ANNO 1821-1830

GLI ALTRI STATI ITALIANI DOPO LA RESTAURAZIONE

PRIMA PARTE

FRANCESCO IV DI MODENA - IL PROCLAMA LATINO DISTRIBUITO AI SOLDATI UNGHERESI - UCCISIONE DEL DIRETTORE DELLA POLIZIA DUCALE - IL PROCESSO, DI RUBIERA - LE CONDANNE - DECAPITAZIONE DEL SACERDOTE GIUSEPPE ANDREOLI - IL PROCESSO CONTRO I LIBERALI DI PARMA - IL CONGRESSO DI VERONA - L'ESAME DELLA SITUAZIONE ITALIANA - PROPOSTA RESPINTA DI UNA FEDERAZIONE DI STATI ITALIANI - LE RICHIESTE DEI RE DI SARDEGNA E DELLE DUE SICILIE - PROPOSTE DEI DUCA DI MODENA - AUSTRIA, RUSSIA E PRUSSIA DIRIGONO ALLE POTENZE EUROPEE UN COMUNICATO SULLE QUESTIONI TRATTATE AL CONGRESSO
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FRANCESCO IV DI MODENA - IL PROCLAMA AI SOLDATI UNGHERESI
UCCISIONE DEL DIRETTORE DELLA POLIZIA DUCALE
IL PROCESSO DI RUBIERA - SUPPLIZIO DI DON GIUSEPPE ANDREOLI


Nei precedenti riassunti abbiamo riportato il clima reazionario della Restaurazione, esercitato con le armi e la repressione poliziesca austriaca nei due grandi Stati -Regno delle Due Sicilie e Piemonte - che avevano, scatenato le insurrezioni, il primo per difendere la Costituzione che era già stata concessa da Ferdinando I, il secondo per ottenerla da Carlo Alberto, poi incautamente accordata come reggente di Carlo Felice.
Gli eventi poi scaturiti dai fatti d'armi e dalle repressioni, nei due Stati li abbiamo già elencati e commentati. Ma contemporaneamente a questi due Stati, affinché non si propagassero le rivolte anche in altri territori, all'incontro di Lubiana era stato concordato di estendere anche negli altri Stati italiani la rigida vigilanza e la repressione -anche con interventi militari; che fra l'altro i rispettivi sovrani, erano quasi tutti o imparentati alla casa asburgica, quindi più che disposti a seguire la linea dura dettata da Vienna dall'Imperatore e dal suo ministro principe Metternich. Era stato quest'ultimo a volere la solidarietà delle altre potenze (con la famosa "Santa Alleanza" stipulata a Parigi il 26 settembre 1815) per riuscire a garantire la pace internazionale e nello stesso tempo in ogni Stato difendere l'ordine politico sociale interno. Suo obiettivo - già espresso al Congresso di Vienna- era la restaurazione del sistema prerivoluzionario. Ma se già prima Metternich era determinato usando gli energici mezzi diplomatici con le cinque maggiori potenze (con loro mantenne ferma sempre l'idea dell'equilibrio), quando poi avvennero i moti di Napoli e in Piemonte, sostenne che l'unico strumento da usarsi in "nome della giustizia, della pace e per salvaguardare le monarchie europee" era quello militare: guerra ad oltranza contro i liberisti, le sette, i rivoluzionari; con interventi energici che giustificavano ogni tipo di provvedimento, come lo stato d'assedio, l'occupazione dei territori al primo accenno di ribellione, e durissimi interventi repressivi per prevenire le sedizioni e stroncarle già sul nascere.
E se Ferdinando I e Carlo Felice inaugurarono per primi gli "anni del terrore", gli altri sovrani non si fecero pregare. Li passiamo ora tutti in rassegna, iniziando da Modena.

FRANCESCO IV d'Austria-Este, il "rogantin de Modena", come il Giusti lo chiamò nell'Incoronazione, era dotato d'ingegno pronto, di carattere forte e risoluto e di una smodata ambizione. Signore del più piccolo stato italiano, egli desiderava ardentemente di ingrandire i suoi domini. Forse guardava a Ferrara, l'antica capitale dei suoi avi, quasi certamente intrigava per succedere a CARLO FELICE in luogo del principe di Carignano Carlo Alberto; e intanto mostrava di aderire alla setta dei "Concistoriali", sorta nello Stato Pontificio con scopi antiaustriaci, anche se lui era considerato da tutti e lo era effettivamente un ligio partner e cliente dell'Austria.
Nemico acerrimo del liberalismo, sapendo che nel suo ducato esistevano "Carbonari, Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti" e affiliati alla setta della "Spilla nera", FRANCESCO IV (adeguandosi a Vienna) con notifica del 20 settembre 1820 minacciò la pena capitale a tutti coloro che costituivano parte di società segrete, e l'ergastolo a chi, conoscendoli, non li denunciava; quindi ordinò al cavalier GIULIO BESINI, direttore di polizia, d'indagare per scoprire i numerosi settari che erano nel suo stato. Fervevano le indagini della polizia, ma senz'alcun risultato, quando, nel gennaio del 1821, mentre l'esercito austriaco attraversava il ducato diretto verso Napoli, tra le file dei soldati ungheresi e la cittadinanza di Modena fu diffuso un proclama in lingua latina con il quale si esortavano i soldati a disertare per non partecipare a quella guerra ingiusta.

Infuriato e sdegnato a quell'atto dei liberali che a lui sembrava una provocazione, FRANCESCO IV ordinò che s'intensificassero le ricerche della polizia per mettere le mani addosso agli autori e propagandisti di quello scritto. Il BESINI non lasciò nulla d'intentato per scoprire i responsabili e riuscì ad arrestare una trentina di persone che però, a poco a poco, furono poste in libertà, non essendoci nulla a loro carico.
Le indagini continuavano da quasi un anno e già più di cinquanta cittadini erano in stato d'accusa o nel mirino delle indagini, quando la sera del 14 marzo del 1822, il direttore di polizia, rincasando, fu mortalmente ferito all'inguine da un colpo di pugnale infertogli da uno studente, un certo ANTONIO MORANDI.
II Besini che non era morto subito, non riconobbe il suo aggressore, tuttavia accusò un certo GAETANO PONZONI, suo nemico personale, il quale fu subito arrestato, ferocemente percosso e sottoposto a processo, sebbene riuscì a provare che nell'ora del ferimento egli si trovava ben lontano da quel posto dove il direttore di polizia era stato ferito.
Francesco IV, temendo che l'aggressione del Besini era il preludio di un'insurrezione, sollecitò a Mantova l'invio di un battaglione di milizie austriache, ordinò che fossero fatte severissime ricerche per assicurare alla giustizia l'assassino e gli istigatori, promise premi, minacciò castighi e istituì un tribunale speciale a Rubiera, che doveva rapidamente condannare e giudicare tutti i settari che potevano essere ritenuti i responsabili della divulgazione del proclama e dell'uccisione del Besini. "La Commissione di Rubiera è generalmente creduta composta da ultramonarchici e da temperamenti spietati, ed è nominata con il terrore", si trova scritto in certe informazioni segrete della polizia austriaca; ed era vero.
Per comporre il collegio dei giudici si era faticato non poco, perché molti -in un primo tempo- si rifiutarono di farne parte. Poi le cose cambiarono, il magistrato GIULIO VEDRIANI, quando si accorse che i suoi colleghi erano disposti a fare tutti i voleri del duca, non se la sentiva di far parte di una combriccola di "giustizieri", e diede le dimissioni.

