ANNI 1809 - 1812

APOGEO DELL'IMPERO NAPOLEONICO
INGLESI DOMINANO L'ADRIATICO - GLI ITALIANI IN GUERRA


IL SENATOCONSULTO DEL 17 FEBBRAIO 1810 - ROMA AMMESSA ALL'IMPERO FRANCESE - PIO VII A SAVONA - LA COMMISSIONE ECCLESIASTICA - NAPOLEONE DIVORZIA DA GIUSEPPINA E SPOSA MARIA LUISA - LA QUESTIONE DELLA NOMINA DEI VESCOVI - IL CONCILIO DI PARIGI - II PAPA TRASFERITO A FONTAINEBLEAU - VICENDE DELLA DALMAZIA DAL 1808 AL 1812 - FINE DELLA REPUBBLICA DI RAGUSA; LE PROVINCIE ILLIRICHE; BATTAGLIA NAVALE DI LISSA; GLI INGLESI PADRONI DELL'ADRIATICO - GLI ITALIANI IN ISPAGNA: ASSEDIO DI GERONA, TORTOSA, TARRAGONA SAGUNTO E VALENZA

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NAPOLEONE E LA CHIESA - ROMA ANNESSA ALL'IMPERO FRANCESE
IL CONCILIO DI PARIGI - PIO VII A FONTAINEBLEAU


Il 16 novembre del 1809 una deputazione romana andava a Fontainebleau a rendere omaggio all'Imperatore, e il duca BRASCHI rivolgeva a Napoleone un ampolloso discorso: "…Sussiste ancora quel Campidoglio sul quale ascesero tanti illustri conquistatori: sussiste ed addita a voi, sire, gloriose vestigia e il seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi si rinverdì quel serto d'alloro che Nerva depose nel tempio di Giove. Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto nemico, come l'aquila di Traiano dalle offese del Germano, del Parto, dell'Armeno e del Dace il preservava…".

Nella risposta che diede, Napoleone promise di visitare Roma e soggiornarvi qualche tempo; colse l'occasione per ripetere che non voleva toccare la religione; ma volle esplicitamente dichiarare che il potere temporale dei Papi era finito per sempre: "….Je n'entends pas qu'il soit portè aucun changement a la religion de nos pères: fils aîné de l'Église, je ne veux point sortir de son sein. Jésus Cristh n'a point jugé nécessaire d'établir pour saint Pierre une souveraineté temporelle. Votre siège, le premier de la chrétienté, continuera à l'étre. Votre évéque est le chef spirituel de l'Eglise comme j'en suis l'Empereur. Je rends à Dieu ce qui est à Dieu età Cesar ce qui est à Cesar... "

A confermare queste dichiarazioni dell'Imperatore venne il senato consulto del 17 febbraio 1810, con le quale si proclamava il diritto imperiale su Roma e sul suo territorio, che fu diviso in due dipartimenti, del Tevere e del Trasimeno. Roma era proclamata città libera e in questa doveva risiedere un principe del sangue o un altro dignitario con la corte dell'Imperatore, il quale nel suo decimo anno di regno avrebbe ricevuto una nuova consacrazione in S. Pietro. L'erede del trono avrebbe portato il titolo di Re di Roma. Nel senato consulto inoltre si stabilì che i Papi, appena eletti, dovevano giurare rispetto alle quattro preposizioni gallicane del 1682, che erano estese a tutto l'impero.

Quando fu pubblicato il senatoconsulto, l'indomabile ottantenne Pontefice si trovava da sei mesi a Savona. Dapprima era stato alloggiato nella casa del conte Egidio Sansoni, sindaco della città, poi si era stabilito nel palazzo vescovile, dove in apparenza era libero, ricevendo pellegrini, che da ogni parte accorrevano a vederlo, e dando udienza, ma in realtà era prigioniero, perché sempre sorveglialo da spie, da funzionari e da soldati, pur non mancandogli gli agi, che l'imperatore in persona aveva ordinato che fosse circondato.

Dirigeva la casa civile del Pontefice il conte SALMATORIS di Cherasco, la militare il generale CESARE BERTHIER, l'alta sorveglianza dell'illustre ospite era affidata al principe BORGHESE, governatore, il quale la esercitava specialmente per mezzo del barone CHABROL, prefetto di Montenotte, cui era stato ordinato di " ....complaire S. S. dans toutes le choses qui sont de son ressort afin de lui procurer l'existence la plus heureuse et la plus distinguée donnant de l'eclat et méme de la magnificente à la partie de la répresentation... ". Le apparenti cure che l'Imperatore aveva prestabilito per il Papa avevano un duplice scopo: mostrare al mondo cattolico che il Capo della Chiesa era circondato del massimo rispetto, e tentare di addolcire l'animo di Pio VII e conciliarlo col suo maggior nemico. Ma se il primo scopo si poteva con relativa facilità conseguire, impossibile era raggiungere il secondo, perché Napoleone, se da un canto faceva colmare d'ipocrite cortesie il Papa, dall'altro lo inaspriva sempre più con atti che menomavano quella stessa autorità spirituale che l'Imperatore aveva dichiarato di riconoscere nel Pontefice.

