ANNO 1805 - 1806

I FRANCESI NEL VENETO E NEL REGNO DI NAPOLI


La principessa Amalia Augusta di Baviera sposa il vicerè d'Italia Eugenio Beauharnais

MARIA CAROLINA E NAPOLEONE - SI PREPARA LA TERZA COALIZIONE - TENSIONE DEI RAPPORTI TRA FRANCIA E NAPOLI - ALLEANZA DI NAPOLI CON LA RUSSIA - TRATTATO DI NEUTRALITÀ DI FERDINANDO IV CON LA FRANCIA - SPEDIZIONE ANGLO-RUSSA NEL REGNO DI NAPOLI - LA CAMPAGNA DEL 1806 - BATTAGLIA DI VERONETTA - BATTAGLIA DI CALDIERO - L'ARCIDUCA CARLO INIZIA LA RITIRATA - RESA DEL GENERALE RILLINGER - RESISTENZÀ DELLA RETROGUARDIA AUSTRIACA A VICENZA, AL BRENTA, AL TAGLIAMENTO E A GORIZIA - IL BLOCCO DI VENEZIA - CAPITOLAZIONE DEL PRINCIPE DI ROHAN A CASTELFRANCO - PACE DI PRESBURGO - MATRIMONIO DEL PRINCIPE EUGENIO CON AMALIA DI BAVIERA - LA GUERRA CONTRO NAPOLI - FERDINANDO IV SI TRASFERISCE IN SICILIA - LA REGGENZA - FUGA DI MARIA CAROLINA - I FRANCESI INVADONO IL REGNO -GIUSEPPE BONAPARTE ENTRA IN NAPOLI - SPEDIZIONE DEL GENERALE REYNIER NELLE CALABRIE - BATTAGLIA DI CAMPO TANESE - GIUSEPPE BONAPARTE RE DELLE DUE SICILIE - I RUSSI OCCUPANO CATTARO E I FRANCESI RAGUSA - RAGUSA È ASSEDIATA DAI RUSSO-MONTENEGRINI
-------------------------------------------------------


MARIA CAROLINA E NAPOLEONE
TENSIONE DI RAPPORTI TRA FRANCIA E NAPOLI
ALLEANZA DI NAPOLI CON LA RUSSIA
TRATTATO DI NEUTRALITA DI FERDINANDO IV CON LA FRANCIA
SPEDIZIONE ANGLO-RUSSA NEL REGNO DI NAPOLI


L'occupazione francese dei porti dell'Adriatico, a spese del Regno di Napoli, assorbiva una cifra di oltre cinquecentomila franchi al mese, e pesava moltissimo alla corte borbonica, la quale nel conflitto anglo-francese, FERDINANDO IV, nel fare equilibrismo politico (ma altri dicono ottusa ambiguità perché era debole di carattere), pur simpatizzando per l'Inghilterra, tuttavia avrebbe voluto rimanersene neutrale, anche perché ambigui erano anche gli inglesi, e temeva che le truppe britanniche, seguendo l'esempio delle francesi, prima o poi occupassero anche loro i porti del regno; un passo falso e l'Inghilterra gli circondava e gli strappava la Sicilia. Del resto questo era il periodo delle colonie oltre gli oceani, e l'Italia le quattro potenze europee se la disputavano proprio come una colonia. Un'invasione lì, un assedio là, oppure uno sbarco navale, e subito mettevano i loro governi con le servili persone locali che ubbidivano come fantocci alla loro autorità.

A Napoli, la regina Maria Carolina che dopo l'allontanamento dell'ACTON aveva preso le redini dello stato, fece di tutto per indurre Napoleone a richiamare l'esercito: dichiarò che i Russi erano a Corfù soltanto per impedire una spedizione francese in Oriente e che non avrebbero operato sbarchi nel regno neppure se il generale Saint-Cyr avesse occupato Napoli; si disse pronta a promettere per iscritto di opporsi con tutte le sue forze ad un eventuale sbarco russo, e propose perfino alla Francia di far causa comune se i Russi fossero riusciti a sbarcare, e di pagare ai francesi fino alla pace generale un sussidio annuo di sei milioni.

Tutti i tentativi della regina rimasero però infruttuosi. Napoleone non aveva fiducia nelle promesse della corte borbonica che sapeva animata da spirito antifrancese (la Carolina poi, era addirittura una Asburgo!), e non solo dichiarò che avrebbe mantenuta l'occupazione dei porti fino a che i Russi rimanevano a Corfù e gli Inglesi a Malta, ma ordinò che altri ottomila uomini rinforzassero l'esercito del Saint-Cyr. Del resto, anche se avesse avuto fiducia in Ferdinando IV, Napoleone avrebbe mantenuto lo stesso l'occupazione, perché il Regno di Napoli, mentre si preparava a invadere l'Inghilterra, gli serviva per distrarre verso l'Oriente la sorveglianza della flotta inglese del Mediterraneo.

Quanto alla neutralità che Maria Carolina affermava di voler mantenere, dato lo scopo cui l'occupazione mirava, non sarebbe riuscita di alcun giovamento a Napoleone; gli sarebbe invece stata di non poca utilità l'alleanza napoletana ora che la Spagna si era alleata con la Francia. L'imperatore non mancò di fare altri passi presso la corte borbonica, per indurla a schierarsi contro l'Inghilterra, ma FERDINANDO IV rispose che se si fosse schierato contro gli Inglesi questi gli avrebbero strappata la Sicilia e bloccata Napoli.

Questo era anche vero, l'Inghilterra alla Sicilia mirava da tempo. Ma un altro era però il vero motivo del rifiuto della corte napoletana: Ferdinando sperava nella costituzione di una terza coalizione europea contro la Francia, che si annunziava prossima. Una coalizione in cui il suo regno sarebbe allora entrato. Difatti fin dal 28 agosto del 1804 era avvenuta la rottura diplomatica tra Pietroburgo e Parigi e dai primi di settembre quella tra la Francia e il Re di Svezia; inoltre questi, il 3 dicembre, aveva conclusa una convenzione militare con l'Inghilterra e intense trattative correvano tra il gabinetto britannico e quello russo per stringere un'alleanza che doveva essere stipulata l'11 aprile del 1805.

Dopo il rifiuto della corte borbonica di allearsi con la Francia, le relazioni tra Napoleone e il re di Napoli non furono proprio del tutto rotte, ma ormai l'Imperatore non dubitava più dei sentimenti di Maria Carolina e Ferdinando IV, né credeva più alle loro millantata neutralità; anzi era sicuro che a Napoli si complottava contro di lui. E questo Napoleone non lo poteva tollerare, così il 2 gennaio del 1805 inviò per lettera un avvertimento molto eloquente a Maria Carolina: "…Alla prima guerra di cui Vostra Maestà sarà causa, la Casa Borbonica cesserà di regnare a Napoli e i vostri figli erranti mendicheranno nei vari paesi d'Europa gli aiuti dei loro parenti.."
Non contento di questo monito, Napoleone fece chiedere dal Talleyrand che l'ambasciatore inglese ELLIOT fosse allontanato da Napoli e mandato in Sicilia perché sgradito alla Francia; e chiedeva l'immediata espulsione del conte RUGGERO di DAMAS, generalissimo delle truppe napoletane, perché era un emigrato francese, un apostata della Francia.

