ANNO 1848

ATTO I - LE RIVOLUZIONI - INIZIA LA SICILIA - POI IL CILENTO

PREPARAZIONE RIVOLUZIONARIA NEL MEZZOGIORNO E IN SICILIA - SCOPPIO DELLA RIVOLUZIONE SICILIANA - LE QUINDICI GLORIOSE GIORNATE DI PALERMO - INUTILI CONCESSIONI DI FERDINANDO II - I BORBONICI ABBANDONANO PALERMO - LA SICILIA, ECCETTUATA LA CITTADELLA DI MESSINA, LIBERA DAI BORBONICI - L'INSURREZIONE DEL CILENTO - AGITAZIONE A NAPOLI - FERDINANDO II CONCEDE E GIURA LA COSTITUZIONE - VANE TRATTATIVE CON LA SICILIA
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Palermo- Combattimenti dinanzi alla Cattedrale (14-25 gennaio 1848)

PROLOGO

Le tensioni dello scorso anno (le abbiamo accennate nel precedente capitolo) vanno a sconvolgere per la prima volta, e non solo in Italia, quell'ordine stabilito al Congresso di Vienna. Il sommovimento è generale in Europa, e le tensioni scoppiano prima a Parigi, poi a Berlino e infine nella stessa Vienna: rivolta che determina la caduta del principe Metternich. Ripercussioni profonde e immediate si hanno in Italia, con episodi di violenza, dimostrazioni, manifestazioni, boicottaggio delle merci, scontri quasi quotidiani. E se a Parigi la rivolta scoppiò il 22-26 febbraio, gli eventi stavano già precipitando in Sicilia e nel Regno di Napoli, fin dal 12 gennaio per ottenere la Costituzione. Mentre in Toscana per non far precipitare ancor di più gli avvenimenti, Leopoldo correrà ai ripari con alcune concessioni; Carlo Alberto a Torino "tentenna" ancora, ma poi anche lui cederà alle pressioni; mentre in Lombardia ci sono invece alcune singolari ostilità per colpire gli interessi economici austriaci; ed infine quando la rivoluzione scoppia a Vienna, anche Venezia -pur essendo isolata e a mani nude- insorge, e poche ore dopo Milano diventa un campo di battaglia per cinque giorni.

L'anno precedente, il 1847, le tensioni non erano solo nelle piazze, ma anche dentro i palazzi delle diplomazie delle cinque potenze europee; ed erano iniziate da qualche tempo. Già le rivoluzioni del 1830 ebbero l'effetto di dividere l'Europa in due opposti blocchi diplomatici e le contrapposizioni erano proseguite in crescendo negli anni successivi. Il blocco Russia, Austria e Prussia (le cosiddette potenze orientali) e l'altro Francia e Inghilterra (occidentali, ma con una Francia molto debole) si trovarono schierati contro. Palmeston già nel 1836 osservava che era "una contrapposizione non di forma, ma di sostanza, effetto non del capriccio o della volontà, ma della forza delle circostanze. I due gruppi pensano diversamente e perciò agiscono diversamente" (Palmeston a Melbourne Paper, a cura di Sanders, London 1889, pag. 339).

Ma osservando bene, i due opposti schieramenti, uno di tre e l'altro di due, non erano solidi nemmeno fra di loro (né lo saranno fino al 1870), né erano legate da un'ideologia, ma unicamente da interessi.
N'è la prova che l'Inghilterra pur cooperando con la Francia per la pace in Europa, non si fece scrupolo di concludere accordi con le potenze orientali; e la Francia cercò anch'essa di fare altrettanto a scapito dell'Inghilterra. A loro volta quelle orientali diffidavano tra di loro, come gli Austriaci che temendo la Russia, trattavano con l'Inghilterra; e altrettanto la Russia per frenare l'espansione prussiana sul Baltico in gran segreto faceva patti con gli inglesi a scapito dell'Austria e della stessa Prussia. L'ideologia era solo l'ombra degli interessi, e dove questi andavano l'altra seguiva uniformandosi a quella del nuovo alleato (L'aiuto dato ai turchi in funzione antirussia, fu in seguito il più clamoroso defilarsi dell'Austria, e con la sua sleale neutralità, la Russia la considerò una coltellata alla schiena, "l'atto più indegno fra due famiglie che si sono sempre amate e aiutate", così con le lacrime agli occhi, scrisse lo zar Nicola a Francesco Giuseppe - Poi dal salone imperiale prese il quadro del nonno dell'Imperatore austriaco e lo regalò allo stalliere. - (Lettere e memorie del Principe Alessandro Assia,- fratello della zarina, cognato dello zar).

Ad ogni problema che nasceva, gli schieramenti cambiavano. E i primi problemi furono nel 1830, quelli nati con il Belgio-Olanda. Subito dopo quelli della Polonia che però tennero impegnate le potenze orientali ad est. La Francia nell'uno e nell'altro caso, rimase quasi a guardare, e in premio dalle potenze orientali ebbe varie testimonianze di gratitudine che irritò la sua alleata Gran Bretagna. In effetti, la politica francese era ambigua. Prima neutrale, poi una volta sollecitata dagli inglesi ad intervenire in Belgio-Olanda, riportata la tranquillità fu riluttante a lasciare il paese vantando Filippo una contestata eredità; poi minacciata dagli stessi alleati inglesi, rinunciò a malincuore alle sue pretese. Una relativa tranquillità fra i due paesi ci fu fino a questo 1848. Ma anche questa pace fu ambigua, e allarmò gli austriaci, soprattutto quando la Francia in quell'atto di forza fatto in Italia nell'inviare truppe ad Ancona, aveva già destato sospetti a Metternich sulle mire espansionistiche francesi in Italia. Ma altrettanto sospettosi diventarono i rapporti austriaci con la Prussia e la Russia, per l'espansione baltica la prima e per quella nei territori turchi la seconda. A ragione, perché fra lo zar e gli inglesi i rapporti erano diventati cordiali; nel 1844 Nicola si era perfino recato personalmente a Londra volendo dissipare tutti i pregiudizi che gli inglesi avevano nei confronti della Russia. E se Nicola, ancora l'11 aprile del 1848 scriveva alla regina Vittoria che solo "l'unione stretta fra i due paesi poteva salvare il mondo", significava che i rapporti erano più che cordiali, e lo conferma Palmeston che rispose per iscritto che i "sentimenti inglesi erano gli stessi dello zar... siamo le uniche due potenze in Europa e dobbiamo aver fiducia l'una dell'altra". (The Letter of Queen Victoria 1837-1861 a cura di A Benson London 1907, vol.II, pag.196)