I metodi usati a Rubiera per strappare agli imputati la confessione rimasero tristemente famosi. Furono propinate medicine; fu imposto il digiuno per costringere gli arrestati a parlare, fu stimolata la gelosia, furono eseguiti interrogatori estenuanti; un imputato fu tenuto per cinquantaquattro giorni disteso sopra un asse; altri furono chiusi in sotterranei angusti, umidi e bui.

Fu con questi sistemi che si ebbero delle rivelazioni. Il processo di Rubiera, svoltosi contro cinquantasette imputati, ebbe termine l'11 settembre del 1822 con una sentenza che ne condannava quarantasette, riconosciuti colpevoli di appartenere alla setta dei Carbonari.
Nove furono i condannati a morte: il sacerdote GIUSEPPE ANDREOLI di San Posidonio, giovane poco più che trentenne, colto e di costumi illibati, i possidenti GIOVANNI SIDOLI, SANTE E FRANCESCO CONTI DI MONTECCHIO, il dottor CARLO FRANCESCHINI di Burano, il dottor PROSPERO PIRONDI di Reggio, il dottor PIETRO UMILTÀ di Montecchio, il conte GIOVANNI GRILLENZONI FALLAPPIO di Reggio, e PIETRO BOSI, segretario comunale di Montecchio. Di questi i primi due erano detenuti; gli altri erano contumaci.
Il duca di Modena commutò in dieci anni di carcere la pena contro FRANCESCO CONTI perché il suo delitto, nonostante grave per l'epoca in cui fu commesso, sembrò provocato più per influenza altrui che di propria malizia, inoltre non fu accompagnato da altre circostanze aggravanti; poi perché fece una pronta e spontanea confessione mostrando il suo pentimento: e finalmente perché nell'anno 1814 quanto dipendeva da lui cooperò per coadiuvare l'armata austriaca e dei suoi alleati quando presero possesso degli stati italiani, e perché pure nei successivi anni 1816 e 1817, in occasione della maggiore carestia, si adoperò attivamente per procurare grano estero per la popolazione.

Invece, fu confermata la condanna a morte dei sette contumaci e del sacerdote ANDREOLI, del quale Francesco IV scrisse:

"Confermiamo la pena di morte inflitta al detenuto Don Giuseppe Andreoli sacerdote, per essere non solo reo convinto e confesso di delitti per cui fu da Noi espressamente comminata la pena di morte, ma per essere di più stato seduttore della gioventù, e più reo per la sua qualità di sacerdote e di professore, della quale abusò per sedurre la gioventù ed attirarla nella società dei Carbonari alla quale lui apparteneva. Noi, in considerazione della sua qualità di sacerdote, abbiamo usato tutti i riguardi e perfino fatto sperare clemenza se subito il primo giorno dell'arresto confessava i suoi delitti, pur minacciandolo che in caso diverso il giorno dopo non avrebbe più fatto in tempo e sarebbe stato abbandonato ai rigori delle leggi; ma egli avendo per ben tre volte costantemente negato ogni cosa, fu avvertito che non c'era più in tempo per sperare in una grazia".

Monsignor FICARELLI, vescovo di Reggio, prima si recò a Modena per implorare la grazia della vita dell'Andreoli, poi si rifiutò di sconsacrarlo. Sebbene non fosse ancora giunto il permesso da Roma, si prestò alla sconsacrazione il vescovo di Carpi. Il 16 ottobre don Giuseppe Andreoli si sentì leggere la condanna, che ascoltò con grande tranquillità;. poi, avendo saputo che nessuno dei suoi compagni sarebbe stato giustiziato, ringraziò il Signore. Volle da sé tagliarsi i capelli e pregò uno dei presenti che li recasse alla madre; ai compagni di carcere lasciò in ricordo i pochi oggetti che aveva.

Il giorno dopo, il prete carico di catene, fu condotto presso il forte, dove doveva esser decapitato. Mentre il corteo procedeva verso il luogo del supplizio, scoppiò un furioso temporale che il popolo interpretò come segno dell'ira divina: il triste corteo sostò qualche attimo ma poi raggiunse ugualmente il palco con la pioggia che cominciò a cader giù dirotto; l'infelice sacerdote avrebbe voluto rivolgere delle parole alla folla; ma il carnefice aveva fretta e non lo permise. Riuscì soltanto a dire: "Cupio dissolvi et esse cum Cristo", ma neppure la parola Christo riuscì interamente pronunziare, la mannaia era già calata rapida sul condannato. Poi il cielo tornò sereno e tutti dissero che l'anima del martire era salita in cielo.
Con la stessa sentenza dell'11 settembre ci furono altre trentotto condanne. GIACOMO FARIOLI di Cadè, ex capitano del Regno Italico fu condannato alla galera a vita "poiché l'unico motivo per cui poteva meritare qualche riguardo, con una sua pronta e sincera confessione, fu già contemplato dal Tribunale Statario, che aveva già chiesto la pena di morte". A venti anni di galera furono condannati il ragioniere BIAGIO BARBIERI di S. Ilario, il dott. FRANCESCO CARONZI di Montecchio, il dottor GIAMBATTISTA FARIOLI, di Calerno, il napoleonico FRANCESCO MARANESI di Modena, e l'avvocato modenese LUIGI PERETTI; a quindici anni GIUSEPPE ALBERICI, segretario del Comune di Brescello; a dieci anni il dottor LODOVICO MORREALI di Reggio e il dottor IPPOLITO ZUCCOLI, di Modena.