Le acque si agitavano e nello steso tempo s'intorbidavano. La corte borbonica, per guadagnar tempo, fece rispondere, per mezzo dell'ambasciatore MARCHESE di GALLO, che non poteva esporsi all'ira britannica allontanando l'Elliot; ma contemporaneamente cominciò a far preparativi di guerra, fece munire e rifornire le fortezze, distribuì armi ai popolani della capitale ed ordinò ai capi delle varie ghenghe di tenersi pronti con le loro bande.
Verso la fine di gennaio giunse a Napoli la notizia che una numerosa flotta francese era uscita da Tolone dirigendosi verso il sud; allora il DAMAS, nell'eventualità di un attacco dal mare, diede gli ordini per respingerlo, e siccome il fermento nella capitale, in quei giorni, fu grande, i Francesi, temendo che scoppiassero tumulti francofobi, chiesero i passaporti per mettersi in salvo. L'intervento energico dell'ambasciatore ALQUIER rassicurò e trattenne i Francesi.
Dal canto suo il generale GOUVION Saint-Cyr chiese spiegazioni sugli armamenti che si facevano a Napoli e minacciò di marciare con il suo esercito sulla capitale se non allontavavano l'Elliot e il Dumas. A trattenere il generale francese fu mandato il principe di CARDITO, il quale spiegò che gli armamenti erano stati fatti per impedire che il morbo che infieriva a Livorno si propagasse a Napoli; quanto all'Elliot disse che non poteva essere allontanato perché si sarebbe provocata l'ira dell'Inghilterra; e per quel che riguardava il Damas dichiarò che trattative dirette erano state avviate con l'Imperatore.

Napoleone era informato di tutto e, sebbene fosse persuaso che nulla avrebbe fatto a mutare i sentimenti della corte borbonica, tuttavia volle tentare di convincere la regina che la miglior politica che potesse fare era quella di accostarsi alla Francia. In tal senso le scrisse il 21 febbraio del 1805; però Carolina rispose protestando contro l'occupazione, contro il diritto che si arrogava d'ingerirsi negli affari interni del suo regno e contro le minacce del Saint-Cyr, ripetendo che voleva rimanere neutrale, e dichiarando (per quanto riguardava i preparativi di guerra) di non esser disposta a farsi schiacciare senza difendersi non fosse altro che per cadere con onore.
Giungeva intanto a Napoli la notizia che Napoleone era stato proclamato re d'Italia e che fra breve avrebbe cinto la corona a Milano. La corte borbonica mandò in Lombardia il Principe di Cardito per assistere alla cerimonia, ma, nello stesso tempo, chiese che cosa significasse quel titolo di re di un paese in cui Ferdinando IV aveva domini più vasti di quelli di Napoleone.

Il Talleyrand diede spiegazioni rassicuranti, ma da parte borbonica il riconoscimento del nuovo titolo di Re d' Italia non venne e Napoleone, acceso di sdegno, fece dire al Marchese di Gallo che se entro il 16 giugno non avesse avuto il riconoscimento avrebbe dichiarato guerra a Ferdinando.
Le minacce fecero il loro effetto e il 23 giugno il Marchese di Gallo presentava a Napoleone a Bologna la lettera in cui all'imperatore era riconosciuto il nuovo titolo.
Un mese e mezzo dopo, l'Austria entrava nella terza coalizione (9 agosto 180) e il 10 settembre la corte borbonica stipulava con la Russia un trattato di alleanza: vi si stabiliva che se il Gouvion Saint-Cyr si fosse mosso oltre i territori occupati, lo Zar avrebbe mandato al Re di Napoli truppe sufficienti per liberarlo dai Francesi. Di questo trattato non fu dato nessuna comunicazione al marchese di Gallo, il quale dal canto suo faceva continui tentativi per indurre Napoleone a ritirare le truppe dal regno e il 21 settembre riusciva a stipulare un trattato con la Francia, in cui questa si obbligava a ritirar le truppe e Ferdinando dichiarava di mantenersi neutrale, di non riconoscere la sovranità inglese su Malta e di tenere lontano l'Acton.

Questi patti Napoleone non li aveva concessi per generosità, ma perchè, rinunciata all'idea di una spedizione in Inghilterra e deciso a muover contro l'Austria, gli era necessaria la presenza del corpo del Gouvion Saint-Cyr nell'Alta Italia. Ad ogni modo con quel trattato Ferdinando IV otteneva quello che desiderava e la più elementare prudenza lo consigliava a ratificarlo ed a rispettarlo, tanto più che non contrastava con quello firmato con la Russia, il quale anzi cadeva dopo l'impegno di Napoleone di ritirare le sue truppe.

Purtroppo però non era la prudenza quella che guidava la politica della corte borbonica, ma l'odio e il desiderio di vendicarsi delle non lontane precedenti prepotenze francesi. Ferdinando IV ratificò l'8 ottobre il trattato, ma nello stesso tempo dichiarò all'ambasciatore russo TATISCHEFF che non lo avrebbe osservato perché la ratifica gli era stata imposta con le minacce e sollecitò l'intervento delle truppe anglo-russe.
Queste giunsero nelle acque di Napoli su cento navi il 19 novembre, quaranta giorni dopo la partenza del Saint-Cyr dalla Puglia. L'arrivo di questo corpo di spedizione fece sì che l'Alquier, chiesti i passaporti, partisse il giorno dopo per Roma. Contemporaneamente sbarcavano a Castellammare seimila e seicento Inglesi e presso Castel dell'Uovo tredicimila Russi, i primi comandati dal generale CRAIGH, gli altri dal generale LASCY.
Mentre questi fatti accadevano, le armi napoleoniche sconfiggevano gli eserciti austriaci e l'imperatore vittorioso pensava di rivolgere le sue truppe contro il Regno di Napoli.

LA CAMPAGNA DEL 1805 - BATTAGLIA DI VERONETTA
BATTAGLIA DI CALDIERO - RITIRATA DELL'ARCIDUCA CARLO
IL BLOCCO DI VENEZIA - CAPITOLAZIONE DEL ROHAN A CASTELFRANCO
PACE DI PRESBURGO
MATRIMONIO DEL PRINCIPE EUGENIO CON AMALIA DI BAVIERA

Due furono i teatri della guerra della TERZA COALIZIONE: la Germania e l'Italia; le operazioni decisive furono quelle che si svolsero nel primo, delle quali in queste pagine dedicate solo alla Storia d'Italia, ci occupiamo marginalmente, e quando vengono concluse operazioni che hanno notevoli ripercussioni in Italia.
Gli Austriaci avevano sulla linea dell'Adige circa settantacinquemila uomini comandati dall'arciduca CARLO; cinquantacinquemila circa le avevano i francesi sotto il comando prima del JURDAN poi del MASSENA, e fra questi c'erano numerosi Italiani, e altri ancora militavano, distinguendosi per valore, sotto lo stesso Napoleone nei campi di Germania.

