ANNO 1847

CARLO ALBERTO IL "RE TENTENNA"

GOVERNO DI CARLO ALBERTO - SUO ODIO VERSO L'AUSTRIA E DESIDERIO DI LIBERARE L' ITALIA DALLO STRANIERO - LA QUESTIONE DEL TRANSITO DEL SALE - II CONGRESSO DI MORTARA E QUELLO DI CASALE MONFERRATO - PETIZIONE DEI GENOVESI - TUMULTI DI TORINO - LA SATIRA "IL RE TENTENNA" - RIFORME ALBERTINE - CONDIZIONI DEL LOMBARDO-VENETO - CONDOTTA DELLA POLIZIA MILANESE - IL CONGRESSO DI VENEZIA - LE CONGREGAZIONI CENTRALI CHIEDONO RIFORME - NICOLÒ TOMMASEO E LA LIBERTÀ DI STAMPA
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APPELLO DEI LIBERALI PIEMONTESI AL BORBONE


Come già accennato nel precedente riassunto, ai fatti del regno delle Due Sicilie guardavano intanto i liberali d'ogni parte d'Italia, specie quelli dello Stato Pontificio e dello Stato Sardo, i quali, dopo avere nei giornali esortato il re di Napoli a seguire l'esempio del Pontefice e degli altri principi riformatori, distesero un comunicato, che fu riprodotto dalla stampa liberale e fu consegnato a Ferdinando II il 31 dicembre del 1847 da ANTONIO MONTANARI, professore dell'Università di Bologna.

L'appello, che riproduciamo fedelmente e letteralmente,
portava le firme di trentadue Piemontesi e trentaquattro Romani:

I Piemontesi erano: CESARE BALBO, M. A CASTELLI, B. GALVAGNO, E. RIGNON, PIETRO SANTAROSA, ROBERTO D'AZEGLIO, RICCARDO SINEO, C. PANSOYA, G. B. COSSATO, FLAMINIO BANDI, EUGENIO TRUQUET, CARLO ALFIERI, AUGUSTO BALBIS, EUGENIO BALBIANO, D. DE ROLANDIS, SILVIO PELLICO, AMEDEO CHIAVARINA, DOMENICO CARRETTI, GIACOMO DURANDO, ANGELO BROFFERIO, DAVID BERTOLETTI, P. CLODOVEO da CASTIGLIOLE Ministro Provinciale dei Minori Osservanti, P. PACIFICO PIZZORNI da Rossiglione in Liguria, lettore di teologia dei MM. OO., GIUSEPPE BERTOLDI, G. L. PROVANA, C. GAZZANA, COSTANTINO RETA, GIORGIO BRIANO, LUIGI RE, TOMMASO MATTEI e CAMILLO BENSO DI CAVOUR, che si firmava direttore ed estensore-capo. L'APPELLO:

"Sire ! Non sudditi di Vostra Maestà, ma Italiani d'altre province ed interessatissimi così al bene dei vostri popoli, della vostra corona e della nostra Patria comune, noi ci accostiamo in intenzione al Vostro trono, o Sire, per supplicarvi di volere accedere alla politica di Pio IX, di Leopoldo e di Carlo Alberto; alla politica italiana, alla politica della Provvidenza, del perdono, della civiltà, della carità cristiana.
"Sire, l'Italia vi aspetta, l'Europa vi guarda, Iddio vi chiama oramai. Noi non entriamo in memorie d'altri tempi; noi sappiamo che Iddio misericordioso tiene conto di ciascuno delle sue difficoltà, degli stessi incitamenti, e delle buone intenzioni nell'operare o anche errare. E sappiamo che in terra, come in cielo ogni uomo rimane poi giustificato o no, secondo se furono gli ultimi fatti determinanti della sua vita.
"Ed ora, o Sire, Voi siete giunto al punto culminante, all'atto sommo della vita vostra, al fatto principale in quella che vi resta; ora non può rimaner dubbia la vostra coscienza, poiché dubbio non è il volere della Provvidenza. Guardate su, lungo tutta l'Italia, alla gioia dei popoli risorti, alla soddisfazione dei principi autori delle risurrezioni, alla unione reciproca, alla pace, alla innocenza, alla virtù di tutti questi fatti nostri, benedetti dal Pontefice, ribenedetti dal consenso di tutta la Cristianità; e giudicate Voi se noi facciamo una stolta ed empia rivoluzione, semmai anzi una buona, santa, felicissima mutazione assecondante i voleri di Dio !
"Sire, il vostro obbedire a tali voleri, il vostro accedere a tale mutazione, la farà più facile, più felice, più moderata che mai; ed aggiungendo un secondo al primo terzo di Italiani già risorti costituirà risorta in gran maggioranza la Nazione nostra; la farà inattaccabile dai nemici, indipendente dagli stessi amici stranieri, libera e tetragona in sé; le darà forza e tempo di svolgere pacatamente tutta l'ammirabile opera sua; farà, insomma, i destini d'Italia, quanto possa farsi umana cosa, assicurati.
"Ricuserete Voi, all'incontro, di seguire la fortuna, la virtù d'Italia ? Allora, o Sire, rimarrebbero sbarrati sì nella loro magnifica via, ma non tolti di mezzo per ciò, i destini Italiani. Non può, non può l'Italia rimanere addietro, diversa, contraria dalla civiltà cristiana onnipotente e trionfatrice, non che di tutti questi piccoli ostacoli interni, ma di tutte le potenze umane, di tutti i popoli, di tutte le civiltà cristiane. Quali che siano, ora o domani, i nemici o i freddi e falsi amici d'Italia, l'Italia piglierà il suo posto nel trionfo delle nazioni cristiane. Ma forse, come già avvenne, gli ostacoli abbrevierebbero la via; forse (che Dio nol voglia!) il rifiuto Vostro troncherebbe immediatamente con la violenza le questioni più importanti del risorgimento Italiano ! Se non che questo ne resterebbe forse guastato; forse non rimarrebbe più, come è finora, incolpevole, santo, unico al mondo e nel corso dei secoli ! E, perciò, o Sire, noi gridiamo dall'intimo del cuore e dell'anima nostra: Dio nol voglia ! Dio nol voglia ! E perciò noi, Italiani, indipendenti da Voi, ci facciam supplici a pregare, dopo Dio, Voi che nol vogliate".