(fate attenzione anche qui come in Piemonte, in Lombardia, e nelle Due Sicilie, alle RISPETTIVE professioni dei condannati. Non era insomma plebe, né briganti, ma erano stimati professionisti)

A sette anni di carcere furono condannati FRANCESCO BOLOGNINI, il dottor GIUSEPPE BORELLI di Modena, il tenente del Regno Italico Israele Latis, il dottor PIETRO LEVESQUE di Modena, il capitano del Regno Italico GIANNANDREA MALAGOLI, modenese, e l'avvocato ANTONIO PAMPARI di Montecchio; a cinque anni di carcere l'ingegnere DOMENICO BONI di Gaida, il dottor CARLO FATTORI di Scarano, il ragionier LUIGI PANISI di Novellara, il tenente del Regno Italico BENEDETTO SANGUINETTI di Modena, l'avvocato ANTONIO SACCHI di Mirandola; a tre anni CRISTOFORO BELLOLI di Scandiano, il dottore GIAMBATTISTA CAVANDOLI di Canossa, cancelliere a Brescello, l'avvocato GIUSEPPE FATTORI di Scurano, il dottor CARLO ANGELO LAMBERTI di Quattro Castelli, cancelliere a Correggio, l'avvocato FLAMINIO LOLLI di Mirandola, il ragioniere ANTONIO NIZZOLI di Brescello e il generale napoleonico CARLO ZUCCHI di Reggio; a due anni il professore DOMENICO GAZZA di Sassuolo, il dottor CAMILLO LODOVICO MANZINI di Carpi, FRANCESCO MORANDI di Modena e IPPOLITO LOLLI e GIOVANNI RAGAZZI studenti di Mirandola; infine a un anno di carcere il pittore EVANDRO CARPI di Reggio, il dottor GIUSEPPE CANNONIERI di Modena, il dottor FRANCESCO MONTANARI di Ravarino, il sarto FORTUNATO ROSSI di Novellara, il maestro FORTUNATO URBINI e il farmacista PIETRO ZAMBELLI di Casalmaggiore.

Di questi trentotto tre soli - il Bolognini, il Borelli e il Levesque - erano contumaci; tutti gli altri erano detenuti; quasi tutti ebbero confermata la pena dal duca che però la diminuì di cinque anni al Caronzi, di tre all'Alberici, di due al Boni e al Sacchi, di un anno e mezzo al Ragazzi, di un anno al Belloli, al Latis, al Lolli, al Lamperti, al Malagoli, al Pampari e al Sanguinetti e di sei mesi al Rossi e all'Urbini. Di tutti i condannati, trentuno si mantennero negativi, quindici confessarono di appartenere alla Carboneria, uno - il capitano GIOVANNI MALAGOLI - fu delatore. Dieci, come si è detto - erano contumaci. A costoro, nella via dell'esilio, si unirono ANTONIO MORANDI, che fuggito dal ducato, confessò di essere lui l'autore del mortale ferimento del Besini (confessione che però non valse a far uscir di carcere il Ponzoni, che vi rimase fino al 1831), PIETRO GIANNONE, l'autore dell'"Esule" e, più tardi, ANTONIO PANIZZI, condannato a morte il 6 ottobre del 1823, nel suo esilio in Inghilterra divenne poi bibliotecario del British Museum di Londra.


IL PROCESSO CONTRO I LIBERALI DI PARMA

Il processo contro i liberali Modenesi provocò quello contro i liberali parmensi. Questi in verità non erano molti, e non erano nemmeno contrari al "materno" governo di MARIA LUISA e del conte ADAMO NEIPPERG, che pìù tardi sarà suo marito; del resto erano noti allo stesso Neipperg che, nel 1816, poteva scrivere al Metternich: "Vi sono individui le cui opinioni possono essere sospettate, e ve ne sono anche in altri luoghi, ma il numero non è considerevole, e i primi sono noti e stanno sotto la sorveglianza della polizia".
Il processo di Rubiera, per mezzo delle rivelazioni di alcuni imputati, fece conoscere a Francesco IV quello che Maria Luisa certo sapeva, che cioè nello stato di Parma esistevano dei settari. Il duca di Modena si affrettò ad informare la duchessa, rivelandogli il 17 aprile del 1822, "il nome di qualcuno dei più colpevoli" di cui si diceva in grado di fornire anche le prove e le testimonianze: "Questi sciagurati sono: MARTINO detto GIACOMO, vostra guardia d'onore; il conte LINATI CLAUDIO; BERCHET AMBROGIO, maggiore del vostro reggimento; conte JACOPO SANVITALE, professore nell'Università; avv. MAESTRI FERDINANDO, professore nell'Univerità; BACCHI ANTONIO, capitano del vostro reggimento". Inoltre Francesco IV comunicava di aver notificato i nomi al Metternich e avvertiva che il Martini, il Sanvitale e il Linati erano colpevoli di aver fatto distribuire ai soldati ungheresi il proclama latino.

MARIA LUISA non mostrò alcuna sorpresa, e rispondendo, volle far capire che delle cose di casa sua ne sapeva più degli altri. Difatti essa fece i nomi di altri due liberali - PIETRO GIORDANI e PIETRO GIOIA - da Francesco IV non nominati. "Il conte CLAUDIO LINATI è in Spagna da più di un anno; il maggiore BERCHET può aver visto e conosciuto dei complici, ma è uomo d'onore, incapace di una cattiva azione. Jacopo Sanvitale, Martini, l'avv. Maestri, il capitano Bacchi, Giordani, Gioia di Piacenza sono noti poi per i loro principi, ma sono di certo incapaci ad operare. D'altra parte questi non sono mai persi di vista".

