ANNI 1834-1845

10 ANNI DI TENTATIVI -LA "GIOVINE EUROPA"- I F.LLI BANDIERA
I PROCLAMI

MAZZINI DOPO IL TENTATIVO DI PENETRARE NELLA SAVOIA - GIUSEPPE MAZZINI FONDA LA "GIOVINE EUROPA" - LA "TEMPESTA DEL DUBBIO" - MAZZINI IN INGHILTERRA A LONDRA - RISVEGLIO DELLA "GIOVINE ITALIA" - NICOLA FABRIZI E LA "LEGIONE ITALICA" - IL "COMITATO MISTO" DI PARIGI - LA BANDA DEI FRATELLI MURATORI - IL COLONNELLO RIBOTTI - LA BANDA GIUGNI - LA COMMISSIONE MILITARE A BOLOGNA: PROCESSI E CONDANNE -= IL MOTO COSENTINO - I FRATELLI BANDIERA; LA SPEDIZIONE IN CALABRIA, LETTERE AL PADRE, PROCLAMI AL POPOLO - IL TRADIMENTO - I BANDIERA NELLE CARCERI DI COSENZA, IL PROCESSO, LA FUCILAZIONE, MAZZINI ESALTA IL MARTIRIO
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Mazzini lo avevamo lasciato (nel "Riassunto" "La fallita invasione" - periodo 1832-1834) quando dopo aver perso conoscenza durante la sfortunata spedizione, si risvegliava in una caserma, circondato da soldati stranieri. Lui stesso ci ricorderà che svegliandosi prese atto che non era solo fallita la missione ma che "finita era la "Giovine Italia", anche se poi nelle sue successive memorie gli fu permesso di scrivere che "era finito solo il "primo periodo" della Giovine Italia".

In effetti l'insuccesso della spedizione della Savoia fu un colpo per il Mazzini e per la Giovine Italia. Gli esuli -chi aveva partecipato e chi sperava di partecipare nelle successive azioni- cominciarono a disperare e il Mazzini rimase con pochi fedeli a perseverare nella lotta, a ravvivare nei compagni la fede e ad infonderla nell'animo degli altri.
Quello stesso anno 1834 egli scriveva a PIER SILVESTRO LEOPARDI:

"Avete fede ne' destini d'Italia? Avete fede nel secolo? V'arde il sacro pensiero di proclamare l'unità delle famiglie italiane? Avete provato quanto ha di grande, di solenne, di religioso il concetto che chiama la generazione del secolo decimonono a creare un'Italia? Volete farla grande e bella fra tutte le nazioni? Intendete come si tratti per noi dell'opera immensa, divina, ove riesca a darle la parola dell'epoca nuova, di cacciarla alla testa di un periodo di civiltà, di commetterle una missione che influisca sull'umanità intera? Allora staccatevi dalle idee di una transazione anche momentanea, anche concepita come gradino al meglio, e siate repubblicano, repubblicano fin d'oggi, apertamente, e credente alla necessità, alla possibilità dei simbolo repubblicano".


Ma Pier Silvestro Leopardi sosteneva una federazione di stati costituzionali e si allontanò dal Mazzini al quale scrisse che le loro vie, pur puntando verso una medesima mèta, erano troppo diverse perché possano camminare insieme. Il Leopardi, e con lui parecchi altri, si accostò a quella corrente più moderata che a Parigi faceva capo a TERENZIO MAMIANI e credeva impossibile la liberazione dell'Italia senza l'aiuto delle armi francesi; cosicché il Mazzini rimase ancor più solo.
Parecchi altri iscritti alla Giovine Italia, non volendo aspettare in ozio tempi migliori per la patria andarono a combattere per i costituzionali nella Spagna e nel Portogallo.

Citiamo i nomi di MANFREDO FANTI, NICOLA FABRIZI, NICOLA ARDUINO, ENRICO CIALDINI, DOMENICO CUCCHINI, GIACOMO DURANDO, NICOLA RICCIOTTI, IGNAZIO RIBOTTI, dei PIEMONTESI CARREL, PIAGGIO, OLIVERI, GHIONE, DE ROLANDO e CLERICO, dei napoletani ZUPPI, D'APICE, GHIAMOY e CURCI, dei lombardi LIRONI, TIBOLDI, PIZZI, REZIA, OSIO e ancora VECCHI, LAMBERTI, DAZZO, DEL NUSCHI, CAVALLERI, FABRI, GHERARDI. Tutti offrirono belle prove di valore e si guadagnarono promozioni.
Fu promosso al grado di generale di divisione il genovese BORSO di CARMINATI, già ufficiale nell'esercito sardo, esule nel 1821, che si era segnalato a Parigi per coraggio e valore nelle tre giornate del luglio del 1830 e si distinse come ufficiale superiore del reggimento della Regina ad Oporto e nelle province di Catalogna, Aragona e Valenza.

Intanto l'Austria, la Sardegna ed altre potenze facevano vibrate proteste al governo svizzero perché dava asilo ai fuorusciti e insistevano perché fossero cacciati dal loro Stato.
"Per quattro mesi - scrive il Mazzini - le note piovevano come grandine, come locuste, come mosche sopra un cadavere, sulla povera Svizzera. Vennero da Napoli, dalla Russia, dai quattro punti cardinali e intimavano tutte, con linguaggio più o meno acerbo d'ira e minaccia: "Scacciate i proscritti !"
"L'Italia si cingeva di patiboli; la Germania guardava con terrore a vedere se taluno di quei giovani erranti non si celasse nel folto della Foresta Nera; la Francia, la Francia dei dottrinari e degli elettori privilegiati, consentiva loro la via attraverso le proprie terre, ma faceva di quella via un ponte di sospiri, per il quale andavano a morire di stenti e miseria in altre terre lontane, e ignorava i soccorsi lungo la via, ma accordava il soldo ai gendarmi che li trascinavano alla corda dei loro cavalli, al valore talora poneva catena al collo di quei nobili perseguitati".

Il governo svizzero "con le note che piovevano come grandine", all'inizio si rifiutò di cacciare i fuorusciti e protestò pure contro l'attentato alla sovranità del suo stato nel leggere simili richieste di fratto; ma Carlo Alberto che era diventato più reazionario degli stessi austriaci, minacciò la Svizzera con il blocco commerciale e allora il Direttorio elvetico fu costretto ad espellere gli esuli.
Il Mazzini, dopo di essere vissuto per qualche tempo a Losanna a Bieune, a Soleure, si trasferì a Berna, tollerato dal governo svizzero, e qui tradusse in atto il disegno, concepito dopo il fallimento della spedizione di Savoia, di fondare la "Giovine Europa".

"II concetto della Giovine Europa - scrive lo stesso Mazzini - io l'avevo da molto tempo, da quando io mettevo le basi della Giovine Italia: a quel punto l'occasione mi parve giunta, e prima che i proscritti raccolti attorno a noi si perdessero, volli gettare almeno il germe di quel concetto in altri. Avrà sviluppo? non so; non certamente quale io vorrei. La Giovine Europa per me è ben altro che setta: vorrebbe essere concorso e associazione d'intelletti e lavori d'applicazione in tutti i rami dell'attività sociale, e studi profondi e concentrati intorno alle lingue e alle razze e alle origini storiche per cercarvi la missione che la nuova epoca assegna ai diversi popoli, e dedurre il futuro ordinamento europeo che certo non sarà l'attuale, quello dei re; vorrebbe essere un collegio d'intelletti che, senza occuparsi del lavoro materiale di cospirazione, sovrintendesse alla direzione generale del moto europeo; vorrebbe essere un giornale mensile, che svolgesse il principio della nuova epoca, che trattasse la causa di tutti i popoli, e i meno noti più degli altri; dell'Ungheria, della Boemia, del Tirolo, della rinascente Grecia, e dei tanti altri che avranno una parte importante nella carta politica dell'Europa dei popoli; vorrebbe fondi e viaggiatori e infiniti altri mezzi; e al disotto di tutto questo la cospirazione segreta per insorgere.