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CARLO ALBERTO: SUO ODIO VERSO L'AUSTRIA E DESIDERIO DI LIBERARE L'ITALIA DALLO STRANIERO
LA QUESTIONE DEL TRANSITO DEL SALE - IL DAZIO SUL VINO
I CONGRESSI DI MORTARA E CASALE - TUMULTI TORINESI
IL "RE TENTENNA" - RIFORME ALBERTINE


Nell' "appello" inviato a Ferdinando II, fra i principi riformatori era citato CARLO ALBERTO. Dopo le repressioni del 1834 il re di Sardegna aveva portato a conclusione notevoli opere; aveva promulgato un nuovo codice civile, penale e commerciale, istituito un Consiglio di Stato, abolito quasi del tutto le servitù e i privilegi feudali della Sardegna, migliorato l'armamento e l'equipaggiamento dell'esercito, aveva riordinato l'amministrazione, fondato ospedali e teatri, fabbricato caserme, aperto strade, costruito ponti, si era reso benemerito degli studi e delle arti istituendo due deputazioni, una per la Storia Patria, l'altra per la tutela degli oggetti di Antichità e Belle Arti, fondando una pinacoteca, arricchendo la Regia Biblioteca e il Museo Egizio, istituendo l'Ordine del Merito Civile di Savoia e fondando musei di mineralogia geologia ed anatomia.

Ma era rimasto fieramente avverso ad ogni libertà e assertore dell'assolutismo sia pur non tirannico e pareva che avesse completamente dimenticato le idee liberali della sua gioventù. Non si era però spento nel suo cuore il desiderio di varcare il Ticino, conquistare il Lombardo-Veneto e scacciare dall'Italia l'Austria, sebbene per opportunità politica questo desiderio egli non lo facesse trapelare e si mostrasse anzi amico dell'imperatore con cui aveva stretto alleanza oltre che vincoli di parentela, facendo sposare il suo primogenito VITTORIO EMANUELE alla figlia dell'Arciduca RANIERI MARIA ADELAIDE.

Dell'esistenza di questo desiderio sembra che ci siano parecchie prove. Nel 1839, in una sua memoria intitolata "Ad majorem Dei Gloriam", dove parlava della sua partecipazione ai moti del 1821, Carlo Alberto scriveva:
"Fui accusato di cospirazione? A ciò almeno mi avrebbe indotto un sentimento più nobile e più elevato che non fosse quello dei Carbonari. Confesso che sarei stato più prudente, nonostante la mia giovinezza, se avessi taciuto quando sentivo parlare di guerra, della brama di allargare gli Stati del Re, di contribuire all'indipendenza d'Italia, di ottenere a mezzo del nostro sangue, una forza ed un'estensione di territorio che potesse consolidare la felicità della Patria; ma questo slancio dell'anima di un giovane soldato non può essere rinnegato dai miei capelli grigi. Certo, in questi momenti, io non vorrei nessun fatto contrario alle massime della nostra santa religione; ma io lo sento che fino all'ultimo mio sospiro, il mio cuore palpiterà al nome di patria e di indipendenza dallo straniero".

Al ministro della guerra marchese PES DI VILLAMARINA, che nella Reggenza del 1821 gli era stato fedelmente al fianco, così il re scriveva nel 1840:
"Guadagnare venti battaglie è bello, ma io mi accontenterei per una causa che so io, di guadagnarne dieci e di essere ucciso alla decima. Ah! Allora morrei ben felice benedicendo il Signore".

Un'altra prova dei sentimenti d'indipendenza di Carlo Alberto l'abbiamo in una lettera allo stesso Villamarina del settembre del 1843. Al confine piemontese, alcuni arroganti soldati austriaci, venuti a conflitto con alcuni contadini di Castelletto Ticinese, erano stati arrestati dal sindaco, il quale però li aveva poi consegnati agli ufficiali austriaci che erano andati a richiederli con un fare da prepotenti. Saputo il fatto, il re scrisse al Villamarina disapprovando la condotta di quel sindaco:
"....avrebbe invece dovuto sostenere l'onore nazionale anche suonando a stormo le campane… poi sarei accorso io e avrei fatto risuonare le campane dal Ticino fino all'ultimo villaggio della Savoia, e mi sarei immediatamente messo alla testa dell'esercito e di tutti gli uomini di cuore, ed avrei attaccato se non mi si mandava immediatamente un'ambasciata per farmi scuse e darmi tutte le desiderabili spiegazioni. Il nostro esercito è più piccolo, ma io conosco il cuore dei nostri uomini; e io avrei gettato il grido dell'indipendenza della Patria lombarda e, forte della protezione di Dio, avrei marciato avanti; ciò che sono pronto ancora a fare, se occorre".

A confermare queste aspirazioni all'indipendenza d'Italia che Carlo Alberto nutriva nell'anima e il proposito sempre accarezzato dal re di liberare la Patria dallo straniero e, forse riunirla in un solo Stato, nello stesso anno 1843 GIOVANNI PRATI, per incarico del sovrano, scriveva l'inno militare piemontese, di cui è molto significativa la strofe seguente:
"Tutti siam d'un sol paese,
solo un sangue in noi traspar,
a ogni tromba piemontese
mandi un'eco e l'Alpe e il mar.

Nel 1845 a Massimo d'Azeglio, reduce dalle Romagne, gli scriveva:
"Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano; ma che siano certi che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana".
Dati i suoi sentimenti verso l'Austria non deve destare meraviglia se Carlo Alberto assunse un atteggiamento antiaustriaco nella questione del transito per Genova del sale diretto al Canton Ticino e nel dissidio sorto per l'aumento del dazio sui vini piemontesi importati in Lombardia (che per il Piemonte fu una "mazzata" nella sua più florida economia).

Una convenzione stipulata nel 1751 fra i governi sardo ed austriaco stabiliva che "era permesso al re di Sardegna di far transitare per gli Stati della Lombardia austriaca quella quantità di sale prodotta a Venezia e occorrente agli Stati del Re di Sardegna. In corrispettivo di tale concessione il re sabaudo cedeva e rinunziava a favore della camera di Milano l'intero commercio di sale con i Cantoni svizzeri e le balie da loro dipendenti in Italia".
Questa convenzione fu confermata dal trattato di Vienna del 1815, ma, poi essendosi aggiunta agli Stati Sardi la Liguria, il Piemonte non ebbe più bisogno di fornirsi di sale a Venezia e la convenzione andò in disuso. Nel 1843 il Canton Ticino, che riceveva scarsa quantità di sale dall'Austria, per rifornirsene si rivolse a Marsiglia e per riceverlo stipulò una convenzione con il governo sardo, che permetteva il transito del sale attraverso il territorio piemontese.
Protestò l'Austria per questa convenzione e chiese ripetutamente che fosse annullata; non essendovi riuscita dopo tre anni di negoziati, ricorse alle rappresaglie, e il 20 aprile del 1846 pubblicò un decreto con il quale i vini piemontesi esportati nel LombardoVeneto erano gravati di un dazio di L. 21.45 l'ettolitro invece di L. 9.10 quante fino allora pagavano (il 130% in più).

