo giunse a Roma.

Nella Repubblica partenopea, che ora poteva dirsi veramente indipendente, ma sulla quale incombeva terribile la minaccia borbonica, non rimasero che cinquemilaquattrocento soldati francesi comandati dal MEJAN dal BERGER e dal GIRARDON, di cui circa una metà di presidio a Castel Sant'Elmo e a Gaeta.
I successivi fatti li tratteremo più avanti, in "La fine della Repubblica Partenopea".
Da non perdere poi anche l' "Insurrezione in Calabria del 1806-1809"

Dobbiamo, prima di terminare il 1799, ritornare al nord Italia
dove è stato chiamato proprio il Macdonald e le sue truppe,
per dare man forte ai francesi in crisi con gli Austro-Russi

e dove si sta svolgendo la battaglia della Trebbia e di Novi > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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