"Né tutto ciò non si avrà forse mai. Eppure vi è tal cosa, che mi sembra d'alta importanza, e questa, in parte almeno, la "Giovine Europa" la otterrà - ed è l' "emancipazione" della Francia, intendo dal dominio esclusivo sulle idee e sui moti esercitate fino ad ora con tanta rovina della stessa Francia; un incremento di spirito nazionale, un convincimento che siamo alla vigilia di un'epoca nuova, e che la Francia ha conclusa l'altra, ma non ha iniziato questa - che il terreno è vergine - che sta a tutti noi il lanciarsi - e che il primo a lanciarsi con successo sarà il popolo iniziatore dell'epoca. Voi intendete ciò che io vagheggio per l'Italia, e intendete il perché io ho aggiunto fin da principio al motto della "Giovine Italia libertà ed eguaglianza" la parola "umanità" .... In Italia il lavoro doveva inevitabilmente rallentarsi. Bisogna dar tempo agli animi di riaversi, ai padroni di credersi vincitori e riaddormentarsi. Ma potevamo rifarci all'estero delle perdite dell'interno e lavorare per insorgere un giorno e gettare una seconda chiamata all'Italia, forti d'elementi stranieri alleati e dell'opinione europea. Potevamo, nel disfacimento che io vedeva lentamente compiersi d'ogni principio rigeneratore, d'ogni iniziativa di moto europeo, preparare il terreno alla sola idea che mi pareva chiamata a rifare la vita dei popoli, quella della nazionalità; e un'influenza iniziatrice, in quel moto futuro all'Italia. Nazionalità e possibilità d'iniziativa italiana: fu questo il programma, questa la doppia idea dominatrice d'ogni mio lavoro dal 1834 al 1837… Pensai che il lavoro doveva estendersi tra i popoli che non erano ancora nazioni e tendevano ad esserlo... Sono in Europa tre famiglie di popoli, l'Elleno-Latina, la Germanica, la Slava. L'Italia, la Germania, la Polonia le rappresentavano. La Grecia, santa di ricordi e speranze, e chiamata a grandi fati nell'Oriente Europeo, è ora troppo piccola per essere l'iniziatrice. La Russia dormiva allora un sonno di morte: mancava di un centro visibile in cui la vita potesse assumere a potenza praticamente direttiva, né a me pareva che potesse sorgere così presto a coscienza di sé. Il nostro patto d'alleanza doveva dunque stringersi prima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia, la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati ciascuno intorno al popolo più affine a loro medesime fra i tre. Da questi pensieri nacque l'associazione che chiamammo "Giovine Europa".

Il patto di fratellanza della "Giovine Europa" fu segnato a Berna nel 1834: per gl'Italiani si firmarono il MAZZINI, L. A. MELEGARI, GIACOMO CIANI, GASPARE ROSALES, i fratelli, RUFFINI, A. GHIGLIONE; altri si sottoscrissero per i Polacchi ed i Tedeschi. Il patto conteneva la seguente dichiarazione:

"1° La Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia, associazioni repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e dirette da una stessa fede di libertà, d'eguaglianza e di progresso, si collegano fraternamente, ora e sempre, per tutto ciò che riguarda il fine generale;
2° Una dichiarazione de' principii che costituiscono la legge morale universale applicata alle società umane sarà stesa e firmata dai tre Comitati nazionali. Essa definirà la credenza, il fine e la direzione generale delle Associazioni. Nessuno potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione colpevole dell'atto di fratellanza e senza soggiacere a tutte le conseguenze di quella violazione.
3° Per tutto ciò è compreso nella dichiarazione dei principi ed esce dalla sfera degl'interessi generali ciascuna delle tre associazioni è libera e indipendente.
4° L'associazione difensiva e offensiva, espressione della società dei popoli, è stabilita fra le tre associazioni. Tutte lavorano concordemente alla loro emancipazione. Ciascuna avrà diritto al soccorso delle altre per ogni solenne e importante manifestazione che avrà luogo in seno ad essa.
5° La riunione dei comitati nazionali o dei loro delegati costituirà il comitato della Giovine Europa.
6° E' fratellanza tra gli individui che compongono le tre associazioni. Ciascuno di essi compirà verso gli altri i doveri che ne derivano.
7° Un simbolo comune a tutti i membri delle tre associazioni sarà determinato dal Comitato della "Giovine Europa". Un motto comune indicherà la pubblicazione delle associazioni.
8° Ogni popolo che vorrà essere partecipe dei diritti e dei doveri stabiliti da quest'alleanza aderirà formalmente all'atto di fratellanza per mezzo dei propri rappresentanti".

Intanto la diplomazia della Santa Alleanza, cui si era unita quella del governo di Luigi Filippo, premeva sul governo elvetico perché gli esuli fossero espulsi, e il Direttorio condannava il Mazzini e i suoi compagni all'esilio perpetuo.


IL DUBBIO

Era la seconda metà del 1836. Il Mazzini aveva lottato troppo; abbandonato da non pochi amici, perseguitato dai governi, amareggiato dagli insuccessi, il grand'esule fu assalito da una terribile crisi.
Scrisse poi il Mazzini: "Fu la tempesta del Dubbio .... in quei mesi fatali mi s'addensarono nella scarna sua nudità la vecchiaia dell'anima solitaria e il mondo deserto d'ogni conforto nella mia battagli. Non era solamente la rovina, per un tempo indefinito, d'ogni speranza italiana, la dispersione dei nostri migliori, la persecuzione che disfacendo il lavoro svizzero ci toglieva anche quel punto vicino all'Italia, l'esaurimento dei mezzi materiali, l'accumularsi d'ogni difficoltà pressoché insormontabili tra il lavoro iniziato e me; ma il disgregarsi di quell'edificio morale d'amore e di fede nel quale soltanto io poteva attingere forze a combattere lo scetticismo che vedevo sorgermi innanzi dovunque io guardassi, l'illanguidirsi delle credenze in quelli che si erano più affratellati con me sulla via che sapevano tutti fin dai primi giorni gremita di tribolazioni, e più d'altra cosa, la diffidenza, che io vedevo crescermi attorno ai miei più cari, delle mie intenzioni, delle cagioni che mi sospingevano ad una lotta apparentemente ineguale. Poco m'importava anche allora che l'opinione dei più mi fosse avversa. Ma il sentirmi sospettato d'ambizione o d'altro meno che nobile impulso da due o tre sui quali io aveva concentrato tutta la mia potenza d'affetto, mi prostrava l'anima in un senso di profonda disperazione. Ora questo mi fu rivelato in quei mesi appunto nei quali, assalito da tutte le parti io sentivo più prepotente il bisogno di ricoverarmi nella comunione di poche anime sorelle che m'intendevano anche tacendo: che indovinavano ciò eh, io, rinunciando deliberatamente ad ogni gioia di vita, soffrivo; e soffrissero, sorridendo, con me. Senza scendere a particolari, dico che quelle anime si ritrassero allora da me. Quando mi sentii solo nel mondo - solo, fuorché con la povera mia madre, lontana e infelice essa pure per me - atterrito mi arretrai davanti al vuoto. Allora, in. quel deserto, mi si affacciò il Dubbio. Forse io sbagliavo mentre il mondo aveva ragione. Forse l'idea che io inseguivo era un sogno. E forse io non seguivo un'idea, ma la mia idea, seguivo l'orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria più che l'intento della vittoria, l'egoismo della mente e i freddi calcoli di un intelletto ambizioso, inaridendo il core e rinnegando gl'innocenti spontanei suoi moti che accennavano soltanto ad una carità praticata modestamente in un piccolo cerchio, ad una felicità versata su poche teste e divisa, a doveri immediati e di facile compimento. Il giorno in cui quei dubbi mi solcarono l'anima, io mi sentii non solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un condannato conscio di colpa e incapace d'espiazione. I fucilati d'Alessandria, di Genova, di Chambery, mi sorsero innanzi come fantasmi di delitto e rimorso purtroppo sterile. Io non potevo farli rivivere. Quante madri avevano già pianto per me? Quante piangerebbero ancora se io mi ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d'una Patria comune, la gioventù dell'Italia ? E se questa patria non fosse che un'illusione? Se l'Italia, esaurita da due epoche di civiltà, fosse oggimai condannata dalla Provvidenza a giacere senza nome e missione propria aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita? D'onde traeva io il diritto di decidere sull'avvenire e trascinar centinaia, migliaia d'uomini al sacrificio di sé e d'ogni cosa più cara?".

Ma la crisi fu superata quando gli balenò alla mente il pensiero: "questa tua è una tentazione dell'egoismo: tu fraintendi la vita". Egli comprese che la vita è missione e il Dovere quindi è la sua legge suprema.

"Nell'intendere quella missione e nel compiere quel dovere sta per noi il mezzo d'ogni progresso futuro, sta il segreto dello stadio di vita al quale, dopo questa umana, saremo iniziati. La Vita è immortale: ma il modo e il tempo delle rivoluzioni attraverso le quali essa farà progressi è nelle nostre mani. Ciascuno di noi deve purificare, come tempio, la propria anima d'ogni egoismo, collocarsi di fronte, con un senso religioso dell'importanza decisiva della ricerca, al problema della propria vita, studiare qual sia il più rilevante, il più urgente bisogno degli uomini che gli stanno intorno, poi interrogare le proprie facoltà e adoprarle risolutamente, incessantemente, con il pensiero, con l'azione, per tutte le vie che gli sono possibili, al soddisfacimento di quel bisogno. E quell'esame non è da comprendersi con l'analisi che non può mai rivelar la vita ed è impotente ad ogni cosa se non quando è ministra ad una sintesi predominante, ma ascoltando le voci del proprio cuore, concentrando a getto sul punto dato tutte le facoltà della mente, con l'intuizione insomma dell'anima amante compresa della solennità della vita. Quando l'anima vostra, o giovani, fratelli, amici, ha intravisto la propria missione, seguitela e nulla vi arresti; seguitela fin dove le vostre forze arrivano; seguitela accolti dai vostri contemporanei o fraintesi, benedetti d'amore o visitati dall'odio, forti; d'associazione con altri o nella solitudine tristissima che si stende quasi sempre ai Martiri del pensiero. La via vi è mostrata: siete codardi e tradite il vostro futuro se non sapete, per delusioni o sciagure, correrla intera".