Dal 30 settembre al 17 ottobre del 1805 tacque il cannone sul fronte dell'Adige, essendo stato concluso un armistizio tra l'arciduca Carlo e il Massena: ma il 18 le ostilità furono improvvisamente riprese dal Massena che ordinò alle sue truppe di passar l'Adige in tre punti. Il maggiore sforzo doveva esser fatto al centro, contro quel quartiere di Verona, detto Veronetta, che era situato alla sinistra del fiume ed era in mano del nemico; ma, per impedire che dal Trentino giungessero soccorsi agli Austriaci, il Massena ordinò al generale Serras, il quale comandava l'ala sinistra, di far passare l'Adige preso Pescatina a un piccolo reparto, e, per ingannare l'arciduca sulle sue intenzioni, ordinò al generale Verdier, comandante l'ala destra, di mandare oltre il fiume, tra Persago e Roverchiano un distaccamento, il quale, spintosi fino e Cotogna e attirata l'attenzione dell'Arciduca che gli mosse contro con tre colonne di fanteria, si ritirò sui punti di partenze.
L'azione contro Veronetta cominciò all'alba del 18. Fatto saltare un muro che divideva il ponte di Castelvecchio segnando il confine tra i due stati, i generali Chasseloup e Lacombe Saint-Michel passarono con poche truppe sulla riva opposta, o subito dopo li seguì la divisione Gardanne, la quale, vinta l'ostinata resistenza austriaca, si impadronì del borgo di S. Giorgio.

Nel pomeriggio il generale Vukassewich tentò di riprender al nemico la posizione. Nell'aspro combattimento che s'ingaggiò, dapprima il sopravvento fu degli Austriaci, ma, sopraggiunta a sostegno della divisione Gardanne quella del Duhesme, i Francesi respinsero il nemico oltre S. Rocco, giunsero fino all'imbocco del vallone di S. Leonardo, quindi, sopravvenuta la sera, si ritirarono per misura di prudenza sulla destra dell'Adige lasciando sulla sinistra a protezione della testa di ponte tre battaglioni. In questa battaglia i Francesi perdettero trecentoventitrè uomini, gli Austriaci ebbero un migliaio tra morti e feriti, ottocento prigionieri e lasciarono in mano al nemico otto cannoni, numerosi carri e gran provviste di viveri e munizioni.
Seguì una diecina di giorni di inattività che da una parte e dall'altra furono impiegati in ricognizioni e nel fortificare i punti più sensibili. Giungevano intanto notizie dei progressi francesi in Germania; Ulma aveva capitolato e l'arciduca Carlo, ricevuto ordine di ritirarsi, cominciò a riunire le sue truppe intorno alle fortificazioni di Caldiero. Contemporaneamente il Massena si preparava a riprendere l'offensiva e a ripassare per la seconda volta l'Adige.

La mattina del 29 ottobre, le divisioni Gardanne e Duhesme passarono il ponte di Cestelvecchio; la prima puntò su S. Leonardo e, infranta la resistenza austriaca, se ne impadronì; la seconda girò a sinistre le colline che dominano Veronetta, e respingendo il nemico, sbucò in val Pantera. A presidiare Veronetta era rimasto il colonnello Legisfeld. Questi, pregato dalla cittadinanza, che temeva di esser bombardata, e visto che era inutile resistere, abbandonò in fretta la città e raggiunse a Caldiero il grosso dell'esercito austriaco.
A mezzogiorno le divisioni Espagne, Partouneaux, Molitor e la riserva di cavalleria comandata dal generale Mermet uscivano dalla porta di Vicenza e si portavano sulla via di S. Michele. Questo villaggio fu preso alle quattro del pomeriggio dal capo squadrone Martigue. Poco dopo la divisione Molitor respingeva da S. Giacomo il reggimento Lindenau, espugnava Ca dell'Ara e faceva ripiegare gli Austriaci verso Ilasi, il Fridolsheim entrava a viva forza a Calderino, ne scacciava dopo accanito combattimento il nemico e lo inseguiva fin presso Caldiero. Nei combattimenti di quel giorno gli Austriaci perdettero ottocento tra morti e feriti, più di mille prigionieri e quattro cannoni, i Francesi ebbero mezzo migliaio d'uomini fuori combattimento e circa centocinquanta prigionieri.

Durante la notte il Massena impartì gli ordini per la battaglia che doveva esser combattuta il giorno dopo con lo scopo di far sgombrare l'Arciduca Carlo della linea S. Pietro Promegna-Caldiero-Gambione.
Il Serras, a sinistra, doveva guardare gli sbocchi di Monte Baldo e fronteggiare le truppe austriache del Rosenberg appostate presso Corona; a destra il Verdier doveva passar l'Adige a Persago, marciare su Villanova, dove l'arciduca teneva una riserva di ventiquattro battaglioni e la cavalleria, aggirare il nemico e tagliargli la ritirata; al centro le divisioni Gardanne, Molitor, Duhesme, Partouneaux ed Espagne dovevano attaccare di fronte le posizioni avversarie. Il collegamento tra il centro e la destra doveva esser mantenuto dal generale Mermet.

La mattina del 30 ottobre, le cinque divisioni del centro francese occupavano le seguenti posizioni: due, la Portouneaux e l'Espagne erano di riserva nelle seconde linee; la Duhesme in Val Pantena con il compito operando a destra di cercare di mantenere il contatto con il Verdier e nello stesso tempo occupare Calderino, Gambione e Caldiero; la Gardanne stava a sinistra della Duhesme, davanti a Vago, ed aveva il compito di avanzare per la via di Vicenza e riunirsi verso Villanova con il Verdier; la Molitor, a sinistra della Gardanne, si trovava di fronte ai villaggi di Groppa e Ca dell'Ara, che doveva occupare per poi puntare su Colognola e impadronirsene.
L'avanzata del centro e della destra francese cominciò all'alba, ma fino alle undici a causa della fitta nebbia non si svolsero che azioni di avamposti. L'esito della giornata doveva in gran parte dipendere dalla mossa aggirante del Verdier; ma questa fallì completamente. Il generale Brun, che con una parte della divisione Verdier aveva passato l'Adige a Zevio, mentre discendeva il fiume per proteggere la costruzione di un ponte a Persago, fu attaccato dal generale Nordmann e, ferito gravemente, fu costretto a ritirarsi. Non essendole stato possibile passare l'Adige, la divisione Verdier rimase inoperosa sulla destra sotto la minaccia di una colonna austriaca del generale Vincent, la quale, passato il fiume a Bonavigo, si era spinta fino a Isola Porcarizza.

