ANNO 1799 - 1800

LE REPUBBLICA PARTENOPEA - LA FINE ! - LE STRAGI !

 

"...tradito da Nelson, catturato, cinto di catene, il 28 giugno 1799, sulla Minerva, Caracciolo fu impiccato ad un'antenna della nave, come pubblico malfattore; restò esposto a ludibrio fino alla notte; poi staccato e legato il cadavere con un peso ai piedi, fu gettato in mare. Ma non voleva affondare, minaccioso anche da morto, fece paura al re che osservava la scena da lontano, e volgendosi agli astanti inorridito, chiese confuso: "ma che vuole quel morto!". Il cappellano pietosamente replicò: "viene a domandare cristiana sepoltura". - "Se l'abbia", rispose il re, e andò solo e pensieroso alla sua stanza - Il cadavere fu raccolto dai marinari che tanto lo amavano, e fu sepolto nella chiesa della Madonna della Catena, a Napoli. (Colletta, Storia del Reame di Napoli).
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PROVVEDIMENTI CIVILI E MILITARI DEL GOVERNO PROVVISORIO NAPOLETANO DOPO LA PARTENZA DEI FRANCESI - PROGRESSI DELLA REAZIONE - IL CARDINALE RUFFO AD ALTAMURA - IL MICHEROUX NELLE PUGLIE - IL RUFFO AD ARIANO, AD AVELLINO E A NOLA - AZIONI OFFENSIVE DEI REPUBBLICANI - I FORTI DI GRANATELLO E DI VIGLIENA - COMBATTIMENTO AL PONTE DELLA MADDALENA - PRESA DI CASTEL DEL CARMINE - COMBATTIMENTO AL CASINO DELLA FAVORITA - SCENE DI ORRORE IN NAPOLI - RESA DI CASTELLAMMARE E REVIGLIANO - TRATTATIVE COI FORTI - CAPITOLAZIONE DI CASTEL NUOVO E DI CASTEL DELL'OVO - II NELSON A NAPOLI. - L'AMMIRAGLIO NELSON E LA CAPITOLAZIONE - II RUFFO DIFENDE LA CAPITOLAZIONE - RESA DI PESCARA - COMBATTIMENTO ALLA VIGNA DI S. MARTINO - CAPITOLAZIONE DI CASTEL S. ELMO - RESA DI CAPUA E GAETA - RICOMPENSE E PREMI ELARGITI DA FERDINANDO IV - LA GIUNTA DI STATO E LA GIUNTA MILITARE - PROCESSI E CONDANNE - IMPICCAGIONE DELL'AMMIRAGLIO FRANCESCO CARACCIOLO - I MARTIRI NAPOLETANI

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PROVVEDIMENTI CIVILI E MILITARI
DEL GOVERNO PROVVISORIO NAPOLETANO
PROGRESSI DELLA REAZIONE -
IL RUFFO AD ARIANO, AD AVELLINO E A NOLA
I FORTI DI GRANATELLO E DI VIGLIENA

I patrioti napoletani gioirono quando il MACDONALD -come abbiamo letto nella precedente puntata - dal Direttorio richiamato nell'Italia settentrionale, si allontanò da Napoli. Rimasti finalmente liberi si diedero con impazienza a fare leggi e a provvedere alla difesa della Repubblica.
Si cominciò a discutere, in seno alla Commissione legislativa, il Progetto di costituzione presentato da MARIO PAGANO; furono approvate le leggi che regolavano l'estinzione del debito dei Banchi; si aboliva la gabella sulla farina; si deliberò di punire i commissari dipartimentali che abbandonavano il loro posto; di confiscare i beni degli emigrati e di condannare a morte come nemici della patria tutti coloro che avevano prima appoggiato la Corte e tentavano di ritornare; si promisero premi a chi denunciava cospirazioni; fu costituita una Commissione rivoluzionaria di cinque membri con facoltà di giudicare per direttissima tutti i reati contro lo Stato; si decise la costruzione di un Pantheon in cui dovevano trovare sepoltura i martiri della libertà; fu istituita una cassa di soccorso per i poveri; si procedette ad arresti di persone sospette; si ordinò la coscrizione marittima, l'organizzazione della guardia nazionale e, poiché erano insufficienti a difendere le province le sole due legioni di ETTORE CARAFA e dello SCHIPANI, si procedette a formarne altre, fra cui meritano di essere ricordate quelle poste sotto il comando del capitano SPANO' e del colonnello WIRTZ.

Mentre a Napoli questi "nuovi" patrioti si preparavano a difendere la "libertà" e l'indipendenza della Repubblica, i realisti facevano rapidi progressi e si avvicinavano minacciosi da ogni parte alla capitale per portarvi la "libertà" anche se non c'erano più i "liberatori" francesi
Da Matera, dove il 7 maggio era stato raggiunto dalla schiera pugliese del De CESARI, il cardinale RUFFO marciò contro Altamura, che fu assalita il giorno 9. Fino a sera durò la resistenza dei repubblicani, poi, esaurite le munizioni, fuggirono verso Gravina e il giorno dopo le bande del Ruffo penetrarono nella città e la misero a sacco. Tre giorni durò il terribile saccheggio.
"…Nessuna pietà - scrive il COLLETTA- sentirono i vincitori; donne, vecchi, fanciulli furono uccisi, un convento di vergini profanato: tutte le malvagità e le voglie saziate; non ad Andria e non a Trani, ad Alessia e a Sagunto (se le antiche storie sono vere) possono assomigliare le rovine e le stragi di Altamura…".