Vinto il dubbio, il Mazzini lasciava, nel dicembre del 1836, la Svizzera e si recava in Inghilterra, deciso a continuare la lotta che ora era l'unico scopo della sua vita.

IL MAZZINI IN INGHILTERRA
I MOTI RIVOLUZIONARI NELLE ROMAGNE E NELLA CALABRIA
LA SPEDIZIONE DEI FRATELLI BANDIERA

A Londra, dove MAZZINI si recò, tirò a campare dapprima in gravi angustie; rese più acute dalla morte di una sorella e dal graduale affievolirsi dell'affetto dei fratelli RUFFINI che finirono con lo staccarsi completamente da lui. Per l'esule la vita era difficile e cercò di procurarsi qualche guadagno tentando di scrivere su riviste, ma dovette faticar non poco prima di vedere accolti alcuni suoi scritti.
Nell'ottobre del 1837, annunciando al dottor GIGLIOLI la pubblicazione di un suo articolo sul "Moto letterario in Italia", Mazzini così parlava di sé:

"Dalle proscrizioni del '33 in giù - anche più dall'esito infausto della spedizione di Savoia - io mi sono visto abbandonato da tutti, dai miei più cari dentro e fuori: gli uni per non volere più soffrire, gli altri per difetto di mezzi, tutti per vuoto di credenze, hanno deliberato di rinunciare ad ogni tentativo, ad ogni attività a pro del paese e della causa che avevano tutti giurato. Il capitolo delle mie delusioni di questi tre anni è tale che, se mi reggesse l'animo a scriverlo, non mi reggerebbe l'animo a rileggerlo, né a farlo leggere, e pregherei lo seppellissero con me. Ma il risultato è questo: sono solo, prendi la parola nel più ampio significato, moralmente e materialmente; come individuo e come cittadino, solo a credere e a sentire a modo mio; solo in modo che io, nato a non vivere se non d'amore e di spirito e d'idee, faccio paura a me stesso, quando ci penso, nel mio deserto. E nella mia solitudine ho pensato, pensato, pensato: - le conseguenze sono: che io non ho fede alcuna nella generazione vivente oggi in Italia: vivrà e morrà schiava.

"Il pensiero religioso prepotente che è in me fin da' primi miei tentativi per il bene si è rafforzato in me di quanto ho dovuto togliere al pensiero politico immediato; e col pensiero religioso, tutte le mie credenze; - credo dunque più che mai saldamente nei destini progressivi dell'umanità, nella missione serbata all'Italia fra i popoli, nell'infallibilità, presto o tardi verificata, delle vie che ho predicato e predicherò; nella missione dell'individuo verso Dío, verso l'umanità, verso la patria, verso ogni uomo; nel sacrificio come nell'unica virtù vera; in una teorica di Dovere, che deve dominare ogni atto della nostra vita; nella necessità religiosa di amare la virtù per la virtù stessa, senza sperarne premio quaggiù; nella legge che impone combattere per il trionfo di ciò che l'intelletto e il cuore concordi ci fanno apparir verità, senza calcolare trionfo o risultato immediato; nella infelicità inevitabile, ineluttabile, della vita diretta da principi così fatti, ma nel debito nostro di non cercare mai felicità, perché cercarla e rovinare, senz'avvedersene, nell'egoismo, è tutt'uno. Con queste conseguenze si è spento in me ogni senso di vita individuale, ogni potenza di gioia, ogni capacità di sentire o sperare un'ombra di felicità. So la mia vita a mente come se fossi ora all'ultimo giorno. Ed è così arida, così vuota, così disperatamente impotente che, se il dovere e le mie idee religiose non lo vietassero, la finirei freddamente. Ma d'altra parte, lontano dal cadere nella misantropia, quanto alle azioni mi sento più fermo che mai, più deciso che mai a giovare - se mi si affacciassero i mezzi - all'Italia futura. Vivrò e morrò - lo spero almeno per essa".


E per l'Italia viveva il Mazzini. Da un canto ricercava scritti inediti del Foscolo e ne curava la pubblicazione, dall'altro fondava un'associazione per l'educazione nazionale degli operai italiani e per essi apriva una scuola e pubblicava l'"Apostolato popolare", di cui, tra il 10 novembre del 1840 e il 31 settembre del 1843, uscirono dodici numeri; e intanto teneva un'attiva corrispondenza con gli amici sparsi in tutto il mondo e riorganizzava la Giovine Italia, la quale, grazie all'operosità di GIUSEPPE LAMBERTI a Parigi di FEDERICO CAMPANELLA a Marsiglia, di CARLO BIANCO e BALDASSARE TIRELLI nel Belgio, di GIACOMO CIANI nella Svizzera, di NICOLA ARDUINO nella Spagna, di L. STEFANO CANESSA a Costantinopoli, di G. B. CUNEO, di G. B. LOMBARDI e di ERMINIO BETTINATI a Montevideo, di FELICE FORESTI, di ALESSANDRO BARGNANI e di GIOVANNI ALBINOLA a New-York, per non citare che questi, rinasceva a nuova vita e si preparava a rinnovare le lotte per abbattere la tirannide in Italia.
Ma non tutte le forze liberali italiane esistenti nella penisola e all'estero militavano sotto la bandiera della "Giovine Italia". Molti rimanevano fedeli alla Carboneria o ad altre sètte da essa generate; c'erano i repubblicani e i monarchici, gli unitari e federalisti, i moderati e gli intransigenti. Come se le forze non fossero abbastanza suddivise, un'altra associazione sorse nel 1840 per opera di NICOLA FABRIZI: reduce dalle guerre della Spagna e del Portogallo, andato a Malta, fondò la "Legione Italica" e raccolse proseliti a Corfù, in Sicilia e fra gli stessi soci della "Giovine Italia", svolgendo un'attività veramente efficace nella penisola e fuori.

Ora, perché tutte queste forze potessero operare con probabilità di successo, occorreva che lavorassero d'accordo. Riuscì al conte GIUSEPPE RICCIARDI di costituire a Parigi un comitato misto, composto da GIUSEPPE LAMBERTI, PIETRO GIANNONE, GIAMBATTISTA RUFFINI, CARLO LUIGI FARINI, mazziniani, da GIUSEPPE RICCIARDI, TERENZIO MAMIANI, PIER SILVESTRO LEOPARDI, FILIPPO CANUTI, carbonari, DA MICHELE AMARI e FRANCESCO LOVATELLI, moderati. Tutti si diedero da fare per preparare una grande insurrezione, che doveva scoppiare contemporaneamente, nel 1843, in Sicilia, a Napoli, nelle Calabrie, nelle Romagne, e perfino nella Toscana, dove era stato costituito un Comitato (a Pisa) composto dal tenente COSTANTINO RAZZETTI, dal professor GIUSEPPE MONTANELLI, dal dottor ALESSANDRO CIPRIANI, bonapartista, e di LEOPOLDO RUSCHI per fare insorgere gli studenti di Pisa e di Siena.
Il successo dell'insurrezione sembrava assicurato ed instancabili erano gli emissari della Carboneria e della Giovine Italia - notevoli fra essi NICOLA FABRIZI, il conte LIVIO ZAMBECCARI, bolognese, il livornese ENRICO MAYER, l'altro bolognese AUGUSTO AGLEBERT e GIUSEPPE RICCIARDI - che percorrevano da un capo all'altro la penisola; ma quando si trattò di mettere in atto quanto si era preparato e iniziare la rivolta nessuno volle muoversi per il primo; non i Calabresi, non i Siciliani, non i Napoletani, non i Romagnoli.
Finalmente il Comitato di Bologna, avuta notizia dal colonnello RIBOTTI, emissario mazziniano, che le Romagne e la Toscana sarebbero insorte nel mese di agosto del 1843 stabilì l'insurrezione per quel mese e spedì a Napoli lo stesso Ribotti per rendersi conto della preparazione rivoluzionaria nelle Due Sicilie.