La divisione Duhesme potè senza grandi difficoltà occupare Calderino e Gambione, quindi assalì e dopo vivo combattimento prese il villaggio di Caldiero, costringendo il principe di Reuss, che lo difendeva, a ritirarsi dietro le fortificazioni di Monte Rocca. Caldiero però fu tenuta per breve tempo dai Francesi, perchè il Reuss, aiutato dal Bellegarde, riconquistò il villaggio inseguendo i nemici fin sotto Calderino. Ma neppur lui riuscì a sostenersi a lungo: i Francesi, riorganizzati sotto il generale Herbin, respinsero ancora sul Monte Rocca il Reuss, il quale, ricevuti rinforzi dall'Arciduca, attaccò violentemente Gambione.

Fu questo il momento più critico per la divisione del Duhesme, ma anche il più glorioso. Caldiero era stato di nuovo abbandonato e a Calderino e a Gambione rimanevano soltanto il maggiore Hugo e il generale Goullus con un reggimento ciascuno. Gli Austriaci assalirono Calderino, ma il Goullus non si lasciò intimorire, sostenne lo scontro e riuscì anzi a respingere il nemico e a dar tempo al Duhesme di ricevere altre truppe (fra cui un reggimento italiano), di sferrare il contrattacco e di ributtare indietro il principe di Reuss verso le fortificazioni di Monte Rocca. La sera pose fine al combattimento. Caldiero, che era stata per la terza volta, ripresa, fu per prudenza sgombrata dal Duhesme, il quale si limitò a mantenere l'occupazione di Calderino e Gambione.

Difficoltà non minori dovettero sostenere le divisioni Gardanne e Molitor, le quali al termine della giornata si ritrovarono con le baionette austriache alle reni. La Gardanne, alle ore 11, si impegnò decisa, davanti a Contra e nella via tra Stra e Calderino, con le truppe del Bellegarde sostenute dai reggimenti dell'arciduca Ferdinando e del Jellacich. Occupata Stra e rinforzata da alcuni battaglioni delle divisioni di riserva, la Gardanne si gettò sulla via di Villanova e dovette sostenere una strenua lotta contro il reggimento Esterhazy, i granatieri di Lippa, gli Usseri di Kienmayer e di Stipsitz e i cavalleggeri dell'Imperatore.

Il combattimento fino allora era come finale esito molto incerto, quando a farlo volgere in favore degli Austriaci giunse il corpo del Volgesang; ma i Francesi, che avevano un po' piegato, riuscirono con uno sforzo disperato a riguadagnare il terreno perduto, occuparono S. Mattia e sarebbero andati anche oltre se non fosse entrato nell'azione con truppe fresche lo stesso arciduca Carlo com il nipote MASSIMILIANO, con il conte di ARGENTAU e il principe di HOHENLOHE-BESTENSTEIN.
Sopraffatti dal numero, i Francesi del Duhesme si ritirarono in disordine verso Contra, lasciando a Stra la retroguardia. La divisione Molitor, occupati i villaggi di Groppa e Ca dell'Ara, si mise verso mezzogiorno in marcia, puntando con il centro su Colognola, fiancheggiata a sinistra dal generale Launay e a destra dal generale Valory. Quest'ultimo, assalito da un corpo del Bellegarde, fu staccato dal Molitor, il quale, respinto un attacco austriaco, giunse, inseguendo il nemico, fino a Colognola Bassa. Rimaneva da conquistare Colognola Alta, e il Molitor, sostenuto dal Launay, assalì vigorosamente la posizione. In breve la lotta fu furiosa, ma i Francesi, malgrado il loro valore, non riuscirono ad avanzare di fronte all'eroica resistenza del feldmaresciallo Simbschen, anzi, quando giunse in suo sostegno un corpo inviato dall'Arciduca, dovettero abbandonare in fretta il campo e, inseguiti dal reggimento dell'Hohenlohe-Bestenstein e dagli usseri del Ggienmayer, ritornare alle posizioni di partenza.

Questa fu la battaglia di Caldiero, nella quale i Francesi persero tremila uomini secondo notizie di fonte francese ed ottomila secondo i calcoli degli Austriaci e questi ultimi cinquemila circa. Il Massena si attribuì la vittoria, ma non si può chiamar vincitore un esercito che ebbe la destra inchiodata sulle posizioni da cui doveva scattare, due divisioni respinte e inseguite ed una costretta, sia pur dalla prudenza, a ritirarsi dal luogo occupato dopo alterna vicenda.
Rimaneva ancora oltre l'Adige la divisione Verdier che dal Massena ricevette l'ordine di passare il fiume a Zeiro la mattina del 31 e congiungersi a quella del Duhesme. A contrastarle il passo venne anche questa volta il generale Nordmann. Respinto dai Francesi, riuscì a mantenersi saldamente a Chiavica del Cristo; essendo poi stato ferito, cedette il comando al generale COLLAREDO, il quale, chiamati i granatieri della riserva, respinse i Francesi. Anche il Verdier rimase ferito e dovette cedere il posto al generale Digonnet; alfine la divisione, ricevuti rinforzi dal Solignac, riuscì verso la fine del giorno, dopo avere respinti i ripetuti assalti del principe di Reuss, congiungersi al Duhesme.

L'Arciduca CARLO non aveva nessuna intenzione di rimanere a Caldiero e infatti, aveva mandato indietro i bagagli; ma voleva ritirarsi lentamente. Da quell'abile condottiero che era, cercava di disorientare il Massena con dei movimenti offensivi e faceva perciò manovrare il generale Vincent intorno ad Isola Porcorizza, il Rosenberg verso la divisione Serrar e il generale Hillinger in direzione di Veronetta. E riuscì nel suo intento. Il Massena difatti fu costretto a rinforzare il presidio di Veronetta e rimandò sulla destra dell'Adige la divisione Verdier: il grosso dell'esercito si schierò lungo il torrente Ilari collegato alla sinistra con il Serrar e appoggiato con la destra all'Adige.
Durante la notte del 1° al 2 novembre l'Arciduca Carlo abbandonò le sue posizioni ritirandosi sulla via di Vicenza; l'Hillinger invece, forse incaricato di proteggere la ritirata del grosso minacciando il centro francese, avanzò verso Veronetta. Fu questa una mossa imprudente: circondato dal nemico, si difese con bravura, ma, persa la speranza di salvarsi, dovette arrendersi al generale Charpentier (2 novembre). Gli ufficiali furono rinviati prigionieri sulla parola con armi, cavalli e bagagli, mentre migliaia di uomini che avevano tentato di difendersi, ben cinquemila di loro caddero in mano dei Francesi.