Tralasciamo di occuparci della questione orientale (Turchia, Egitto, Balcani ecc.) di questi anni, e veniamo subito a quella minaccia alla pace, più seria che si profilava in Italia, con tutti quegli eventi già narrati in questi ultimi anni, e che alla fine del 1847 avevano provocato un sommovimento generale, non più dei settari, ma con una novità: quella dell'appoggio della Chiesa, che poteva essere imbarazzante per gli austriaci nel combattere i liberali che ora, più che sotto la bandiera di un sovrano (questi con più o meno idee liberali o per ampliare il proprio regno) andavano a rifugiarsi sotto la croce che al posto dei fucile stava per impugnare Pio IX; già gridato, invocato, mitizzato, come "il papa liberale" e in aperto contrasto con i vecchi "amici" austriaci dopo i fatti e l'occupazione non gradita di Ferrara.

La tendenza all'unità dell'Italia, l'abbiamo vista, inizia già dal 1821.E su questa scia tracciata dai carbonari, dai repubblicani, dai liberali più accesi, fanno crescere nel corso dei ventisette anni il desiderio (anche ai moderati, e dopo Ferrara perfino al Papa) di cacciare gli austriaci direttamente o indirettamente presenti in quasi tutti gli stati Italiani o con una forte influenza tutta asburgica, oltre che la costante presenza di un forte esercito, che non era più un'influenza, ma era una stabile intimidazione ad ogni velleità autonomista.

Il ruolo dell'Inghilterra all'inizio fu quello di (interessato) paciere e di convincere gli austriaci a rinunciare alla dominazione delle province italiane. Non perché era favorevole all'unità italiana, e nemmeno perché voleva indebolire l'impero austriaco, che Palmeston riteneva indispensabile all'equilibrio di potere e all'indipendenza politica, ma solo perché era convinta l'Inghilterra che l'Austria non sarebbe riuscita a reprimere una rivolta che in Italia stava sempre di più diventando generale. E c'era il pericolo che gli italiani, non ancora maturi, con i loro stati così frammentati, con i "re tentenni", senza un vero esercito professionista unitario oltre che la mancanza di buoni generali, prima o poi, avrebbero chiesto aiuto alla Francia. E i francesi (come più tardi faranno) con una politica oscillante da una parte e dall'altra, non vedevano l'ora di intervenire per nuovamente tornare ad essere l'ago della bilancia degli equilibri europei (ambizione che poi riuscì fino al 1870, proprio grazie agli italiani e al declino della fortuna politica inglese di Palmeston, che si trovò contro il proprio sovrano e il suo stesso partito; e grazie a una Russia tradita dall'Austria e con un rancore che non sarà neppure assente nel 1914).

Forse per gli inglesi, in questo 1848, tutto sarebbe stato più semplice, se la soluzione del problema fosse stata unicamente quella italiana. Ma nessuno poteva immaginare che quasi contemporaneamente (nell'arco di tre mesi) la rivoluzione sarebbe scoppiata, prima di tutto nella stessa Francia, poi a Berlino e infine a Vienna con la liquidazione del maggior rappresentante del conservatorismo, che dal 1813 dettava e poi dominava la politica europea tenendo sempre in bilico le altre quattro potenze con il suo potente esercito. (oltre ai matrimoni, combinati e ostacolati dal Metternich; e fu proprio quello di Olga, figlia dello zar (la più bella ma ripudiata a destra e a manca, e perfino dalla Chiesa) a far nascere tanto rancore, da compromettere fin dal 1840 le relazioni Russia-Austria, mai più sanate, fino alla totale distruzione dell'impero degli Asburgo. Illuminante la documentazione del principe Alessandro Assia, e l'epistolario conservato al castello di Walchen. In parte riportato in "La tragedia di tre imperi" di Corte Conti, 1951, ed. Mondatori). L'Assia era austro-tedesco, sua sorella Maria andò in sposa allo zar. Lui prima cacciato in malo modo dall'esercito austriaco, poi anche da quello del cognato perché aveva messo gli occhi su Olga (con il padre con altre ambizioni) poi per dispetto ritornato a guidare l'esercito Austriaco, compresa la tre campagne italiana, ma sempre con la sfera affettiva filo-russa e in parte anche inglese (matrimoni dei figli della regina Vittoria, con gli Assia (capostipite dell'attuale Filippo d'Edimburgo) e con i Russi).