Tutto questo lavorio rivoluzionario non era rimasto sconosciuto al principe di METTERNICH, il quale era stato diligentemente informato di tutto dalle numerose spie che aveva negli stessi comitati e specialmente dal mantovano ATTILIO PARTESOTTI, quello che aveva tramato per far fuggire Ciro Menotti e che entrato nella Congrega di Parigi, era stato comperato dall'Austria. Giunte le trame dei patrioti a conoscenza del cancelliere austriaco, ne furono immediatamente informati i governi italiani e così cominciarono gli arresti nelle Romagne e nel Napoletano.
L'opera della polizia aizzò i patrioti. I fratelli PASQUALE e SAVERIO MURATORI di Savigno, GAETANO TURRI di Bologna e GIOVANNI MAZZARI, sapendosi ricercati, si misero alla testa di una sessantina di armati e il 15 agosto del 1843 assalirono a Savigno ventisei carabinieri pontifici comandati dal capitano Castelvetri, ne uccisero tre, due, tra cui il comandante, li fecero prigionieri e poi li fucilarono mentre marciavano per l'Appennino per suscitarvi l'insurrezione.

La banda ingrossatasi fino a trecento uomini fu il 24 agosto assalita presso Castel del Rio dal colonnello CAVANNA, che comandava una colonna di cinquecento soldati pontifici. Nel combattimento che ne seguì prevalsero il numero e il migliore armamento dello truppe regolari: gli insorti furono sopraffatti; alcuni fatti prigionieri, altri ripararono in Toscana con l'aiuto di DON GIOVANNI VERITA, parroco di Modigliana, e di GIUSEPPE MONTANELLI, e di là poi in Corsica; i più si dispersero per le montagne. Nei primi di settembre, tornato da Napoli, il colonnello RIBOTTI raccolse i superstiti della, banda dei fratelli MURATORI e con una schiera di circa duecento uomini dal ponte della Savena a Bologna marciò verso Imola, dove sperava di ricevere aiuti da quei liberali e catturare i cardinali AMAT, MASTAI e FALCONIERI che si trovavano in un casolare di campagna. Ma i cardinali si erano messi in salvo, gli Imolesi non si mossero e allora il Ribotti sciolse la banda e se ne andò ad Ancona. Un suo ufficiale, di nome GIUGNI, radunò una terza banda e il 30 ottobre assalì un corpo di guardia pontificio, ma inseguito, fu costretto a rifugiarsi sui monti e a disperdere il suo manipolo di cui parecchi furono catturati dai soldati papalini. Il 26 agosto, due giorni dopo il combattimento di Castel del Rio, il cardinale SPINOLA, legato di Bologna, lanciava alla cittadinanza un proclama, in cui era detto:
(lo riportiamo fedelmente)

"Mentre questa provincia godeva e gode, al pari delle limitrofe Legazioni, l'inestimabile bene della tranquillità pubblica e mentre questa colta e popolosa città in ogni maniera palesa di apprezzarla aborrendo ogni idea di disordine, alcuni scellerati concepirono il perfido disegno di provocare fra noi sconvolgimenti, adescando con denaro ed infami promesse di preda, gente tratta dalla classe più miserabile. Veniva a cognizione del governo l'iniqua trama e ordinava l'arresto degli autori: alcuni caddero in potere della giustizia, altri si resero contumaci e si allontanarono; pochi, infine, si diedero al disperato partito di riunire una banda di traviati e mettersi alla testa, infestando la parte montana della provincia. Vigile il governo a garantire la pubblica quiete e le private sostanze, si mise in stato di piombare sopra coloro che avessero fatto il criminoso tentativo, e spedì forze per distruggere i radunati malviventi. Costoro, infatti, furono scacciati da quelle parti dove si erano rifugiati, e dove commisero sanguinosi e nefandi delitti. Inseguiti senza posa, perfino nelle più alte montagne, alcuni sono stati fatti prigionieri, altri feriti o uccisi, ed un avanzo si è gettato nel territorio toscano, ove in parte è caduto in mano alle forze granducali".

Il proclama infine annunziava l'istituzione di una Commissione militare perché con "giudizio sommario e inappellabile" si pronunciasse sulla sorte dei colpevoli. La commissione era composta del presidente colonnello FREDDI, del comandante dei dragoni FLORIDO ALLEGRINI e dei capitani PAOLO SAMPIERI, ANGELO RUBINETTI, GIUSEPPE MARTINELLI.
120 furono i cittadini sottoposti a processo; 19 condannati a morte, 13 dei quali ebbero commutata la pena in quella dei lavori forzati a vita; sei, e cioè LODOVICO MORCARI, GIUSEPPE VERONESI, RAFFAELE LANDI, GIUSEPPE RABBI, GIUSEPPE MIN GHETTI, GIUSEPPE GOVONI, furono fucilati alla schiena il 7 maggio del 1844 nel prato di Sant'Antonio. Altre sentenze condannarono alla galera a vita 17 imputati, 40 a venti, nove a dieci anni di galera e 18 da sei a due anni. Sui fuggitivi fu posta una taglia di trecento scudi. Essi erano i marchesi PIETRO PIETRAMELLARA e SEBASTIANO TANARA, i conti ORESTE BIANCOLI e LIVIO ZAMBECCARI, i fratelli PASQUALE e SAVERIO MURATORI, GAETANO TARI, GIOVANNI MAZZARI, GIACOMO LAMBERTINI, GAETANO BOTTRIGARI, GIUSEPPE VIOLI, GAETANO RIGHI, PASQUALE SARAGONI, FRANCESCO ZANI, RAFFAELE COLOMBARINI, LUIGI GIUGNI.
Allo Spinola, come legato di Bologna, fu sostituito il Vannicelli, direttore generale della polizia.
Uguale insuccesso ebbe il moto calabrese. Il comitato liberale napoletano, di cui facevano PARTE FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, CARLO POERIO, MARIANO D'AYALA, COSIMO E DAMIANO ASSANTI, MICHELE PRIMICERIO, MATTEO DE AUGUSTINIS, aveva fissato per il 15 marzo del 1844 un'insurrezione generale nella Sicilia e nella Calabria, ma all'ultimo momento, giunta notizia che i Siciliani non erano pronti, l'avevano rimandata, dando ordini che si sospendesse ogni azione.

La maggior parte dei cospiratori aveva ubbidito, ma un centinaio di giovani audaci e impazienti, il 15 marzo, penetrarono nella città di Cosenza sventolando il tricolore e inneggiando alla libertà. Assaliti da forze superiori di gendarmeria comandate dal capitano GALLUPPI, figlio del filosofo, gli insorti si difesero fino allo stremo,, uccisero il Galluppi e ferirono parecchi gendarmi, ma alla fine, sopraffati dal numero, si diedero alla fuga lasciando sul campo tre morti e nelle mani del nemico molti prigionieri.
Per questo moto il governo borbonico arrestava a Napoli MARIANO D'AYALA, FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, MATTEO DE AUGUSTINIS, FELICE PIERI e parecchi altri patrioti che incarcerava a Castel Sant' Elmo, spediva un buon reparto di truppe a Cosenza e istituiva qui una Commissione militare, che sottoponeva a giudizio settantasei persone. Quarantatrè furono condannati, di cui ventuno alla morte. L'11 luglio, cinque, i possidenti PIETRO VILLACCI, GIUSEPPE FRANZESE e SANTO CESAREO, l'agrimensore NICOLA CORIGLIANO e lo studente RAFFAELE CAMODECA, furono fucilati; uno, l'avvocato ANTONIO RAHO, si avvelenò in carcere per non patire l'onta della fucilazione.


I FRATELLI BANDIERA

Epilogo del moto calabrese fu la fine dei fratelli Bandiera. EMILIO ed ATTILIO BANDIERA, nati a Venezia, il primo il 24 marzo del 1810 e l'altro il 20 giugno del 1819, erano figli del conte Francesco, già ufficiale del Regno Italico e, dopo la restaurazione, ammiraglio della flotta austriaca, noto ai patrioti per aver catturato nel 1831 nelle acque di Ancona un bastimento carico di profughi.
Attilio era alfiere di vascello, Emilio alfiere di fregata; entrambi audaci, pieni di amor di patria, generosissimi, sprezzanti della vita, appartenevano fin dal 1842 alla "Giovine Italico" e svolgevano intensa attività nella marina imperiale per far proseliti alla rivoluzione.
Nel novembre del 1843 ATTILIO scriveva al Mazzini:

"Il fermento insurrezionale in Italia dura, se debbo tuttavia credere alle voci che corrono; e, pensando che potrebbe ben essere l'aurora del gran giorno della nostra liberazione, mi pare che ad ogni buon patriota corra l'obbligo di cooperarvi, per quanto gli è possibile. Sto dunque studiando il modo di potermi recare io stesso sulla scena d'azione; giunto sui luoghi sarebbe mio pensiero formarmi una banda politica, guidarla, rifugiarmi sui monti, e lì combattere per la nostra causa sino alla morte.
L'importanza materiale dell'atto sarebbe assai debole e questo lo so, ma molto più importante sarebbe l'influsso morale, perché io porterei il sospetto proprio nel cuore del più potente nostro oppressore, darei un eloquente esempio ad ogni altro come me legato da giuramenti e fortificherei quindi la fiducia dei nostri, deboli, più che per altro, per mancanza di fede nei propri mezzi e per l'esagerata idea delle forze nemiche".

Trovandosi a Smirne, ATTILIO BANDIERA, si proponeva d'impadronirsi della fregata "Bellona", in cui era imbarcato e di condurla in Sicilia per mettere in moto la rivoluzione, ma, tradito da un Masciurelli, riuscì a fuggire, nel febbraio del 1844, a Corfù dove da Venezia lo raggiunse il fratello EMILIO e, più tardi, l'amico DOMENICO MORO, anch'egli ufficiale della marina austriaca.
L'arciduca Rainieri mandò la madre dei Bandiera a Corfù perché li persuadesse, assicurandoli del perdono imperiale, a ritornare in patria; ma i due ribelli non si lasciarono commuovere dalle preghiere della madre.
"Invano - così Emilio descriveva la scena in una lettera al Mazzini - io le dico che il dovere mi comanda di restar qui; che la patria mi è desiderata, ma che, allorquando mi muoverò per rivederla, non sarà per andarmene a vivere di ignominiosa vita, ma a morire di gloriosa morte; che il salvacondotto mio in Italia sta ormai sulla punta della mia spada; che nessuna affezione mi potrà strappare dall'insegna che ho abbracciato, e che l'insegna d'un re si può abbandonare, quella della patria mai.
Mia madre, agitata, accecata dalla passione non m'intende, mi chiama un empio, uno snaturato, un assassino; e le sue lagrime mi straziano il cuore. I suoi rimproveri, quantunque non meritati, sono come punte di un pugnale; ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che quelle lacrime e quello sdegno spettano ai tiranni; però, se prima non ero animato che dal solo amor di patria, ora è potente l'odio che provo contro i despoti usurpatori, che per l'infame ambizione di regnare sull'altrui patrie condannano le famiglie a siffatti orrori".

Irritato dal rifiuto del perdono, il governo austriaco, con editto pubblicato il 4 maggio nella "Gazzetta Ufficiale" intimò ai fratellí Bandiera di presentarsi entro tre mesi all' I. R. Comando di piazza di Venezia, ma Attilio ed Emilio risero dell'intimazione e in data del 19 maggio scrissero al Comando Superiore della Marina Austriaca una lettera che merita di essere riprodotta:
(la riportiamo integralmente e letteralmente)

"Ai 14 del corrente noi sottoscritti abbiamo ricevuto l'editto di citazione speditoci dall'I. R. Auditorato statale di codesto Ecc. Comando Superiore. Noi ci vantiamo di ciò che l'Accennato Tribunale minaccia di chiamare alto tradimento. La nostra scelta è determinata tra il tradire la patria e l'umanità, o l'abbandonare lo straniero e l'oppressore. Le leggi alle quali ci si vorrebbe ancora soggetti sono leggi di sangue, che noi, con ognuno che sia giusto e umano, sconosciamo e aborriamo. La morte, a cui esse immancabilmente ci dannerebbero, val meglio incontrarla in ogni altro modo che sotto l'infame e bugiarda loro egida. La forza è il loro solo diritto, e noi in qualche parte almeno mostrandoci ad esse corrispondenti, cercheremo di mettere la forza dalla nostra parte per poi fare trionfare il vero, diritto".

Il diritto i due fratelli volevano farlo trionfare con un'audace spedizione nelle Calabrie. Cercavano di dissuaderli dal proposito il RICCIARDI da Parigi e il MAZZINI da Londra. NICOLA FABRIZI, da Malta, scriveva loro una vibrata lettera che terminava così.
"Non solo non approvo né intendo cooperare, ma intendo aver solennemente dichiarato il mio più aperto dissenso da ciò che esprimete, come di fatto incapace di alcun risultato se non la rivelazione intempestiva delle vostre intenzioni, il sacrificio dei migliori, la dispersione irreparabile del tanto che poteva eseguirsi con elementi conservati intatti fin oggi, e l'assoluta esclusione di ogni fiducia interna ad ogni nostra proposta smentita sì compiutamente da uomini di concetto, quali voi siete, in un simulacro di fatto che solo può dar prova di un'irragionevole disperazione".

Invano. Intanto giungevano a Corfù "notizie fantastiche" dalla Calabria, che non potevano non accendere l'entusiasmo dei Bandiera e stimolare la loro impazienza: il paese era in aperta rivolta, fin dal 15 marzo sventolava la bandiera repubblicana, una grossa banda occupava la foresta di Gioia, agitatissime erano le province di Bari, Foggia e Avellino; due cose sole mancavano: munizioni e capi.
E invece il paese era tranquillissimo dopo il fallimento del moto cosentino. Comunicando al Mazzini le suddette notizie, l'11 giugno EMILIO BANDIERA scriveva:
"Convenimmo correre la sorte. Fra poche ore partiamo per la Calabria. Se giungeremo a sani e salvi, noi faremo il meglio che si potrà, militarmente e politicamente. Ci seguono altri diciassette italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese. Ricordatevi di noi, e credete che, se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima convinzione saremo fermi nel sostenere quei principi, che, riconosciuti soli atti a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della patria, abbiamo assieme inculcato. Se soccombiamo dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poiché la vita ci fu data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà, dell'Eguaglianza, dell'Umanità, della Indipendenza e dell'Unità Italiana".

I compagni di cui il Bandiera parla in questa lettera erano: NICOLA RICCIOTTI da Frosinone, DOMENICO MORO da Venezia, l'avvocato ANACARSI NARDI, modenese, che abbiamo visto dittatore nel 1831, GIOVANNI VANNUCCI da Rimini, GIACOMO ROCCHI da Lugo, FRANCESCO BERTI da Lugo, DOMENICO LUPATELLI da Perugia, GIOVANNI MANESCI da Venezia, CARLO OSMANI da Ancona, GIUSEPPE PACCHIONI da Bologna, LUIGI NANNI, PIAZZOLI PIETRO e LUIGI MILLER forlivesi, FRANCESCO e GIUSEPPE TESEI da Pesaro, PAOLO MARIANI milanese, e TOMMASO MAZZOLI bolognese. La guida calabrese era BATTISTINO MELUSO, detto il NIVARO. Vi era inoltre un corso di Oletta, chiamato PIETRO BOCCHECIAMPE.

L'11 giugno, EMILIO BANDIERA scriveva al padre:
"L'insurrezione comincia a succedere in Italia ad una lunga e difficile cospirazione. I vostri figli corrono a prendervi parte. Probabilmente soccomberemo, ma saremo benedetti da tutti i buoni, compatiti dagli indifferenti, vilipesi dai tristi. Voi, nostro padre, sarete inesorabile a perseguitarci con la vostra maledizione? Oh no, voi non siete capace di odiare nessuno e non vorrete odiare due figli che, se hanno errato, lo fecero per troppo vibrato sentire. Non mi estendo di più. Ho tutto detto quando dico che la benedizione di mio padre mi renderebbe sopportabile qualunque esistenza e placida la morte".

Così il fratello ATTILIO BANDIERA:
"Mio caro padre. Tra poche ore, se non ci è impedito, partiremo per la Calabria, dove altri prodi figli d' Italia hanno proclamata la rigenerazione della patria. Secondo ogni apparenza, soccomberemo, ma l'esistenza non ci fu forse data per bene impiegarla? La nostra memoria suonerà benedetta tra quelle dei generosi che si dichiararono fautori dell'umanità e della patria. Già questa benedizione da ogni parte ci piove addosso, dovunque ci si esalta come magnanimi. Ma questo applauso da Lei è preso come infame .... L'infamia.... deriva dalle azioni proprie e non dalle altrui voci appassionate. Alla famiglia preferimmo l'umanità e la patria, e noi credemmo d'aver fatto il nostro dovere. E con noi sta il consenso universale: chi statuisce di sacrificare i maggiori interessi ai minori è sempre un egoista. Temperi il suo rammarico dunque, e resistendo alla sua piena cessi di essere ingiusto verso di noi .... Le somme cure che mi assediano in questi momenti decisivi mi impediscono d'intrattenermi con Lei come bramerei. Non Le ho scritto dopo le mie da Sira perché seppi che, non più che accordarci il di Lei amore, Ella non vuol più sentirci nominare. Mi ridoni il di Lei affetto in questo supremo momento. Io non declinerò mai verso di Lei in tutto che, in giorni più felici, le rendeva pur sicuro il di Lei Attilio".
(Ricordiamo che il padre dei due fratelli, era il conte Francesco, onorato ammiraglio della flotta austriaca; nel 1831 aveva catturato nelle acque di Ancona una nave carica di profughi in fuga dopo i noti moti in Romagna seguiti da quelli di Ancona).

Nella notte dal 12 al 13 giugno, sopra un trabiccolo capitanato dal pugliese CAPUTO, i Bandiera e i loro compagni salparono da Corfù e nella notte del 16 approdarono alla costa calabrese presso Crotone. Toccando la terra italiana, la baciarono ed Emilio esclamò: "Tu ci hai dato la vita e noi la spenderemo per te".
Il trabiccolo, deposti a terra i patrioti, si allontanò. Il piccolo drappello, guidato dal NIVARO, che non era un profugo politico ma un ex-bandito, s'inoltrò verso le montagne e, giunto ad un casolare, prese ristoro e notizie. Da due contadini seppe che l'ordine a Cosenza era stato ristabilito e che pochi giorni prima gli autori del moto erano stati fucilati.

Tornare indietro era ormai impossibile. Non c'era altro da fare che andare avanti. La notte del 17 dormirono in un casolare dei Poerio e la mattina del 18 distribuirono ai contadini alcune copie di due manifesti che avevano stampato a Corfù. Il primo era indirizzato agli Italiani:

IL MANIFESTO DEI FRATELLI BANDIERA

"Divisi in otto stati, noi destinati da Dio ad abitare un paese unito; conculcati a Napoli da un re villano e spregevole; sottomessi in Piemonte ai voleri di uno sciagurato che lo tradì; a Modena a quelli di un mostro, che nel secolo XIX arrivò la trista fama di Caligola e di Nerone; a Roma scherniti da un Pontefice indegno di rappresentare un Dio di pace e di carità; in Toscana dalle arti narcotiche di un governo traditore; a Parma governati da una femmina, che potendo elevarsi sopra tutte le europee alle più vili si mostrò inferiore; oppressi a Venezia e in Lombardia dagli stranieri con le baionette e perseguitati dalle spie, inaridiscono i tesori del nostro secolo, e fanno servire la nostra gioventù a puntello del nostro servaggio; disgraziati in tutta Europa, vilipesi, mantenuti divisi, pasciuti di glorie di teatro, di dispute di letterati, di controversie da fanciulli; ecco, Italiani, in quali condizioni ci troviamo.
"Fummo grandi e temuti! Che monta, se non fosse più acerba rampogna dell'esser caduti sì in basso? Se i nostri padri abbandonassero i loro riposi per venire a contemplare come difendiamo ed abitiamo la terra che essi resero la prima del mondo, con quali fronti ne sosterremmo gli aspetti? A lavar tanta infamia, a scuotere tanto giogo, a conquistare la libertà, i Calabresi insorsero, insorsero per tutti, con levata in alto la bandiera di tutti: Redimere l'Italia o morire!

" E noi balestrati dai comuni oppressori in straniere contrade, abbiamo compreso quel grido, abbiamo benedetta quella bandiera, ripetuto quel giuramento, e pochi, un'avanguardia di molti lontani, dalla terra d'esilio ci siamo qui ridotti. Siciliani, Abruzzesi, Romagnoli, Toscani, Piemontesi, Lombardi, Genovesi, Italiani di tutte le contrade, preferirete la vita fra le spie, le baionette, gli insulti dei nostri oppressori ai pericoli ed ai cimenti, che, seguendo il nobile esempio, vi aspettano? Gli austriaci che oltraggiosi vi inculcano da sì lungo tempo, non vorreste alfine combattere e a vostra volta perseguitare? Sono numerosi, agguerriti? E voi non siete ventiquattro milioni di fratelli, non i più animosi guerrieri dell'antichità, non i figli dei prodi, che in Spagna, in Polonia, in Germania e in Russia illustrarono di tanto splendore l'aquila di Napoleone? Bonaparte ha detto che un popolo di dieci milioni, fermamente risoluto di esser libero, non può essere sottomesso; e la Spagna, inferiore a voi della metà di popolazione, lo provò resistendo e mandando al basso ben altro invasore che l'inetto Ferdinando non sarà. Tutte le nazioni europee hanno raggiunto e marciano verso la conquista dei più sacrosanti diritti dell'uomo: voi soli, Italiani, siete ancora sottoposti a gravissime leggi, vivete ineguali, senza diritti, oppressi da doveri d'ogni sorta; voi lavorate e il frutto dei vostri sudori oltrepassa le Alpi, e serve ai bagordi delle tante regge stabilite nella nostra bella penisola .... "All'armi, fratelli ! Correte come noi alla conquista della Libertà, dell'Unità, della Indipendenza, della prosperità della patria; correte a fare l'uguaglianza dei diritti e dei doveri, delle pene e delle ricompense, evviva l'Italia. Non più re, Italiani ! Iddio ci ha creati tutti eguali: siamo tutti fatti ad immagine sua: nessun altro che Lui abbia dunque il diritto di dirci suoi. Che hanno fatto i re di noi? Ci hanno venduti, perseguitati, oppressi, hanno riempito il nostro paese di vergogna e di obbrobrio. Costituiamoci in Repubblica come i nostri padri, quando scacciarono i Tarquini: gridiamoci liberi e padroni di noi stessi e delle contrade in cui Dio ci ha collocati.

" Gli Austriaci ci combatteranno; il Pontefice ci scomunicherà; i re d'Europa ci avverseranno. Non importa, o Italiani; gettiamo il fodero, e contro l'Austriaco facciamo di ogni uomo un soldato, di ogni donna una suora di carità, di ogni casale una rocca: al Papa protestiamo di conoscere Iddio meglio di lui attraverso i suoi sordidi interessi di dominazione, di grandezza temporale; i re d'Europa rispettiamo, ma non temiamo, invochiamo contro essi le simpatie dei popoli. La nostra causa è santa, o Italiani, e vinceremo; perché Iddio non vorrà abbandonarla, se in essa persistiamo con costanza, fermezza, cuore e risoluzione.

"Se la vittoria che intravedete è difficile, gioite: gli sforzi ed i sacrifici che farete per guadagnarla varranno a scontare nell'opinione dei popoli tanto passato obbrobrio e così lungo servaggio. Essi solo potranno farci riguardare come non degeneri nipoti dei più grandi che portarono lo splendore del nome italiano in ogni angolo del mondo conosciuto: essi solo ci permetteranno lasciare ai nostri figli una patria libera, unita e gloriosa. "In nome degli esuli sbarcati:
ATTILIO BANDIERA - NICOLA RICCIOTTI - EMILIO BANDIERA".

_ Il secondo proclama, che, come il primo, portava l'intestazione
"Libertà, Eguaglianza Umanità, Indipendenza, Unità",
era indirizzato ai Calabresi, portava le stesse firme e diceva:

"Al grido dei vostri fatti, all'annunzio del giuramento che avete fatto, noi attraverso ostacoli e pericoli, dalla vicina terra d'esilio siamo venuti a schierarci fra le vostre file, e combattere le vostre battaglie, ad ammirare la bandiera dell'Italia repubblicana, che avete coraggiosamente sollevata. Vinceremo o moriremo con voi, Calabresi, grideremo come voi avete gridato, che scopo comune è di costituire l'Italia e le sue isole in una nazione libera, una, indipendente; con voi combatteremo quanti despoti ci combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi. Calabresi, non è epoca remota quella, quando avete distrutto sessantamila invasori condotti da un Italiano, il più grande dei capitani di Napoleone; armatevi dell'energia di allora e preparatevi all'assalto degli Austriaci, che vi guardano come loro vassalli, vi sfidano e vi chiamano briganti. Continuate o Calabresi, nella generosa via, che avete dimostrato volere unicamente per correre; e l'Italia, resa grande indipendente, chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua libertà, il primo campo delle sue vittorie".

Partiti dal casolare, i diciassette uomini , si accorsero che mancava uno di loro: il corso BOCCHECIAMPE. Lo credevano smarrito e invece il manigoldo, visto il paese tranquillo e non disposto a insorgere, si era recato a Crotone ed aveva denunciato a quelle autorità i suoi compagni.

Il drappello proseguì per San Severino e nella notte dal 18 al 19 si avviò verso Spinelli. Lungo la via i patrioti furono improvvisamente assaliti da una settantina di guardie civiche di Belvedere. Ci fu un vivo scambio di fucilate, e i militi furono respinti lasciando morti sul terreno il proprio comandante ANTONIO ARCURI, la guardia NICOLA RIZZUTI e il gendarme BERNARDINO CHIACCARELLI. Dei ribelli solo Domenico Moro fu ferito ad un braccio.
Dopo quello scontro gli insorti proseguirono la marcia verso San Giovanni in Fiore, ma al mattino del 19 furono attaccati duramente da circa duecento guardie civiche, mentre un battaglione di Cacciatori, comandato dal capitano SCALESE, manovrava per coglierli alle spalle.
Il combattimento con una così enorme disparità durò meno di un quarto d'ora: FRANCESCO TESEI e GIUSEPPE MILLER rimasero uccisi, ANACARSI NARDI ferito ad una coscia, EMILIO BANDIERA, nel saltare un fosso, si slogò un braccio. Accerchiati e sopraffatti, i fratelli, Bandiera, il Moro, il Ricciotti, il Nardi, il Venerucci, il Rocchi, il Lupatelli, il Berti, il Pacchioni, il Manesci e l'Osmani furono fatti prigionieri; Giuseppe e Tesei, il Piazzoli il Nanni, il Mazzoli, il Mariani e il Melluso riuscirono invece a fuggire ed errarono il giorno e la notte seguente sui monti, ma la mattina del 10 furono catturati pure loro dalle guardie civiche, eccetto il Nivaro che rimase uccel di bosco alcune settimane e che, costituitosi, fu poi condannato "solo" a quattordici anni ai ferri.