Infatti, per trattare gli affari religiosi, Napoleone aveva costituito una commissione ecclesiastica composta del cardinale MAURY, vescovo di Montefiascone, del De BARRAL, arcivescovo di Tours, del CANAVERI, vescovo di Vercelli, del DUVOISIN, vescovo di Nantes, del FONTANA, generale dei Barnabiti, e dell'abate EMERY, alla quale commissione l'imperatore, nel gennaio del 1810, aveva proposto una serie di "questioni" intorno ai diritti imperiali di fronte alla Chiesa, ai rapporti dei vescovi con il Pontefice e alle proprie controversie con il Papa; inoltre aveva costituito una "Ufficialità diocesana metropolitana e primaziale", che concesse all'imperatore di divorziare da Giuseppina, per sposare MARIA LUISA, figlia dell'imperatore d'Austria.

Questo matrimonio, che avvenne il 2 aprile, alienò maggiormente da Napoleone l'animo di Pio VII, in primo luogo perché una causa che spettava al Pontefice era stata giudicata da un tribunale ecclesiastico non autorizzato e riconosciuto, in secondo luogo perché tredici cardinali, non avendo voluto partecipare alla cerimonia religiosa delle nozze imperiali, furono privati della pensione, furono costretti a lasciar la porpora (il che valse loro il nome di "cardinali neri": essi furono gli italiani CONSALVI, BRANCADORO, DI PIETRO, GABRIELLI, DELLA SOMAGLIA, MATTEI, OPIZZONI, PIGNATELLI, GALEFFI, LITTA, RUFFO, SCOTTI, SALUZZO ) e furono relegati in varie città della Francia.

C'era infine la questione della nomina dei vescovi. Circa venti ne aveva nominati Napoleone, ma Pio VII non voleva dare loro l'istituzione canonica. Tentò nel maggio il METTERNICH di riconciliare, per mezzo del Lebzeltern, Imperatore e Pontefice, ma non vi riuscì; il tentativo fu ripetuto nel luglio, ma sempre con risultato negativo, dai cardinali SPINA e CASELLI. Allora Napoleone invitò i vescovi da lui nominati a prender possesso delle loro diocesi; però, avendo Pio VII spedito un Breve in cui dichiarava intrusi i nuovi eletti, questi trovarono delle opposizioni da parte del clero della diocesi loro assegnate, opposizioni che furono vinte con arresti e deportazioni. Più vivaci furono le opposizioni degli ecclesiastici dell'ex-Stato Romano al giuramento di fedeltà, ma non meno energici furono i provvedimenti di Napoleone, che soppresse venti vescovadi, deportandone in Francia i titolari, e relegò nell'Italia settentrionale parecchie centinaia di parroci.

Dopo il breve incontro i vescovi nominati da Napoleone, Pio VII fu trattato con molto rigore e senza consueti segni di onore; gli furono cambiati i domestici, non gli fu lasciata alcuna persona di fiducia, fu sottoposto alla sorveglianza più rigida e gli furono perfino tolti i libri e l'occorrente per scrivere. Intanto, scrive il Lemmi: "…. Napoleone nulla trascurava per stringere intorno a sé la Chiesa, separandola sempre più dal Papa. Il 6 gennaio 1811, in una solenne udienza, il card. Maury lesse un indirizzo con il quale, commemorate le quattro proposizioni gallicane del 1682, affermava l'autorità dei capitoli ad eleggere i vescovi nominati dal sovrano. In tal modo il Pontefice era messo completamente in disparte ! Tale indirizzo del clero di Parigi fu tuttavia approvato non solo da tutti i capitoli di Francia, ma anche da tutti o quassi quelli del Regno d'Italia: e questo forse avvenne non tanto per paura di rappresaglie da parte del governo, quanto per il prestigio straordinario che allora godeva l'Imperatore. Davanti a lui tutte le opposizioni avevano ceduto: dominatore dell'Europa, vincitore dei partiti politici che a gara lo esaltavano, egli aveva ai suoi piedi tutte le Chiese, la cattolica non meno dell'ebraica e della protestante, e ormai sperava di sottomettere anche il Papa..."

Il 5 marzo 1811, la Commissione ecclesiastica, da lui interrogata, espresse il parere che, allorché. fossero disgraziatamente rotte le comunicazioni fra il Papa e i fedeli, i vescovi potessero dare le solite dispense concesse dalla S. Sede. La Chiesa di Francia poteva provvedere da sé alla propria conservazione, facendo a meno dell'investitura pontificia dei vescovi. Proponevano un concilio nazionale e le deliberazioni uscite da questo, ratificate dall'Imperatore, si dovevano presentare all'approvazione del Papa. Se questi si rifiutava di sanzionarle, di rompere i vincoli con la S. Sede.

Napoleone fu assai soddisfatto di questa risposta; ma egli non era re di Francia, era l'Imperatore, e perciò avrebbe preferito un concilio ecumenico canonicamente raccolto dal Papa. Infatti, non voleva diventare il capo della Chiesa francese, bensì essere l'arbitro di tutta intera la Chiesa cattolica. Mandò allora a Savona un arcivescovo e due vescovi con un indirizzo firmato da tutto l'alto clero residente a Parigi (maggio 1811). "… Pio VII, assediato e insidiato da ogni parte, finì con il fare qualche concessione, soprattutto per la paura che dal concilio uscissero, insieme con lo scisma dei mali maggiori per la Chiesa...".

Pertanto Pio VII prometteva di dare l'istituzione ai vescovi nominati secondo le forme del Concordato, il quale era esteso a Parma e alla Toscana, e inoltre dichiarava che, se dopo sei mesi non avesse ancora concesso le bolle d'investitura agli ecclesiastici -quelli scelti dall'Imperatore e riconosciuti personalmente degni- il metropolitano della Chiesa vacante o, mancando questo, il vescovo più anziano della provincia sarebbe autorizzato a dar lui le bolle medesime in "nome del papa".

Queste ultime parole miravano a salvare il principio della supremazia pontificia almeno sulla Chiesa, ma nel fatto il Papa rinunciava ad ogni sua autorità, dal momento che, né sceglieva i vescovi, né poteva negare loro l'investitura. L'importanza di simili concessioni non sfuggì però a Pio VII, il quale dichiarava di essere indotto a fare questo passo " nella speranza soltanto che gli hanno fatto concepire le conferenze avute coi vescovi deputati, che cioè esse preparerebbero le vie agli accomodamenti che ristabiliscano l'ordine e la pace della Chiesa e che restituiscano alla S. Sede la libertà, l'indipendenza e la dignità che a lei conviene ".

Questa riserva naturalmente non piacque a Napoleone, tanto più che Pio VII, timoroso di aver compromesso gl'interessi supremi della Chiesa, andava ripetendo in alcune lettere al card. Fesch che le concessioni fatte sulla nomina dei vescovi s'intendevano nulle se l'Imperatore non restituiva al Papa, i suoi Stati e la sua libertà.
Perciò il Concilio, che era stato convocato con lettera del 25 aprile, si raccolse ugualmente (17 giugno). Napoleone voleva che Pio VII capitolasse senza condizioni, sottomettendosi nel medesimo tempo all'autorità imperiale e a quella del Concilio …" (Lemmi) .

Novantacinque vescovi parteciparono al concilio di Parigi, e furono anche presenti, come commissari imperiali, BIGOT di PRÉAMENEAU, ministro dei culti, e il MARESCALCHI, ministro del Regno d'Italia, i quali, fin dall'inizio, riuscirono a capire come i convenuti non erano per nulla disposti ad accettar senza discutere tutto ciò che voleva l'imperatore. All'approvazione del concilio fu dai commissari imperiali proposto un decreto, il quale stabiliva che le nomine dei vescovi dovevano farsi secondo le forme del Concordato e che l'istituzione canonica, se il Pontefice non la concedeva entro sei mesi, doveva esser data dal metropolita. Come si vede, erano le concessioni verbali fatte da Pio VII, però non si faceva parola della condizione voluta dal Papa che cioè in suo nome i metropoliti avrebbero data l'investitura. Il concilio, a maggioranza, rifiutò di approvare il decreto senza l'autorizzazione scritta del Pontefice, e Napoleone ne rimase così indignato che ordinò l'arresto di tre vescovi e lo scioglimento del Concilio (12 luglio).

Ma ciò che l'imperatore non aveva potuto ottenere dal concilio l'ottennero i ministri del culto dai singoli membri dello stesso, i quali posero la loro firma al decreto, confermando la verità di quanto il cardinal Maury aveva detto, che "il vino non buono in botte riusciva meglio in bottiglie". Dopo di ciò il concilio fu convocato (3 agosto), il decreto fu nuovamente proposto all'approvazione e di ottanta vescovi presenti soltanto dieci votarono contro.

Una deputazione, fra cui era il cardinale FABRIZIO RUFFO, si recò subito a Savona e indusse Pio VII ad approvare con qualche lieve modificazione il decreto; ma il Pontefice, dietro consiglio del cardinale SPINA, per non riconoscere la legittimità del Concilio ed affermare di fronte ad esso la sua superiorità, diede l'approvazione sotto forma di Breve indirizzato ai vescovi riuniti a Parigi e nello stesso aggiunse le parole in nome del Papa a quell'articolo con il quale si concedeva ai metropoliti di dare l'investitura.

Dopo il concilio di Parigi Pio VII continuò a rimanere a Savona, segregato e sorvegliato come prima, fino a quando Napoleone, sia per timore che riuscisse a fuggire con l'aiuto degli Inglesi, sia per poterlo meglio piegare alla sua volontà, ordinò che fosse condotto a Fointainebleau nella massima segretezza. La notte dall' 8 al 9 giugno del 1812 fu fatto travestire da prete e con la scorta di un cameriere, del medico Porta e del capitano Lagorse, per Novi, Alessandria e Susa, giunse il 12 al Moncenisio. Qui dovette fermarsi tre giorni perché ammalato (non dimentichiamo che ha 72 anni!) e fu richiesta l'opera di un chirurgo di LANSLEBOURG, un certo CLAROZ, il quale, quando la sera del 15 il Pontefice si rimise in viaggio, lo accompagnò fino a Fontainebleau, dove il 19 giugno Pio VII giunse, in modo alquanto diverso da quello in cui vi era arrivato otto anni prima.
Dopo qualche giorno doveva avere inizio la campagna di Russia.
(non dimentichiamo di leggere anche il famoso documento della ritrattazione di Pio VII, scomparso dagli archivi francesi, ma riapparso nel 1962. Che ci indica la pressione psicologica in cui fu sottoposto il papa nel firmare queste concessioni.

VICENDE DELLA DALMAZIA E RAGUSA
LE PROVINCE ILLIRICHE; BATTAGLIA NAVALI DI LISSA
GLI INGLESI SONO I PADRONI DELL'ADRIATICO

Qui brevemente narriamo le vicende che dal 1808 al 1812 accaddero nella Dalmazia, sia perché quella regione, sebbene soggetta per iniquità della sorte sotto una barbara nazione era considerata italiana, sia perché a questa sorte e vicende non pochi furono gli italiani che parteciparono per strapparla invano al suo destino.

La repubblica di Ragusa, che di fatto aveva perso l'indipendenza fin dal maggio del 1806 con l'occupazione francese, finì di esistere come stato nel gennaio del 1808. Il 6 di quel mese, per ordine del generale Clauzel, la vecchia bandiera di S. Biagio fu sostituita con quella del Regno d'Italia e il 30 il governo e il senato, per decreto del Marmont, furono disciolti; nel marzo poi dello stesso anno il territorio dell'ex-repubblica fu diviso in tre dipartimenti (Ragusa, Stagno e le isole).

Durante la guerra del 1809 la Dalmazia, ad eccezione di alcune piazzeforti, andò perduta per i Francesi, ma con il trattato di Schònbrun la riebbero pacificamente e Napoleone, staccatala dal Regno d' Italia, la unì, insieme con l'Istria, Ragusa e Cattaro ai paesi marittimi strappati all'Austria (Carniola, Carinzia e Croazia), che furono aggregati all' impero con il nome di "Province Illiriche". Con decreto imperiale del 15 aprile 1811 le sette Province illiriche furono organizzate come dipartimenti francesi con un governatore, un intendente generale delle finanze e un commissario della giustizia.
La Dalmazia, nei grandiosi disegni napoleonici di politica orientale, aveva posto di primissimo piano, e con essa Corfù e le isole ionie. Gli Inglesi, che conosceva pienamente il valore strategico, politico, e commerciale di queste terre, si adoperarono in tutti i modi per contrastarne ai Francesi il possesso suscitando contro di loro le armi dei pascià di Scutari e di Gianina, incrociando continuamente nell'Adriatico e dello Ionio, assalendo e conquistando le isolette dell'uno e dell'altro mare, impedendo il rifornimento dei presidii nemici e tentando, spesso colpi di mano sulle coste dalmatiche. Agirono come gli antichi pirati. E se i Turchi desideravano imparare qualcosa sulla pirateria, gli inglesi "nuovi maestri" di questo mestiere, fornirono a loro tutti i segreti. Dal tempo del pirata W. Blake, fatto sire da Elisabetta proprio per le sue imprese piratesche, gli inglesi erano gli incontrastati "professori" in questo mestiere; venuto poi utile non solo per gli abbordaggi in mare, ma per colonizzare le terre di mezzo pianeta con gli sbarchi fatti proprio alla W. Blake (con il suo famoso giro (di rapine) del mondo - Quando si metteva davanti a un porto e mandava a dire: "pagatemi in oro tot, o altrimenti con i cannoni vi distruggo").

Il 2 ottobre del 1809 sir HUDSON LOWE sbarcò a Zante con truppe corse e inglesi fece ribellare gli abitanti e due giorni dopo costrinse la guarnigione francese ad arrendersi. Alla resa di Zante seguì quella (6-12 ottobre) di Cefalonia, Itaca e Cerigo. S. Maura, presidiata dai francesi del generale Camus, capitolò il 16 aprile del 1810.
Nell'Adriatico gli Inglesi avevano fatto base "volante" delle loro operazioni l'isola di LISSA, da dove, proprio aiutati e favoriti dalla marina britannica, audaci e numerosi corsari l'avevano trasformata in una base "fissa"; da qui, riforniti dagli inglesi introducevano le mercanzie nei paesi colpiti dal blocco o (su precise segnalazioni) assalivano le navi francesi e italiane che navigavano nell'Adriatico. Facevano insomma loro il "lavoro sporco". Rendendo così difficile la navigazione a tutti i velieri italiani e francesi.

Il 17 ottobre del 1810 partì da Ancona alla volta di Lissa una squadra franco-italiana comandata dal capitano DUBORDIEU, il quale conduceva con sé un battaglione del 3° leggero italiano sotto il colonnello GIFFLENGA. Il 22 la squadra inalberata la bandiera inglese, entrò nel porto di Lissa, dove quel giorno non si trovava nessuna nave da guerra britannica, e sbarcò le sue truppe.
Solo allora i corsari si accorsero dell'inganno, fuggirono nell'interno lasciando che il nemico saccheggiasse i magazzini e le navi mercantili che poi o distrussero o portarono via. Il danno recato agli inglesi fu enorme, il Dubordieu calcolando il suo bottino pare che superasse i venti milioni.
La squadra franco italiana non rimase però a Lissa; alla notizia che le navi inglesi si avvicinavano, levò l'ancora e fece vela per Ancona, dove poi da qui l'11 marzo del 1811 partì una nuova e più forte spedizione.

Erano dieci navi, con circa trecento cannoni e una buona consistenza di truppe da sbarco: tre fregate francesi, la Favorita, la Flora e la Danae rispettivamente agli ordini del DUBORDIEU, del PERIDIER e del VILLON, sei italiane, la fregata Corona al comando del capitano NICCOLÒ PASQUALIGO, le corvette Bellona e Carolina sotto il capitano GIUSEPPE DUODO e il luogotenente BARATOVICH, i bricks Principessa Augusta e Principessa Bologna, la sciabica Eugenio e l'avviso Lodola.

Le prime due navi che affrontarono la squadra di sir William Hoste furono - come abbiamo detto- appunto la Favorita, dopo andò verso la trappola Flora; la prima si slanciò sull'ammiraglia inglese con il proposito di abbordarla, ma alle prime scariche delle artiglierie nemiche, l'equipaggio fu decimato e l'impavido ma ingenuo DUBOURDIEU ucciso; la seconda che seguiva corse subito in aiuto e mosse contro l'Active, ma non ebbe miglior fortuna dell'altra: il capitano PERIDIER fu ferito e il suo luogotenente ucciso e l'equipaggio costretto ad arrendersi.

Liberatasi della Flora, l' Active andò a sostenere l' Amphion mentre giungeva nel frattempo la Bellona, che, affrontata il Cerberus, lo danneggiava gravemente, lo costringeva a prendere il largo, poi, attaccata coraggiosamente la Volage, addirittura la catturava. Ma questa, poco dopo (vedi sotto), approfittando della confusione che seguì, prendeva il largo e riparava a Lissa.
Infatti, la quarta nave che sopraggiungeva, la Danae del capitano VILLON, scambiò l'italiana Bellona per una nave inglese, gli apri il fuoco contro e la ridusse in condizioni tali da lasciarla in balia del nemico, nonostante il valore dell'equipaggio e del comandante DUODO.

Nello stesso tempo la Favorita, cui era stato ucciso anche il nuovo comandante La Meillerie, passava sotto il comando del colonnello italiano GIFLLENGA, il quale, non potendo sostenere oltre l'impari combattimento, si allontanò dalla battaglia e, consegnati i feriti alla Principessa di Bologna e all' Eugenio che si rifugiarono a Spalato, dove si misero in salvo anche la Principessa Augusta e la Lodola, approdò alla punta di Smocova, entrò nel porto di Lissa, catturò le navi che vi si trovavano, e per non lasciarla in mano agli inglesi incendiò la Favorita, che, molto danneggiata non poteva più riprendere il mare, poi riparò durante la notte con le truppe a Lesina.

La battaglia continuò accanita tra l'Amphion, lActive e il Cerberus da una parte e la Danae, la Corona e la Carolina dall'altra. Fra tutte si distinse la Corona, che resistette al fuoco nemico per parecchie ore, infine, essendo stato il PASQUALIGO ferito, ridotta la ciurma a un pugno di uomini ed essendosi sviluppato un incendio, fu costretta ad arrendersi. Il Villon con la Danae e la Carolina, cui si unì la Flora, fuggì a Lesina

Questa battaglia navale costò egli Inglesi un centinaio di morti, duecento feriti gravi e molti leggeri, tra cui lo stesso ammiraglio; ai Franco-Italiani costò duecento morti e cinquecento feriti; il Duodo, gravemente ferito, morì il giorno dopo; il Pasqualigo, ferito anche lui, ricevette lodi per il suo contegno dall'Hoste, che gli lasciò in dono la spada.

La vittoria di Lissa confermò agli inglesi il dominio dell'Adriatico. A Gravosa, dove il VILLON si era da Lesina riparato con la Danae, la Flora e la Carolina, fu posto il blocco, ma le tre navi, il 20 settembre del 1811, riuscirono a fuggire e l'8 ottobre giunsero a Trieste. La Flora poi veleggiò per Venezia, ma, sorpresa da una furiosa tempesta, il 25 novembre naufragò a Venezia quasi davanti a Malamocco.

Quattro giorni dopo tre fregate francesi, la Paolina, la Pomona e la Persiana, partite da Corfù, s'incontravano all'altezza di Lissa con una squadra inglese; le ultime due furono catturate, la prima, in cui si era sviluppato un incendio, riusciva a fuggire ma, giunta davanti Ancona, saltava in aria.
Il 28 gennaio del 1812 la guarnigione italo-croata di Lagosta, comandata dal capitano Barbieri, capitolò; il 4 febbraio si arrese quella di Curzola dopo tre giorni di resistenza e, qualche giorno dopo, il presidio di Meleda. II 20 febbraio il Rivoli, con settantaquattro cannoni ed ottocento uomini, appena costruito a Venezia per conto della Francia e comandato dal capitano Barrò, parti per Trieste scortato da un brick francese, il Mammalucco e da due italiani, il Mercurio e lo Jena.
Sorpreso da due vascelli inglesi, il Weazel e il Vittorioso, prima riuscì a fuggire, poi, il 23, presso Pirano d'Istria, fu costretto ad accettare battaglia. Il Mercurio, colpito, saltò in aria, gli altri due bricks riuscirono a fuggire a Trieste, il Rivoli, dopo quattro ore di combattimento si arrese. In questa battaglia gli Inglesi persero centosessanta uomini, i Francesi ebbero centoquarantaquattro morti, duecentosessanta feriti e quattrocentosessanta prigionieri.

Nell'aprile gli Inglesi occuparono stabilmente Lissa con truppe britanniche, svizzere, córse e calabresi e affidarono il comando della base a sir G. B. ROBERTSON, che vi costruì il forte di S. Giorgio; altre truppe siciliane, erano state mandate a Curzola, distaccamenti di marinai presidiarono le altre isolette, l'Adriatico fu corso in lungo e in largo da navi britanniche e le pochissime navi francesi, costrette a rimanere ferme nei porti; nell'uscire, c'era l'assoluta certezza di andare a picco in fondo al mare, inglesi e pirati non perdonavano.

GLI ITALIANI IN SPAGNA

Oltre che alla partecipazione dei marinai italiani in questa guerra sul loro Mare Adriatico, altri italiani partecipavano alle campagne di Spagna, uniti alle truppe napoleoniche.
Questa campagna fu quasi tutta composta da Italiani del Regno e da un reggimento di fanteria napoletana (la divisione Lechi), che, insieme con la Chabran e sotto il comando del generale Duhesme, entrò, il 9 febbraio del 1808, in Catalogna. Il 13 febbraio il Lechi entrò a Barcellona e il 29 s'impadronì della cittadella e del forte Montjouj.

Nella primavera tutta la Catalogna era in rivolta e i Franco-Italianì dovettero sostenere accesi combattimenti nei dintorni di Barcellona, lungo il fiume Llobregat. Allora il Duhesme pensò di ristabilire le sue comunicazioni con la Francia dalla parte di Figueras. Il 16 giugno gli Italiani espugnarono il forte di Mangat, il 17 occuparono la città di Macarò, il 18 il colonnello Zanardi occupò Colella, il 20 il Duhesme assalì Gerona ma ne fu respinto e trecento Italiani vi lasciarono la vita.

Il 25 il Duhesme fece ritorno a Barcellona, ma il 15 luglio, lasciatoci il Lech con tremila uomini, con il resto della divisione italiana mosse nuovamente contro Gerona. L'impresa non ebbe esito felice: un mese dopo, assalito da forze soverchianti, il Duhesme, dovette toglier l'assedio da Gerona e ritirarsi a Barcellona, che nel frattempo il Lechi aveva saputo difendere dalle minacce esterne ed interne.
Nel settembre scese nella Catalogna, per comandarvi tutte le truppe che vi operavano, il generale Gouvion Saint-Cyr, con le divisioni Pino, Souham e Chabot, la prima costituita tutta da Italiani del Regno sotto i generali Mazzucchelli, Fontana e Balabio, la seconda comprendente un battaglione pontificio e numerosi Genovesi e Toscani, la terza della forza di duemila uomini fra cui erano due battaglioni di fanti napoletani.

II 5 dicembre, dopo vari e vigorosi assalti, la divisione occupò la città di Rosas, il 7 6 sconfisse gli insorti a Llinas e il 17 entrò a Barcellona, quindi con le divisioni Chabran, Souham e Chabot e un battaglione di veliti della Lechi prese parte alla battaglia di Molino del Rey e si spinse a Villafranca sostenendo numerosi combattimenti fino a quando, nel marzo del 1809, fece ritorno a Barcellona.
Verso la metà d'aprile quasi tutte le truppe italiane si raccolsero intorno a Vigne per assicurare le comunicazioni tra Barcellona e Figueras, e il 22 maggio la divisione Lechi partì per Gerona, assediata dal Verdier, intorno alla quale nella seconda metà di giugno si ridusse l'intero corpo del Saint-Cyr.

La resistenza che opposero gli Spagnoli a Gerona fu lunga, ostinata, eroica; non meno eroico fu però il valore degli Italiani, i quali secondo espressione di Napoleone consacrata nel 26° bollettino, combattendo in Spagna, si coprirono di gloria. Sotto Gerona la divisione Lechi, ridotta a soli settecento uomini, per il rimpatrio del suo capo avvenuto verso la fine d'agosto, passò sotto il comando del generale Millossewitz, poi fu incorporata in quella del Pino, le cui truppe agli ordini del generale Fontana, avevano il 5 luglio espugnato il forte di Palamos.

Il 26 settembre i generali Pino e Mazzucchelli con soli tremila uomini assalirono e sconfissero sedicimila spagnoli, ne uccisero duemila, ne presero prigionieri mille e si impadronirono di tutti i viveri e le munizioni che la colonna nemica doveva introdurre in città. Verso la metà di ottobre il Saint-Cyr rientrò in Francia e venne ad assumere la direzione dell'assedio il maresciallo Augereau. Il 7 novembre il Pino espugnò la città di Hostalrich, importante piazza dalla quale il nemico riforniva Gerona. (questa, caduta Hostalrich, si venne a trovare in cattive condizioni e, poiché nell'agosto aveva perduto il forte di Mongini e nei primi di settembre il convento degli Angeli, non sperava di poter resistere a lungo. Difatti essendo stato il borgo della marina conquistato alla baionetta dagli Italiani del Balabio e il Ridotto espugnato dalle trappe del Mazzuchei il 10 dicembre Gerona si arrese.