Ad Altamura il RUFFO ebbe notizie della Puglia: nella seconda metà d'aprile una piccola flotta russo-turco-siciliana, su cui si trovava il cav. ANTONI MICHEROUX, commissario di FERDINANDO IV, si era presentata davanti a Brindisi: la città era stata occupata; un proclama che concedeva generale perdono era stato pubblicato e in meno di un mese quasi tutte le città pugliesi si erano dichiarate per il re borbonico.
Saputo che anche Benevento era ritornata alla parte regia per opera del marchese MOSTI, il Ruffo si recò a Gravina, poi a Spinazzola, a Melfi, ed Ascoli e il 2 giugno giunse a Bovino, dove seppe i progressi fatti nell'Abruzzo dal PRONIO, il quale aveva ristabilito a Chieti il governo monarchico, si era impadronito di Lanciano e del Vasto e si era recato ad assediare Pescara, validamente difesa dal repubblicano ETTORE CARAFA conte di Ruvo.
Il cardinale, che nel frattempo aveva mandato nel Molise il capitano RAIMONAI e il De Cesari per difendere dalle scorrerie di una schiera repubblicana i paesi tornati alla fede borbonica, lasciata Bovino si trasferì il 5 giugno ad Ariano, dove si congiunse con il Micheroux, che vi era arrivato tre giorni prima alla testa di quattrocentosettanta Russi, di trenta marinai siciliani e di un corpo di volontari di Manfredonia.

Anche ad Ariano il papa ricevette buone notizie dell'insurrezione nelle altre parti del regno; FRA DIAVOLO bloccava con le sue bande Gaeta; GAETANO MAMMONE era padrone della Terra di Lavoro ed aiutava l'insorgenza negli Stati della Chiesa; GIOVANNI SALOMONE aveva assalito i Francesi mentre si ritiravano nella Toscana, producendo loro gravi perdite ed aveva costretto il presidio di Aquila ad arrendersi: SCIARPA aveva espugnato Piceno, aveva saccheggiato Muro e il 18 maggio era entrato a Potenza.

Ad Ariano il RUFFO ricevette LUCIO CARACCIOLO che, abbandonata la repubblica, si metteva al servizio del re. Fu nominato capo di tutte le forze di Terra di Lavoro con l'incarico d'investire Capua. Ricevette pure SCIPIONE DELLA MARRA, che recava lo stendardo offerto dalla regina, e due compagnie di granatieri provenienti dalla Sicilia; quindi, il 7 giugno, alla testa del suo esercito marciò su Avellino, la cui popolazione gli andò incontro al grido di "Viva il Re !".
Da Avellino, il Ruffo passò a Nola (11 giugno), e qui fu raggiunto dal De CESARE, reduce da una spedizione nella provincia di Campobasso con un buono stuolo di fanti e un migliaio di cavalli, e da una piccola schiera di Turchi comandati dal capitano ACHMET. Oramai il suo esercito era abbastanza forte e, poiché i Francesi avevano lasciato il regno, egli poteva sperare di impadronirsi facilmente di Napoli, che era stretta come in una morsa dagli insorti e dalla parte del mare era bloccata dalle navi inglesi, le quali si erano da qualche tempo rese padrone di Procida, Ischia, Capri, Ponza e Ventotene.

Al Ruffo gli sembravano di buon augurio alcune piccole azioni offensive infelicemente tentate dai Repubblicani di Napoli: difatti un corpo di Napoletani al comando del Federici era stato, dopo breve combattimento, sbaragliato a Marigliano e messo in fuga; Torre Annunziata era stata invano assalita dalla parte del mare dalla flottiglia repubblicana comandata dal valorosissimo ammiraglio Caracciolo; a Resina una compagnia di repubblicani era stata costretta dagli insorti a cedere le armi; lo SCHIPANI, uscito contro Salerno, era stato dall'insurrezione di Portici tagliato dalla capitale e infine il generale MANTHONE', ministro della guerra, si era dovuto ritirare da Barra dove era avanzato.

COMBATTIMENTO AL PONTE DELLA MADDALENA
PRESA DI CASTEL DEL CARMINE
COMBATTIMENTO AL CASINO DELLA FAVORITA
SCENE DI ORRORE IN NAPOLI
CAPITOLAZIONE DI CASTEL NUOVO E DI CASTEL DELL'OVO

Chiusa Napoli in un cerchio di ferro, la Repubblica Partenopea aveva le ore contate. L'assalto alle difese della capitale doveva, per ordine del Ruffo, avvenire il 13 giugno e il governo repubblicano prevedendo vicinissima l'azione decisiva aveva messo a difesa del ponte della Maddalena il Generale WIRTZ; aveva mandato a S. Antonio il BASSET per prendere di fianco il Ruffo; aveva ordinato al Caracciolo di sostenere con le navi cannoniere il Wirtz e contava sulla resistenza dei forti di Granatello e di Vigliena e sulla cooperazione dello Schipani, il quale si trovava fra Torre del Greco e Torre Annunziata.

13 GIUGNO - La battaglia ebbe inizio all'alba del giorno stabilito. La guarnigione di Granatello, battuta dalle artiglierie del vascello inglese "Secchorse", comandato dal capitano FOOTE, ed attaccata dagli insorti, si ritirò a Napoli e il forte cadde nelle mani delle schiere realiste del De FILIPPIS uscite da Portici. Impadronitosi di Granatello, il De Filippis cominciò a bombardare il forte di Vigliena, che contemporaneamente fu assalito da tre compagnie di granatieri regi e da un drappello russo agli ordini del tenente colonnello FRANCESCO RAPINI, mentre tutto l'esercito del Ruffo, passato da Nola a S. Giovanni a Teduccio, si affrettava e preparava ad attaccare Napoli.
Accanita fu la resistenza del presidio di Vigliena, comandata dal prete ANTONIO TOSCANI: sopraffatti dal nemico, i difensori appiccarono alle micce e, mentre i Russi entravano nella fortezza, scoppiò la polveriera che seppellì sotto le macerie il Rapini, il Toscani, i regi che erano penetrati nel forte e i Napoletani che non avevano avuto tempo di fuggire.