Intanto l'arciduca si ritirava su Vicenza, protetto dalla retroguardia del FRIMONT, il quale combattendo sempre, rallentava l'inseguimento del Massena. Alla sera del 2 novembre l'avanguardia francese comandata dal generale ESPAGNE entrava a Montebello, seguita a poca distanza dal MOLITOR; il giorno dopo, l'intero esercito francese marciava su Vicenza, dove l'Arciduca CARLO, abbandonandola il pomeriggio del 3, lasciava quattro battaglioni di granatieri al comando del generale Valgensang con il compito di trattenere più a lungo possibile il Massena.

Era appena partito l'Arciduca quando l'avanguardia francese giunse sotto le mura di Vicenza. Il generale Solignac intimò la resa e il Valgensang, per guadagnar tempo, rispose che avrebbe chiesto ordine in proposito al suo generalissimo. Scaduto il termine stabilito, fu dato l'assalto alla città; mentre i difensori, dalle mura, lanciavano scariche nutrite di fucileria contro i Francesi, il generale Lacombe-Saint-Michel faceva battere con le artiglierie la porta Castello, e il Molitor tentava di aggirare dal sud Vicenza; ma l'assalto fu respinto, né, con il sopraggiungere delle rimanenti truppe, l'assalto fu ripetuto essendo caduta la notte.
Ricevuto dall'Arciduca l'ordine di ritirarsi, con il favor delle tenebre il Volgensang abbandonò la città e all'alba del 4 i Francesi poterono entrare in Vicenza e continuare, poco dopo, l'inseguimento. Ma l'Arciduca aveva un buon vantaggio, e la retroguardia del Frimont era risoluta a rallentare la marcia del nemico. Questo a S. Pietro in Gu dovette sostenere un fiero scontro con gli Austriaci e quando il Massena riuscì a giungere sulla sponda destra della Brenta già l'Arciduca Carlo era sulla sinistra e il ponte distrutto.

Il 5 novembre tallonando gli austriaci, il Massena giunse a Castelfranco e quindi a Treviso; il 6 la divisione Verdier, comandata dal Digonnet, e quella del Pully puntarono da Vicenza su Padova; il 7 la divisione Serrar entrò a Bassano.

La ritirata degli Austriaci e l'avanzata dei Francesi continuò ininterrottamente.
Oltrepassato il Piave, l'Arciduca mandò con diciotto battaglioni e uno squadrone il Bellegarde a Venezia con l'incarico di affidar la difesa di Brondolo e Chioggia al Rosenberg, quindi passò il Tagliamento e lasciò tra Codroipo e il fiume, il Frimont, con la retroguardia e l'artiglieria leggera perché contrastasse l'avanzata del nemica.
Il 12 novembre i Francesi tentarono il passaggio a Valvasone, ma non vi riuscirono; giunto vero sera il Massena con il grosso, si stabilì di ritentare il giorno dopo; ma all'alba il Frimont non era più nelle sue posizioni, essendo partito durante la notte, e l'esercito francese riuscì a passare senza ostacoli il Tagliamento e continuare l'avanzata fin verso Palmanova.

Quel giorno stesso Napoleone entrava a Vienna.
Ma sia il MASSENA che il BONAPARTE, entrambi ignoravano il clamoroso successo, che il primo stava ottenendo e il secondo aveva già attenuto. A Vienna Napoleone pensava che il Massena fosse duramente impegnato a Verona (conoscendo la consistenza dell'esercito austriaco) , invece Massena era come lui quasi sulla soglia di Vienna.
Massena in poco più di dieci giorni aveva bruciato tutte le tappe, in Veneto, quasi sullo stesso percorso di Napoleone del 1797.
Ma proseguiamo con la sua battaglia in Italia. Tre giorni dopo Palmanova (giorno 15 novembre) il generale ESPAGNE, che comandava l'avanguardia, entrava a Gradisca e da qui proseguiva per Lucinico. Il 16 novembre i Francesi assalirono il Frimont, che aveva avuto l'incarico di difender Gorizia per dar tempo all'Arciduca Carlo di valicare con l'esercito l'Hazeberg; ma non riuscirono a cacciarlo dalle posizioni occupate. Le sgombrò e abbandonò Gorizia invece lui stesso la notte seguente.

Padrone di tutto il Veneto, il Massena - che ancora era all'oscuro degli avvenimenti di Germania - non ritenne opportuno di continuare l'inseguimento addentrandosi in un territorio montagnoso e abitato da una popolazione devota alla Casa d'Austria. Per prendere contatto con i marescialli NEY ed AUGERAU, Massena inviò alcuni reggimenti di dragoni verso le sorgenti del Tagliamento e dell'Isonzo e nella valle della Drava; e per impedire l'occupazione di Trieste da parte dei Russi, che si diceva avanzassero dalla Dalmazia, mandò il Serrar ad occupare quella città; quindi pensò a costituire una forte base d'operazione sull'Isonzo, ricostruendo i ponti distrutti dagli austriaci nella ritirata, armando e approvvigionando Palmanova, Gradisca e Osoppo e acquartierando l'esercito fra Udine e Gorizia e si diede a riorganizzare i nuovi governi nei territori occupati, mentre aspettava che gli giungessero notizie dalla Germania.

Ma anche notizie da Venezia. Al blocco di questa città si trovava la divisione VERDIER. Verso il 15 di novembre, risalendo la penisola, reduce dalla Puglia, si era aggiunto il corpo del GOUVION SAINT-CYR costituito dalla divisione Reynier, dalla divisione italiana Lechi e dalla riserva guidata dal generale italiano REYNIER: quindicimila uomini in tutto, che il Saint-Cyr, ricevuto dal Massena il comando del blocco, scaglionò tra Bovolenta e Mestre.

Si trovava da pochi giorni in queste posizioni quando il 23 novembre, gli giunse notizia che il principe di ROHAN con alcune migliaia di Austriaci, forzato il passo a Bolzano, per la Valsugana attraverso la Val Brenta era giunto a Bassano e l'intenzione era di assalire i Francesi che assediavano Venezia per poi penetrare in questa città. Senza perder tempo, il Saint-Cyr prese con sé la divisione Reynier e la riserva del Peyri, mosse incontro al Rohan e, dopo averlo avvistato la mattina del 24 a Castelfranco, senza nemmeno predisporre un piano offensivo, risoluto lo affrontò in un accanito combattimento e alla fine, dopo averlo intrappolato, lo costrinse ad arrendersi con ottomila uomini, dodici cannoni, sette bandiere, carri, cavalli e munizioni. Cioè una disfatta totale degli austriaci.