Se la politica pacifista (molto interessata) di Palmeston avrebbe (forse) potuto avere fortuna con la sola questione italo-austriaca, dopo, non fu più possibile, quando le stesse potenze -che dovevano garantire la pace internazionale- dal 1848, non riuscirono nemmeno a difendere il proprio ordine-sistema politico e sociale interno, né a stringere con onestà con i "vecchi amici" quella che era sta chiamata "Santa alleanza".
Tuttavia Palmeston ebbe una parte rilevante. Fu l'uomo che dominò la politica estera britannica (e, in un certo senso europea) fino all'anno 1865; oltre che essere il grande finanziatore dell'impresa garibaldina, per preparare il terreno della caduta di Roma, e contribuire alla nascita di una nazione che potesse fare da contrappeso alla potenza francese e austriaca in quell'ambita fascia meridionale del continente. E ci basta questa confessione fatta da Bixio in pubblico alla Camera di Torino, nella tornata 9 DICEMBRE  1863, ripetuta poi nella dichiarazione solenne di un protagonista nel pomposo ricevimento fattogli in Inghilterra nell’aprile del 1864, dove, innanzi a 30.000 spettatori, Ministri, membri del Parlamento e Lord, ebbe a dire: "Napoli sarebbe ancora dei Borboni senza l’aiuto di PALMERSTON; senza la flotta inglese io non avrei potuto passare giammai lo stretto di Messina". E quel protagonista era Giuseppe Garibaldi.
Ecco perchè qualcuno oggi può anche affermare che il cosiddetto Risorgimento "è stato solo un capitolo della storia dell'imperialismo britannico". (Massimo de Leonardis, XXI Convegno Naz. Civitella del Tronto 1991)

Lasciamo l'Europa, e ritorniamo in Italia all'inizio di questo 1848, dove i comitati rivoluzionari stanno lavorando per la preparazione della rivoluzione, che ormai è nell'aria. A Verona, il maresciallo RADETZKY, già annusava il temporale vicino, sentiva odor di polvere e lui arrotava le armi (spesso non seguendo la politica di Vienna, dove molti volevano comandare, senza avere una precisa visione della situazione politica e militare in Italia.

PREPARAZIONE RIVOLUZIONARIA
SCOPPIO DELLA RIVOLUZIONE SICILIANA
LE QUINDICI GIORNATE DI PALERMO
LA SICILIA, ECCETTO MESSINA, LIBERA DAI BORBONICI
L' INSURREZIONE DEL CILENTO
FERDINANDO II CONCEDE E GIURA LA COSTITUZIONE
VARIE TRATTATIVE CON LA SICILIA

Abbiamo nelle pagine precedenti, già anticipato che il 1848 fu un anno "lungo" e pieno d'eventi. Il primo avvenne proprio il 1° gennaio, a Milano. Non potendo fare altro, con la stretta vigilanza che c'era, le ostilità dei milanesi contro il governo austriaco iniziarono con una singolare manifestazione. Per diminuire le entrate fiscali austriache provenienti dalla vendita del tabacco, i milanesi proclamarono lo "sciopero del fumo".

L'estremizzazione del gesto portato fino allo scontro fisico su chi provocatoriamente ostentava sigari, causarono incidenti, interventi polizieschi, saccheggi, morti e feriti. Conseguenza: rigoroso divieto di portare coccarde tricolori, di manifestare a favore di Pio IX, e continui proclami, prima di avvertimento poi sempre più minacciosi del vicerè RANIERI.

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Pochi giorni dopo, il 6 gennaio c'è un tentativo rivoluzionario e compaiono audaci manifestini a Livorno (che leggeremo più avanti); il 9 gennaio scontri fra studenti e agenti a Pavia con morti e feriti; e nello stesso giorno all'altro capo della penisola, a Palermo, una manifestazione pacifica in città; dove anche qui contemporaneamente comparvero manifesti e manifestini che annunciavano chiaro e tondo, la rivoluzione per il giorno 12 gennaio. E il 12 puntualmente, scoppiò la rivoluzione, con barricate, attacchi armati contro le truppe regie che furono costrette a rifugiarsi nelle fortezze e nelle caserme.

Palermo- Combattimenti dinanzi alla Cattedrale

Torniamo indietro di qualche giorno (al 31 dicembre del morente 1847) quando i trentadue liberali piemontesi e trentaquattro romani (fra cui Balbo, D'Azeglio, Cavour, Santarosa, Pellico, Brofferio ecc.) con il loro "Appello", tentavano con le parole d'intenerire il cuore di FERDINANDO II (documento che abbiamo riportato nel precedente riassunto). Ma i liberali del regno delle Due Sicilie, certi che con gli appelli e le suppliche non avrebbe ottenuto nulla, preparavano la Rivolta. Comitati rivoluzionari lavoravano in tutte le città della Sicilia, ma più attivi ed autorevoli di tutti erano quattro gruppi di Palermo, che comprendevano liberali di tutte le tendenze, fra i quali menzioniamo il Principe di SANT'ELIA, il Duca della VERDURA, il Principe PANDOLFINA, RUGGERO SETTIMO, FERRARA, DONDES-REGGIO, VINCENZO ERRANTE, MARIANO STABILE, ROSOLINO PILO, GIACINTO CARINI, SALVATORE CASTIGLIA, GIUSEPPE LA MASA e FRANCESCO CRISPI.
II comitato rivoluzionario di Napoli era capitanato da FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, che aveva al suo fianco il BELLELLI, il DEL RE, il NISCO, ma era guidato da CARLO POERIO, il quale dalla prigione di Santa Maria Apparente, corrompendo i carcerieri, era riuscito a mettersi in assidua comunicazione con i liberali della capitale e, per mezzo di loro, con quelli delle Calabria.
Un altro comitato rivoluzionario antiborbonico, composto d'esuli siciliani, si era costituito a Firenze, in cui primeggiavano LA FARINA, MERELLO, LA CECILIA e PAOLO EMILIANI-GIUDICI illustre storico e letterato; i quali non solo si tenevano in continua corrispondenza per mezzo del CRISPI e del LA MASA con i cospiratori di Palermo e di Napoli, ma stavano in relazione con il conte RICCIARDI, residente a Marsiglia, con NICOLA FABRIZI a Malta e con i più ferventi toscani, specie con il GUERRAZZI, con il MONTANELLI e con il MORDINI.