Allora la battaglia si concentrò al ponte della Maddalena; ma qui la difesa non fu lunga, perché il Caracciolo dovette presto ritirarsi con le sue poche cannoniere e la guardia civica poco ansiosa di combattere, si diede subito alla fuga. Rimase soltanto un manipolo di audaci, fra cui il poeta LUIGI SERIO e il WIRTZ, ma poco dopo, quest'ultimo, mentre a cavallo animava i suoi alla resistenza, fu colpito da una scarica di mitraglia che lo distese al suolo e il ponte fu del nemico.

Non rimanevano che le fortezze della capitale in mano ai repubblicani, che si erano asserragliati nell'Ospedale degli Incurabili, nel quartiere di Pizzofalcone, nella vigna di S. Martino, sotto i cannoni di Cartel S. Elmo, il cui presidio francese, comandato dal MEJAN, si era rifiutato di aprir le porte ai patrioti. Durante la notte dal 13 al 14 i Calabresi dell'esercito del Ruffo occuparono alcune case presso il Cartel del Carmine e, allo spuntar del giorno, l'assalirono, lo espugnarono e passarono a fil di spada centoventi difensori.

Tentò, la mattina del 14, lo SCHIPANI di venire in soccorso dei forti; ma era appena giunto, dopo avere occupato Resina, al Casino della Favorita, quando fu assalito di fronte e dai fianchi dai Russi e dalle truppe del De CESARI e del La MARRA. Rimasto con poche centinaia di uomini per la defezione di buona parte della sua schiera, si difese coraggiosamente e sarebbe forse riuscito a tirarsi fuori della stretta se in sostegno del nemico non fosse giunto PANE di GRANO con le sue "bande" e i suoi "banditi". Sopraffatti dal nemico, i repubblicani ripiegarono; alcuni fuggirono; altri caddero con le armi in pugno; lo SCHIPANI, riconosciuto mentre cercava di fuggire travestito, fu preso e mandato a Procida davanti al tribunale criminale che nel frattempo si era formato.

Napoli, il 14 giugno, rimase in balia della plebaglia e delle soldatesche feroci del Ruffo, che avevano vinto le ultime resistenze dei repubblicani agli Incurabili e alla caserma di Pizzofalcone. Fu una giornata di sangue, di saccheggi, di violenze inaudite: ai repubblicani nascosti nelle case, e a quelli che travestiti tentavano di fuggire fu data una caccia spietata; le case dei giacobini furono invase, perquisite, messe a soqquadro, saccheggiate; bande di lazzaroni percorrevano le vie urlando, inseguivano o scovavano i patrioti, li percuotevano, li denudavano, li legavano, e frustandoli o sciabolandoli, li trascinavano in piazza del Mercatello, li decapitavano presso l'albero della libertà, ne rotolavano le teste per le vie oppure, conficcatele le stesse su lunghe picche, le portavano in giro; per le strade era un continuo sfilare di arrestati che erano condotti ai Granili e su roghi improvvisati; e molti di loro, mentre erano guidati in carcere o al luogo del supplizio, fra la folla isterica che urlava "Viva il Re", i malcapitati coraggiosamente gridavano "Muoia il tiranno".

La città risuonò tutto il giorno di fucilate e fu assordata dal rombo dei cannoni che senza tregua sparavano dai forti; fu percorsa da turbe avide che asportavano dalle case messe a sacco mobili e indumenti; fra le case saccheggiate vi furono quelle del Duca d'Andria, dei Vaglio, dei Riario, dei Piatti, del Cirillo, del Fasulo, del Ciaja, del Logoteta, del Rolando, del Conforti, del Carlomagno, del Pagano, del Torella, i monasteri di Monte Oliveto, di S. Pietro a Maiella e di San Severo, gli ospedali di S. Giacomo e degli Incurabili; fra gli arrestati vi furono nobili, ecclesiastici, magistrati, professori, ufficiali e donne di alta condizione, quali la duchessa di Cassarco, la duchessa di Popoli, la madre e la sorella del conte Ruvo, la Laurent-Prota, Margherita Fasulo e Luisa Sanfelice.

Il cardinale Ruffo, dopo averlo innescato, non sapendo più come calmare il furore del popolo, creò una "Giunta" di Stato composta dal marchese Gregorio Bisogni, da Matteo La Fragola, da Carlo Pedicini, da Bernardo Navarra, da Antonio della Rossa e da Angelo di Fiore, con l'incarico di punire alcuni dei principali accusati di cospirazione; quindi annunziò gravi pene da infliggersi a coloro che avessero continuato i saccheggi e le violenze.
I forti, che resistevano sempre, furono battuti da artiglierie appostate nella caserma conquistata di Pizzofalcone, sul Molo, sulla strada del Porto e presso la villa di Chiaia; ma poiché queste batterie erano impotenti a far tacere quelle dei repubblicani, il Ruffo tentò di indurre alla resa, per mezzo di trattative avviate dal Micheroug, i patrioti.