Nel frattempo - dove lo abbiamo lasciato- era ricominciata l'avanzata del Massena. Che, il 29 novembre, giunse con la sua avanguardia a Lubiana e vi pose il suo quartier generale. Il suo esercito con la sinistra si stendeva fino alla Drava, con la destra giungeva a Trieste. Il 6 dicembre Fiume cadeva nelle mani del generale SERRAS e il Massena, solo allora aveva notizia della grande vittoria di NAPOLEONE ad Austerlitz, che era stato il colpo di grazia per la terza coalizione.
L'8 dicembre un parlamentare austriaco gli recava l'annuncio della tregua, e tre giorni dopo, alcune lettere del Rerthier gli comunicavano gli ordini dell'Imperatore: l'esercito d'Italia doveva prendere il nome di ottavo corpo della "Grande Armé"; Fiume doveva essere restituita agli Austriaci; il principe Eugenio avrebbe assunto il comando militare delle province venete e provveduto al blocco di Venezia; il Gouvion Saint-Cyr, alla testa di trentamila uomini, doveva marciare attraverso lo Stato Pontificio sul Regno di Napoli.

Il 20 dicembre fu firmata la PACE dì PRESBURGO. L'Austria riconosceva quanto Napoleone aveva fatto in Italia, teneva per sé Trieste e Fiume e cedeva le sue province venete al vincitore per unirle al Regno d'Italia; inoltre acconsentiva che i duchi di Baviera e del Wurtenberg prendessero il titolo regio e al primo cedeva il Voralberg, il Tirolo, il Trentino, Passavia e Lindavia, al secondo una parte della Bresgovia e cinque città sul Danubio. Al duca di Baden furono dati l'Ortenall e la città di Costanza; l'ex-granduca di Toscana cedette all'Austria Salisburgo e Berchtolsgaden e ricevette dalla Baviera la città di Wiirzburg.

Il 30 dicembre Napoleone si recò a Monaco e qui, quattordici giorni dopo, fu celebrato il matrimonio tra il principe EUGENIO BEAUHARNAIS e la principessa AUGUSTA AMALIA, figlia del re Massimiliano. Gli sposi, lasciata Monaco, si recarono a Verona, quindi a Venezia e a Brescia e il 13 febbraio entravano, fra la gioia della cittadinanza, a Milano, dove qualche giorno dopo si seppe che Napoleone aveva proclamato il principe suo figlio adottivo e, in mancanza di propri eredi maschi, suo successore al trono del regno italico.

LA GUERRA CONTRO NAPOLI - FUGA DI MARIA CAROLINA
GIUSEPPE BONAPARTE ENTRA IN NAPOLI
SPEDIZIONE DEL GENERALE REYNIER IN CALABRIA
BATTAGLIA DI CAMPO TANESE
GIUSEPPE BONAPARTE RE DELLE DUE SICILIE

In un bollettino del 27 dicembre del 1805 Napoleone aveva sentenziato: "…La dinastia di Napoli ha finito di regnare, la sua esistenza è incompatibile con la pace dell'Europa e con l'onore della mia corona…". E il 28 aveva ordinato al Massena di partire per il mezzogiorno, unire le sue truppe a quelle del Gouvion Saint-Cyr, che già si trovavano nell'Italia centrale, assumere il comando della spedizione e invadere il regno di Napoli la cui corona l'aveva già destinata al fratello Giuseppe.
L'impresa non presentava alcuna difficoltà e n'era prova la paura della corte borbonica che faceva tutti gli sforzi possibili per placar l'ira dell'imperatore senza però riuscirvi. Un serio ostacolo potevano essere le truppe russe ed inglesi, ma quelle si erano ritirate nelle isole Jonie e queste nella Sicilia e il regno oramai non poteva contare che sulle sole proprie forze, poche in verità e non tali da rendere improbabile il successo dei Francesi.

Re FERDINANDO IV non aspettò che il nemico varcasse i confini; la sera del 23 gennaio del 1806 s'imbarcò sull' "Archimede" e fece vela verso Palermo (era la sua seconda fuga!). Rimase a Napoli il figlio 23enne Francesco; il padre partendo gli aveva affidato la reggenza, e sua madre la regina Maria Carolina. Questa, poiché erano fallite le speranze di commuovere Napoleone, incaricò i capi delle bande di ostacolare il più possibile l'invasione francese, ordinò al generale Damas di condurre l'esercito napoletano nelle Calabria, quindi anche lei si preparò a fuggire e a lasciare la capitale.

"…Tutte le cose più preziose che si trovavano nei palazzi reali, parecchi milioni dei Banchi e non poche artiglierie furono caricate sulle navi per essere trasportate in Sicilia; i processi della Giunta di Stato che si conservavano a Monte Oliveto furono bruciati e il 10 febbraio fu nominato un Consiglio di Reggenza, composto dal principe di Canosa, da MICHELANGELO CIANCIULLI e dal principe d'Aragona don DIEGO NASELLI. Il giorno dopo, ricevuta la benedizione nella Cappella reale, Maria Carolina sali a bordo della medesima nave che aveva portato il marito a Palermo. Congedandosi col principe ereditario e con l'altro figlio Leopoldo, che dovevano raggiungere l'esercito nella Calabria, disse a quest'ultimo: "…Voi partirete per la Calabria, ma sappiate che non andrete a divertirvi. Occorre difendere i nostri Stati perché ben presto noi potremmo essere dei mendicanti. Del resto le nostre disgrazie non sono irrimediabili. La nostra situazione può cambiare da un momento all'altro. Vi sono tanti accidenti fortunati ! Una tazza di veleno, un colpo di pugnale. Chi sa mai! …". Possiamo immaginare a chi pensasse!

"…La nave giunse il 16 gennaio a Palermo, dopo una difficile traversata che contribuì al malumore. La Regina aveva la morte nell'anima, la rabbia nel cuore, ma era più che mai risoluta a difendere ad ogni costo il patrimonio dei figli e la propria dignità davanti alla potenza dell' "avventuriero corso". Maria Carolina non doveva più rivedere Napoli, il suo nome fu travolto da accuse e da calunnie sempre più gravi; ma la storia, pur tenendosi lontana dalle artificiose riabilitazioni, deve ricordare di lei che, donna, conservò intatto pur fra molteplici amori, il più tenero affetto per figli e, regina, fornì prova di doti di energia e di carattere che mancarono invece a troppi di coloro i quali più da vicino la circondavano, compreso lo stesso marito. Alla testa di un grande Stato, avrebbe potuto essere Caterina II di Russia, mentre a Napoli fu soltanto Maria Carolina, e perciò la storia, indulgente con i forti, fu con lei implacabilmente severa: ma non bisogna tacere che la slealtà politica, in qualsiasi corte d'Europa, aveva una tradizione secolare tutt'altro che interrotta dalla Francia napoleonica, nonostante la sua grande potenza militare, e che degli errori e delle colpe allora commesse a Napoli non solo la Regina fu responsabile…".