A quest'atto di rappresaglia CARLO ALBERTO rispose denunciando alla pubblica opinione il sopruso austriaco con un breve articolo inserito il 20 maggio 1846 nella "Gazzetta Piemontese" e che noi qui riportiamo:

"L'aumento del dazio d'entrata sui vini dei regi Stati adottato dall'Austria colpisce così direttamente gli interessi dei proprietari e coltivatori, che resta opportuno di indicare le ragioni di cosiffatta misura. Nel 1751 si stipulava una convenzione fra la Corte di Sardegna e d'Austria, per la quale accordandoci questa il transito dei sali della Repubblica di Venezia per gli Stati della Lombardia si rinunciava per parte nostra al commercio attivo del sale con i Cantoni Svizzeri e le balie da loro dipendenti in Italia. Questa convenzione fu richiamata in vigore nel 1815. Ma avendo il Piemonte cessato definitivamente di procurarsi il sale da Venezia, poteva la medesima considerarsi come risolta, mancando lo scopo per cui era stata stipulata, e fu soltanto per deferenza alla Corte d'Austria, in considerazione del non essere stata denunciata la Convenzione, che Sua Maestà rinunziò di fornire al Canton Ticino la quantità di sale che era richiesta. Però il governo di questo Cantone, avendone fatto acquisto all'estero, chiese al governo di Sua Maestà il libero transito, il quale fu accordato, non potendosi, secondo le massime del diritto delle genti, negare agli Stati confinanti il transito di qualsiasi merce ove non ne venga a pregiudizio allo Stato che l'accorda. La Corte di Vienna, volendo considerare un commercio attivo questo transito, quantunque accordato senza alcun beneficio e profitto per le regie gabelle, vi si è opposta e, ricusando Sua Maestà di aderire ad una tale estensione della Convenzione del 1751, nella quale non è fatta parola del transito, la cui proibizione né fu né poteva mai essere dalla Corte di Sardegna consentita, fu dall'Austria adottata la sopraccennata misura come una rappresaglia".

Quest'atto di coraggio fu preceduto da lunghe discussioni tra il re e i suoi consiglieri. Avendo l'austrofilo conte DELLA TORRE chiesto al sovrano che cosa mai avrebbe fatto il Piemonte se l'Austria gli si fosse schierata contro, Carlo Alberto aveva risposto:
"Se il Piemonte perde l'Austria, acquisterà l'Italia, e l'Italia farà da sé".


Per la sua condotta coraggiosa e rettilinea nella questione del sale e dei vini il re di Sardegna ebbe le approvazioni incondizionate e le lodi entusiastiche di tutti i liberali del Piemonte, del Lombardo-Veneto e delle altre parti d'Italia, che vedevano con piacere l'atteggiamento antiaustriaco di Carlo Alberto e ne traevano buoni auspici per le sorti future della patria. Gli stessi danneggiati dall'aumento del dazio approvarono l'agire del re, non pochi Consigli provinciali si affrettarono a mandargli congratulazioni ed offerte di sacrifici, inni politici e militari circolarono e a Torino il popolo preparò a Carlo Alberto una calorosa dimostrazione che doveva aver luogo un giorno in cui egli avrebbe assistito a uno spettacolo militare: ma la manifestazione non fu fatta perché il sovrano, sapendo che si sarebbe gridato "Viva il re d' Italia !", per prudenza proibì lo spettacolo.

Poi venne l'elezione di Pio IX e o per forza di cose (la piazza plaudente con il grido "Viva il papa liberale") o spontaneamente, ci fu un cambiamento, nell'animo e nella mente di Carlo Alberto. Non mostrò subito di volere imitare il Pontefice (che stava diventando il paladino di tutte le fazioni) elargendo riforme, ma l'esempio del Papa liberale fece sì che guardasse con occhio più benevolo le manifestazioni dei liberali, che, fino allora vissuto sotto l'influsso dei Gesuiti, cominciasse a non considerar più il liberalismo come una dottrina contraria alla religione; forse gli antichi ideali della sua giovinezza si ridestarono in lui, forse solo allora si accorse di avere con i liberali un sentimento comune: l'odio verso l'Austria e il desiderio di liberar la patria dagli stranieri.

Carlo Alberto, di cui allora si coniò una medaglia con il motto "Je atans mon astre" intorno al leone savoiardo che artiglia un'aquila (un'allusione all'aquila austriaca), ai primi atti di Pio IX scrisse:
"è una campagna che Egli intraprende contro l'Austria; evviva !".
Questa frase ha un gran significato per lo storico perché spiega come agli occhi del re sardo la politica liberale del Pontefice fosse quasi giustificata dagli effetti contrari all'Austria che ne derivavano.
Anche negli atti di Carlo Alberto si notò il cambiamento. Tutti si accorsero della sua tolleranza: permise a FRANCESCO PREDARI di pubblicar l'"Antologia"; affidò la direzione dell'Istruzione pubblica a CESARE ALFIERI; lasciò che al congresso dell'Associazione agraria, tenutosi a Mortara il 9 settembre del 1846, si riservassero grandi feste ai Lombardi che vi prendevano parte e brindisi e allusioni politiche; favorì l'ottavo congresso degli scienziati tenutosi a Genova dal 14 al 19 settembre, nel quale dai numerosi congressisti intervenuti (circa 900, e per la prima volta quelli dello Stato Pontificio) da ogni parte della penisola e delle isole s'inneggiò a Carlo Alberto, a Pio IX, all'indipendenza italiana; e non si oppose, facendo strappo alla sua consueta prudenza (e qui ne occorreva molta) alle feste celebrate a Genova il 5 dicembre in occasione del primo centenario della "cacciata degli Austriaci".
Oramai per gli austriaci non vi erano più dubbi che nell'animo del nipote di Carlo Felice stava tornando in superficie il temperamento ribelle del Carlo Alberto del 1821!

Infatti, l'ex cadetto di Napoleone, un po' come allora, anche ora riceveva segretamente autorevoli liberali lombardi, quali i conti GABRIO CASATI, VITALIANO BORROMEO, DURINI, GIULINI, D'ADDA, MARTINI E TORELLI, dava udienza al D'AZEGLIO, al conte GIACINTO di Col legno, ai marchesi PARETO, DORIA e RICCI, al SALVAGNOLI, non nascondeva la sua approvazione al GIOBERTI e al Balbo per i loro libri e a CAVOUR per l'articolo intorno alle ferrovie, pubblicato sulla "Revue Nouvelle", e al RICCI scriveva: "La forma dei governi non è eterna, e noi cammineremo con i tempi".
Da notare inoltre che l'ex cadetto di Napoleone, nel 1844 (pur messe al bando in quasi tutta Europa, ogni memoria e scritti su Napoleone) autorizzava i tipografi Fontana a Torino, alla pubblicazione del monumentale "Memoriale di Sant'Elena", curato dal cavalier A. Baratta. Il primo volume uscì nello stesso 1844, e il secondo volume nel 1846 (e chi scrive qui ha l'uno e l'altro in originale).