Queste trattative fallirono, né risultato migliore ebbero quelle che il capitano inglese OSWALD tentò di avviare il 18 giugno; era stato mandato dal Foote che tre giorni prima aveva ottenuto per capitolazione i forti di Castellammare e di Revigliano, concedendo ai repubblicani gli onori militari e la facoltà di partire o rimanere indisturbati, ed ora consigliava al Ruffo di concedere condizioni simili ai difensori dei forti di Napoli pur d'impadronirsene prima che giungesse, come si temeva, una flotta gallo-ispana. L'Oswald si recò a Castel dell'Uovo e cercò d'indurre la guarnigione alla resa, ma il comandante lo scacciò affermando che i repubblicani avrebbero difeso fino alla morte gli ultimi territori della repubblica. Fallite le trattative, il cardinale Ruffo ordinò che s'intensificasse il bombardamento, e Castel dell'Uovo e Castel Nuovo furono battuti con estrema violenza tutto il giorno 18 e la mattina del 19.
Allora il generale MASSA, che comandava il secondo, chiese al MICHEROUG che lo facesse scortare fino a Castel Sant' Elmo per chiedere al MEJAN l'autorizzazione di arrendersi. Malgrado gli ordini della Corte, che poi erano quelli che non volevano sentir parlare di trattative con i ribelli, di patti e di clemenza, la richiesta del Massa fu accolta, si sospesero le ostilità e il comandante di Castel Nuovo fu accompagnato dallo stesso Micheroug in Castel Sant' Elmo e qui il Méjean dettò le condizioni della resa dei due forti.

I patti erano i seguenti: i presidii dei castelli Nuovo e dell'Uovo, dovevano avere facoltà d'imbarcarsi per Tolone, su navi preparate dai vincitori, insieme con tutti i repubblicani che vi si trovavano chiusi e con quelli che erano stati fatti prigionieri del Blocco; tanto i presidii quanto i repubblicani e le loro famiglie, potevano, volendo, rimanere a Napoli indisturbati; a garanzia di questi patti e fino alla loro esecuzione dovevano esser consegnati come ostaggi in Castel S. Elmo l'arcivescovo di Salerno, il fratello del Micheroug, il vescovo di Avellino e un certo Dillon; le guarnigioni dovevano conservare i forti fino a quando non fossero pronte le navi destinate al loro trasporto; le proprietà mobili ed immobili dei componenti i presidii dovevano essere rispettate e garantite; infine i repubblicani dovevano uscire dai castelli con gli onori militari, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese.

Il Ruffo accettò i patti e firmò la loro capitolazione; il 22 giugno vi apposero la firma il Foote, il Baillie e l'Achmet; il Foote inoltre fece venire da Procida alcune navi che dovevano servire al trasporto delle guarnigioni, ma queste non erano ancora in numero sufficiente ed altre se ne cercavano quando, la mattina del 24, comparve nelle acque di Napoli la flotta inglese dell'ammiraglio NELSON.

I "liberi", che si erano già "liberati" dai "liberatori francesi", assediati dai "liberatori" del Ruffo, devono ora fare i conti con altri "liberatori".

IL NELSON E LA CAPITOLAZIONE - RESA DI PESCARA
COMBATTIMENTO ALLA VIGNA DI S. MARTINO
CAPITOLAZIONE DI CASTEL SANT' ELMO - RESA DI CAPUA E GAETA
PROCESSI E CONDANNE - IMPICCAGIONE DELL'AMMIRAGLIO CARACCIOLO
I MARTIRI NAPOLETANI

Il NELSON giungeva a Napoli con l'ordine della Corte di non fare alcuna concessione ai repubblicani, che dovevano esser considerati ribelli e come tali trattati. Cioè, dovevano arrendersi a discrezione. Quando l'ammiraglio seppe che era stato pattuito l'armistizio ed era stata firmata la capitolazione, non volle riconoscere né l'uno né l'altra e per farsi capire meglio, schierò le sue navi in linea di battaglia a un miglio e mezzo dalla punta del Molo; messosi quindi a contatto con il Ruffo, gli fece sapere che suo intendimento era di attaccare i ribelli se non si fossero arresi; ma il Cardinale dichiarò di voler tener fede al trattato, si rifiutò, il 25, di trasmettere ai repubblicani una dichiarazione del Nelson in cui era detto che non sarebbe stato permesso il loro imbarco ed aggiunse che l'ammiraglio era libero di rompere l'armistizio ma egli non avrebbe concesso né una mano né un cannone per forzare i patrioti alla resa.

Lo stesso giorno 25 il Ruffo e il Nelson ebbero un lungo incontro sulla nave ammiraglia "Foudroyant", ma non riuscirono a mettersi d'accordo. Il Nelson rilasciò al cardinale uno scritto in cui affermava che, secondo la sua opinione, il trattato non doveva essere eseguito senza l'approvazione del re; dal canto suo il Ruffo, ritornato in città, firmò -secondo quel che narra il Sacchinelli", testimone degno di fede - insieme con il russo BAILLIE e con il turco ACHMET una protesta in cui si affermava che, "…o il trattato della capitolazione dei castelli di Napoli era utile necessario ed onorevole alle armi del re delle Due Sicilie e dei suoi potenti alleati", o che "…essendo stato solennemente concluso solo dai rappresentanti di dette potenze, si commetterebbe un abominevole attentato contro la volontà e la credibilità pubblica, se non si eseguissero esattamente o si violasse il contenuto già conosciuto .."

Inoltre il Cardinale scrisse al generale MASSA, che comandava la guarnigione di Castel Nuovo, che sebbene lui e i suoi rappresentanti ritenevano sacro e inviolabile il trattato della capitolazione de' castelli, tuttavia il controammiraglio della squadra inglese non voleva riconoscerlo, e siccome era libertà della guarnigione di avvalersi dell'articolo 50 della capitolazione, come avevano fatto i patrioti della collina Martino, che si erano tutti allontanati per via terra, faceva loro questa considerazione; "…che se gli inglesi comandano in mare, sceglietevi un'altra soluzione"