"…Ferdinando IV, che troppo spesso si vuole considerare come uomo privo di volontà, era invece capace di far sentire e fece sentire di certo, nelle questioni più importanti, la sua sovrana parola; onde a lui deve attribuirsi una parte di quella responsabilità che interamente si danno invece a Maria Carolina, mentre un'altra parte spetta senza dubbio ai consiglieri e ai ministri della Corona, i quali, negli antichi regimi, erano generalmente ascoltati e seguiti molto di più di quanto non si creda (Lemmi)…".

Il generale Massena il 14 gennaio del 1806 giunse a Spoleto e vi pose il suo quartier generale. L'esercito messo sotto il suo comando contava circa quarantamila uomini; lo divise in tre corpi, uno ai suoi ordini diretti, il secondo sotto il REYNER, il terzo, composto esclusivamente di truppe italiane, sotto il LECHI. Quest'ultimo per Rieti ed Aquila, con facilità vinse la debole resistenza di semplici contadini armati, e il 13 febbraio giunse a Pescara. Il Reynier partì l'8 febbraio; passò per Velletri e Fondi, chiese ma non ottenne la capitolazione di Gaeta, difesa da centotrenta cannoni e da seimila soldati comandati dal principe d'ASSIA-PHILIPPSTHAL, e giunse a Capua il 13 febbraio, poco dopo l'arrivo del corpo del Massena.
Capua, che aveva una guarnigione di duemilacinquecento uomini sotto il comando del GOLENGO e del principe DELLA CATTOLICA, parve che volesse resistere, ma il giorno 13 febbraio giunse l'ordine da Napoli di aprire le porte ai Francesi e sulla città sventolò il tricolore. Quell'ordine era la conseguenza di un accordo intervenuto a Teano tra GIUSEPPE BONAPARTE da un lato e il duca di CAMPOCHIARO e il marchese MALASPINA dall'altro, ma firmato dalla Reggenza, la quale cedeva i forti di Gaeta, di Capua, di Pescara e di Napoli.

Il 14 febbraio, per le vie di Capodichino e di Foria, le divisioni Partouneaux e Duhesme entrarono a Napoli; il giorno dopo fece il suo ingresso solenne nella capitale Giuseppe Bonaparte, che offrì a S. Gennaro una collana di diamanti, ascoltò la Messa celebrata dal cardinale RUFFO di Scilla, e subito fece riarmare e rinforzare i forti e impartì le opportune disposizioni affinché le "bande" fossero disperse e l'esercito borbonico cacciato dalla Calabria.
Il 20 febbraio l'esercito francese fu diviso in tre corpi: del primo, composto delle divisioni Partouneaux, Gardanne, Espagne e Mermet, assunse il comando il MASSENA; il secondo, di cui facevano parte la brigata Compère, la divisione Verdier e una riserva del generale Franceschi-Delorme, fu messa agli ordini del REYNIER; e al DUHESME fu dato il comando del terzo costituito delle divisioni italiane del Lechi e del Dombrowsky.

L'incarico di operare contro l'esercito borbonico del Damas, fu affidato al Reynier, con il quale doveva collaborare il Duhesme scacciando dalla Puglia il corpo nemico comandato dal Maresciallo Rosenheim. Le operazioni cominciarono subito: il 1° di marzo, l'avanguardia del Reynier, comandata dal Compère, partì da Salerno e, sebbene la stagione fosse piovosa e il terreno montuoso ed aspro, avanzò rapidamente e non tardò ad entrare in contatto con il nemico.
I Francesi, disperse poche centinaia d'insorti al ponte di Campestrino, il 6 marzo disfecero duemila uomini del colonnello Sciarpa, che custodivano il passo del Noce, ed entrarono quindi a Lagonegro, dove si abbandonarono a gravi violenze; quindi, in mezzo a grandi difficoltà perché costretti a marciare sotto la pioggia e la neve e per sentieri impraticabili, ma senza molestie dal nemico, procedettero verso Campo Tanese, dove il generale Damas aveva schierato il suo esercito.

Il 9 marzo, mentre nevicava, il Reynier diede l'assalto alle posizioni borboniche di Campo Tànese. Non fu molta la resistenza dell'esercito di Ferdinando IV. Temendo di esser presi alle spalle e di vedersi chiusa l'unica via di ritirata verso Morano, i borbonici fuggirono, lasciando in potere del nemico due generali, lo Tschudy e il Ricci, centosette ufficiali, milleottocentosessantacinque soldati, centoquarantasei cavalli e quindici cannoni. Ottenuta facilmente la vittoria, i Francesi si posero ad inseguire i Napoletani, penetrarono a Morano, che fu saccheggiata e per la valle del Crati si diressero verso Cosenza dove giunsero il 12 marzo.

Il giorno stesso della battaglia di Campo Tanese, il generale Rosenheim, che aveva preso posizione sulla linea del Roseto, ripiegava su Cassano e Rossano; l'indomani il colonnello borbonico marchese Rodio con alcuni ufficiali, con il duca di Ceserano ed una trentina di dragoni era catturato sulle montagne di Pomarico da un reparto di truppe italiane comandate dal tenente STOCCHI, che apparteneva al corpo del Duhesme, il quale, inseguendo il Rosenheim, il 15 marzo giungeva a Cosenza e si riuniva al Reynier.

L'inseguimento continuò ma senza risultato: i principi reali Francesco e Leopoldo erano già fuggiti in Sicilia e il 20 marzo una cinquantina di navi, protette dalla flotta inglese, raccoglievano gli avanzi dell'esercito del Damas e lo trasportavano nell'isola. Dei diciottomila uomini, che ai primi di marzo aveva il comando, soltanto quattromila lo seguirono in Sicilia; gli altri o rimasero prigionieri dei Francesi dopo la battaglia dì Campo Danese, o disertando riuscirono a tornare alle loro case o si riunirono in piccole bande che più tardi ingrossate da nuovi elementi, tanto fastidio dovevano poi dare (e lo leggeremo nelle prossime puntate) alle truppe di GIUSEPPE BONAPARTE. Questi, il 30 marzo del 1806, con decreto imperiale, fu proclamato re della Due Sicilie, conservando il titolo di "Grande Elettore di Francia" e i diritti di successione al trono dell'impero; ma una parte del regno, l'isola, era in mano di Ferdinando IV custodita dalla flotta inglese, e su qualche fortezza della terraferma, come a Civitella del Tronto e a Gaeta, sventolava ancora la bandiera borbonica.