Nell'agosto del 1847 avvenne (narrata in altre pagine) l'occupazione austriaca di Ferrara: Carlo Alberto in questa occasione, offrì all'indignato Pontefice l'aiuto delle sue armi per fiaccare la prepotenza dell'Austria. Il 30 agosto s'inaugurò a Casale Monferrato il "Congresso agrario" con l'intervento di numerosissimi liberali del Piemonte, della Liguria e dello Stato Pontificio. Monsignor NAZZARI di Calabiana pronunziò patriottiche parole, e l'avvocato PIER DIONIGI PINELLI, un vibrato discorso; e fra il consenso generale, chiese l'istituzione della Guardia civica, la libertà di stampa ed altre riforme.

Il congresso a quel punto non era più "agrario" ma aveva assunto il carattere di un'assemblea politica. Ad un tratto il Conte di CASTAGNETO, segretario particolare del Re, lesse una lettera che Carlo Alberto gli aveva scritto: "Vi scrivo - diceva - solamente due righe perché molte cose restano da fare. L'Austria ha diramato una nota a tutte le Potenze, in cui dichiara di voler mantenere Ferrara, credendo di averne il diritto. Al mio ritorno da Racconigi ho trovato una gran folla davanti il palazzo: una dimostrazione contenuta e senza grida. Se la Provvidenza ci manda la guerra dell'indipendenza d'Italia, io monterò a cavallo con i miei figli, mi porrò alla testa del mio esercito e farò come fa ora Sciamyl in Russia. Che bel giorno sarà quello in cui si potrà gridare alla guerra dell'indipendenza italiana".

Scroscianti ovazioni accolsero la lettura della lettera e subito fu scritto una missiva al re che fu firmato da duecento persone:

"Un'era di pace e di prosperità incomincerà per i popoli italiani. All'antica diffidenza fra questi e i loro principi subentra la concordia. Voi primo fra i sovrani d'Italia con un forte e vigoroso atto d'indipendenza (qui ritorna il 1821 ! Ndr) inauguraste gloriosamente l'era del principato civile nella nostra penisola. Di tanto beneficio i vostri sudditi, nell'innalzare al trono l'espressione del loro plauso, fanno voti perché l'opera del Re sia recata a compimento e porti i suoi frutti. In recenti e dolorose emergenze Voi forniste nuova prova del vigile zelo e infaticabile premura nell'adoprarvi a pro della nazionale indipendenza, protestando con solenni ed energiche parole contro l'oltraggio fatto alla sacra e venerata Maestà del Pontefice. Alle grida plaudenti di tutti gl'Italiani fanno eco i vostri sudditi, i quali per la difesa della religione umiliata, della patria e del trono continuamente minacciati dagli esterni e sistematici nemici dell'augusta vostra Casa, sentono più che mai il bisogno di stringersi attorno all'augusta vostra persona in attitudine dignitosa ed imponente. Intanto che il magnifico vostro esercito chiamato a diventare sostenitore e difensore della patria, con Voi duce, rinverdirà gli allori dell'Assietta e di Guastalla, e uscirà vittorioso da un cimento non dubbio, e noi con voti e con le preghiere affretteremo quel desiderato momento ed assumeremo momentaneamente l'impresa di vegliare, raccolti in milizia cittadina, alla pubblica tranquillità. Saremo nel pericolo vivo e nel perenne semenziaio di soldati, pronti a sostenere con l'esercito l'onore e l'indipendenza della patria comune. Sono questi i voti unanimi del vostro popolo che noi innalziamo al trono, interpreti fedeli dell'universale desiderio".

L'esempio di Casale fu imitato da Genova. L'8 settembre (ripetendo le celebrazioni centenarie fatte l'anno prima) il popolo andò in pellegrinaggio a Portoria, al monumento del "Balilla con il sasso" (contro gli austriaci, che diede il via alla famosa sommossa generale del già ricordato sopra 1746) inneggiando a Pio IX e a Carlo Alberto.
Il giorno dopo i marchesi DORIA, BALBI e RAGGI, facendosi interpreti del desiderio dei Genovesi, si recarono a Torino per invocar dal sovrano le agognate riforme. Carlo Alberto accortamente per non trasformare l'incontro, in un ufficiale atto politico, non volle ricevere i tre tutti insieme come membri di una deputazione, ma li ammise, e parlò ad ognuno di loro privatamente.
Dal Villamarina, fece poi rispondere a loro per iscritto.
E questo ci ha poi lasciato scritto il SOLARO DELLA MARGHERITA -

"Il Re ha deliberato di difendere l'indipendenza dello Stato da qualunque aggressione; ma non volersi in nessun modo compromettere con le grandi potenze spingendo, non assalito, le armi fuori dei confini: è falsa la voce che egli ha intenzione di muover guerra per l'indipendenza d'altri Stati, salvo che, il Sommo Pontefice Pio IX prendendo in mano la Croce, bandisca una guerra di religione, cosa considerata come non possibile: il re ha fatto molti benefici al suo popolo; ma non è tempo di aggiungere quello della libertà della stampa, che degenerando in licenza produce molti inconvenienti, né di concedere la Guardia Nazionale".

Nonostante questa risposta, si continuò ad aver fede in Carlo Alberto, il quale forse non credeva intempestive o dannose le riforme, ma non voleva dare la sensazione di esservi costretto dalle pressioni dei sudditi. Ad Acqui, ad Asti, a Valenza, ad Alessandria, dove si recò per inaugurare opere pubbliche, il sovrano ricevette accoglienze entusiastiche dalle popolazioni e fra gli applausi gli giunse più volte all'orecchio il grido di "Viva il re d'Italia". Non gli dispiaceva ascoltarlo ma fece finta di non udirlo.