Non contento di questa palese e chiarissima indicazione, per lealtà, il Ruffo volle riconsegnare ai repubblicani le posizioni che gli erano state cedute dopo la firma della capitolazione.
L'ostinata fermezza del Cardinale, la dichiarazione del generale Massa di esser pronto a ricominciare le ostilità e il desiderio di uscir presto da quella situazione secondo la volontà del re suggerirono al Nelson un'azione che costituisce una macchia incancellabile per il suo nome.
Qualsiasi cosa affermino i suoi difensori, l'ammiraglio, giocando abilmente sull'equivoco, il 26 giugno, ingannò il Ruffo, facendogli credere di volere riconoscere la capitolazione.
Infatti, incaricò l'HAMILTON - che lo aveva seguito da Palermo - di assicurare per lettera il Ruffo che non avrebbe rotto l'armistizio. I capitani TROUBRIDGE e BALL, latori della lettera, dichiararono, dietro richiesta del Cardinale, che il Nelson non si sarebbe opposto alla partenza dei repubblicani. Né il Ruffo né i repubblicani sospettarono l'inganno e immediatamente ci si preparò per lo sgombero dei castelli che avvenne nel pomeriggio del 26 giugno.

Il 27 giugno il cardinale cantò un "Te Deum" nella chiesa del Carmine per ringraziare Dio del riacquisto di Napoli; il giorno dopo il Nelson ricevette lettere da Palermo, nelle quali gli si ordinava di trattare i repubblicani come ribelli e l'ammiraglio, trincerandosi dietro quell'ordine, si affrettò a far sapere al Ruffo la volontà del sovrano e gli comunicò la decisione di considerare come prigionieri tutti coloro che erano usciti dai castelli o si trovavano già a bordo delle navi; quindi fece condurre in catene sul "Foudroyant" il ministro della guerra MANTHONE', i generali MASSA e BASSET, ERCOLE D'AGNESE e DOMENICO CIRILLO, presidente della Commissione Esecutiva, e parecchi altri.

Dopo la capitolazione dei castelli Nuovo e dell'Uovo, solamente S. Elmo, la vigna di S. Martino, Capua, Gaeta e Pescara rimanevano ai Borboni da conquistare. A Pescara resisteva fieramente ETTORE CARAFA, conte di Rufo. Lo teneva in assedio il PRONIO, il quale verso la metà di giugno gli aveva già proposto una capitolazione onorevole, che però il Carafa rifiutò; tuttavia pochi giorni dopo si concluse un armistizio di alcuni giorni, durante il quale due repubblicani (per accertarsi che era la verità) dovevano recarsi a Napoli per costatare che la capitale era in potere dei regi e che vana era dunque ogni resistenza ed ogni speranza di aiuti.

Avendo così saputo che la causa della repubblica era ormai perduta e che alcuni repubblicani di Pescara già congiuravano per cedere la città agli assedianti, prima che terminasse l'armistizio il Carafa riunì il consiglio di guerra. Questo rifiutò la proposta fatta da un ufficiale di far saltare la fortezza e di approfittare della confusione per aprirsi un varco verso Roma e allora non rimase che capitolare. Il PRONIO offrì dei patti abbastanza ragionevoli: la guarnigione sarebbe uscita con armi e bagagli e gli onori militari, il Carafa e gli ufficiali si sarebbero imbarcati per Ancona; i soldati sarebbero tornati liberi alle loro case. La consegna della città doveva avere luogo il 30 giugno.

Quel giorno il Carafa si recò a Francavilla, dove il Pronio lo aveva invitato a pranzo; ma mentre egli era assente da Pescara, accaddero gravissimi fatti. Alcuni abitanti e parte della guarnigione, dichiaratisi per il re, si recarono all'arsenale per impadronirsi delle armi, ma ad un tratto, non si sa come, scoppiò la polveriera che uccise o ferì circa 500 persone. Il popolo inferocito, credendo che fossero stati i repubblicani a dare fuoco alle micce, li assalì e li massacrò tutti; poi bande regie, penetrate in città, fecero il resto saccheggiando le case dei patrioti e distruggendo ogni cosa al loro passaggio senza riguardi e senza fare molte scelte. Alla notizia di quei fatti, il Pronio, convinto che Ettore Carafa lo avesse tradito, lo dichiarò in arresto e lo inviò a Napoli.

Comandava, come si è detto, Castel S. Elmo, il MEJAN. Con lui i regi avevano avviato trattative per la capitolazione del forte, offrendogli anche del denaro, ma egli aveva dichiarato ripetutamente che non si sarebbe arreso prima della caduta di Capua, e la sera del 30 giugno erano state riprese le ostilità. Lo sforzo dei Russi, dei Turchi, degli Inglesi e dei soldati del Ruffo si concentrò specialmente contro i patrioti asserragliati nella vigna e nel convento di S. Martino, ma per quanto fosse decisa ed ostinata la resistenza e sebbene le artiglierie del forte con quel poco che potevano fare sostenevano i repubblicani, questi tennero testa con molto valore al nemico, i cui assalti furono, parecchie volte e con gravi perdite, respinti.

Il giorno 4 luglio, intorno a S. Martino si combatteva ancora con accanimento.
Quel giorno stesso il Méjean, che aveva ripreso le trattative, riceveva il permesso di inviare a Capua due ufficiali per ottenere dal GIRARDON licenza di arrendersi; ma la missione non ebbe alcun risultato e le ostilità ricominciarono. Giunto il 9 giugno nelle acque di Napoli re FERDINANDO IV e riallacciate ancora una volta le trattative, queste furono coronate dal successo e il giorno 11 giugno fu firmata la più che onorevole capitolazione.