Non fu facile metter d'accordo i liberali napoletani con quelli siciliani. L'indipendenza dell'isola (e lo abbiamo visto più di una volta) era - scrive il LEMMI - l'ideale supremo di questi ultimi, "né per questo deve dirsi che l'isola si sentisse meno italiana delle altre regioni della penisola e che questa avversasse l'unificazione o la federazione politica, giacché anzi l'idea unitaria doveva trovare e trovò a suo tempo i suoi più ardenti seguaci proprio là dove, più forte essendo la coscienza regionale, era maggiore la ripugnanza contro l'egemonia piemontese. Nel 1848 non era il caso di parlar d'unità e, quanto alla federazione, bisognava incominciare con il mettersi prima in stato d'uguaglianza con Napoli, sciogliere cioè il regno delle Due Sicilie e far dell'isola un corpo indipendente, padrone assoluto dei suoi destini all'interno e all'esterno".

Tuttavia, finalmente l'accordo fu raggiunto: il 12 gennaio Palermo, seguita da tutta la Sicilia, sarebbe insorta ed avrebbe proclamato la costituzione del 1812; i Napoletani avrebbero chiesto al re la costituzione del 1820 e, se lui non l'avesse concessa, sarebbero insorti insieme con i Calabresi. - I liberali romani, che avevano formato un comitato d'azione, di cui fra gli altri, facevano parte i dottori PIETRO STERBINI e LUIGI MASI, gli avvocati GIUSEPPE GALLETTI e MATTIA MONTECCHI e il principe di Canino CARLO LUCIANO BONAPARTE, s'impegnarono di aiutare l'insurrezione del Mezzogiorno e d'impedire un eventuale passaggio delle truppe austriache attraverso lo Stato Pontificio. Il 9 di gennaio del 1848 (come già detto sopra) il seguente manifesto, di cui più tardi si seppe che erano stati autori i fratelli ROSANO e FRANCESCO BAGNASCO, comparve affisso sui muri a Palermo:
(lo riportiamo fedelmente)

"Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando II tutto ha disprezzato; e noi, popolo libero, ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i nostri legittimi diritti? All'armi, figli di Sicilia, allarmi ! La forza di tutti è onnipossente: l'unione dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio, all'alba, comincerà l'epoca gloriosa dell'universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni analoghe al progresso del secolo, volute dall'Europa, dall'Italia e da Pio IX. Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le proprietà; il furto sia dichiarato tradimento della Patria e, come tale, punito. Chi mancherà di mezzi ne sarà provveduto. Con questi principi il Cielo asseconderà la giustissima impresa. Siciliani, allarmi !".

Il giorno dopo, il 10 gennaio un secondo proclama riconfermava che la rivoluzione sarebbe scoppiata il giorno 12 e avvertiva che qualunque data diversa fissata da altri doveva esser considerata come una manovra della polizia.
Era luogotenente dell'isola il generale DI MAJO; comandava la guarnigione di Palermo, che ascendeva a cinquemila soldati, il generale VIAL. I due generali stentavano a prender sul serio cospiratori così strani come quelli di Palermo, i quali osavano metter sull'avviso il governo addirittura rivelando il giorno dell'azione, tuttavia ordinarono alla polizia di indagare, e questa, dai suoi sbirri, fece arrestare di notte i liberali più influenti, quali EMERICO e MICHELE AMARI, EMANUELE e GIULIO CESARE PATERNÒ di Sessa, FRANCESCO PAOLO PEREZ, FRANCESCO FERRARA, GIOACCHINO D'ONDES-REGGIO, LEOPOLDO PIZZUTO, il canonico GIUSEPPE FIORENZA, il Duca di VILLAROSA, FRANCESCO NOTABARTOLO, FRANCESCO PATERNITI ed altri. Inoltre il luogotenente chiese al re l'invio di navi e di rinforzi di truppe.
Ma il 12 gennaio giorno della rivoluzione non era stato scelto caso, ma era il genetliaco di FERDINANDO II. Gli si voleva insomma rovinare la festa. Il generale Di Majo aveva disposto per quel giorno che il grosso delle truppe del presidio rimanesse pronto nei forti, nelle caserme e nelle adiacenze del Palazzo Reale, reparti fossero distaccati nelle piazze principali, e che varie pattuglie percorressero le vie della città.
All'alba del 12, com'era in uso, il cannone del forte di Castellammare sparò alcuni colpi in segno di festa e le vie si riempirono di gente, disarmata, curiosa, aspettante e ansiosa; ma cosa aspettava la festa o la rivoluzione?

Ma nessuno si muoveva. Ad un tratto un giovane, PIETRO AMODEO, fu visto comparire in uno dei luoghi più frequentati, detto Madonna del Cassero, e sparare in aria un fucile. Era il segnale della sommossa.
Qui sfatiamo che la rivolta era fatta da popolani, da contadini e da plebei; questi furono soltanto strumentalizzati, come in tutte le rivoluzioni, e spesso come in quella francese, con la plebe che prima è in una barricata, poche ore dopo è nell'altra (quella che poi prese a cannonate l'ancora quasi sconosciuto Napoleone, che solo dodici ore prima, pure lui, destituito, confinato e umiliato in una stanzetta, avrebbe invece preso a cannonate quelli della Convenzione).