La sera del 1° ottobre, vigilia del genetliaco del sovrano, il popolo torinese si radunò nella pubblica passeggiata, detta dei Ripari, acclamando al Pontefice e a Carlo Alberto e cantando l'inno dello Sterbini. Era una manifestazione innocente, eppure uno stuolo di guardie e di carabinieri si scagliò contro la folla e la sciolse con una violenza che diede luogo a conflitti, ferimenti e arresti, e che suscitò una grande indignazione.
Conseguenza della brutale aggressione fu che il ministro VILLAMARINA, il quale aveva la direzione della Polizia ma non aveva dato alcun ordine di sciogliere la dimostrazione, diede le dimissioni (8 ottobre). Il giorno dopo fu esonerato dalla carica il ministro degli Esteri, il reazionario filoaustriaco conte SOLARO DELLA MARGHERITA. Al ministero della Guerra il re chiamò il Conte ERMOLAO ASINARI di San Marzano e a quello degli Esteri il conte BROGLIA di Casalborgone.

Fu sotto l'impulso dello sdegno provocato dalla repressione poliziesca del 10 ottobre che uno studente dell'Università di Torino, DOMENICO CARBONE, scrisse e mandò al sovrano la famosa satira intitolata "Re Tentenna".


"In diebus illis c'era in Italia,
Narra una vecchia gran pergamena,
Un re che andava fin dalla balia,
Pazzo pel giuoco dell'altalena.
Caso assai raro nei re l'estimo,
E fu chiamato Tentenna primo.
Or lo ninnava Biagio, or Martino;
Ma l'uno in fretta, l'altro adagino,
E il re diceva: in fretta, adagio
Bravo, Martino; benone, Biagio.
Ciondola, dondola,
Che cosa amena,
Dondola, ciondola, È l'altalena.
Un po' più celere,
Meno ...., di più....
Ciondola, dondola,
E su e giù.


Il re lesse le otto strofe dell'argutissima satira, in cui era beffeggiata la sua irresolutezza, e ne rimase addolorato, tanto più che da qualche tempo aveva nominato, con l'incarico di preparare riforme secondo i nuovi bisogni e le nuove idee, una commissione composta dal conte DESAMBROIS, ministro dell'Interno, dal conte di REVEL, ministro delle Finanze, dal marchese ALFIERI, e dal conte PETITTI, dall'avvocato GIOVANNETTI e dal conte SCLOPIS di San Martino.

"Il 29 e il 30 ottobre del 1847 - scrisse lo stesso conte SCLOPIS questa sostanziosa sintesi di ciò che fu fatto e che riportiamo letteralmente - il re firma una serie di leggi che nel loro complesso mutano l'ordinamento interno della monarchia di Savoia senza nulla apparentemente detrarre all'assoluto potere che già esercitava la corona.
Si modificano le vecchie istituzioni dello stato rafforzandole in forme più conformi a ciò che si era da molti anni già fatto in altri paesi e sopratutto in Francia. Si compie ad un tratto, e forse con non sufficiente ponderazione, quello che più convenevolmente di certo si sarebbe potuto fare a gradi misurati per meglio riuscire nell'applicazione. S'istituisce un magistrato di cassazione e con quest'istituzione si muta l'antico edilizio della magistratura, dove l'autorità suprema dei senati e la loro ingerenza in materie economiche e politiche si aveva per guarentigia della civile dominazione del principe.
Si promulga il codice di procedura criminale in cui s'introduce il processo orale nelle più larghe proporzioni e con ogni maniera di sicurtà per la difesa dell'accusato. Si aboliscono parecchie giurisdizioni speciali e si fanno vari provvedimenti diretti a rendere più spedita l'azione amministrativa.

Ma le due novità che senza avere l'aspetto di mutazioni fondamentali cambiano sostanzialmente l'indole del precedente governo sono l'avere trasferite le attribuzioni in materia di polizia dai comandanti militari all'autorità economica e civile degli intendenti delle province, con l'aggiunta di disposizioni che ne temperassero l'esercizio, e l'avere riformate le regole della revisione della stampa, allargando assai la facoltà di esprimere le varie opinioni degli autori e permettendo anche la pubblicazione di scritti che trattassero di materie di pubblica amministrazione, mediante la precedente autorizzazione dell'autorità incaricata della revisione, affidata a commissioni provinciali poste sotto la vigilanza di una commissione superiore. Più facile di un tempo si rende l'istituzione di fogli periodici, i quali non tardarono a mostrarsi numerosi e baldi.

L'importanza di questi due provvedimenti si ravvisava tanto maggiore quanto più strette erano state fino allora le regole che provvedevano negli affari di polizia e di stampa. L'autorità militare trattava talvolta i primi con un piglio che molto sapeva d'arbitrio e, come sempre accade quando non si va con norme ben definite, l'eccesso di alcuni, l'insufficienza di molti toglievano il credito a tutti i depositari di tale gelosissima potestà. Quanto ai secondi, la censura non porgendo nessuna sicurezza ad una discreta libertà, essa si aveva per coercizione anziché per tutela degli scrittori. In materia di stampa politica la libertà non si può dare a spizzico. Congiungere la censura preventiva agli impulsi della libertà è un tentare la risoluzione di un problema insolubile. Il principio di libertà può accomodarsi di svariati modi di repressione, ma rifugge assolutamente da ogni tocco di prevenzione. Quindi l'esperimento di quest'antagonismo legale non andò scevro in Piemonte da molti disturbi. Se ne dolse il clero come di un impedimento al libero esercizio del suo ministero; s'inquietarono i giornalisti come di un ostacolo a sfogare le vampe dei loro desideri, se ne occupò il pubblico come di una lotta dove il governo si poneva nell'alternativa di essere debole o nello stesso tempo tiranno.

Di gran rilievo nel suo concetto fu infine il regio editto del 27 di novembre di quell'anno 1847, per l'amministrazione dei comuni e delle province, poiché si mosse con quello un primo passo verso una più libera forma di governo. Si usarono in quella legge parole insolite che accennavano a tal fine. Dichiarava il re di voler fondere in un sol getto l'ordinamento comunale, provinciale e divisionale, estendervi il principio dell'eguaglianza civile già consacrato dai suoi codici, separare diligentemente il potere deliberativo dall'esecutivo, per agevolarne il regolare esercizio; stabilire alla vita dei comuni ed a quella cui si erano suscitate le province e le divisioni le sole condizioni giudicate necessarie a tutelarne le sostanze ed a corroborare l'unità nazionale. Questo editto rivolto, come si scorge, ad innestare liberali franchigie sull'antico tronco della monarchia assoluta senza intaccarne le sovrane prerogative, parve eccedere a un lato e difettare nell'altro, perché poneva a fronte del principato il rigoglioso elemento comunale tratto dalla libera elezione dei cittadini, e non circondava il trono con la guarentigia dell'inviolabilità del monarca, della responsabilità di ministri e dell'assoluta divisione dei poteri".

Sebbene queste riforme non fossero proprio quelle volute dai liberali pure questi se ne mostrarono contenti perché pensavano che il re, una volta messo su quella via, con maggiore o minore celerità, sarebbe andato avanti. In tutte le città si fecero manifestazioni di gioia e quando, il 3 novembre, il sovrano partì per la Riviera ligure, dove di solito tutti gli anni trascorreva un mese, a Torino gli fu eretto un arco trionfale e passò a cavallo tra due fitte ali di popolo battente le mani, come alla partenza per una grande conquista. Non meno entusiastico fu l'arrivo a Genova, dove il re passò tra un'imponente e frenetica folla acclamante, preceduto dal marchese DORIA che reggeva una bandiera che era stata strappata agli Austriaci in quel famoso 5 dicembre 1746, seguito dall'abate di MATTEO che portava una bandiera su cui era scritto "Viva Gioberti !"


Il giorno dopo, appena tramontato il sole, il re uscì a cavallo per le vie illuminate a festa e gremite di gente che lo accolse al grido di "Viva Carlo Alberto !"
Questo grido, quando il sovrano passò sotto il convento dei Gesuiti, si mutò in quello, molto significativo, di "Viva Gioberti !"
A un tratto un giovane si fece largo tra la folla e, afferrate le redini del cavallo del re, esclamò: "Sire, passate il Ticino e saremo tutti con Voi!".

Quel giovane genovese di 25 anni, era un affiliato alla "Giovine Italia" e si chiamava NINO BIXIO.
Si rinnovarono, il 5 dicembre, al suo ritorno a Torino le dimostrazioni a Carlo Alberto, che dalla loggia del Palazzo Reale vide sfilare per due ore in Piazza Castello tra frenetici applausi tutte le corporazioni, associazioni e maestranze d'arte e mestieri con i loro gonfaloni. Cinque giorni prima un decreto reale aveva creato il dicastero dell'istruzione, che era stato affidato, come abbiamo detto, al marchese CESARE ALFIERI; il 7 dicembre un altro decreto creava quello dell'Agricoltura, Commercio e Lavori Pubblici, che era dato al conte LUIGI DES AMBROIS de Navache; e il conte GIACINTO BORELLI fu nominato ministro dell'Interno.

E intanto sorgevano nuovi giornali: il "Risorgimento" del CAVOUR, la "Concordia" di LORENZO VALERIO, l'"Opinione" di GIACOMO DURANDO, il "Messaggero Torinese" (che da letterario si mutava in politico) di ANGELO BROFFERIO; tutti rappresentavano la voce tonante del nuovo Piemonte, che si univa a quelle non meno risonanti dei confratelli della Toscana e dello Stato Pontificio.


CONDIZIONI DEL LOMBARDO-VENETO
BRUTALE CONDOTTA DELLA POLIZIA DI MILANO
IL CONGRESSO DI VENEZIA
LE CONGREGAZIONI CENTRALI CHIEDONO RIFORME
NICCOLÒ TOMMASEO E LA LIBERTA DI STAMPA


Dopo di quelle accennate nello Stato Pontificio e in Toscana, e di quelle quasi trionfali fatte a Carlo Alberto in Piemonte, di minore intensità furono le manifestazioni patriottiche e liberali nel Lombardo-Veneto, dove -ovviamente- il governo austriaco non solo vigilava attentamente, ma ai primi sospetti, le repressioni, le perquisizioni, gli arresti, erano quasi immediati.
Ma se le persone potevano agire poco, né fare manifestazioni e pubblicare quasi nulla alla luce del sole, la stampa clandestina era florida, inoltre oltre quella locale, raggiungeva con ogni mezzo quella degli altri stati, negli ultimi due anni in crescendo fermento, prima con l'elezione del "papa liberale" Pio IX, poi con l'occupazione austriaca di Ferrara. E fra le tante pubblicazioni "italiane-straniere", anche in Lombardia e in Veneto i due famosi libri del GIOBERTI e del BALBO (di cui abbiamo già accennato in altre pagine) avevano già fatto rinascere le speranze agli ex italiani. Più complici e molto più propagandisti dei liberali nel diffondere le nuove idee fu poi il clero dopo che il 14 giugno 1846 era stato eletto pontefice MASTAI FERRETTI. Con un Papa che sembrò rivoluzionario, avendo anticipato con le sue riforme e concessioni perfino i due più libertari sovrani della penisola - Leopoldo e Carlo Alberto- la Chiesa con la sua ubiquità e la ramificazione capillare, influì moltissimo sulle plebi della campagna, e si ebbero anche nei piccoli paesi non poche dimostrazioni al grido "Viva Pio IX". Ma come abbiamo visto anche nelle grandi città questo zelo non mancava, perché era meno carico di conseguenze repressive il gridarlo, anche se era un vero e proprio grido di significato politico oltre che un ovazione a carattere religioso.

Tuttavia a Milano imponentissima fu la manifestazione dall'evidente significato patriottico e quindi politico, in onore di FEDERICO CONFALONIERI, il martire dello Spielberg, che a Hospenthal in Uri, mentre tornava in Italia, il 10 dicembre del 1846 si era spento. (ricordiamo: Pio IX era stato eletto in giugno - E Confalonieri era stato condannato a morte nel 1823, poi commutata al carcere a vita nella fortezza dello Spielberg. Nel 1835, graziato, era potuto emigrare negli Stati Uniti, dove era vissuto fino al 1837, quando aveva fatto ritorno in Europa, ed era andato a vivere nel cantone svizzero di Hospenthal; quindi la "ferita" per i milanesi non era recente; ma non l'avevano per nulla rimarginata né dimenticata; furono commossi dalla scomparsa del tenace oppositore, fondatore del "Conciliatore", che così si rese utile rientrando in Italia anche da morto.

Esequie solenni gli furono rese nella chiesa di S. Fedele e fu di tale imponenza la partecipazione e il cordoglio di tutta la cittadinanza che il ministro di Polizia TORRESANI si preoccupò non poco di quella manifestazione che era sì religiosa ma -e apparve chiaro- aveva un "alto senso patriottico". Preoccupante perché senza distinzione di ceto alle esequie c'era tutta Milano, e da quell "alto senso patriottico" mostrava di essere animata. E a quest'animazione non erano estranei i letterati, i poeti, i giornalisti, e i tanti anonimi che erano l'uno e l'altra cosa. Tutti con la propria "goccia" scavavano quella "pietra" che era diventato il cuore di molti italiani da alcuni secoli.