CATTARO e RAGUSA

Con il trattato di pace di Presburgo l'Austria aveva rinunciato a favore del regno italico anche la Dalmazia. Doveva recarsi ad occuparla alla testa di seimila uomini il generale MOLITOR, il quale giunse a Trieste il 31 gennaio del 1806 e subito dopo fu raggiunto dal generale LAURISTON, che, in qualità di commissario imperiale, era incaricato di ricevere dal GHISLERI, bolognese al servizio dell'Austria, la consegna delle città istriane e dalmatiche.
Se la consegna dell'Istria fu facile e sollecita, lenta e difficile fu quella della Dalmazia sia perché la presenza di navi da guerra anglo-russe impedì ai Francesi di prendere la via del mare, e quella di terra richiese maggior tempo, sia perché fu necessario indugiare qua e là per organizzare il governo militare e civile delle città consegnate e per aspettare che giungessero truppe di rinforzo.

L'ultima città dalmata da consegnare ai Francesi era Cattaro. Il Ghislieri, che aveva preceduto il Molitor, si trovava in questa città ed aspettava il generale francese, quando, il 5 marzo, comparve con alcune navi davanti le Bocche di Cattaro l'ammiraglio russo SINIAVIN, e occupate con l'aiuto dei Montenegrini alcune posizioni vicine, chiese agli Austriaci che gli consegnassero subito Castelnuovo, Budua e Cattaro.

Il Ghislieri andò a parlamentare con l'ammiraglio e poco dopo diede l'ordine al comando militare austriaco di consegnare le piazze ai Russi, i quali trasportarono i presidii austriaci a Fiume e a Trieste. Il Ghislieri, recatosi a Ragusa, informò del fatto il Molitor (7 marzo) scrivendogli che "…dopo avere rischiato la vita per procurare l'occupazione pacifica delle Bocche, aveva dovuto infine cedere alla violenza…".

Napoleone protestò a Vienna e dichiarò che non avrebbe consegnato il distretto di Braumau fino a che non gli fosse consegnata Cattaro. L'imperatore Francesco, per dare soddisfazione a Napoleone, fece arrestare e chiudere in una fortezza della Transilvania il Ghislieri e fu costretto in seguito a spedire davanti a Cattaro un corpo dell'esercito per cooperare con i Francesi all'occupazione della città tenuta dai Russi che si erano impadroniti nel frattempo anche delle isole di Lissa e di Curzola.
Il generale Molitor, che si trovava a Spalato, riceveva intanto l'ordine da Napoleone di mandare, non appena gli fossero giunti rinforzi, il Lauriston a Cattaro, facendogli attraversare il piccolo territorio della repubblica di Ragusa. Pertanto i giorni di questo antichissimo Stato erano ormai contati.
"…I Ragusei - scrive il Lemmi - da quasi tredici secoli godevano di fatto i benefici dell'indipendenza. Vassalli -così essi stessi dicevano- del Sultano a cui pagavano un tributo annuo diventato triennale dopo il 1667; amici dei barbareschi che gratificavano periodicamente di grosse somme per non aver molestie dei propri commerci nel Mediterraneo; in buone relazioni con l'Austria alla quale, quando sembrava loro utile, non sdegnavano di offrire denari ricordando persino la propria antica soggezione alla corona di S. Stefano; solleciti ogni anno d'inviar doni a Venezia, al re di Napoli, al Papa con il quale amavano vantarsi "baluardo avanzato del cristianesimo contro gli infedeli", potevano ben dirsi gli amici di tutto il mondo. La sigla di S. B. (S. Biagio) che si leggeva nei loro stendardi era perciò interpretata con scherno dagli Italiani Sette Bandiere.

Con tali mezzi la vecchia repubblica non soltanto era rimasta in vita, ma aveva anche potuto mettere insieme grandi ricchezze nei commerci che indisturbata esercitava da Barcellona a Costantinopoli. Sulla fine del secolo XVIII, con una popolazione di 35 mila abitanti, essa contava ben 393 navi mercantili: le entrate che il commercio procurava allo Stato e ai privati ascendevano a 700 mila fiorini: l'agricoltura era perfezionata e l'istruzione, anche superiore, assai diffusa, onde fra i Ragusei si annoverano scienziati e letterati celebri, e i più scrissero le loro opere in lingua italiana…".

Il governo della piccola repubblica fece di tutto per non far passare i Francesi dal territorio dello Stato; ma non ci riuscì. Il 23 maggio il generale Lauriston con circa duemila uomini (una compagnia era formata da artiglieri italiani) varcò la frontiera e il 27, entrato a Ragusa, fece metter presidi sulle mura, alle porte e nella fortezza di S. Lorenzo. Due giorni dopo, in un proclama trilingue, dichiarava che Napoleone aveva occupato Ragusa perché essa si era mostrata parziale verso i Russi, ma, appena questi se ne fossero andati dall'Albania e dalle isole ionie, egli avrebbe restituita alla repubblica l'indipendenza. Il governo non fu toccato e neppure la vecchia bandiera di S. Biagio fu rimossa, ma le fu messo accanto al tricolore francese.

Occupata Ragusa e non potendo marciare su Castelnuovo e Cattaro se prima non gli giungevano altre truppe dal Molitor, il Lauriston occupò Ragusa Vecchia ed altre località per riuscire a respingere un probabile assalto dei nemici. Questo, infatti, non tardò a verificarsi: i Montenegrini, stimolando alla rivolta i contadini di Canali, assalirono -il 17 giugno- i Francesi a Bergatto, dove si erano ritirati da Ragusa Vecchia e da Breno, e li sconfissero, decapitando il generale Delgorgue che era caduto ferito nelle loro mani.

I Francesi sconfitti si ritirarono a Ragusa e qui furono assediati dai Russo-Montenegrini per venti giorni, durante i quali tutto il territorio della piccola repubblica fu orribilmente devastato. Finalmente il 6 luglio giunse il Molitor, la cui presenza valse a fare allontanare il nemico.
Il Molitor rimase in Dalmazia fino all'ottobre essendo stato sostituito nel comando del corpo di spedizione dal generale Marmont; il Lauriston rimase più a lungo a Ragusa per seguire i negoziati tra il generale austriaco Bellegarde e i Russi circa l'occupazione di Cattaro; questi negoziati non approdarono a nulla (LA SECONDA FASE NELLA PROSSIMA PUNTATA) perché i Russi si ritirarono da Cattaro solo dopo la pace di Tilsit, nel 1807.
Ragusa non ottenne più l'indipendenza; Napoleone anzi ne fece un ducato che assegnò al generale Marmont. Altri dieci ducati furono istituiti contemporaneamente nelle province venete cedute dall'Austria (Cadore, Friuli, Belluno, Conegliano, Treviso, Feltre, Cassano, Vicenza, Padova, Rovigo), poi assegnate ai principali collaboratoti dell'Imperatore con una rendita annua di sessantamila lire.
Lasciamo

Dopo quanto sopra, le vicende nel Sud continuano con altri fasi drammatiche
con l'insurrezione calabrese, con le "bande" e con Fra Diavolo che tornano a far parlare di sé e anche in Toscana il Regno d'Etruria termina

andiamo dunque nel periodo anni dal 1806 al 1809 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI