ANNI 1815 - 1818

LO STATO PONTIFICIO - LA CONGIURA DI MACERATA-

L'OPERA REAZIONARIA DEL CARDINAL RIVAROLA DISAPPROVATA DAL CARDINAL CONSALVI - IL MOTUPROPRIO DEL 6 LUGLIO 1816 - MALCONTENTO E TUMULTI NELLO STATO PONTIFICIO - PRIMI DISEGNI PER UN' INSURREZIONE - PAOLO MONTI E MICHELE MALLIO - TRADITORI E SPIE - LA CONGIURA DI MACERATA - IL PROCESSO CONTRO I COSPIRATORI - LE CONDANNE - IL GOVERNO DELLA TOSCANA E I CARBONARI DELLE ROMAGNE - GIUSEPPE VALTANCOLI
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L'OPERA REAZIONARIA DEL CARDINAL RIVAROLA
DISAPPROVATA DAL CARDINAL CONSALVI
IL MOTUPROPRIO DEL 6 LUGLIO 1816


Con il Congresso di Vienna, in tutti gli stati italiani ci fu il ritorno degli antichi sovrani, e buona parte di loro liquidarono gran parte dell'eredità riformista bonapartista. Cioè ritornarono in vigore gli antichi ordinamenti prerivoluzionari, all'assolutismo più retrivo.

In Italia, alcuni Stati -come vedremo- tornano indietro agli anni prima della Rivoluzione Francese, e lo fanno nel modo più intransigente con la più dura repressione; altri stati grazie all'opera di alcuni sovrani e soprattutto di alcuni loro ministri illuminati, la reazione non assume un volto poliziesco, anzi questi bravi ministri talvolta danno un certa continuità al riformismo, che oltre che essere napoleonico era il riformismo settecentesco, necessario al nuovo secolo che era appena iniziato, ma che già nei suoi primi anni, stava cambiando l'economia del pianeta e l'intera società con delle trasformazioni epocali; il cambiamento non interessò solo le istituzioni ma anche i costumi, la mentalità collettiva, i comportamenti quotidiani e sociali di uomini e donne.
A Napoli c'era LUIGI DE' MEDICI, in Toscana VITTORIO FOSSOMBRONE, a Parma ADAM NEIPPERG (di loro parleremo in altri Riassunti) infine c'era a Roma allo Stato pontificio il cardinale ERCOLE CONSALVI.

Consalvi era un uomo molto intelligente, e oltre che religioso era un grande politico, con una brillante carriera alle spalle nella curia romana. Nel conclave di Venezia del 1800, fu uno degli artefici dell'elezione di Pio VII, che lo creò cardinale e segretario di stato. Con il papa, per tutto il periodo napoleonico, visse accanto a lui nei difficili e burrascosi rapporti con il Bonaparte; fu lui a concludere il Concordato con la Francia (15 luglio 1801). Nel 1806 fu allontanato perché inviso da Napoleone, e andò in esilio con lo stesso papa, cui consigliò di sconfessare il concordato. Liberati entrambi nel 1814, Con salvi tornato alle sue funzioni, è ancora lui incaricato da Pio VII di trattare con le grandi potenze a Vienna per la ricostruzione dello Stato Pontificio; al ritorno cerca di armonizzare l'articolazione amministrativa delle province. Riportò l'ordine nel Paese, accolse i napoleonici in esilio, tentò insomma una buona politica d'indipendenza nei riguardi dell'Austria. Che non era cosa facile.

Questo fino a quando morto Pio VII (1823) fu allontanato, di fatto, dal potere, quando sale sul soglio Leone XII (Annibale Sermattei della Genga); avverso ad ogni "forma di liberalismo" che condannò con l'enciclica "Ubi primum"; ampliò i poteri dei tribunali ecclesiastici; si rese impopolare per le dure repressioni e per le tante incapacità nello scegliersi i collaboratori. Il primo suo atto politico fu quello di licenziare proprio il Consalvi - che era al conclave candidato papa in antagonismo al cardinale SOMAGLIA- fra i due la spuntò il Sermattei, e nominò suo segretario di stato, proprio il Somaglia che si distinse fin dal primo momento, all'annullamento di una parte notevole delle riforme di Consalvi (che andiamo qui sotto ad elencare) e l'imposizione nello Stato pontificio di un pesante regime poliziesco. Fu Somaglia ad inviare in Romagna quel legato con poteri illimitati per soffocare i primi fermenti liberali: il famigerato cardinale AGOSTINO RIVAROLO, noto per la brutalità dei suoi metodi repressivi e i processi inquisitoriali con procedimenti sommari, con lui giudice unico e senza appello. Ma di questo parleremo a suo tempo.

Torniamo ad ERCOLE CONSALVI. A Vienna, dove si trovava a rappresentare la Santa Sede nel Congresso, giungeva all'orecchio del cardinale, notizia delle misure reazionarie del cardinal RIVAROLA e, disapprovandole, l'eminente prelato ed uomo politico se ne lagnava con il Pontefice sostenendo che era interesse dello Stato non rimettere le cose com'erano prima dell'invasione francese, consigliando che s'indulgesse nei tempi e guardando i tempi. "Se - diceva - quando Noè uscì dall'Arca, dopo il diluvio, avesse preteso di far tutto quello che aveva fatto prima di entrarvi, avrebbe preteso una assurdità, perché il mondo era cambiato dopo il diluvio".

Ritornato a Roma, riprese le redini dello stato, cercò di inaugurare un governo giusto ed onesto e di attuare alcuni provvedimenti - era imprudenza chiamarle riforme - necessarie date le mutate condizioni della popolazione. Molti furono gli ostacoli incontrati e non tutti fu in grado di superarli, tuttavia riuscì col "MOTUPROPRIO" del 6 luglio del 1816, a metter su un ordinamento amministrativo e giudiziario, che nonostante le sue imperfezioni, segnava un progresso non lieve sulle legislazioni precedenti.
Purtroppo l'Austria, e lo stesso stato pontificio non apprezzò molto la sua opera. Nel preambolo del Motuproprio (che mettiamo qui quasi integralmente e letteralmente) sono esposti i motivi che consigliarono il governo pontificio a dare allo Stato quel nuovo ordinamento.

Ed è una stupenda pagina; non di un prete, ma di un grande e intelligente statista, moderno e di grande onestà intellettuale. Pochi sovrani vedevano così bene la realtà che avevano davanti, ed erano del tutto ciechi su quella futura.

"Noi riflettemmo .... che l'unità ed uniformità debbono essere le basi d'ogni politica istituzione, senza delle quali difficilmente si può assicurare la solidità di governi e la felicità dei popoli, e che un governo, tanto più può riguardarsi come perfetto, quanto più si avvicina a quel sistema d'unità, stabilito da Dio, tanto nell'ordine della natura, quanto nel sublime edificio della Religione. Questa certezza c'indusse a procurare per quanto fosse possibile, l'uniformità del sistema in tutto lo stato appartenente alla Santa Sede. Presentava, è vero, lo stato medesimo un modello di legislazione e d'ordine, fondato com'era nei suoi grandi principi sulle invariabili regole della religione e morale evangelica, e sulla, canonica giurisprudenza, la quale regolata dalla solida equità e dal verace diritto della natura, ad onta delle calunnie colle quali è stata attaccata, dovrà sempre riconoscersi come quella che ricondusse l'Europa allo stato di civilizzazione, da cui le irruzioni dei barbari l'avevano allontanata. Ma pur per giungere alla perfezione:... mancava ancora al nostro stato quell'uniformità che è così utile ai pubblici e privati interessi, perché formata con la successiva riunione di domini differenti, presentava un aggregato d'usi, di leggi, di privilegi fra loro naturalmente difformi, di modo che rendevano una provincia spesso straniera all'altra, e talvolta disgiungevano nella provincia medesima un paese dall'altro".

"Inoltre in una gran parte delle province recentemente recuperate la tanto più lunga separazione dal dominio di questa Santa Sede ha fatto quasi dimenticare le antiche istituzioni e costumanze; onde si è reso in esse quasi impossibile il ritorno all'antico ordine di cose. Nuove abitudini surrogate alle antiche, nuove opinioni invalse e diffuse quasi universalmente nei diversi oggetti d'amministrazione e di pubblica economia, nuovi lumi, che sull'esempio d'altre nazioni d'Europa si sono pure acquistati, esigono indispensabilmente l'adozione nelle dette province di un nuovo sistema più adattato alla presente condizione degli abitanti, resa tanto diversa da quella di prima .... Se pertanto in una gran parte dei domini distaccati da lungo tempo dal pontificio governo il ripristinamento degli antichi metodi si rende pressoché impossibile, o tale almeno che non possa ottenersi senza un notabile disgusto o incomodo delle popolazioni, diviene indispensabile per l'integrità, del corpo e per la riunione di tutte le membra, lo stabilimento di un sistema che tutte le comprenda nella medesima uniformità…".

Al proemio infine si dichiarava di:
"aver procurato di conservare, per quanto fosse combinabile con i sopraesposti riflessi….quegli stabilimenti che con tanta saggezza erano stati introdotti dai sommi Pontefici nostri antecessori, in modo però da non escludere quei cambiamenti che l'utilità ed i bisogni pubblici esigere potessero dopo tante e sì straordinarie vicende; poiché negli umani stabilimenti giungere possono a prevenire gli abusi, né la sapienza dei legislatori riuscì tutto prevedere, scorgendo noi medesimi tutti i giorni tante cose immaginate in addietro che sono poi migliorate dall'ingegnosa investigazione degli uomini…".


Consalvi si rimboccò le maniche e iniziò ad operare.

Lo Stato pontificio fu diviso in venti "province" cinque (Roma con la Comarca, Bologna, Ferrara Ravenna e Forlì) governate da cardinali legati e perciò dette "legazioni"; le altre quindici da monsignori delegati e dette quindi "delegazioni". Ogni provincia era suddivisa in "mandamenti" detti "governi", retti da un governatore di nomina regia; ogni governo comprendeva parecchi "comuni" amministrati da "Consigli Comunali". Questi, per la prima volta, erano nominati dai Cardinali Legati o dai Monsignori Delegati fra i professionisti, il clero, i possidenti, i negozianti e gli uomini di lettere; essi stessi, in seguito, rinnovavano annualmente un quinto dei loro membri, confermando gli uscenti o sostituendoli con nuovi eletti.
Da un elenco di nomi proposti dai Consigli Comunali, i Legati e i Delegati sceglievano i membri delle "Magistrature Municipali", che si componevano di quattro o sei "anziani" e di un capitano detto nelle città "gonfaloniere" e nei paesi "priore". Un "senatore" ed otto "conservatori" tenevano l'amministrazione municipale di Roma; i membri del Consiglio comunale di Bologna, in numero di quarantotto, erano chiamati "probiviri" e in mezzo ad essi era scelta la magistratura, composta di un senatore e sei conservatori.

L'ordinamento giudiziario fu il seguente: i governatori avevano le funzioni di giudici di pace in tutto lo Stato, due a Roma, uno a Macerata e uno a Bologna; vi erano infine due tribunali supremi, quello della Segnatura, per le cause penali e quello della Sacra Rota per le cause civili. Accanto a questi tribunali funzionavano i tribunali ecclesiastici, del Campidoglio, della congregazione dei vescovi, della dataria, della congregazione del buon governo, della camera, dell'uditore, del tesoriere, degli assessori comunali, del presidente della grascia, del giudice dei mercenari, dei giudici dell'annona, dei giudici dell'agricoltura, del cardinal vicario, dei commissari della fabbrica di S. Pietro. Fu prescritto l'uso della lingua italiana affinché i litiganti potessero "conoscere lo stato e l'andamento dei loro affari", fu ammesso il confronto dei testimoni davanti ai giudici, s'istituirono giudici processanti e l'avvocato dei poveri, fu abolita la tortura, ma si conservarono le giurisdizioni eccezionali dell'Inquisizione, della Congregazione dei Vescovi, del prefetto dei palazzi apostolici. Basi fondamentali della parte legislativa furono il privilegio agnatizio nella successione, la perpetua minorità della donna, il ripristinamento dei fidecommissi, la facoltà di farne di nuovi e di istituire la causa pia. Nelle Marche e nelle Romagne furono abolite le giurisdizioni baronali; nelle altre province furono lasciate, ma essendosi fatto obbligo ai feudatari di sostenere tutte le spese occorrenti all'amministrazione della giustizia, quasi tutti i baroni rinunziarono e la giurisdizione baronale rimase di fatto soppressa in quasi tutto lo stato.

Perché le imposte fossero ripartite più equamente si stabilì il rinnovo del catasto rustico e urbano, e perché il pubblico denaro fosse meglio amministrato si ordinò che ogni anno, non più tardi del primo d'aprile, tutti gli amministratori delle finanze pubbliche rendessero conto al tesoriere generale e che questi, entro il primo di giugno presentasse i conti verificati alla Camera Apostolica. Infine si prometteva la pubblicazione dei nuovi codici.

MALCONTENTO E TUMULTI -
LA CONGIURA DI MACERATA - PROCESSI E CONDANNE
IL GOVERNO TOSCANO E I CARBONARI DELLE ROMAGNE

Il Motuproprio del 16 luglio 1916 segnava - come abbiamo detto - un progresso sulle legislazioni precedenti, ma non rispondeva ai nuovi tempi e alle mutate condizioni delle popolazioni e non poteva lasciar contenti i liberali che alimentavano le sette diffuse nello Stato Pontificio, quelle dei Carbonari, dei Guelfi, degli Adelfi, dei Sublimi Maestri Perfetti e dei Fratelli seguaci dei protettori repubblicani.
Né il malcontento era soltanto prodotto dalla mancanza d'adeguate riforme o era circoscritto negli ambienti liberali. Esso era diffuso in tutte le province e in varie classi della società ed era dovuto anche ad altre cause, delle quali non ultime furono la carestia e il tifo petecchiale.
La carestia e una grave crisi economica investì tutta l'Europa, ma le conseguenze in Italia furono peggiori. Si era nell'Ottocento, ma in Italia sia nell'industria sia nell'agricoltura, rispetto ad altre nazioni, era ancora ferma al Seicento-Settecento.
Inoltre, era passato il ciclone napoleonico. E qualcosa era rimasto. Di bene, ma anche tanta irrazionalità. Insomma, Consalvi fu sfortunato all'esterno, e anche all'interno da un clero conservatore.

Infatti, prima ancora della pubblicazione del Motuproprio, tumulti erano scoppiati in varie parti dello Stato; nel bolognese, essendo invalsa l'opinione che le febbri fossero causate dalla coltivazione del riso, non poche risaie furono invase e devastate; il 16 febbraio, per il forte rincaro dei viveri nei primi mesi dell'anno, si ebbero agitazioni a Ripatransone e a Rimini che facilmente furono sedate da Monsignor PACCA, il quale condannò i due promotori della manifestazione alla galera a vita, un terzo a venti anni di prigione e ad un quarto, reo di aver disarmato un gendarme, fece dare trenta colpi di verga sulle natiche; nel maggio si attentò alla vita del presidente del tribunale di Fermo e lo stesso tentativo doveva ripetersi nel settembre contro un aggiunto dell'alta polizia nella medesima città.
Repressione e malcontento delle popolazioni era naturale che volessero approfittare i Carbonari, specie quelli delle Legazioni perché qui essi avevano le maggiori forze, qui la popolazione abituata al governo francese più che altrove, non sapeva adattarsi al governo pontificio, qui infine con maggior rigore si esercitava l'azione della polizia pontificia: "Un gesto, una parola, un atto imprudente, un'inimicizia occulta -scrive il MARTINI - potevano ad ogni momento nuocere ad un onesto, ad un pacifico cittadino e poteva la polizia e i suoi sbirri vegliare i passi del sospetto, ricusargli la facoltà di tenere armi da fuoco o da taglio, chiudergli l'accesso agli impieghi, intercettargli lettere agli uffizi della posta, entrare liberamente nel suo domicilio e impadronirsi dei libri, delle carte e della medesima sua persona; poteva inoltre un semplice commissario di polizia tenerlo in carcere come e quanto tempo voleva, vietargli la visita dei parenti e degli amici più cari, rifiutargli il passaporto per viaggiare all'estero, intimargli di comparirgli dinanzi quando e quante volte gli fosse a grado, provocarlo con parole e gesti insultanti, intimargli di lasciare il luogo natio nel breve giro di ventiquattro ore".
Non era questo il metodo giusto per calmare le acque, ma ad agitarle

Verso la fine del 1816 cominciarono a circolare propositi per un'insurrezione con gli affiliati delle "vendite" di Fermo e di Macerata e il Centro Guelfo di Bologna. All'inizio del 1817 le trattative continuarono, anzi furono intensificate a causa di una grave malattia che aveva colpito il vecchio Pontefice.
PAOLO MONTI, gran maestro della "vendita" di Fermo, E MICHELE MALLIO, nobile decaduto, poeta e capo sezione della prefettura di Ancona, studiarono un piano e lo mandarono a Bologna.
Secondo il piano, il segnale dell'insurrezione doveva partire da Macerata, dove in un giorno da stabilirsi sarebbero affluite dalla provincia e anche da altre parti, bande di rivoltosi, che con l'aiuto dei carbonari della città si sarebbero resi padroni della piazza, avrebbero disarmato le truppe papali e arrestato le autorità e i principali reazionari.
Alla plebe affamata si doveva concedere il saccheggio delle case dei reazionari. La rivolta si sarebbe quindi propagata nelle altre parti delle Marche e nella Romagna, le cui popolazioni infine avrebbero chiesto alle potenze europee un governo indipendente.
Per averla favorevole nell'insurrezione, si prometteva alla plebe il sacco delle abitazioni dei reazionari, che erano in gran parte nobili e ricchi; alla plebe si faceva sapere che il nuovo regime avrebbe abolito l'imposta sul macinato e avrebbe ridotto di oltre il cinquanta per cento il prezzo del grano, del vino e dell'olio.
Mentre si ordivano le fila della congiura, qualcosa di queste macchinazioni giunsero all'orecchio della polizia pontificia, la quale si teneva in relazione con quella degli altri stati italiani, si serviva di abili spie ed aveva perfino in seno alle stesse sette, alcuni agenti segreti i quali possedevano catechismi e cifrari e conoscevano le parole d'ordine, segni e frasi convenzionali.

Nel gennaio del 1817, per gravi sospetti era stato arrestato ad Ascoli Piceno un ex cappuccino, di nome LUIGI BOATTI. Costui spontaneamente dichiarò che due anni prima si era iscritto ad una "vendita" carbonara non potendo sottrarsi alle costrizioni di alcuni ufficiali murattiani e che vi era rimasto per paura di essere ucciso. Inoltre rivelò tutto quello che sapeva del piano insurrezionale e fece i nomi di alcuni settari, fra cui quelli di PAOLO MONTI e MICHELE MALLIO. Nello stesso mese la polizia pontificia fece l'acquisto di una nuova spia: il poeta comico GIUSEPPE PRIOLA di Saluzzo, che sotto il Regno Italico era impiegato come usciere a S. Elpidio a Mare e, privato dell'impiego dalla Restaurazione era entrato nella Carboneria. Costretto ora dalla miseria, si offriva e era accettato come spia. Costui, sospettato di tradimento, il primo giugno fu aggredito e ferito.

Il governo pontificio informò della trama che si andava preparando il governatore di Milano CONTE SAURAN ed ottenne che fossero interrogati parecchi sudditi pontifici residenti nel Lombardo-Veneto, ma in verità non c'era bisogno di investigare tanto per saper notizie, perché i Carbonari agivano con grande imprudenza, facevano spargere voci di una prossima rivolta e diffondevano manifestini stampati clandestinamente. Pur non parendo grave, serio e pericoloso il movimento rivoluzionario che si stava preparando, il governo prese le misure necessarie, rinforzando i presidi ed ordinando che notte e giorno di fare buona guardia.
L'insurrezione doveva scoppiare il giorno di S. Giovanni e già un proclama era pronto per esser lanciato alla popolazione. Esso diceva: "Popoli Pontifici ! Voi soffriste già abbastanza; la peste e la fame termineranno di mietere le vostre vite, e quelle dei vostri figli, se ancora tardate a porvi riparo. All'armi dunque, all'armi. Sia la vostra divisa l'amor della Patria, carità per i vostri figli. Abbattere i despoti, obbligare i doviziosi, e soccorrere gli indigenti sia solo vostro oggetto. Voi non avete che a mostrarvi, e l'ordine e la giustizia trionferanno. La storia vi prepara un eminente grado fra gli eroi. Popoli all'armi, viva solo chi ama la Patria, chi soccorre gli infelici. Si sono uniti a questo partito i popoli delle Marche e della Romagna. Fin dalla scorsa sera hanno abbracciato il progetto. E voi, popoli ciechi dormite?"

. I congiurati della provincia dovevano, durante la notte dal 23 al 24 giugno del 1817, radunarsi presso i monasteri delle Vergini e di Santa Croce, quindi dovevano recarsi alla porta dei Cappuccini, assalirla e, aiutati dai compagni di dentro, penetrare a Macerata. Pochi si trovarono al luogo stabilito e questi pensavano già di sciogliersi quando uno di loro, il vetturale PACIFICO MOSCHIERI, sparò due colpi di fucile contro le sentinelle pontificie. I colpi andarono a vuoto, ma diedero l'allarme e a quel punto i congiurati si dispersero.

Il tentativo sarebbe passato inosservato se il mattino seguente copie del manifesto rivoluzionario non si fossero trovate affisse in parecchie città, come ad Ascoli, Tolentino, Foligno ecc. Allora il governo ordinò che fossero fatte delle perquisizioni; queste portarono alla scoperta di altri manifesti e provocarono l'arresto di parecchie centinaia di persone, di cui soltanto quelle sulle quali gravavano i maggiori sospetti - una cinquantina - furono tradotte a Roma e deferite al tribunale criminale costituito dai prelati ALESSI, OLGIATI, CRISTALLI, INVERNIZI e presieduto da Monsignor TIBERIO PACCA.

Capi della cospirazione risultarono il romano GIOACCHINO PAPIS, capo dell'Alta Vendita di Ancona, e il Conte CESARE GALLO di Osimo, Preposto dell'ufficio del Registro di Macerata; principali collaboratori il capitano PLACIDO SARTI di Bologna, LIBERO POMILI, presidente della Vendita di S. Elpidio, CESARE GIACOMINI, presidente della Vendita di Ascoli, l'ex-ufficiale napoleonico LUIGI CARLETTI di Macerata, l'avv. PIETRO CASTELLANO e ANTONIO COTTOLONI, anch'essi maceratesi, l'ex-gendarme FRANCESCO RIVA di Forlì, il notaio PIO SAMPAOLESI di Ancona e VINCENZO FATTIBONI di Cesena, ingegnere del catasto.

Furono inoltre riconosciuti come autorevoli membri della congiura LUDOVICO POCHINI di Monte Lupone, PIERANGELO PIERANGELI di Monte Santo, PIETRO DAVILLI bolognese, CARLO SCARPONI, NICCOLA PENOCELLI, GABRIELE FILIPPUCCI, VINCENZO PIERI di Macerata, RAFFAELE ZUCCHI di Fabriano.
Il Sarti, il Pomili e il Giacomini restarono impuniti; ma quest'ultimo anzi si mise al servizio segreto della polizia; il poeta Michele Mallio, senz'aspettare di essere scoperto, si offrì spontaneamente alla polizia pontificia e per conto di essa e d'accordo con quell'austriaca, nella seconda metà di settembre e nella prima di ottobre fece un giro nelle Romagne, a Modena, a Parma, a Milano, a Genova e a Torino.
Il processo si chiuse nell'autunno del 1818 con tre sentenze, una dell' 8 ottobre, la seconda del 24 dello stesso mese e la terza del 5 novembre. Dei trentasei imputati:
tredici e cioè il Papis, il Gallo, il Carletti, il Riva, il Castellano, il Pochini, il Pierangeli, il Davilli, lo Scarponi, il Pannelli, il Pini, il Filippucci e lo Zucchi, furono condannati alla pena di morte;
dodici - Antonio Cottoloni, Pio Sampaolesi, Vincenzo Fattiboni, Nicola Mei e Vincenzo Cingolani, entrambi di Monte Lupone, Torello Cerqueti di Montecosaro, Francesco Cani e Giuseppe Lupidì di Montolmo, Giuseppe Tamburini di Macerata, Vincenzo Rinaldi di Ancona, Felice Jozzi di Filottrano e Camillo Meloni di Forlì, alla galera a vita;
sette, e cioè Francesco Molinelli detto Francinò, Luigi Fioretti detto Montegranaro, Sante Palmieri, tutte e tre di Macerata, Luigi Amadei di Loreto Francesco Possano, corso domiciliato in Ancona, Francesco Aubert e Filippo Lattanzi di Ascoli Piceno, a dieci anni di galera; Giulio Cesare Brescia di. Ascoli a sette anni di prigione e Francesco Pieri, di Ascoli Piceno anche lui, a cinque.

Due soli degli imputati furono rimessi in libertà, ma furono sottoposti alla rigorosa sorveglianza della polizia. Il Pontefice, consigliato dal cardinal Consalvi a mostrarsi clemente, commutò la pena capitale al carcere perpetuo in una fortezza, la galera a vita a dieci anni della stessa pena e diminuì di qualche anno le altre minori condanne.
Altri processi furono fatti nel 1817 contro molti Carbonari di Senigaglia e di San Genesio Marche, ma questi processi non scoraggiarono i patrioti dello Stato Pontificio, specie quelli delle Romagne, i quali, mentre gli arrestati per il moto di Macerata aspettavano in carcere che si decidesse la loro sorte, intrigavano per sottrarsi al giogo papale per unirsi alla Toscana.

Il governo toscano, diretto dal Fossombroni, informato dall'avvocato SCARAMUCCI vicario di Rocca San Casciano, del desiderio dei Romagnoli di passar sotto il Granduca, diede incarico di andare a Forlì, per vedere quanto ci fosse di vero nelle informazioni ricevute, al signor GIUSEPPE VALTANCOLI, nativo di Montaione, iscritto dal 1811 alla loggia, massonica di Livorno, ed ora Gonfaloniere di Portico.
Il Valtancoli nel novembre del 1817 si recò a Forlì e da uomo abile qual era riuscì ad iscriversi nella Carboneria; ma più tardi, caduto in sospetto dei Carbonari per i frequenti viaggi dalla Toscana in Romagna e viceversa, non riuscì a indurre i patrioti romagnoli a mandare una deputazione per trattare direttamente con i ministri granducali.
A rassicurare i Carbonari ci riuscì lo Scaramucce e alla metà del maggio 1818 si recarono a Firenze, dove furono ricevuti dal Fossombroni, il conte FRANCESCO GINNASI di Faenza, l'ex-ufficiale napoleonico MAURO ZAMBONI di Cesena, il conte GIUSEPPE ORSELLI di Forlì e il negoziante VINCENZO GALLINA di Ravenna.
Le trattative però non diedero alcun risultato, positivo perché nel giugno ebbero luogo aspri dissidi fra i Carbonari delle Legazioni e delle Romagne che poco mancò non provocassero una scissione. Quelli di Ravenna e di Forlì erano del parere che si dovesse far di tutto per realizzare l'unione alla Toscana, quelli di Bologna e di Ferrara invece, ostili all'Austria e ai principi italiani a questa servili, volevano un' insurrezione d'accordo con i Piemontesi e con i Lombardo Veneti.

Così non si concluse un bel nulla, anche perché non era mistero che la Russia e la Francia si erano dichiarate nettamente contrarie ad un'eventuale annessione all'Austria delle Legazioni; e nell'ottobre del 1818 il governo toscano affidava l'incarico al Valtancoli di versare molta acqua sul fuoco romagnolo; mentre il governo pontificio cominciava a reagire procedendo all'arresto di molti Carbonari.

Questi arresti irritarono i patrioti più irrequieti, i quali proposero d'insorgere subito; ma proprio in quel tempo si pubblicarono le sentenze del processo per i moti di Macerata, che frenarono gli impazienti e fecero sì che prevalesse il parere dei più che dicevano essere pericolosa, una rivoluzione non spalleggiata e quindi legalizzata da un governo autorevole come quello toscano. A togliere dall'animo dei Romagnoli la speranza di un appoggio da parte del Granduca giungeva, nei primi di dicembre, il VALTANCOLI, il quale, eseguendo gli ordini ricevuti dal suo governo, sconsigliò da qualsiasi movimento insurrezionale i patrioti di Forlì, Imola, Faenza e Ravenna.

Riprenderemo i fatti dello Stato Pontificio, di Consalvi, di Rivarola, di Pio VII e di Leone XII
nel "riassunto" degli "Stati Nazionali" durante il decennio 1821-1830

Se dopo Vienna nel Centro Italia accadevano queste cose
cosa accadeva in Meridione con il ritorno di Ferdinando ?

andiamo dunque al periodo napoletano dal 1816 al 1820 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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