Scesero nelle vie a guidare la rivoluzione i primi cospiratori armati; il barone di Bivona PASQUALE MILORO, il principe di Grammonte, DAMIANO LO CASCIO, due preti, VENUTO e BAGARA, imbracciando e innalzando due Crocifissi, l'avvocato JACONA, GIUSEPPE ODDO, ENRICO FARDELLA, PASQUALE BRUNO, FRANCESCO CIACCIO, GIACINTO CARINI, ROSOLINO PILO, SALVATORE CASTIGLIA, un AMODEI e molti altri ancora; poi comparve GIUSEPPE LA MASA, sventolando in cima ad un bastone due fazzoletti, uno bianco e uno rosso, legati da un nastro verde; cominciarono ad incitare il popolo esitante alla rivolta; in piazza della Fieravecchia PAOLO PATERNOSTRO si mise ad arringare con parole vibranti la folla; una zelante guantaia, SANTA ASTORINA, si diede a distribuir nastri tricolori.
Ma la popolazione esitava. Ad un tratto ecco un martellar di campane, quelle di Sant'Orsola e quelle del monastero della Gancia, che suonano a stormo; e a quel suono ideale per eccitar la folla, la sommossa iniziò a guadagnare proseliti. Le botteghe si chiusero in fretta, la gente correva ad armarsi con qualsiasi cosa che trovava, ed iniziarono i primi scontri con le pattuglie borboniche subito sguinzagliate. Le rivoluzioni iniziano tutti così; se poi ci sono fra gli esitanti qualche provocatore, gli animi tiepidi si accendono e provocano l'incendio che la regia vuole.

Il primo a cadere fu quel PIETRO AMODEO che aveva dato il segnale della rivolta. Si combatteva in tutte le vie della città fra gruppi di ribelli e grosse pattuglie di soldati. E intanto da Monreale, da Villabate, da Termini e da Misilmeri accorrevano a Palermo squadre d'insorti. Verso il tramonto, uscita dalle caserme la cavalleria, i rivoltosi, ancora scarsi di numero, che non erano riusciti a costruire alcuna barricata, furono dispersi. Ma durante la notte però gl'insorti si ammassarono nella piazza della Fieravecchia, furono continuamente ingrossati dall'arrivo d'altre squadre dei paesi vicini e la mattina del giorno dopo in numero di oltre seicento, armati di fucili, di pistole, di spade, di forche, di bastoni e di coltelli, erano di nuovo pronti al combattimento contro le milizie borboniche, le quali, per non inasprire ancora di più gli animi ebbero l'ordine di ritirarsi al Palazzo Reale, al forte di Castellammare e nelle due grandi caserme del Noviziato e di San Giacomo. Gli, insorti, padroni delle principali vie, ad altri segnali dei capi dei rivoltosi, cominciarono a costruire barricate, mentre le due grandi arterie di Toledo e Maqueda cominciavano a venire spazzate dalla mitraglia delle milizie o tuonava l'artiglieria dal forte di Castellammare.
La rivolta intanto si estendeva e diventava più numerosa, forte e più minacciosa: al suono delle campane a stormo delle chiese altri cittadini armati uscivano nelle vie a combattere ed altre squadre giungevano di fuori.
Quello stesso giorno 13, i rivoltosi, superato il migliaio, s'impadronirono dei Commissariati di polizia, dell'Ospedale di S. Francesco da Paola,.....

ci fu l'assalto al Palazzo di Giustizia...

...ed infine occuparono alcune caserme, in cui furono trovate armi e munizioni, che diedero forza alla rivolta, la quale oramai si sosteneva con altri afflussi e si concentrava costringendo le truppe ad una rigorosa difensiva. Il giorno 14, mentre il combattimento continuava nelle vie, nella casa del cavalier VIGO, in piazza della Fieravecchia, era costituito, sotto la presidenza del principe di GRAMMONTE, un comitato provvisorio insurrezionale composto di ventisei membri:
i tre fratelli CIANCIOLO, i due CARINI, i due D'ONDES, l'AMODEO, il BAGNASCO, il BIVONA, il BRUNO, il CAPECE, il CORTEGGIANI, il DE CARLO, l' ENEA, il FOJA, il LA MASA, il JACONA, il LO CASCIO, il MILORO, l' ODDO, MARIO PALIZZOLO, il PORCELLI, il SANTORO e il VILLAFIORITA.
Alla sera dei 14, il magistrato municipale, vale a dire anche il pretore borbonico MARCHESE SPEDALOTTO e il corpo decurionale aderivano all'insurrezione. Allora si costituì un comitato direttivo di quarantadue cittadini, VENTIDUE dei quali (da notare) appartenevano all'aristocrazia. Esso fu suddiviso in quattro sottocomitati: uno per l'annona, presieduto dal pretore, uno per gli affari militari e la pubblica sicurezza, presieduto da EMANUELE REQUESENS principe dì Pantelleria, un terzo per le Finanze, con a capo il marchese DI RUDINI, e un quarto, per le comunicazioni, presieduto da RUGGERO SETTIMO.
Molto attiva fu l'operosità del Comitato nel vegliare alla sicurezza interna, nell'animare plebe e cittadini, nel provvedere alla città e ai combattenti di quanto occorreva. Il pubblico denaro non si toccò, ma le famiglie più facoltose, le case religiose e perfino i Gesuiti diedero cospicue somme per la "nuova causa". Il pretore fissò il prezzo del grano e diede l'esempio ai possidenti, che subito lo imitarono, aprendo i propri magazzini al pubblico.

Nella giornata del 14 il bombardamento della città fu violento ed aveva arrecato danni gravi. Una bomba caduta sull'edificio del Monte di Pietà, lo aveva fatto mandato in fiamme, causando le perdita di molti oggetti di valore pari a trecentomila once d'oro. Perciò, il 15, i consoli delle potenze estere, vedendo che il tiro del forte continuava, fecero passi presso il luogotenente, dichiarando che "per far cessare e prevenire altri grandissimi disastri, per impedire una di quelle grandi catastrofi che fanno macchia ed epoca nella storia di un popolo; bisognava che gli orrori di un bombardamento fossero risparmiati in tutti i casi ad una popolazione di duecentomila anime. Non volesse Iddio, che il comandante in capo delle regie milizie dovesse essere la causa di questa selvaggia conclusione; che loro avrebbero protestavano anticipatamente e con tutte le forze e in nome dei loro governi, contro un atto che poteva eccitare le folle e quindi l' esecrazione del mondo incivilito".