Infatti, oltre che il Torresani a Milano, preoccupato lo era anche il suo collega a Venezia, che in un rapporto dello stesso anno, scriveva: "La battaglia del progresso si è trasportata dal terreno delle violenze a quello morale di un lavoro pacifico ed assiduo. Il veleno della propaganda letteraria s'insinua goccia a goccia negli spiriti; esso opera lentamente, ma s'impadronisce in modo irresistibile degli uomini più pacifici ed amici dell'ordine, soprattutto, poi della gioventù, tanto accessibile alle idee nazionali".
Ma Napoleone l'aveva scritto a Sant'Elena! "Deve passare una generazione, poi in Italia, capiranno il nazionalismo".

Come nelle altre parti d'Italia, così nel Lombardo-Veneto erano diffusi a migliaia manifestini stampati clandestinamente, correvano e venivano gustate le poesie del Giusti, penetravano i libri, gli opuscoli e i giornali che trattavano il problema nazionale; si tenevano gli sguardi appuntati sullo stato Pontificio e sul Piemonte, si seguiva con ansia il fatale procedere delle vicende politiche che erano come il preludio della rinascita italiana, si applaudivano con frenesia le opere di Giuseppe Verdi, il grande romantico che consacrava il suo genio contemporaneamente all'arte musicale e alla patria.

Rimasta vacante la sede arcivescovile di Milano per la morte del cardinale GAISRUCK (novembre del 1846 - Pio IX in quello stesso mese, aveva già fatto le riforme, nominato commissioni laiche), dopo parecchi mesi, contro il desiderio di Vienna che avrebbe voluto a successore del defunto un arcivescovo tedesco, il Pontefice aveva sulla fine del luglio 1847, eletto monsignor BARTOLOMEO CARLO ROMILLI, già vescovo di Bergamo. Questa scelta rappresentava, ed era, una vittoria italiana, e i Milanesi iniziarono (ed anche questo aveva un significato politico più che religioso) a prepararsi a fare grandi feste per accogliere il nuovo arcivescovo.
(ricordiamo che nello stesso luglio, il 17, c'era stata l'arrogante invasione austriaca di Ferrara, che abbiamo letto in altre pagine).

L'ingresso avvenne il 5 settembre 1847 e la giornata si chiuse con una luminaria in piazza del Duomo. Il giorno 8 monsignor Romilli pontificò in Duomo. La sera ci furono di nuovo le luminarie e la piazza del Duomo si riempì di gente; così in piazza Fontana; davanti il palazzo arcivescovile si raccolse un'imponente folla; prima iniziarono alcuni giovani, poi tutti, e in crescendo si cominciò ad acclamare "Viva Romilli! Viva Pio IX! Viva l'Italia!". Slogan poco graditi agli stranieri "padroni" di Milano.

Mentre tutta Milano manifestava a "quel modo" i suoi sentimenti religiosi-patriottici, dietro il palazzo arcivescovile e dal vicolo Pattari dove li aveva adunati il commissario BOLZA, sbucarono numerosi drappelli di poliziotti in assetto di guerra che si gettarono ferocemente sulla folla menando colpi di sciabola a destra e a manca. Il putiferio già così era grande, ma poi l'intervento di un plotone di dragoni a cavallo lo rese drammatico; la folla alla fine fu dispersa, ma a terra rimasero cinquanta feriti e un morto.
La notte dell'8 SETTEMBRE passò calma, il mattino dopo i tumulti ricominciarono, per tutto il 9 e il 10, poi finirono, ma iniziò la polizia a fare retate e ad eseguire numerosi arresti.

L'indignazione della cittadinanza fu enorme. Il podestà conte GABRIO CASATI protestò vivacemente presso il direttore di Polizia Torresani per l'assalto feroce delle guardie e dei dragoni a gente inerme e pacifica, e ancor più vivamente protestò presso il governo vicereale, al quale scriveva che

"il pubblico non può certamente rimanere indifferente quando si vede assalito da un'orda colle sciabole sguainate e colpire altri cittadini tranquilli e pacifici".
Vienna, naturalmente, anziché al podestà prestò fede alla Polizia e inviò il suo biasimo per il comportamento del Municipio di Milano "non conforme alle direttive dell'Imperiale Governo", anzi ordinò che fossero sottoposti a speciale sorveglianza i conti GREPPI e CRINELLI, assessori, e lo stesso podestà CASATI, il quale era sospettato di mantenere pericolose relazioni con il Piemonte. Ed era vero!

Lasciamo per il momento a leccarsi le ferite Milano, e andiamo a Venezia

Qualche giorno dopo, e precisamente il 13 settembre, si riunì a Venezia il nono congresso degli scienziati italiani al quale intervennero oltre milleduecento persone, cifra enorme se pensiamo alle difficoltà delle comunicazioni di allora e alle condizioni politiche. Intervenne fra gli altri l'insigne scienziato LUCIANO BONAPARTE, principe di Canino, vestito con l'uniforme della NUOVA Guardia civica romana, creata da Pio IX, ma fu subito espulso per ordine della polizia austriaca. Indubbiamente le riforme del papa non piacevano.
Il congresso, presieduto dal conte GIOVANNELLI, si tenne nella sala del Gran Consiglio e fu inaugurato dal viceré il quale al suo ingresso fu accolto con un silenzio glaciale e piuttosto significativo. L'avvocato DANIELE MANIN, non ancora salito in fama, con i suoi argomenti di pubblica economia trovò il modo di manifestare ben altro. Fra una parola e l'altra ne fece scivolare altre che esprimevano i suoi sentimenti patriottici e le sue "speranze" (Balboniane), allarmando subito gli irascibili sorveglianti austriaci che dopo aver fatto la loro bella relazione sui fatti, la polizia mise sotto sorveglianza il MANIN.

Ma chi mutò decisamente il congresso scientifico in un'assemblea di patrioti fu CESARE CANTÙ, il quale, riferendo per incarico del precedente congresso intorno al disegno di una grande strada ferrata italiana, suscitò l'entusiasmo dell'uditorio con l'esaltare Pio IX "eroe della bontà e della riconciliazione che mostrò possibile effettuarsi il bene per le vie legali e metter la croce alla testa del progresso" con il parlare delle Alpi come la barriera creata all'Italia dalla natura, con l'esortare i Veneziani ad unire i loro interessi a quelli dei vicini fratelli e con il fare voti per la libertà e prosperità, "ormai prossime dell'Italia, divisa in tanti stati sebbene unita da una lingua".

Mentre era in corso il congresso di Venezia, giungeva nel Lombardo Veneto il Conte di FICQUELMONT, mandato dal METTERNICH con il titolo di Commissario per vegliare gli andamenti degli Italiani accanto al viceré RANIERI ritenuto troppo debole e anche poco austriaco. Il Ficquelmont cercò di ingraziarsi l'animo dei cittadini per conoscere i bisogni del regno e provvedere con qualche riforma, forse sarebbe stato anche capace, ma ormai era troppo tardi; tra l'Austria e il Lombardo-Veneto era ormai stato scavato un abisso incolmabile. Perfino le cose che una volta sarebbero state gradite erano ormai viste sempre in una prospettiva d'insidia. Il cattivarsi ora era irritante.