I prigionieri, maltrattati e spogliati, furono condotti a San Giovanni in Fiore, la cui popolazione, credendoli turchi o briganti, li accolse ostilmente; poi, scortati da un centinaio tra guardie civiche, gendarmi e soldati di linea, furono condotti a Cosenza, dove invece qui la popolazione li accolse con segni di simpatia e nel tempo della loro prigionia diede loro prove di benevolenza. Va ricordato il contegno affettuoso di GIOACCHINO GAUDIO, un fornitore delle carceri, che trattò i detenuti come fratelli sventurati.
Avendo il procuratore cercato d'infondere nell'animo dei prigionieri la speranza, Emilio ed Attilio gli risposero con due nobili lettere in data dell'11 luglio del 1844, accompagnandole con i ritratti dei carcerati, eseguiti dal PACCHIONI, che era scultore. Quel giorno stesso, nel Vallone del Rovito erano fucilati cinque patrioti imputati della sommossa del 15 marzo: VILLANI, PRANZESE, CORIGLIANO, CESAREO e il CARNODECA, che morì gridando: "Questo è il più bel giorno della mia vita: viva l'Italia!"

" Le prove di generoso interesse - scriveva EMILIO BANDIERA al procuratore - che nella nostra disgrazia ci deste, ed il titolo di amico, che a noi caduti avete concesso, sono conforti che ne apprezziamo altamente il valore e vorremmo rimeritarvi con proporzionata riconoscenza. Ma, ridotti dove siamo, possiamo noi lusingarci di stendervi una mano libera e di proclamare a voi, al mondo, alla patria, agli onesti di qualunque opinione uno dei pochissimi che rispettarono l'innocenza attraverso la sventura e la persecuzione? Ci affrettiamo dunque di offrirvi il meschino lavoro di queste ore di tortura, da voi rese meno dolorose; ci affrettiamo a mandarvi dei fogli in cui uno di noi cercò di ritrarre le fisionomie dei suoi compagni d'infortunio. Accettateli, signore. Se a questi giorni di vergogna italiana vorrà Iddio farne succedere di meno tribolati, voi mostrerete ai futuri questa misera nostra memoria, e loro per noi e per la patria vi ringrazieranno ed onoreranno. Se siete invece condannato, a trascinarvi nel fango della schiavitù e del ludibrio, lasciateli ai vostri figli, che li porteranno in luce, e voi in quell'età vivrete con noi nella venerazione. Iddio vi protegga, protettore degli oppressi, e vi retribuisca per essi del bene che fate".

Ecco invece la lettera di ATTILIO:

"Grazie, amico ! Grazie, fratello ! della pietosa vostra perseverante protezione a nostro sollievo. Quando alcuni di noi sarà così fortunato da poter superare le torture delle carceri che lo aspettano, il vostro nome sarà sussurrato all'orecchio dei buoni, e da questa terra di sventura, da questa nuova Gerosolima che divora i migliori suoi figli, si alzerà per il vostro nome una preghiera di compenso, una benedizione di riconoscenza, una parola di giustissima lode. Voi, nella vostra nobile ambascia, non sapendo e non potendo altro operare per noi, cercate di coprire sotto un velo di rose il crudo avvenire che ci si prepara; .... ma noi, ammaestrati dall'esperienza, induriti dalla sventura, non siamo fanciulli: ognuno di noi vide più volte in faccia la morte, e non impallidì e si avvilì mai. Noi sappiamo concepire e sopportare il dolore. A che dunque simile orpello? Perché invitarci a guardare le fiorite vie del passato, quando siccome l'aquila il sole, sappiamo fissare imperterriti il fato che ci sovrasta? Pietà erronea è la vostra. Noi demmo bando ad ogni illusione. Or perché volerci lusingare veramente? D'ora innanzi continuate la vostra amicizia, ve ne preghiamo, essendo essa la cosa più consolante e preziosa che ancor ci rimanga, ma non la vestite di forme fallaci, scriveteci la pura verità, e pensate esser crudeltà il condurre fra i fiori al baratro della miseria ! Annunciateci, ve ne preghiamo, tutta la verità; ed innanzi a Dio ed innanzi agli uomini non potrete fare opera più meritoria. Colui che vi scrive queste poche righe sa che immancabilmente è consacrato ad una prossima morte. Ah ! quando egli ardiva abbandonarsi alle larve della sua mente, non così certo egli credeva finire la propria vita. Il desiderio dei suoi giorni, il sogno delle sue notti era di spirare sul campo di battaglia, combattendo chi non permette che l'Italia diventi nazione al pari delle altre e riacquisti i propri diritti ! Ah ! non saranno le baionette tedesche, saranno le palle italiane bensì, che lo ricongiungeranno a Dio ! Quale disinganno ! E quale dolore? Essere sconosciuto ed oppresso da tale che si stimava fratello! Da quello, di cui in terra straniera, quantunque a torto talora, non si tollerava mai che l'onore calpestato venisse e deriso ! Ma così è il destino o la provvidenza, che chiamar lo vogliate. Forse nelle bilance infallibili dell'eterna giustizia i delitti degli avi nostri non furono abbastanza espiati. Forse la causa d'Italia ha ancora bisogno di qualche martire. Ah! io salgo all'empireo con la fiducia di esser tra gli ultimi. Voi che rimanete, proseguite, ma non vendicate! Intanto ricordatemi gli ultimi momenti di Socrate, i pensieri di Platone, il sacrificio di Curzio, e non mi venite a presentare conforto con le fallaci lusinghe della speranza, la quale ancorché fondata sulla giustizia, male potrebbe, in questo secolo di dolore e di infamia, realizzarsi".

I prigionieri furono deferiti alla Commissione militare appositamente istituita per i fatti del 15 marzo, la quale assegnò loro, come difensori d'ufficio, gli avvocati CESARE MARINO, TOMMASO ORTALE e GAETANO BOVA, del foro cosentino, che, in segno di protesta contro il presidente FILIPPO FLORES il quale aveva respinte alcune loro eccezioni a favore degli imputati, alla fine del processo rinunciarono alla parola. Il Marino anzi, sapendo che la sentenza di morte era già stata stabilita e non volendo con la difesa legalizzare un assassinio, si era rifiutato di assumerla e l'aveva in seguito accettata dietro le minacciose istanze del capitano RAFFAELE PICCOLO, commissario del re. Il sistema di difesa assunto dagli accusati rammenta quello di Pietro Maroncelli; gettarono la colpa dei proclami sul loro compagno morto GIUSEPPE MILLER, e affermarono che più di due terzi di loro si erano uniti alla spedizione senza conoscerne gli scopi e dichiararono che gli altri erano venuti perché a Corfù si era sparsa la notizia che Ferdinando II si preparava a concedere la costituzione e a muover guerra all'Austria.

Quanto al tricolore, portato dagli insorti, Emilio Bandiera,
in una lettera del 16 luglio ai giudici, scriveva la seguente giustificazione:

"E la bandiera tricolore, trovata fra i nostri arnesi, imputate, rispettabili signori, a punto di accusa ed a base di condanna? L'averla portata con noi fu naturale conseguenza della presa risoluzione e delle esagerate notizie ricevute. Noi credevamo avviarci verso un paese commosso, credevamo vedere sventolare sulle sue torri lo stendardo della Patria e, volendo mostrarci drappello del nuovo Patto italiano, volevamo innalzare lo stesso vessillo, il quale poi, né a San Giovanni in Fiore, né altrove fu inalberato. Se la bandiera italiana fosse stata spiegata, gli Urbani di quella città fratricida o sarebbero stati respinti o avrebbero trovato Emilio Bandiera cadavere accanto ad essi".

La difesa non fu ritenuta buona e la Commissione Militare, il 24 luglio, condannò a morte tutti, eccetto Carlo Boccheciampe, il quale si ebbe cinque anni di prigionia perché, sebbene avesse fatto parte della banda, "si era sciolto dalla stessa prima, senza aver esercitato alcun impiego e funzione e di aver avvertito le autorità". Alla lettura della sentenza, i fratelli Bandiera e i loro compagni gridarono "Viva l'italia" e gli stessi soldati borbonici presenti ripeterono: "Evviva !"
Dovendosi, secondo gli ordini del re, eseguire soltanto nove sentenze capitali, ebbero commutata la pena in quella del carcere a vita Giovanni Manessi, Carlo Osmani, Luigi Nonni, Pietro Piazzoli, Giuseppe Pacchioni, Tommaso Mazzoli, Giuseppe Tesei e Paolo Mariani. Gli altri si prepararono serenamente alla morte; l'avvocato NARDI in una lettera, indirizzata a Tito Savelli a Corfù, diceva:

"Scrivo con le manette, perciò vedrai il carattere un po' tremante; ma io sono tranquillo perché muoio in patria e per una causa santa". A Domenico Moro che rimpiangeva di non esser perito in Siria, all'assalto di San Giovanni d'Acri, Attilio Bandiera rispondeva: "No, il nostro sangue allora non avrebbe fruttato. Adesso farà contro gli oppressori della patria gli effetti dei denti di Cadmo, né passeremo inonorati ed incompianti. A tanta strage inorridirà l'Europa e si desteranno dal lungo letargo tutti quelli che ancora non credono: poco di più, poco di meno lunga, anche così presto ed in tal modo, è sempre ben data la vita".