Prima che si chiudesse il 1809 il Palombini sbaragliò le bande del Rovina e sconfisse presso Llangostera un corpo di cinquemila volontari spagnoli; nel gennaio del 1810 le truppe, che erano state comandate dal Lechi ed ora si trovavano agli ordini del Mazzucchelli, sostennero parecchi combattimenti presso Vigne, vicino Centellas e nel territorio di Hostalrich.

Il castello di questa città resisteva ancora. A dirigere l'assedio venne nel marzo il generale Severoli, che ebbe anche l'incarico di tenere aperte le comunicazioni fra i vari corpi disseminati nella regione. Il 3 maggio gli assediati tentarono una sortita d'accordo con quattromila insorti discesi dai monti di Orsavina; ma il tentativo non ebbe successo; in quel combattimento cadde mortalmente ferito il valorosissimo colonnello Cotti di Crema. Dieci giorni dopo, il forte di Hostalrich fu espugnato.

Il 20 maggio all'Augereau successe il Macdonald nel comando dell'esercito che operava nella Catalogna. Le truppe operanti nell'Aragona e nella Valenza erano comandato dal Suchet, il quale, espugnata Lerida nel maggio del 1810, pose l'assedio a Tortosa. Aveva con sé, fra gli altri soldati, duemilacinquecento Napoletani comandati dal Principe Pignatelli-Strongoli; più tardi, nel dicembre, ricevette la brigata Palombini, la quale partecipò all'ultima fase dell'assedio di Tortosa, che capitolò il 2 gennaio del 1811.
In questo mese il generale Pino, non andando d'accordo con il Macdonald, andò ad assumere il comando di Barcellona e cedette al generale Fontana la sua divisione, che il 15 a Figarola, tra Reuks e Valss, sostenne un fiero combattimento con gli Spagnoli in cui cadde ucciso il valoroso generale Eugenio Orsatelli. Dopo questa battaglia il Macdonald andò a Derida e quindi a Barcellona e gli Italiani che lo accompagnavano dovettero aprirsi il passo combattendo fra gli insorti.

Nell'aprile il Fontana cedette al generale Peyri il comando della divisione, la quale, passata nell'Aragona, prese parte all'assedio di Tarragona. La notte dal 29 al 30 maggio gli Italiani espugnarono il forte Olivo. In quest'azione morì il capitano OLETTA e fu ferito il poeta CERONI che poi cantò l'assedio in un poemetto intitolato La presa di Tarragona; si distinsero fra gli altri i maggiori Boccolari e Rossi, i capibattaglione Olivi e Marogna, i capitani Sacchini, Rossigni e Vacani, i tenenti Guaragnoni e Lucini e infine il caporale Domenico Bianchini del 6° granatieri, che fu promosso sergente e proposto per la legion d'onore; chiestogli il generale Suchet che cosa desiderasse, rispose "essere il primo all'assalto di Tarragona".

Il giorno dopo gli Spagnoli tentarono di riprendere il forte Olivo, ma furono respinti. La notte dal 16 al 17 giugno gli Italiani presero parte alla conquista del forte Principe in cui rimase ucciso il capitano Giovanni Salimbeni; il 21 il Palombini guidò l'assalto al forte della Marina, in cui si distinsero il colonnello Ricci e i capitani Beffa e Spinelli, che vi lasciò la vita.

L'assalto generale fu data la notte dal 28 al 29 giugno. Il sergente Bianchini domandò al Suchet di essere primo all'assalto, e ricevuti come compagni trenta granatieri, si slanciò arditamente verso la breccia. Tre volte fu ferito e tutte le volte continuò ad avanzare esortando gli altri a seguirlo, ma, colpito una quarta volta al petto da una palla, cadde ucciso.
Belle prove di valore diedero il colonnello Ordione, i capibattaglione Saint-Paul, Felici e Ceroni e il colonnello napoletano Florestano Pepe. I dragoni Napoleone capitanati dallo Schiazzetti si precipitarono a cavallo attraverso la breccia e provocarono la fuga della guarnigione, che però, caduta sotto il fuoco delle truppe dell'Olini, del Rossi e del Peri dovette arrendersi: erano ottomila soldati, quattrocento ufficiali, i tre generali Coxerten, Cabrer e Maciar, e il governatore Coutrera. L'assedio era durato cinquantaquattro giorni, durante i quali gli Spagnoli avevano perduto circa ventimila uomini tra morti, feriti e prigionieri; degli assedianti furono messi fuori combattimento quasi quattromilacinquecento uomini dei quali circa la metà Italiani.
Per il valore dimostrato a Tarragona il Palombini fu promosso al grado di generale di divisione e messo a comandare la divisione che era appartenuta al Peyri.
Di questa divisione il generale Foix ebbe a scrivere: "….Io non vidi mai soldati così avidi di batterci come gl'italiani della divisione Palombini. Non sono uomini in mezzo al fuoco ma dei leoni ruggenti…" e Napoleone ebbe a dire: "…Due miei marescialli (Macdonald e Suchet) si contendono la divisione Palombini; io la do a Suchet che ha maggiori cose operare; gli Italiani saranno un giorno i primi soldati d'Europa…".