Il bombardamento fu allora sospeso; continuarono però i combattimenti, con la peggio per i borbonici che perdevano sempre di più terreno. Il 16 mattina giunse nelle acque di Palermo una squadra napoletana di nove vascelli, comandata dal Conte d'Aquila, che sbarcò cinquemila uomini agli ordini del generale DE SAUGET, e si accamparono ai Quattro Venti.
L'arrivo dei rinforzi fece sì che i Borboni passassero all'offensiva. Al forte di Castellammare ricominciò a far tuonare i cannoni sulla città e a questi si unirono dal mare le artiglierie delle nove navi. Molti cittadini a quel punto, e insieme a loro alcuni del comitato direttivo furono colti dal panico; la maggior parte si rifugiò nelle case e ville vicine, e rimasero sul loro posto soltanto coraggiosi e coloro che guidavano la rivolta, RUGGERO SETTIMO, PRINCIPE DI PANTELLERIA, MARCHESE PILO SCALETTA, CASIMIRO PISANI, FRANCESCO CRISPI, VINCENZO ERRANTE, MARIANO STABILE, IGNAZIO CALONA, PASQUALE CALVI.

Poi anche i coraggiosi combattenti dopo gli assalti delle truppe borboniche e al fuoco rombante dei cannoni, si erano scoraggiati, ma confortati ed eccitati dai più impavidi, specie da ROSOLINO PILO, GIACINTO CARINI, GIUSEPPE LA MASA, GIAMBATTISTA E FILOMENO CIANCIOLO, PASQUALE BRUNO, CAMILLO CALONA, PASQUALE MILORO, GIUSEPPE ODDO, DAMIANO LO CASCIO, GIULIO ENEA, GIACOMO LONGO, VINCENZO GIORDANO ORSINI, ripresero animo, resistettero sulle loro posizioni e causarono anche gravi perdite nelle file nemiche.
I giorni 17 e 18 la lotta infuriò in tutti i punti della città. GIACOMO LONGO, impadronitosi di due cannoni nemici, li rivolse contro i Borbonici e con tiri precisi inflisse non pochi danni. Il DE SAUGET assalì ripetutamente le porte Carini e Maqueda, ma fu sempre respinto, e andò peggio al generale DI MAJO che rimase quasi isolato nel Palazzo Reale, minacciato e stretto da ogni parte dai rivoltosi.
Il 18 gennaio, i regi vedendo che le cose andavano piuttosto male, il luogotenente scrisse al marchese di SPEDALOTTO, invitandolo a recarsi da lui per trovare il modo di porre fine al conflitto, ma il pretore rispose che vi era a Palermo un Comitato di difesa e che a questo doveva essere indirizzata ogni proposta. Il giorno stesso il Di Majo scrisse al Comitato:

"…che per terminare al più presto le ostilità era necessario che il re sapesse che cosa il popolo di Palermo desiderava; senza di che era impossibile trattare: nel frattempo i suoi uomini non avrebbero sparato neppure un colpo d'archibugio, ma i rivoltosi dovevano fare lo stesso".
La risposta del Comitato fu la seguente: "Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi e non sospenderà la guerra, se non quando la Sicilia riunita in un generale Parlamento qui a Palermo, accomoderà ai tempi quella Costituzione, che, giurata dai suoi re, riconosciuta da tutte le potenze, e che non si è mai osato apertamente togliere all'isola: senza di questo è inutile qualunque negoziato".

Intanto FERDINANDO II credeva di porre termine alla rivoluzione dell'isola con poche e tardive concessioni. Proprio il giorno stesso che il pretore si rifiutava di trattare con il generale Di Majo, il re nominava il CONTE di AQUILA, suo fratello, luogotenente generale della Sicilia, dandogli per ministro il principe di CAMPOFRANCO e per direttori dei vari dicasteri il DUCA di MONTALTO, GIUSEPPE BONGIARDINO, GIOVANNI CASSISI; richiamava in vigore la legge del 1816 con il quale si separava l'amministrazione dell'isola da quella del continente; abrogava la legge del 1837 sulla promiscuità degli impieghi, dichiarando che ai Siciliani soltanto dovevano darsi cariche ed uffici per la Sicilia e ai Napoletani uffici e cariche per il resto del regno; ampliava poi le attribuzioni della Consulta e dei consigli provinciali e concedeva amnistia a tutti coloro che entro due giorni tornavano all'obbedienza.
Il DI MAJO comunicò il decreto reale al pretore, il quale fu dal comitato incaricato di rispondere che….
"tali disposizioni non potevano riguardare un popolo che da nove giorni, fra gli orrori del bombardamento, delle mitraglie e degli incendi sosteneva gloriosamente i suoi diritti e quelle patrie istituzioni che sole potevano assicurare la durevole felicità dell'isola. Il Comitato dunque, fedele interprete del fermo proponimento del popolo, non poteva che insistere nelle idee già partecipate: che le armi non sarebbero state deposte, né le ostilità sospese se non quando la Sicilia, riunita a Palermo in generale parlamento, avesse adattato ai tempi la costituzione che da molti secoli aveva posseduto, che sotto l'influenza della Gran Bretagna era stata riformata nel 1812, e che con il decreto dell'11 dicembre 1816 era stata implicitamente confermata".