FRANCESCO IV scrisse altri nomi, poi da Milano e da Vienna giunsero a Parma sollecitazioni perché si provvedesse ad assicurare alla giustizia i liberali e così Maria Luisa dovette ordinare che si procedesse ad alcuni arresti. Diciotto persone furono imprigionate e contro di loro e contro altri, che erano riusciti a mettersi in salvo, fu fatto il processo.
Questo si basò specialmente sulle rivelazioni fatte a Milano da Pietro Caporali, dal conte Giuseppe Orselli e dal tipografo Scipione Casali, tutti e tre romagnoli, e sulle deposizioni del dottor Caronzi, di Francesco Conti, di Giacomo Farioli, del Malagoli, del Pampari e di altri sudditi di Francesco IV, che vennero anche messi a confronto con gli imputati parmensi.
Nel novembre del 1822 la sezione di accusa dichiarò non esser luogo a procedere contro il Berchet, il Gioia e tre altri detenuti che furono posti in libertà. Contro gli altri fu pronunciata la sentenza il 29 aprile del 1823: il conte Sanvitale, l'avv. Maestri e quattro altri furono assolti perché poche prove a loro carico; GIUSEPPE MICALI e GIACOMO MARTINI furono condannati a morte; Giovanni Grossardi e Giuseppe Bertucci ad otto anni di carcere, Lodovico Gardoni a quattro, Francesco Thovazzi a tre e Carlo Grossardi ad uno.
Per il Micali e il Martini, la duchessa commutò la pena capitale a vent'anni di lavori forzati. Il Martini, il quale aveva ricevuto una pena così grave solo per aver manifestato un proposito troppo galante da mettere in esecuzione se, nel caso di una rivolta si fosse impadronito di Maria Luisa; poiché i condannati del ducato di Parma abitualmente scontavano la pena nelle prigioni del re di Sardegna, fu mandato prima a Genova, poi a Cagliari e infine a Fenestrelle, da dove (avendo la duchessa nell'agosto del 1825 concesso ai detenuti politici o di abbandonare in tempo l'Italia per tutto il tempo della loro pena o di completare questa con una diminuzione di tre anni - nel forte di Compiano) il Martini andò in Inghilterra e poi a Parigi, dove morì venticinque anni dopo, nel 1848.
Il Micali rimase nelle carceri di Parma fino al 1825 e nel forte di Compiano fino al 1828. Liberato, visse fino al gennaio del 1848. Giovanni Grossardi uscì da Compiano nel 1828, partecipò ai moti del 1831, fuggì in Francia e vi rimase fino al 1848, e finì la vita a Torino nel 1861. Il farmacista Lodovico Gardoni uscì dalla prigione nel 1825, andò in esilio nel 1831 e mori a Parigi nel 1848; il notaio Bertucci soffri il carcere fino al 1831.

Terminato quel processo se ne fece un altro contro i dottori GAETANO NEGRI, FILIPPO BACCHI, SANTE MARCHI, GIUSEPPE GRIMALDI, tutti di Guastalla, e il maggiore Berchet, in base alle deposizioni dei condannati di Rubiera, dei romagnoli Laderchi, Orselli e Casali, del Confalonieri, dell'Andryane, del Manfredini di Enrico Mortara di Casali maggiore, il quale fece inoltre i nomi di Antonio Panizzi e del dottor Domenico Giglioli.
La sentenza si ebbe il 25 settembre del 1823: il BERCHET, il BACCHI, il MARCHI e il GRIMALDI furono condannati a dieci anni di reclusione, ad otto il NEGRI. Sentenza di morte fu pronunziata contro i contumaci capitano ANTONIO BACCHI, conte CLAUDIO LINATI e GUGLIELMO BORELLI.
Altre settantadue persone erano risultate iscritte alla setta dei Carbonari o a quella dei Sublimi Maestri Perfetti, ma la Duchessa, "volendo adoperare clemenza e porre in dimenticanza le perturbazioni che hanno angustiato il materno nostro cuore, e malgrado che tra gli individui sopradetti si trovino alcuni impiegati che, oltre al dovere generale di ogni buon suddito di serbare fedeltà alla Nostra Persona ed obbedienza alle nostre leggi, erano legati a noi ed allo Stato con il giuramento speciale che prestarono prima di esercitare l'impiego cui furono nominati", stabili che fossero assolti da ogni ulteriore inquisizione fiscale ed ordinò al ministro dell'Interno di chiamarli uno ad uno per fare a loro una buona lavata di capo.

Il Berchet, il Grimaldi, il Negri e Filippo, usciti dalla prigione nel 1825 in seguito all'indulto, partirono per l'Inghilterra ed ebbero perfino dalla duchessa cinquecento lire ciascuno. Il BERCHET tornò per breve tempo a Parma nel 1833, partecipò alla campagna del 1848 come capo della Guardia nazionale parmense, e a quella del 1849 come capo dello Stato Maggiore della divisione lombarda del Ramorino e morì generale nel 1864 a Torino.
Il dottor NEGRI, in Inghilterra assistette con affettuosa cura UGO FOSCOLO ammalato, poi tornò in Patria nel 1835 e vi morì di colera nel 1849; il notaio FILIPPO BACCHI dimorò parecchi anni in Inghilterra e morì a Parma ad ottantacinque anni nel 1860; il MARCHI, ex-direttoro delle poste, rimase in patria, rifiutò l'offerta fattagli dalla duchessa di restituirgli l'ufficio e morì nel 1838; il GRIMALDI fece il professore a Liverpool, dove visse fino al 1861; il BORELLI, dopo essere stato in Svizzera e in Francia, tornò a Parma nel 1836 e vi morì due anni dopo; ANTONIO BACCHI, datosi al commercio, morì di febbre gialla mentre viaggiava dal Messico a Bordeaux; il conte LINATI esule in Spagna poi Belgio e nel Messico, qui la febbre gialla l'uccise nel dicembre del 1832.


IL CONGRESSO DI VERONA - ESAME DELLA SITUAZIONE ITALIANA
RICHIESTE DEI RE DI SARDEGNA E DELLE DUE SICILIE
PROPOSTE REAZIONARIE DI FRANCESCO IV DI MODENA
IL COMUNICATO ALLE POTENZE EUROPEE

Nell'ottobre del 1822, indetto dalla Santa Alleanza, avvenne a Verona un congresso cui parteciparono monarchi e diplomatici di quasi tutti gli stati di Europa. Vi erano l'imperatore d'Austria, lo Zar di Russia, il re di Prussia, di Napoli e di Sardegna e il duca di Modena, i visconti di Montmorency e di Chateaubriand, i rappresentanti della Francia, il duca di Wellington e lord Clamwillam, rappresentanti dell'Inghilterra, il Nessalrode e il Capodistria per la Russia, l'Hardenberg per la Prussia, il principe di Metternich, monsignor Spina per il Papa, e il Corsini per la Toscana.

Scopo principale del Congresso erano le cinque grave questioni: la tratta dei negri, la pirateria nell'Atlantico, le controversie tra la Russia e la Porta per gli affari d'Oriente, le condizioni dell'Italia, i pericoli della rivoluzione spagnola rispetto all'Europa e particolarmente alla Francia. Altri argomenti da trattarsi erano: la navigazione del Reno, la sollevazione della Grecia e gli interessi della reggenza di Urgel.
La Grecia inviò a Verona i suoi deputati, ma questi non furono ammessi al Congresso e si sentirono dire (da re che parlavano sempre in nome di Cristo) che il governo del Sultano era legittimo, che inopportuna era stata l'insurrezione e che le potenze altro non potevano fare che pregare (in islamico?) separatamente la Turchia di trattar meno duramente i sudditi greci.