Il 9 dicembre del 1847, alla Congregazione Centrale Lombarda, istituita nel 1815 con facoltà di rappresentare al trono i bisogni, i desideri e le preghiere della nazione in tutti i rami della pubblica amministrazione (Congregazione sempre ignorata da Vienna), era presentata dal deputato per la provincia di Bergamo GIOVAN BATTISTA NAZARI formale istanza perché nominasse una Commissione scelta nel proprio seno e composta di tanti deputati quante erano le province lombarde affinché, prendendo in esame la presente condizione del paese analizzasse le cause del diffuso malcontento, e ne facesse argomento di un rapporto alla Congregazione Centrale per le sue ulteriori proposte.
Il NAZARI per il suo coraggio civile ebbe le lodi e l'approvazione dei Milanesi. Mentre il governatore SPAUR lo rimproverò per non essersi prima consultato con lui e minacciò di vietare la nomina della commissione, ma l'Arciduca Ranieri gli scrisse "non potersi impedire alla Congregazione Centrale di Comporre la proposta commissione; ma che semmai bisognava fare in modo che fosse formata non dai deputati di tutte le province, ma solo da alcuni conosciuti oltre che affezionati al governo austriaco. Di riferire alla Congregazione che il governo intendeva conoscere i desideri del paese per poi manifestarli all'imperatore: qualora la Congregazione persisteva, di sorvegliarla affinché non prendesse a pretesto il malcontento; e al Nazari di fargli conoscere che non aveva operato regolarmente, perché prima di muovere la proposta doveva infornarne il presidente: infine per quest'ultima ragione di mettere il Nazari segretamente sotto severa sorveglianza, affidando quest'incarico al TORRESANI".

La Congregazione Centrale accolse la proposta del Nazari e le Congregazioni provinciali, pure queste diedero il loro assenso. Fu quindi votata all'unanimità una supplica all'Imperatore in cui si chiedeva:
"l'ampliamento delle attribuzioni della Congregazione Centrale; restringimento dei poteri della Polizia; diminuzione di tasse; riforme delle leggi e delle tariffe doganali; diminuzione del prezzo del sale; modificazione della legge sul bollo; riforme del codice e della procedura penale; riforme nella pubblica istruzione; diminuzione degli otto anni di servizio militare; riforma del Monte Lombardo-Veneto; diritto ai sudditi di essere investiti di tutti gli uffici del regno e di esser chiamati pure a quelli di corte".

Quando giunse a Venezia la notizia della proposta del Nazari, il Manin la fece trascrivere e ne sparse molte copie per la città. Quindi, pur non essendo deputato presentò una petizione:

"Le congregazioni - scriveva Manin - non si sono mai fatte interpreti dei nostri bisogni e dei nostri desideri: il loro silenzio è venuto dal timore di far dispiacere al governo; ma questo timore è ingiusto e ingiurioso, perché ingiusto e ingiurioso è il supporre che il governo abbia a questo regno concesso una rappresentanza nazionale beffarda, che abbia voluto e voglia ingannare questo paese e l'Europa, facendo leggi che non vuole che si osservino, perseguitando e castigando coloro che intendono osservarle".

Concludeva proponendo, dietro l'esempio di Milano, che si eleggesse una Commissione in seno alla Congregazione Centrale, il che, dietro formale istanza del deputato GIOVAN BATTISTA MOROSINI, fu fatto.

La proposta del Nazari e la petizione del Manin, diffuse in Venezia, avevano prodotto nelle due regioni, un risveglio di sentimenti liberali, che erano stati rumorosamente manifestati il 26 dicembre 1847. Quella sera, rappresentandosi al teatro La Fenice, il Macbeth del Verdi, quando si fu al coro "La patria tradita, a sorger t' invita, - fratelli, corriamo la patria a salvar", frenetici applausi si levarono dagli spettatori, i quali, chiesto invano ai cantanti che ripetessero il coro, lo cantarono essi stessi, facendolo seguire da acclamazioni a Pio IX e all'Italia e da qualche grido di "Morte ai Tedeschi".

Quattro giorni dopo, NICCOLÒ TOMMASEO lesse, dinanzi ad un numeroso uditorio, nell'Ateneo di Venezia, un audace discorso, in cui, esaminando le condizioni presenti della letteratura italiana, parlò della libertà di stampa. Ricordò che una legge del 1815 disponeva che le opere in cui si esaminava e criticava l'amministrazione statale non dovevano senza plausibile motivo esser proibite, e poiché tale legge non era osservata propose che si chiedesse al governo di consentire di fatto agli scrittori la libertà che per diritto spettava loro. La domanda, firmata da circa cinquecento fra i più ragguardevoli cittadini, fu inviata a Vienna.

L'anno 1847 si chiudeva con l'invio di richieste, da parte dei sudditi, al governo austriaco, richieste scritte in termini deferenti ed ossequiosi, l'accoglimento totale o parziale delle quali pareva all'Arciduca RANIERI e al conte FICQUELMONT che dovesse calmare il fermento e produrre l'armonia tra governanti e governati.
Purtroppo s'illudevano. Le popolazioni del Lombardo-Veneto chiedevano, sì, riforme, ma desideravano soprattutto l'indipendenza politica e questa non poteva che essere conquistata o contesa non con la ragione, non con le dovute comprensioni, ma solo con le armi.
Il maresciallo RADETZKY, da quel consumato uomo di guerra qual era, in questo fine anno 1847, già annusava il temporale vicino e sentiva odor di polvere; infatti, chiedeva nuovi soldati a Vienna, e a Verona arrotava le armi.

Loro, gli austriaci, un esercito vero lo avevano, mentre in Italia l'esercito era fatto da tanti uomini che facevano chiacchiere nei salotti, invece di fare fatti, come sembrava ora necessario dover fare -e piuttosto in fretta- nelle caserme.

Le intenzioni erano buone, ma erano i preparativi che erano cattivi.
Tuttavia ad iniziare il fatidico 1848 non mancò una grande volontà di voler cambiare la storia di un Paese che… al tempo dei Romani si chiamava Italia.
Cambiare ad ogni costo, e con qualunque sacrificio.


Con gli uni e con gli altri ci aspetta ora l'anno 1848
Un anno che non finiva mai…a Nord come a Sud, ad Est come ad Ovest
Un '48 che nonostante tutto fu una grande epopea di coraggio.

al lungo capitolo del 1848 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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