Il MEJEAN non si curò della sorte dei patrioti, i quali dopo la difesa di S. Martino erano riusciti a farsi accogliere a S. Elmo, e si obbligò di consegnarli agli Inglesi; fece anzi di più: quando il 12 giugno uscì dal castello con i suoi soldati, che erano circa un migliaio, senza armi, né bandiere, consegnò le porte della fortezza al nemico, fece uscire dalle file i patrioti che per salvarsi da qualche linciaggio, dietro suggerimento di alcuni ufficiali dello stesso Méjean, avevano poco prima indossato la divisa francese, e li abbandonò al Nelson.
Irritati dalla sua condotta, gli ufficiali francesi, quando sbarcarono a Marsiglia, scrissero un'indignata protesta, accusandolo di aver venduto agli inglesi i patrioti, e i generali Joubert e Championnet lo deferirono al Consiglio di guerra.

La capitolazione di Capua e Gaeta avvenne nello stesso mese di luglio. Il 20 il duca di ROCCAROMANA e il BARKHARDT che assediavano Capua con alcuni reparti irregolari e un corpo di soldati siciliani, videro giungere il Troubridge e l'Hallowell, che con un esercito di Inglesi, Russi, Albanesi e Calabresi, giungevano a rinforzare l'assedio. Una settimana dopo, il generale francese GIRARDON che comandava il presidio composto di circa duemiladuecento uomini tra Francesi, Polacchi e Italiani Cisalpini, lui si arrese ma escluse (con chissà quali altre garanzie) dai patti i patrioti italiani che furono condotti in catene e poi imprigionati a Napoli. Qui lo stesso generale firmò il 31 la capitolazione di Gaeta, e i millecinquecento soldati francesi che erano in quel presidio furono inviati in Francia. I repubblicani italiani di Gaeta seguirono la medesima sorte di quelli di Capua (cioè dai "liberatori" furono "buttati a mare", abbandonati al loro destino, per essere loro "liberi".

Con la resa di Gaeta, tutto il regno di Napoli era ritornato sotto l'antico sovrano, che poteva, lieto del successo, ricompensare molti di coloro che lo avevano aiutato a ricuperare le province perdute, distribuendo loro titoli, onorificenze, gradi e rendite. Il RUFFO, sebbene malvisto dalla Corte, fu nominato luogotenente generale, il MICHEROUGH tenente colonnello con tremila ducati annui, FRA DIAVOLO e SCIARPA colonnelli con la pensione di duemilacinquecento ducati l'uno, di tremilacinquecento l'altro, il NELSON fu creato duca di Bronte con diciottomila ducati l'anno, il De CESARI e il BOCCHECIAMPI baroni, VINCENZO De GASARO cavaliere costantiniano, varie ricompense ebbero l' HAMILTON e gli ufficiali inglesi e tutti i capi degli insorti.
(poi qualcuno ora affermare che le insurrezioni e il banditismo non rendono! Se si è dalla parte (fortunosamente) giusta si è a posto per tutta la vita, compresi i futuri eredi).

LA RESA DEI CONTI PER GLI SCONFITTI
LAVORO PER IL BOIA "PARADISO"

Il 5 agosto Ferdinando IV partì alla volta di Palermo, e mentre qui si riprendevano le feste di S. Rosalia, che erano state sospese un mese prima per la partenza del re, a Napoli s'istruivano i processi contro prigionieri che a migliaia gremivano le carceri. Due tribunali straordinari erano stati istituiti, la "Giunta di Stato" e la "Giunta Militare": la prima era composta di FELICE DAMIANI, presidente, GIUSEPPE GUIDOBALDI, fiscale, ANTONIO DELLA ROSSA, ANGELO di FIORE, GAETANO SAMBUCO, VINCENZO SPECIALE, consiglieri, SALVATORE di GIOVANNI, segretario, GASPARE VANVITELLI e GIROLAMO MOLES, difensori e ALESSANDRO NAVA procuratore; la seconda, che doveva giudicare gli ufficiali di terra e di mare, era formata dai generali SPINELLI e De GAMBIS, dai principi di RIPA e di SASSONIA e dal barone de BOISY.

In un primo momento non furono pronunciate da queste due giunte le prime condanne. La prima sentenza fu, infatti, impartita da una giunta di cinque ufficiali borbonici presieduta dall'inglese THURN riunita per ordine del NELSON sulla sua nave, e che mosso da una stolta invidia e dallo zelo eccessivo per la turpe causa di un sovrano non suo, condusse dinanzi ad essa, per sottoporlo ad un giudizio sommario, uno dei più prodi marinai del tempo, l'ammiraglio FRANCESCO CARACCIOLO, che si era guadagnata una grande fama in audaci scontri contro i Barbareschi, nell'assedio di Tolone e, sotto gli inglesi (!), nella guerra d'America e nel Mediterraneo. Il 13 giugno, essendo stata infranta la resistenza repubblicana a Napoli, lui era fuggito ma un paio di settimane dopo era caduto nelle mani degli sbirri del NELSON. Condotto, la mattina del 29 giugno, sul "Foudroyant" fu giudicato quel giorno stesso sotto l'accusa di ribellione al proprio re. Soltanto due membri della giunta, gli alfieri di vascello GIUSEPPE NISCEMI siciliano e ANDREA CAPEROZZO triestino, proposero come pena di relegarlo su un'isola; gli altri pronunciarono la sentenza di morte, che venne eseguita poche ore dopo.
Alle ore 5 del pomeriggio, mentre sulla nave ammiraglia allegramente si pranzava, all'albero di trinchetto della "Minerva" veniva impiccato il prode CARACCIOLO, il cui cadavere poi buttato in mare al tramonto, fu più tardi raccolto da pietose persone e sepolto nella chiesa di S. Maria della Catena.

Mentre a Napoli, dalla giunta istituita dal Ruffo furono pronunciate le prime condanne capitali dopo di quella del Caracciolo. Dal 6 al 26 luglio mandò sul patibolo ANTONIO TRAMAGLIA, il negoziante DOMENICO PERLA, il bibliotecario GIUSEPPE COTITTA, fra GIUSEPPE, l'orologiaio ANDREA VITALIANI.
Ma le giunte di cui sopra abbiamo già fatto i nomi, furono quelle che mandarono a morte il numero maggiore di persone.