ATTILIO ed EMILIO BANDIERA, DOMENICO MORO, ANACARSI NARDI, DOMENICO LUPATELLI, GIOVANNI VENERUCCI, GIACOMO ROCCHI, FRANCESCO BERTI E NICOLA RICCIOTTI, il 25 luglio del 1844, furono condotti al Vallone di Rovito, a poca distanza da Cosenza; durante il tragitto, che fu fatto compiere a piedi nudi, secondo il terzo grado di pubblico esempio, essi cantarono il coro di "Donna Caritea": "Chi per la patria, muor - Vissuto è assai"; la gente, che dalle circostanti colline assisteva alla fucilazione, era molto commossa e non pochi singhiozzavano. Un ufficiale borbonico, il tenente Salvatore Maniscalco, che fu presente alla cerimonia, così due giorni dopo descriveva gli ultimi momenti degli eroi in un rapporto inviato al DEL CARRETTO:

"Vennero i sacerdoti per apprestare ai delinquenti gli estremi conforti di nostra sacrosanta Religione. Furono ricevuti assai bene, ma più per cortese onoranza che per pietà cristiana. Favellarono lungamente di dogma, si parlò del Sommo Pontefice, che dissero non riconoscere, ed un tal Nardi chiese un libro ascetico per dirimere un punto controverso. Dopo vari ragionamenti il delinquente Venerucci si alzò e pregò i preti onde si ritirassero, dicendo che pure erano le loro coscienze e che l'indomani si troverebbero nel seno d'Iddio, accolti come martiri della libertà. Usciti i preti, il giovine Bandiera intonò alcuni inni rivoluzionari, al quale risposero Venerucci e Nardi. Moro e Ricciotti passeggiavano silenziosi, ma apparentemente sereni, ed il primo dei Bandiera canterellava sommessamente alcuni versi, il cui intercalare era: "Per redimervi, o Calabri vili". I rimanenti tre parlavano poco e qualcuno fumava. Si venne al desinare e gli si apprestò quanto chiesero. Dopo il pranzo quietarono. Sulle ore 4 pomeridiane tornarono i preti e questa volta con miglior frutto. Tutti si confessarono e promisero di andar rassegnati a Dio. Sull'imbrunire chiesero degli avvocati per ringraziarli dell'ufficio loro prestato; ma il colonnello Zola fece loro dire che costoro, dolenti del loro infortunio non avevano animo di vederli. Chiesero l'occorrente per scrivere. I due Bandiera scrissero lunga lettera al padre ed un'altra al colonnello Del Giudice del 7° di linea, loro congiunto, ma che non conoscevano di persona. Nardi scrisse a Corfù, ed ignoro se altri lo hanno fatto. Queste lettere furono trasmesse all'Intendente. La notte i delinquenti riposarono sonno profondo e furono desti sulle ore 4 ant. I sacerdoti apprestarono loro il S. Viatico e celebrarono la Messa. Compito il divino ufficio, furono loro tolti gli abiti (il Moro e il primo Bandiera vestivano l'uniforme della marina austriaca), indossarono le vesti nere, gli si bendò il capo con velo nero, e si fecero scalzare. Compita questa acconciatura, il secondo Bandiera disse: "Son pago di morire in terra italiana e per moschetto italiano invece di tedesco". Alle ore sei e tre quarti circa il convoglio si mise in marcia. Dal carcere al Vallo di Rovito, luogo del supplizio, vi sono circa 600 passi e la strada scende per una china ripidissima. I delinquenti marciavano in mezzo ad una doppia ala di soldati e ciascuno era confortato da un frate. Il più profondo silenzio regnava intorno e la folla dei curiosi se ne stava in punti lontani, la truppa aveva chiusi gli accessi e la gendarmeria a cavallo cordonava lo spazio di Rovito. La marcia lenta durò meno di mezz'ora. Solo Ricciotti, Moro e Nardi andavano rassegnati, egli altri ridevano e guardavano intorno, finché giunti al Vallo furono sciolti ed il relatore ripeté loro la sentenza. Dopo sedettero con disinvoltura e Venerucci disse ai soldati: "Fratelli, tirateci al petto e poi gridate: Viva l'Italia" ! Quando poi al suono della tromba videro le armi impostate, a coro mandarono il grido di "Viva l'Italia" che si perdette fra lo scoppio dei moschetti".

I soldati, piuttosto commossi, quasi come volersi far perdonare, mirarono male, peggiorando così il triste epilogo, infatti e ci volle una seconda scarica questa volta mortale per far terminare i rantoli dei poveri sventurati.
La compagnia della Buona morte, composta dei nobili del paese, raccolse le salme e le sotterrò nella chiesa di Sant'Agostino, accanto ai sei calabresi uccisi dodici giorni prima. I cadaveri dei fratelli Bandiera, trasportati nel 1848 nella cattedrale di Cosenza, furono insieme con la salma di Domenico Moro trasportate a Venezia e sepolte nella chiesa di S. Giovanni e Paolo.

Il sacrificio dei fratelli Bandiera e dei loro compagni commosse l'Europa; molte donne si associarono al lutto della vedova di Attilio e della madre dei due fratelli; gli esuli fecero coniare a Parigi una medaglia in cui era rappresentata l'Italia coronata di spine, che appoggia la sinistra su un fascio littorio privo di scure e accende con la destra una fiaccola alla fiamma uscente da un'urna su cui sta scritto "Nostris ex ossibus ultor"; sul piedistallo c'è la leggenda "Immolati a Cosenza il 25 luglio 1844. Ferdinando re"; in basso: "A memoria ed esempio": intorno i nomi dei nove martiri; nell'esergo, tra una corona di palme e di lauro il motto della "Giovine Italia": "Ora e sempre" con le parole pronunziate da Attilio Bandiera: "E' fede nostra giovare l'Italica libertà meglio morti che vivi".

Il Mazzini, che fu accusato dai suoi nemici di avere spinto alla morte, ad una morte inutile, il drappello dei Bandiera, scrisse per i martiri alcune pagine stupende:
(Una la riportiamo integralmente e letteralmente):

"Il martirio per una "Idea" è la più alta formula che l'"Io" umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge in mezzo ai suoi fratelli giacenti ed esclama: "Ecco: questo è il vero, ed io morendo, l'adoro", uno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l'umanità, perché ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea dei propri doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sacrificati a Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l'uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta l'Europa l'opinione che una Italia sarà .... Confortatevi, o giovani, la nostra causa è destinata al trionfo. I malvagi, che anche oggi dominano, lo sanno e ci maledicono; ma l'anatema che essi gettano contro noi si perde nel vuoto come un seme portato dal vento. I germi che noi cacciamo, rimangono: sul terreno, santificato dal sangue dei martiri, Iddio li feconderà. E se anche gli alberi che devono uscirne, non distenderanno l'ombra loro che sul nostro sepolcro, sia benedetto Iddio: noi godremo altrove. Perseguitate, noi possiamo dire ai malvagi, ma tremate. Un giorno, innanzi alla fiamma che consumava, per ordine del Senato, le storie di Cremuzio Cordo, un Romano balzando in piedi, gridava: "Cacciate me pure nel rogo, perché so quelle storie a memoria". Pochi dì passeranno e l'Europa risponderà con un grido consimile alle vostre stolidamente feroci persecuzioni. Voi potete uccidere pochi uomini, ma non l'Idea. L'Idea è immortale. L'Idea ingigantisce fra la tempesta e splende ad ogni colpo, come il diamante, di nuova luce. L'Idea s' incarna più sempre nell'umanità. E quando voi avrete esaurita l'ira vostra e la vostra brutale potenza sugli individui, che non sono se non precursori, l'Idea vi apparirà irresistibile nella maestà popolare e sommergerà sotto l'onda oceanica del futuro i vostri nomi e fin la memoria della vostra resistenza, al moto delle generazioni che Iddio commuove".

L'idea continuava, ma le dure repressioni pure, prima dell' "onda oceanica".


NELLA SECONDA PARTE > > >

PROCESSI E CONDANNE NELLO STATO PONTIFICIO
IL MOTO DI RIMINI - LUIGI CARLO FARINI E IL "MANIFESTO DI RIMINI"
IL D'AZEGLIO E "GLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA"

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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