Dopo la presa di Tarragona la divisione Palombini, durante il luglio e agosto fu impiegata in varie parti della Catalogna; nel settembre fu mandata nella Valena, mentre il Severoli, con le brigate Bertoletti e Mazzucchelli, dalla Navarra, dove aveva sostenuto parecchi combattimenti, scendeva nell'Aragona. Le truppe del Palombini presero parte all'assedio di Sagunto, al quale parteciparono anche i Napoletani della divisione Compère. Il Palombini la notte dal 28 al 29 settembre tentò di prender d'assalto la piazza che era difesa da tremila Spagnoli comandati dal generale italiano Andreani, ma fu respinto; il 30 però a Torrestorre sconfisse un corpo di. quattromila nemici che recavano soccorso alla città assediata. Il l° ottobre il capobattaglione Pompei alla testa dei Napoletani espugnò il forte di Oropesa; il 25 il generale Blacke con ventiduemila uomini diede battaglia sotto Sagunto, ma fu sconfitto, perdendo cinquemila soldati e venti cannoni. In questa giornata si distinsero il maggiore Rossi del 4° italiano, il caposquadrone S. Giorgio e il capitano Scarempi del 13° corazzieri e specialmente il colonnello Schiazzetti che con i suoi dragoni fece prodigi di valore. Il giorno dopo Sagunto capitolò.

Durante lo stesso mese d'ottobre la divisione Severoli nell'Aragona sosteneva vari combattimenti. A Calatayud il Favalelli resisteva per nove giorni con il suo battaglione nel convento della Mercede ad ottomila Spagnoli dell' Empecinado e del Durand e alla fine, ferito in una sanguinosa sortita, era costretto ad arrendersi il capobattaglione Ceccopieri, di Massa Carrara, circondato sulla via che da Ayerbe conduceva a Huesca da forze soverchianti, disponeva i suoi ottocento uomini in quadrato con i feriti in mezzo e marciava resistendo per dieci ore, finché, perduto un quarto dei suoi soldati ed essendo stato ferito alla testa, doveva arrendersi (17 ottobre).
Dopo questo combattimento, in cui perirono il capitano Provana e i tenenti Spineda e Brugnoli, la Brigata Bertoletti passò nella Navarra; quella del Mazzucchelli si mise in cammino verso la Castiglia ed, ebbe a sostenere, dal 26 ottobre al 7 novembre intensi combattimenti a Molina, a Daroca e ad Almunia, dove morirono i capipattaglione Sela e Solder e si distinsero il colonnello Arese con il 1° reggimento italiano e il capobattaglione Sercognano.

Nella seconda metà di dicembre del 1811 le divisioni Severoli e Palombini si trovavano sotto le di Valenza assediata. Il 26 dicembre avvenne la battaglia, di Milata, in cui ebbero la parte principale gli italiani, specie quelli del Palombini. Si distinsero il 5° e il 6° reggimento di linea; il colonnello Barbieri perì gloriosamente alla testa del suo reggimento.
Dopo questa battaglia Valenza resistette ancora quindici giorni: il 15 gennaio del 1812 capitolò con ventimila soldati, venti generali, quattrocento cannoni e trenta bandiere.
Caduta Valenza, la divisione Severoli andò all'assedio di Peniscola, che capitolò il 4 febbraio, quindi marciò alla volta di Lerida. Nell'aprile le sue forze furono frazionate intorno a Saragozza, ad Almunia, a Tarragona e a Valenza. La divisione Palombini lasciò Valenza a metà di febbraio; nei mesi di marzo, aprile e maggio combattè nei pressi di Calatayud dove gli Spagnoli catturarono ed uccisero il capobattaglione Favalelli e il capitano Albricci; nel giugno passò nella Navarra, quindi andò a Madrid, dove giunse il 21 luglio, vigilia della grave disfatta inflitta dal Wellington al Marmont presso Salamanca. Ventidue giorni dopo, il 12 agosto, gli Inglesi entravano a Madrid e la divisione Palombini ritornava a Valenza, da dove fu rimandata nuovamente verso la capitale che il 2 novembre ricadeva in potere di re Giuseppe.

Verso la fine del 1812 la divisione Palombini fu mandata nella regione di Bilbao, dove, tra il marzo e l'aprile dell'anno successivo, sostenne vari combattimenti; quindi andò all'assedio di Castro, che cadde l'11 maggio. Il generale Palombini, per ordine di Napoleone, tornò in Italia; la divisione invece rimase in Spagna, proteggendo la ritirata dei Francesi sconfitti il 21 giugno dal Wellington a Vittoria, e infine partecipò con il Soult ai vari tentativi di soccorrere Pamplona, S. Sebastiano e Santanna. La divisione Severoli con alcuni reparti di truppe napoletane combattè nella Valenza e nell'Aragona. Nel giugno del 1813 il generale Bertoletti resistette valorosamente a Tarragona, di cui aveva il governo, contro gli inglesi del generale Murray e, ricevuti aiuti, riuscì a rompere il blocco. Dopo la sconfitta francese del 21 giugno, la divisione Severoli fu impegnata a proteggere la ritirata del Suchet nella Catalogna, dove rimase sempre combattendo, fino all'ottobre.

Nel novembre del 1813 le due divisioni del Palombini e del Severoli e qualche migliaio di Napoletani si congiungevano a Montpellier e per Grénoble rientravano in Italia.

Siamo ora alla fatale avvventura in Russia
anche con molti italiani

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Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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