(e fate attenzione alle loro professioni, non erano questi plebei, contadini, banditi, briganti, nullatenenti, o ribelli senza un nome ! Il desiderio d'indipendenza non faceva da contrappeso alla fame, ma veniva dall'anima tutta partenopea, spesso giocandosi il proprio benessere, la propria posizione sociale, il proprio prestigio, piuttosto che fare gli umili "servi")

Luogo del martirio fu la famosa piazza del Mercato, boia crudele e beffardo, di fatto, e perfino nel nome, era TOMMASO PARADISO; ci pensava lui a mandarli all'"inferno" dando "spettacolo" in piazza agli assetati di sangue!

Il 4 agosto fu impiccato il colonnello GAETANO RUSSO, il 14 fu decapitato ORONZO MASSA, duca di Galugnano, il 20 furono giustiziati GIULIANO COLONNA principe di Aliano, GENNARO SERRA Duca di Cassano, MICHELE NATALE vescovo (!!) di Vico Equense, l'avvocato VINCENZO LUPO, il sacerdote (!!) NICOLA PACIFICO, DOMENICO e ANTONIO PIATTI banchieri, ed ELEONORA FONSECA PIMENTEL poetessa e direttrice del "Monitore".
Morirono tutti serenamente. L'avvocato LUPO mentre era condotto al supplizio disse agli amici "Vi lego il mio odio contro la tirannide"; ELEONORA, prima di uscire dal carcere, volle bere il caffè recitò un beffardo verso in latino poi salì intrepidamente sul palco, quindi, salutati i cadaveri dei suoi compagni già giustiziati, si affidò risolutamente alle mani del carnefice.

Il 29 furono uccisi MICHELE il PAZZO, il venditore di olio ANTONIO d'AVENA, l'avvocato NICOLA FASULO, il maestro di scherma GAETANO De MARCO, il capitano di cavalleria NICCOLO' FIANI; il 4 settembre venne il turno e fu decapitato il valoroso ETTORE CARAFA, il quale, per mostrare ancora una volta il suo coraggio, volle giacere supino in modo da poter guardare la mannaia che gli scendeva sul collo; il 24 salirono sul patibolo il viceconsole di Francia PASQUALE SIEYES e il generale GABRIELE MANTHONE'; il 30 FERDINANDO PIGNATELLI principe di Strongoli e il fratello MARIO, il padre NICOLA De MEO e gli avvocati PROSDOCIMO ROTONDO e FRANCESCO ANTONIO ASTORE.

Il mese d'ottobre vide altri martiri salire sul palco di piazza del Mercato. Il 10 ottobre il professore ERCLE D'AGNESE e il giovane marchese di GENZANO FILIPPO De MARINI che prima di affidare il collo alla mannaia volle baciare il boia Paradiso; l'8 il prof. NICOLA MARIA ROSSI e l'avvocato DOMENICO ANTONIO PAGANO; il 10 il generale PASQUALE MATERA; il 14 il capitano ANTONIO TOCCO, il tenente PASQUALE ASSISI, il sacerdote NICCOLA PALOMBA, il medico FELICE MASTRANGELO; il 22 i marchesi GIUSEPPE RIARIO SFORZA di Corleto e ONOFRIO de COLACI di Guisaco, il sacerdote GAETANO MORGERA, il tenente GIOVANNI VARANESE, il notaio LUIGI BOZZAOTRA, il cavaliere FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; il 23 il generale FRANCESCO FEDERICI, il marchese di PITRASTORNINA e il sacerdote VINCENZO TROISE, professore dell'Università; il 18 furono impiccati l'avvocato e professore universitario MARIO PAGANO, il medico DOMENICO CIRILLO, il poeta IGNAZIO CIAJA e l'avvocato GIORGIO PIGLIACELLI; il 31 il teologo SEVERO CAPETO, il professore d'eloquenza sacerdote IGNAZIO FALCONIERI, COLOMBO ANDREASSI e RAFFAELE JOSSA.

Nel mese di novembre furono giustiziati: il 9 l'avvocato GIAN LEONARDO PALOMBO, l'11 PASQUALE BAFFI professore di lingua e letteratura greca all'Università, il 13 il frate FRANCESCO GUARDATI, professore universitario, il 19 gli avvocati NICOLA MAGLIANO e VINCENZO RUSSO, il 23 il giureconsulto ANTONIO REGGI e il negoziante MELCHIORRE MAFFEI, il 28 il giureconsulto ALBANESE, l'avvocato DOMENICO BISCEGLIE, il magistrato Gregorio MATTEI, l'avvocato LUIGI ROSSI, i professori CLINIO ROSSELLI dell'Accademia militare, FRANCESCO BAGNO dell'Ospedale degli Incurabili, VINCENZO De FILIPPIS dell'università di Bologna e l'avvocato GIUSEPPE LOGOTETA.

L'elenco dei martiri non è ancora finito: il 3 dicembre il medico NICOLA NERI, l'avvocato GREGORIO MANCINI e il tenente PIETRO NICOLETTI, il 7 i tenenti di Vascello RAFFAELE DORIA e FERDINANDO REGGI, il tenente di fanteria ANTONIO SARDELLI, e FRANCESCO CONFORTI sacerdote e professore di storia all'Università, il 12 il barone LEOPOLDO De RENZIS di Montanaro, l'avvocato NICCOLA FIORENTINO, il carmelitano prof. FRANCESCO SAVERIO GRANATA e il capitano CARLO ROMEO, il 14 il marchese CARLO MAURI di Polvica; il 4 gennaio del 1800 il poeta GIACOMO ANTONIO GUALZETTI, NICOLA RICCIARDI, GIUSEPPE CAMMAROTA e MARCELLOEUSEBIO SCOTTI professore di filosofia all'Università, il 18 MICHELANGELO CICCONE e il notaio NICCOLA MAZZOLA; il 1° febbraio gli studenti di medicina GASPARE PUCCI E CRISTOFORO GROSSI, l'8 i quattro capitani di marina ANDREA MAZZITELLI, LUIGI DE GRANELAIS, RAFFAELE MONTEMAYOR e GIAMBATTISTA DE SIMONE; il 6 l'avvocato CARLO MUSCARI e il 18 il medico GENNARO FELICE RACUCCCI.