La prima questione trattata fu il commercio dei negri. Il duca di Wellington propose che fossero visitati i bastimenti, che i negrieri fossero trattati alla stregua dei pirati e che s'impedisse la vendita delle mercanzie provenienti dalle colonie coltivate dai negri. Il 28 novembre fu dichiarato che, inalterate restando le massime del Congresso di Vienna, i vari governi si adoprerebbero a far cessare l'infame commercio che desolava l'Africa, disonorava l'Europa ed affliggeva l'umanità.
Trattando la questione della pirateria, lo stesso Wellington propose che si riconoscesse l'indipendenza delle colonie spagnole d'America, affinché i loro governi potessero esercitare un'efficace polizia costiera; ma le varie potenze non accolsero la proposta del rappresentante inglese e su quell'argomento nulla fu deliberato.
Passato ad esaminare la SITUAZIONE ITALIANA, fu proposto il disegno di una federazione di tutti gli stati della penisola con una Dieta residente a Milano, ma CARLO FELICE e monsignor SPINA si opposero energicamente, ben sapendo che nella federazione il primo posto nella dieta sarebbe stato dell'Austria e così il progetto fu respinto.
Discutendosi sulla situazione del Regno delle due Sicilie, fu proposto a FERDINANDO I di dividere l'amministrazione dei due reami per far cessare in tal modo il malcontento dei Siciliani e prevenire futuri disordini nell'isola. Il sovrano, dopo di aver detto di essersi già completamente uniformato alle delibere del Congresso di Lubiana, dichiarò avendo fatto già l'esperienza, come l'amministrazione separata delle due parti del regno era un ostacolo per procedere in meglio nelle cose e che poteva essere semmai causa di disordini e di pericoli all'unità della monarchia; chiese pertanto di dargli la facoltà di mutare la clausola del protocollo che stabiliva due congregazioni consultive, ponendo a Napoli la sede di entrambe perché separatamente vi si discutessero gli affari particolari, e in Comune gli affari generali. La richiesta fu accolta, quindi si deliberò di diminuire la forza dell'esercito austriaco nel Regno delle Due Sicilie fino a quando poteva essere ritirato senza pericolo d'ulteriori sconvolgimenti.

Anche la situazione del Piemonte doveva essere oggetto di esame e, come ci informa lo Chateaubriand, i diplomatici francesi avevano ricevuto dal loro governo queste istruzioni: "Il governo di Sardegna richiederà lo sgombro degli Austriaci dal suo territorio; e la Francia deve appoggiare la sua domanda. È probabile che la corte di Vienna acconsenta a patto di conservare un presidio nella fortezza di Alessandria; però questa occupazione avrebbe due inconvenienti; il primo di essere a carico dell'erario piemontese; l'altro di privare il re di Sardegna di tutto il vantaggio morale che può e deve sperare da un vero e proprio sgombro. Altre difficoltà probabilmente sorgeranno per il ritorno del principe di Carignano CARLO ALBERTO. Pur non credendo a tutte le mire ambiziose che si possono attribuire alla corte di Vienna, si può ragionevolmente pensare che l'Austria desideri che il principe di Carignano sia allontanato; questa vaga ed incerta situazione, pur senza distruggere la legittimità della successione, lascerebbe all'Austria un alto grado d'influenza sul Piemonte, e potrebbe in futuro metterla nelle condizioni da imporre al principe di Carignano patti assai duri: quindi alla Francia a questo disegno deve opporsi".
(i sospetti non erano del tutti infondati; già si parlava a Vienna, o su insistenza del duca di Modena Ferdinando IV, di una eventuale sua successione al Regno di Sardegna, dopo la morte di Carlo Felice)

Il plenipotenziario sardo presentò, a nome di CARLO FELICE, una lunga memoria, in cui dimostrava quanto il governo aveva fatto contro i promotori della rivoluzione e tutti i provvedimenti adottati per evitare possibili rivolgimenti: la pubblicazione del codice penale e militare, l'epurazione dell'esercito e della polizia, l'eliminazione dalle scuole degli insegnanti pericolosi, l'allontanamento dagli uffici degli impiegati sospetti, la promulgazione di nuove leggi di cui si era sentito il bisogno.
Molti buoni propositi vi erano inoltre espressi in quella memoria. Vi si affermava che il re era intento alla formazione di nuove leggi (da una delle quali "la nobiltà, quest'opera dei secoli, questo primo baluardo dei troni" avrebbe ricevuto e fra poco nuovo splendore";) riguardanti l'amministrazione comunale, le opere di beneficenza, le prigioni, la flotta, le strade, i commerci, le industrie, l'agricoltura. Si concludeva che in diciannove mesi il Piemonte aveva fatto tutto ciò che l'Europa era in diritto di voler da lui; perciò il re poteva dire francamente "È giunto il tempo in cui l'armata d'occupazione, questo soccorso da me stesso sollecitato in caso di bisogno, non è più necessario: l'occupazione può cessare dal momento che io sono garante della tranquillità dei miei stati".
Il plenipotenziario sardo proponeva che l'esercito austriaco lasciasse il territorio piemontese in tre scaglioni: quattromila uomini il 31 dicembre del 1822, tremila il 31 marzo dell'anno seguente e gli altri cinquemila dopo sei mesi, di modo che alla fine del settembre del 1823 il Piemonte, compresa Alessandria, fosse sgombrato. Le proposte piemontesi furono approvate.

Per lo Stato Pontificio, il cardinale SPINA, lodata l'opera della Santa Alleanza rivolta allo scopo di assicurare la pace dell'Europa; dichiarò che gli stati della Chiesa erano in perfetta tranquillità, di cui facevano fede le dimostrazioni d'affetto del popolo al Pontefice, conseguenza delle virtù apostoliche del Santo Padre e della saggezza del governo; assicurò che le cure per regolare la pubblica istruzione e l'attuazione del "Motuproprio" erano all'origine della quiete e della prosperità dello stato ed affermò che imparziale e più spedita era diventata l'amministrazione della giustizia, che la polizia vigilava attentamente, che andavano migliorando le finanze in modo da sperare di poter quanto prima eliminare i gravami fiscali e che infine nulla il governo pontificio trascurava per andare incontro ai bisogni del popolo e per fare contente le potenze d'Europa e i principi della penisola.