Tennero fede alla minaccia e i combattimenti ricominciarono con più furore di prima. Gli insorti, con un coraggio fuori del comune, sebbene male armati e con poche munizioni, attaccavano le posizioni nemiche con estrema violenza, le espugnavano ad una ad una, a mano a mano si armavano con le armi tolte ai Borbonici, perfezionavano di giorno in giorno la loro organizzazione, e non davano un istante di tregua alle truppe dei generali Vial e De Sauget.

Il 24 gennaio il Comitato generale assunse il carattere di governo provvisorio e nominò presidente il venerando RUGGERO SETTIMO e segretario MARIANO STABILE. Erano ancora pervenute da parte del generale Di Majo proposte di tregua; ma il Comitato le respinse e la lotta continuò senza tregua.
Il 26 le truppe del Di Maio furono messe in serie difficoltà, cacciate dalle loro posizioni, abbandonarono la città e si unirono a quelle del De Sauget; ma il giorno dopo furono assalite dagl'insorti e dopo un lungo combattimento furono cacciate anche dai trinceramenti fatti sul Molo, di Santa Lucia e dei Quattro Venti e messi in fuga.
Al 1° di febbraio, ormai accerchiate, non potendo in nessun modo fronteggiare gli assalti, le truppe risalirono sulle navi per mettersi in salvo.

In quindici giorni di combattimenti disperati, in cui i Palermitani fecero cose mirabili, i Borbonici ebbero circa cinquecento uomini fuori combattimento, trecento o poco più gli insorti. Questi, salvo alcuni episodi di brutali vendette contro gli odiati sbirri locali, mantennero un contegno civile e forse non tutti a loro erano da imputarsi gli eccessi, che in tutte le rivoluzioni non mancano mai; come non mancarono le faide dei galeotti, circa duemila che furono fatti o riuscirono a evadere dalle prigioni (che sono sempre utili anche questi alle rivoluzioni, perché appena fuori danno la caccia ai loro persecutori ed eliminano buona parte degli odiati pubblici aguzzini governativi.

Mentre ancora durava la lotta a Palermo, la rivoluzione si era propagata nelle altre città dell'isola, alla quali, il 25 gennaio, il Comitato generale aveva lanciato questo proclama:
"Palermo dal 12 gennaio ha intrapreso una rivoluzione delle più gloriose. Molte città siciliane ne hanno seguito l'esempio mandando uomini armati in soccorso e tutti giurano di morire per la causa della libertà. Le condizioni attuali d'Europa, il movimento degli altri popoli italiani, la forza e la concordia nostra presentano alla nostra patria quell'occasione da tanti anni sospirata per rivendicare i nostri diritti, per scuotere il giogo ignominioso e funesto della sofferta schiavitù. Noi siamo interamente convinti che tutte le città dell'isola seguiranno l'esempio di Palermo, la quale pur avendo più difficoltà da sormontare, è stata la prima a mostrare che la forza è nel popolo e nulla resiste all'unanime e concorde volontà delle moltitudini. I più reputati ed onesti cittadini occupino in ogni città la direzione delle cose pubbliche, provvedano alla sicurezza delle persone e della proprietà, raccomandino la moderazione dopo la vittoria e principalmente il rispetto per gli uffizi e per gli archivi pubblici, e costituendosi da per tutto in Comitati provvisori si mettano subito in corrispondenza con questo Comitato generale, anche tramite i loro delegati per imprimere al movimento siciliano la più imponente gravità".

Dopo Palermo, la prima ad insorgere fu Girgenti; seguirono poi Trapani, Catania e Caltanissetta, e dovunque si sparse sangue per la resistenza che gl'insorti trovarono nelle truppe regie. Ma la più notevole fu la sollevazione di Messina, dove, dopo gli avvenimenti del settembre, i liberali non si erano persi d'animo; il 6 gennaio (tre giorni prima dei manifesti di Palermo), un disegno rappresentante la Sicilia in atteggiamento minaccioso, fu trovato affisso in una via popolosa, e aveva provocato un'imponente dimostrazione che aveva acclamato a Pio IX, alla Sicilia e alla lega italiana.
Alla notizia dei moti di Palermo, i Messinesi non si mossero, ma il 25 gennaio, mentre il locale generale NUNZIANTE passava in rivista le truppe da lui comandate, il popolo cominciò a schernirle con urli e fischi. Due giorni dopo fu costituito un comitato insurrezionale, si diede l'assalto alle caserme, si combatté per le vie e nelle piazze, allo scoperto e dietro le barricate e in breve tempo i Borbonici, sloggiati dalle loro posizioni, si rifugiarono nella cittadella, l'unico luogo che il 3 febbraio rimaneva in mano a loro in Sicilia.
Sul continente le prime notizie dell'insurrezione palermitana suscitarono profonda commozione, ma soltanto nel Cilento, per opera di COSTABILE CARDUCCI, scoppiò una furiosa rivolta, il 17 gennaio, che rimase circoscritta in quella provincia. Tuttavia Ferdinando II ne fu immensamente preoccupato.
Da qualche tempo non viveva più tranquillo, rinnovandosi giorno per giorno nella capitale le dimostrazioni, né più tranquillo di lui viveva il famigerato del CARRETTTO, il quale molto opportunista, prevedendo il trionfo dei liberali, aveva fatto scarcerare CARLO POERIO e MARIANO DI AYALA. Il 18 gennaio, come si è detto, Ferdinando pubblicò un decreto con alcune concessioni ai sudditi; ma quelle riforme erano insufficienti e tardive e i Siciliani le rifiutarono in blocco, mentre quelli del Continente pur accettandole non si accontentarono.
Allora il re, a quanto sembra, chiese l'aiuto dell'Austria, e il principe di METTERNICH si dichiarò pronto a spedire milizie nel sud, ma il cardinale FERRETTI, segretario di Stato del Pontefice, richiesto dal conte LUDOLF, ambasciatore napoletano a Roma, di concedere alle truppe austriache il passaggio attraverso il territorio della Chiesa, si oppose recisamente e disse perfino che "se le milizie imperiali avessero tentato di passare, lui stesso sarebbe corso al confine a vietare che lo violassero".
Vedendosi privo degli aiuti austriaci, Ferdinando II tentò di calmare gli animi eccitati dei suoi sudditi allontanando coloro che erano ritenuti ed erano i maggiori strumenti del dispotismo: il suo confessore monsignor COCLE e il ministro DEL CARRETTTO. Il primo fu mandato a Malta, il secondo prese la via della Francia, dove giunse dopo aver costatalo quant'odio ispirasse alle popolazioni italiane il suo nome: infatti a Livorno alla nave che lo ospitava furono dai portuali rifiutati i rifornimenti di acqua e di carbone per le caldaie e a Genova non gli fu permesso nemmeno di sbarcare.