L'ultima martire (ma solo in questo periodo) che salì il palco di piazza del Mercato fu una donna: LUISA SANFELICE. Invano si era cercato di salvarla, più volte con un senso di pietà era stata rimandata l'esecuzione perchè risultò essere incinta di alcuni mesi, il re disse che era un pretesto, non fidandosi dei dottori di Napoli la fece trasferire a Palermo, ma anche qui risultò incinta; fu quindi solo sospesa l'esecuzione in attesa del parto. Quando nacque il bambino il caso volle che venisse al mondo negli stessi giorni che sua figlia la principessa ereditaria Maria Clementina metteva anche al mondo un bimbo. Quando Ferdinando, gli fece visita per vedere l'erede, e lo prese in braccio, la principessa credette che quello era il momento più favorevole per chiedere la grazia per la sventurata donna e la sventurata creatura che sarebbe rimasta sensa una madre. Ma Ferdinando incollerito per la richiesta, gli buttò il bambino sul letto, uscì dalla stanza non concesse nessuna la clemenza, ma ne ordinò l'esecuzione.

L'11 settembre del 1800, fra la pietà della folla, Luisa Sanfelice, salì sul patibolo magra e stravolta. Temendo un tumulto, il boia, si adoperò a fare più in fretta del solito, ma nel movimento disperato econvulso della donna la scure la colpì solo sopra una spalla dilaniandola ma con lei ancora viva negli spasimi, allora il carnefice mise fine alla cruenta scena, e la terminò con una peggiore, infatti, chiuse lo "spettacolo" scannandola con un coltello infilato sotto la gola.

Concludendo il suo "Saggio storico sulla rivoluzione napoletana" del 1801, nelle ultime pagine è tutta una commossa rievocazione dei martiri di quell'anno, cruento, il patriota "VINCENZO CUOCO" così scriveva:

"…Il re, strascinato dai falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I suoi ministri non amavano né curavano la nazione: doveva perciò perdersi, e si perdette. I repubblicani, con le più pure intenzioni, con il più caldo amor della patria, non mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e caddero con la patria, vittime di quell'ordine di cose, cui tentarono di resistere, ma nulla più si poteva fare, che cedere".

"…Una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo da cui l'umanità non si libera se non quando le sue idee tornano di nuovo al livello con i suoi governi; e quindi i governi diventano più umani, perché più sicuri; l'umanità più libera, perché più tranquilla; più industriosa e più felice, perché non deve consumare le sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano dei secoli e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non attraverso gli estremi mali…"

"…Quale sarà il destino di Napoli, dell'Italia, dell'Europa? Io non lo so. Una notte profonda circonda e ricopre tutto di un'ombra impenetrabile. Sembra che il destino non sia ancora propizio per la libertà italiana; ma sembra dall'altra parte che esso, con il nuovo ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa che gli stessi re travaglino a preparar quell'opera che con infelice successo hanno tentato i repubblicani. Forse la corte di Napoli, spingendo le cose all'estremo, per desiderio smoderato di conservare il Regno, lo perderà di nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche la seconda rivoluzione, la quale sarà più felice, perché desiderata e conseguita dalla nazione intera, per il suo bisogno e non per solo altrui dono…".

Anche lo stesso VINCENZO CUOCO, aveva 29 anni quando a lui gli toccò migliore sorte; fu, infatti, quest'anno esiliato dai Borboni; esule a Milano, qui fondò quattro anni dopo (1804-1806) "il Giornale Italiano". Con gli eventi bonapartisti, ritornò poi a Napoli ricoprendo importanti cariche sotto Giuseppe Buonaparte e Giocchino Murat.

Ma con le righe sopra, e mentre era ancora in vita fu profeta due volte, nei successivi sconvolgimenti e nelle repressive imposte restaurazioni; prima napoleonica poi quell'austriaca.

E riuscì pure a vedere, i primi moti di Salerno, di Napoli e della Sicilia, del Piemonte, della Lombardia. Morì nel 1823 nella sua Napoli ancora una volta sconvolta da impiccagioni, esecuzioni, repressioni, invasioni, distruzioni, "straniere", che volevano come il solito "liberare" gli italiani che desideravano invece solo una cosa nella propria penisola: "essere italiani", "sentirsi italiani" e camminare con le proprie gambe.

Le sue righe seguitarono invano ad aleggiare e a far palpitare i cuori degli italiani non solo a Napoli ma su tutta la penisola. Pepe, infatti, iniziò un nuovo periodo, che pur lasciandosi dietro dei bagni di sangue nei decenni che seguirono, lentamente, lentamente, riuscirono poi a far capire che per fare una nazione, e per non essere dei coloni di altre nazioni, bisognava essere uniti.


Ma la storia è ancora lunga.
E purtroppo dobbiamo ritornare a questo fatidico anno 1800.
Sta per ritornare in Italia Napoleone. A sconvolgere questa volta non solo l'Italia, ma l'intera Europa. La Battaglia di Marengo, sta rimettendo in discussione nuovamente tutta la politica continentale.

come abbiammo accennato sopra
ci attende appunto MARENGO anno 1800 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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