Per la Toscana, parlando in nome del suo principe, Don NERI CORSINI disse: "Il Granduca rimarrà soddisfatto per le delibere prese al fine di diminuire le milizie austriache stanziate in Piemonte e anche per lo sgombro totale, come pure per diminuire l'armata che occupa il reame di Napoli, e le modifiche degli articoli stabiliti a Lubiana sull'organico di questo regno. Sarà pure contento per il perfetto accordo che c'è tra le cinque potenze e che sarà considerato come la più salda garanzia della tranquillità e prosperità della penisola. Il Granduca non potrà che applaudire alle direttive manifestate nella circolare delle tre corti d'Austria, di Prussia e di Russia ai loro legati presso i sovrani d'Italia nel 1821, perché quelle norme sono conformi ai suoi principi. Egli non cessa dalle sue sollecitudini per riaffermare la prosperità dei suoi popoli che ogni giorno gli offrono prove di fedeltà, di devozione e di riconoscenza e la sua illimitata fiducia nelle intenzioni giuste e amichevoli con quelle corti. Egli saprà apprezzare infinitamente questa nuova testimonianza della loro sincera premura per la sicurezza dei governi d'Italia e per la prosperità dei popoli da loro retti".

Anche il duca di Modena FERDINANDO IV lesse una sua lunga memoria in cui proponeva, allo scopo di raffermare i principi dell'ordine pubblico.
"stroncare ogni altra velleità liberale del popolo, dopo quel "sapore di libertà" provata nel periodo napoleonico. Da Metternich chiamata "rivolta degli spiriti" e che dovremmo sfruttare ora a nostro vantaggio, mettersi noi alla loro testa".
Le riforme costituzionaliste? Sono un pretesto, non ragione, della Rivoluzione"

Ecco il documento (testo fedele, letterale, compresi gli errori)

"Ai potenti saggi d'Europa

" ... Se si considera lo stato precedente in cui si trovava l'Italia prima della rivoluzione di Francia, il carattere e i costumi differenti dei differenti popoli d'Italia, se non vi si mette rimedio pronto ed efficace, quali sarebbero i rimedii principali che bisognerebbe avere in vista per assicurare la felicità di questi popoli e ottenervi una durevole tranquillità? I principali difetti adunque possono ridursi ai seguenti:

1. La mancanza di religione e l'avvilimento nel quale si è voluto gettarla, come la guerra costante che si è fatta ai suoi principii, alle sue pratiche e ai suoi ministri.
2. La diminuzione del Clero e l'avvilimento nel quale si è voluto gettarlo, come la sua indipendenza dal Capo della Chiesa, che si è voluto introdurvi.
3. L'annientamento della Nobiltà, privandola di tutte le sue prerogative, volendola impoverire, avvilire ed eguagliare alle classi inferiori.
4. La limitazione dell'autorità paterna, di quell'autorità stabilita da Dio stesso, ed è voluta dalla natura.
5. La suddivisione delle fortune per mezzo di leggi e concessioni fatali, che dissolvono le famiglie e tutti i loro beni, e tendono a ridurre a poco a poco gli individui egualmente infelici.
6. La milizia troppo mercenaria, guasta nei principii, e indifferente a servire chicchessia, se la paga bene, ed a cambiare padrone se spera migliorare la sua sorte.
7. La corruzione dei costumi voluta e stabilita come principio a meglio sradicare la religione, i buoni sentimenti, l'onore, e rendere gli uomini brutali, a fine di poter meglio servirsene come istrumenti nell'esecuzione di tutti i più perfidi disegni; poiché l'uomo che si lascia prendere la mano dalle passioni brutali, perde ogni energia, capacità, diviene una specie di bestia o di macchina.
8. La corruzione della dottrina e dei principii, ciò che si effettuò con la libertà della stampa, e con la grande premura di spargere cattivi libri, di allontanare i buoni, e di far sì che tutte le classi imparino a leggere e scrivere, ed abbiano qualche idea di studii per avere il mezzo di influenzarle.
9. La buona educazione della gioventù è impedita, e la cattiva e invece facilitata, incoraggiata.
10. L'abolizione delle Corporazioni religiose e delle Corporazioni secolari, come quelle delle arti e mestieri, che distinguono le classi degli uomini, le tengono in una necessaria e salutare disciplina, e che servono ad occuparli.
11. La pericolosa e viziosa moltiplicazione degli impiegati e il "male è" che ciascuno possa aspirare a qualunque carica, senza differenza di stato e di condizione.
12. I troppi riguardi e la considerazione che si dà, senza distinzione di merito, ad ogni uomo letterato, e la soverchia moltiplicazione di professori d'ogni sorta, il troppo potere e diritto che loro si concede, la troppo grande facilità stabilita ovunque per la gioventù di studiare, ciò che rende tanta gente infelice e scontenta; poiché non tutta trova ad occuparsi, e i soverchii studii che si sono fatti fare a ciascuno, fanno sì che in fondo non imparino niente, e divengano presuntuosi.
"È d'uopo qui aggiungere alcune altre cause di rivoluzioni, alle quali è necessario cercare di rimediare, e sono:
I - L'ozio, che è molto amato in Italia e che bisogna vincerlo e combatterlo, giacché trascina tutti i vizii ed è una grande sorgente di rivoluzioni.
II - Il grande amalgamamento continuo con tanti forastieri che sono incessantemente in moto per tutta Italia, e che portano dappertutto la corruzione dei costumi, e guastano lo spirito nazionale e i buoni principii.
III - La soverchia lungaggine nell'amministrazione della giustizia, vuoi nei processi civili, vuoi nei criminali.
IV - La instabilità delle imposte, che è talvolta più sensibile e dispiace più della gravezza delle medesime.
V - Certe imposte vessatorie nel modo di percezione, o che non sono ben proporzionate e divise; come ancora, allorché per uno squilibrio delle finanze si è obbligati a sopraccaricare il popolo di tasse. VI - Le leggi che inceppano il libero commercio delle derrate, principalmente quelle di prima necessità, dei commestibili, ecc.; giacché la mancanza o la penuria dei medesimi suscitano egualmente lagnanze e mormorazioni, come la loro troppa grande abbondanza che ne avvilisce il prezzo e avvezza troppo la plebe a una felicità, che, non potendo durare, la rende infelice, allorché finisce; invece che il libero commercio di quelle derrate la tiene sempre in certo equilibrio".

Duca di Modena FRANCESCO IV

(Da Storia documentata della Diplomazia europea in Italia dal 1814 al 1861
di Nicomede Bianchi. - Torino 1865, vol. 2 pag. 357).

Inoltre il duca di Modena chiedeva al Congresso che fossero adottati dei provvedimenti radicali contro i liberali italiani e proponeva che s' istituisse in Verona un Tribunale supremo centrale di inquisizione politica, al cui giudizio i governi della penisola dovevano inviare tutti i sospetti di liberalismo, che i governi degli stati rappresentati al Congresso stabilissero di confinare gli esuli politici italiani in America obbligando gli altri stati ad accettare tale decisione, e infine che "imponessero alla Repubblica Svizzera di espellere dal suo territorio i fuorusciti italiani".

Le proposte di Francesco IV non ebbero fortuna; per l'opposizione di alcuni plenîpotenziari furono respinte tutte eccetto l'ultima; e si stabilì che non una nota collettiva dovesse essere inviata alla Confederazione elvetica, ma un invito da ciascuno stato.

Poi nel Congresso di Verona si doveva trattare una importantissima questione: quella della successione del principe di Carignano CARLO ALBERTO al trono di Sardegna.
CARLO FELICE, (lo zio) preoccupato dal pensiero che doveva succedergli un principe noto per i suoi sentimenti liberali, aveva manifestato il desiderio di fare approvare dai sovrani riuniti in Congresso una prammatica sanzione per effetto della quale Carlo Alberto, reo di partecipazione ai moti del 1821, doveva essere privato dal diritto di successione, del quale doveva essere invece investito il figlioletto di lui VITTORIO EMANUELE (il futuro re aveva allora 2 anni). Ma il principe di METTERNICH e FRANCESCO I d'Absburgo - cui si associarono poi lo Zar, la Francia e l'Inghilterra - dichiararono alla vigilia del Congresso di non potere "impunemente attentare senza scuotere le basi di tutti i Governi al principio immutabile delle legittimità" e così della successione di CARLO ALBERTO non si occupò più il Congresso di Verona.

Si occupò invece della situazione spagnola e, nonostante l'opposizione dell'Inghilterra, deliberò un intervento armato in Spagna, del quale fu incaricata la Francia.
Alla metà del dicembre del 1822 terminò il Congresso, e delle cose trattate diffusero i provvedimenti con una circolare a tutte le corti d'Europa i plenipotenziari dell'Austria, della Russia e della Prussia. Parlando dell'intervento nel Regno delle Due Sicilie e del Piemonte i documenti sostenevano che "i sovrani alleati, erano stati spinti da nessuna mira segreta, da nessun calcolo d'ambizione, ma dal desiderio di stabilire in quei reami l'ordine e la quiete e di porgere ai legittimi governi quell'aiuto che erano in diritto di chiedere".
Accennando all'insurrezione della Grecia, affermavano:

"Verso la fine del congresso di Lubiana un altro fatto di maggiore importanza è avvenuto. Nelle estremità orientali d'Europa il genio rivoluzionario aveva eseguito ciò che aveva incominciato nella Penisola occidentale e tentato in Italia. Nel momento stesso in cui le ribellioni militari di Napoli e di Torino cedevano all'avvicinarsi di una forza regolare, nell'impero ottomano si accendeva il fuoco dell'insurrezione. La contemporaneità degli avvenimenti non lasciava né poteva lasciar alcun dubbio sulle cause della loro origine: lo stesso male riprodotto in tanti luoghi diversi e sempre con forme e linguaggio somiglianti, sebbene con pretesti differenti, ne indica chiaramente la comune sorgente. Gli uomini che avevano regolato questo movimento si auguravano di trarne partito per seminare la divisione nei consigli dei potentati, per indebolire le loro forze che per i nuovi pericoli avevano bisogno in altre parti d'Europa. Ma questa loro speranza è svanita giacché i monarchi fermi nello stroncare le ribellioni, in qualunque luogo si manifestino e con qualunque pretesto, si trovarono concordi nel condannare quel movimento. Non volendo allontanarsi dai loro principi, avendo alta considerazione per questi, ascoltando la voce della loro coscienza e quella di un sacro dovere, difesero la causa dell'umanità a favore delle vittime di un impresa sconsiderata a nello stesso tempo colpevole"..

Mentre parlando della situazione Spagnola, affermavano:

Ma prima ricordiamo cos'era accaduto In Spagna due anni prima:
Con la Restaurazione la reazione assolutista di Ferdinando VII fu particolarmente brutale. Com'era accaduto anche in Italia, il Re appoggiato dalla vecchia aristocrazia dei grandi proprietari fondiari e del clero tornato sul trono "ricusò tutte quelle riforme progressiste" avviate negli anni 1808-1814, tra cui quella "famosa" Costituzione" che prese il nome "Del 1812". Costituzione poi invocata - come abbiamo visto- da tutti gli altri stati in rivolta. Questa, di carattere democratico, prevedeva un Parlamento monocamerale, eletto a suffragio universale indiretto, e limitava fortemente l'autorità regia. Tornato l'assolutismo la situazione (come in Piemonte, come Nel Regno delle Due Sicilie) divenne critica; finche, nel 1820, quando il Re organizzò una spedizione militare per la riconquista delle colonie militari americane, dove era in corso la guerra di liberazione, i soldati riuniti a Cadice, si ammutinarono e rifiutarono di partire e insorsero guidati dal colonnello RAFAEL de RIEGO, affiancati dai molti aderenti alle società segrete.
Ricordiamo anche che furono proprio questi fatti (gennaio 1820), che innescarono in Italia le rivoluzioni: prima quella di luglio 1820 a Napoli, poi in Sicilia, poi in Piemonte e infine in Grecia.

Ferdinando VII fu quindi costretto a ripristinare in Spagna la Costituzione (nota come quella di "Cadice") e indire le elezioni generali.
E fu questo il "campanello d'allarme" che suonò nelle varie corti Europee, ma soprattutto a Vienna, ormai predominante in questi anni con la sua politica imperialista, affiancata dalla Russia, dalla Prussia, un po' meno dall'Inghilterra, e meno ancora dalla Francia che purtroppo (come perdente) era costretta a fare buon viso a cattiva sorte. (Sia l'Inghilterra sia la Francia non gradivano di certo questa predominazione austriaca, oltre alla grande influenza che essa esercitava su altri Stati - vedi Italia). Tuttavia a Verona le altre quattro potenze si allinearono alla linea austriaca di Metternich, già accennata sopra e che proseguiva con questo tenore:

"La Spagna subisce quella sorte che è riservata sempre a tutti quei paesi che per loro disgrazia hanno cercato il bene per una via che mai vi conduce: percorre essa il fatale circolo di quella sua rivoluzione che uomini o traviati o perversi hanno preteso di rappresentare come un beneficio, anzi come il trionfo del secolo di lumi.
"Tutti i governi sono stati testimoni dei tentativi che questi perversi e traviati uomini hanno fatto per persuadere i loro contemporanei che questa rivoluzione è il frutto necessario e fortunato dei progressi della civiltà ed i modi con i quali essa si è compiuta e sostenuta è il più pregevole slancio del patriottismo.
"Se la civiltà potesse avere per suo scopo la distruzione della congregazione umana, e sostenere che è giusto che una forza militare abbia facoltà d'impadronirsi della direzione degli stati, nei quali nessun altro dovere ha che di mantenere la pace interna ed esterna, allora la rivoluzione spagnola avrebbe ragione per essere universalmente ammirata, e la rivolta militare dell'isola di Leon potrebbe servire come modello ai riformatori.
"Ma la verità ha ripreso presto i suoi diritti, perché la Spagna sacrificando la sua prosperità e la sua gloria ha fornito un funesto esempio dalle più terribili conseguenze per le leggi eterne del mondo morale.
"Il potere legittimo incatenato e ridotto a servire come strumento per rovesciare tutti i diritti e tutte le legali libertà; tutte le classi della popolazione sono sconvolte dal moto rivoluzionario; c'è l'arbitrio e l'oppressione travestiti e praticati sotto le forme della legge; c'è un regno in preda ad ogni maniera di agitazione e di disordine; ci sono ricche colonie che chiedono la loro indipendenza con quelle massime sulle quali la madre patria ha già stabilito il suo diritto pubblico, ma che loro vorrebbero ricreare in un altro emisfero; infine c'è la guerra civile che divora le ultime sostanze dello stato; tale è l'aspetto che presenta oggi la Spagna, questa la sciagura che affligge un popolo leale e meritevole di diversa sorte; questa è finalmente la cagione delle giuste inquietudini prodotte nei paesi che sono a contatto con la penisola.
"Se nel seno della civile congregazione europea si è innalzata a potenza, e nemica dei principi conservatori, nemica sopratutto di quelli che sono il fondamento dell'alleanza europea, questa è appunto la Spagna, nella sua condizione attuale di disorganizzazione. I monarchi potevano forse guardare con indifferenza tanti mali accumulati sopra un paese, mali che potrebbero portare tanti pericoli anche agli altri?
"Non dovendo consultare se non la propria coscienza, i monarchi si sono fatti da soli la domanda; se in tale condizione di cose con la minaccia di diventare sempre più terribile e pericolosa, avevano facoltà di rimanere tranquilli spettatori, di dare con la presenza dei loro ambasciatori la falsa approvazione alle azioni di una setta risoluta ad ogni impresa per conservare il suo funesto potere? Le loro decisioni non potevano avere dubbi: quindi i rispettivi legati hanno avuto l'ordine di partire verso la penisola. Qualunque sia la conseguenza di questo provvedimento, i monarchi avranno mostrato all'Europa che per nessuna ragione possono allontanarsi da una delibera sanzionata dal profondo convincimento. Nel quale rimarranno costanti e per l'amicizia che manifestano alla maestà del re Cattolico Ferdinando VII e per il desiderio del bene di quella nazione che in altri tempi si è segnalata per le sue virtù e per la sua grandezza".

Accennando poi alle massime generali che regolavano le azioni dei sovrani, affermavano:

" L' Europa tutta deve avere la certezza essere le loro opere in armonia con l'indipendenza e con la forza dei governi e con l'utilità bene intesa dei popoli: considerare come nemici soltanto quelli che congiurano contro l'autorità legittima degli uni e ne impongono alla buona fede degli altri, per trascinarli in un abisso comune.
"I voti dei monarchi sono per la pace; la quale, se questa è fermamente stabilita fra le potenze, non può ridistribuire sugli uomini i suoi benefici, finché non si abbatte la setta autrice di tutti gli sconvolgimenti; finché i capi e i loro strumenti non cesseranno di tormentare i popoli con la menzognera rappresentazione del presente o con i timori chimerici dell'avvenire, sia che muovano a fronte scoperta ad assalire i troni o le istituzioni, sia che lavorino nelle tenebre con le congiure e col corrompere la pubblica opinione.
"I più vigorosi provvedimenti del governo non avranno effetto; i miglioramenti approntati con tanto studio rimarranno privi di buon successo; non rinascerà insomma negli uomini la confidenza se non quando saranno ridotti impotenti i fautori delle odiose trame: né i monarchi potranno credere di avere adempiuto il loro dovere fino a quando non hanno strappato di mano a quelli le armi e che potrebbero adoperare domani a danno della tranquillità universale".

Questi concetti gli ambasciatori delle altre corti li dovevano far presenti ai governi degli stati presso di cui erano accreditati, aggiungendo:

"Per assicurare all'Europa, insieme con la pace che essa gode in virtù dei trattati, e quello stato di calma e di fermezza, fuori del quale non si dà vera felicità per le nazioni, i monarchi devono fare affidamento sull'aiuto sincero e costante di tutti i governi: questo chiedono per loro utilità, per la conservazione dell'ordine sociale, per il bene delle generazioni future. Abbiamo tutti negli animi questa verità, che il potere nelle loro mani è un sacro deposito del quale debbono render conto ai loro popoli ed alla posterità, e si assumono una grave responsabilità abbandonandosi ad errori o ascoltando consigli che presto o tardi li porrebbero nell'impossibilità di salvare i loro sudditi dalle sciagure da loro medesimi preparate".

Fu così che nei riguardi della Spagna, il congresso deliberò un intervento armato per ristabilire l'ordine legittimista, affidando alla Francia il compito di reprimere militarmente l'insurrezione. Ne parleremo ancora nelle prossime puntate, poiché per dare prova di fedeltà all'assolutismo, CARLO ALBERTO partirà per la Spagna (come semplice granatiere) a combattere i democratici di Cadice e a distinguersi in battaglia per togliere ogni ombra di dubbi a Metternich e a suo zio Carlo Felice.

Ma nella prossima puntata, poiché ci stiamo occupando degli Stati Italiani;
dobbiamo trattare i seguenti temi:

LO STATO PONTIFICIO E LE SETTE - LA "LEGIONE ROMANA"
REAZIONE INIZIATA DAI CARDINALI RUSCONI E SANSEVERINO
MORTE DI PIO VII ED ELEZIONE DI LEONE XII
GOVERNO E POLITICA DI LEONE XII
IL CARDINALE RIVAROLA IN ROMAGNA


è la prossima puntata > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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