Il 27 gennaio a Napoli un'imponente dimostrazione fu fatta davanti la reggia, e siccome pioveva furono visti molti ombrelli tricolori. Al re intanto furono presentate tre petizioni promosse, una dal POERIO e dal D'AYALA, la seconda dal principe di TORELLA e dall'avvocato FRANCESCO PAOLO RUGGIERO, la terza da RUGGIERO BONGHI, con le quali si chiedeva la Costituzione.
Ferdinando non voleva giungere a tanto e adunò il Consiglio chiamando anche il generale FILANGERI. La prima deliberazione fu di resistere: su Castel Sant' Elmo fu inalberata la bandiera rossa e le truppe furono dislocate nei punti strategici della città. Si narra che il re chiese al generale RUBERTI, comandante di Sant' Elmo, se si poteva fare affidamento sul presidio di quel forte e che il generale rispose che, se la fortezza fosse stata assalita egli l'avrebbe difesa come deve fare un soldato d'onore, ma che si sarebbe rifiutato di sparare sul popolo e qualora questa era l'intenzione del sovrano, lui avrebbe dato le dimissioni. Gli altri generali, richiesti, se si potesse fare assegnamento sulla fedeltà delle truppe per una repressione, quasi all'unanimità risposero che non potevano contare sulla fede dei soldati e dichiararono per iscritto che, date le circostanze, giudicavano essere opportuno concedere la costituzione.
Non c'era tempo da perdere. Il ministero reazionario PIETRACATELLA rassegnò le dimissioni; il re le accettò e affidò l'incarico di comporre il nuovo ministero al duca di SERRACAPRIOLA, il quale tenne per sé la presidenza del Consiglio e la direzione degli Affari Esteri e scelse CESIDIO BONANNO per la Grazia Giustizia e Culto, per le Finanze il principe DENTICE, per l'Interno CARLO CIANCIULLI, pei Lavori Pubblici il principe di TORELLA, per l'Agricoltura e il Commercio GAETANO SCOVAZZO, tutti moderati ma tutti liberali.
Il 29 gennaio fu pubblicato il seguente decreto reale:

"Avendo inteso il voto generale dei nostri amatissimi sudditi di avere delle guarentigie e delle istituzioni conformi all'attuale incivilimento, dichiariamo essere nostra volontà di accondiscendere ai desideri manifestatici, concedendo una costituzione; e perciò abbiamo incaricato il nostro nuovo ministero di Stato di presentarci non più tardi di dieci giorni un disegno, per esser da noi approvato, su queste basi: il potere legislativo sarà esercitato da Noi e da due Camere, cioè una di Pari e l'altra di Deputati da scegliersi dagli elettori sulle basi di un censo che sarà fissato: l'unica religione dominante dello Stato sarà la Cattolica Apostolica Romana, e non vi sarà tolleranza di altri culti: la persona del Re sarà sempre sacra, inviolabile e non soggetta a responsabilità; i ministri saranno sempre responsabili di tutti gli atti del governo; le forze di terra e di mare saranno sempre dipendenti dal Re; la guardia nazionale sarà organizzata in modo uniforme in tutto il regno analogamente a quella della capitale; la stampa sarà libera e soggetta solo ad una legge repressiva per tutto ciò che può offendere la religione, la morale, l'ordine pubblico, il Re, la famiglia reale, i sovrani esteri e le loro famiglie, non che l'onore e gl'interessi dei particolari. Facciamo nota al pubblico questa nostra sovrana e libera risoluzione e confidiamo nella lealtà e rettitudine dei nostri popoli per vedere mantenuto l'ordine e il rispetto dovuto alle leggi ed alle autorità costituite ".

Indescrivibile fu la gioia del popolo che si riversò osannante davanti alla reggia; e quando il re uscì a cavallo per la passeggiata e poi la sera andò a teatro, fu festeggiato da ali di folla. Anche fuori del regno l'annuncio della costituzione napoletana produsse nei liberali grandi entusiasmi; il nome di Ferdinando II, che all'improvviso si metteva alla testa dei principi italiani riformatori, divenne popolarissimo.
Il 1° febbraio un altro decreto reale concesse piena amnistia a tutti coloro che dopo il 1830 erano stati condannati per reati politici. Intanto, FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, che per la rinunzia del CIANCIULLI era stato nominato ministro dell'Interno, lavorava attorno allo Statuto che il Re gli aveva affidato incarico di compilare, e faceva nuove nomine, fra cui degne di nota quella di CARLO POERIO, a Ministro di Polizia e di GIACOMO TOFANO a prefetto.
Entro il termine stabilito, lo Statuto, il quale non era che una copia della costituzione francese del 1830 con qualche modifica o aggiunta suggerita da quella belga, fu pronto e il 24 febbraio, nella Chiesa di S. Francesco di Paola il re e i principi giurarono solennemente osservanza alla costituzione. La formula del giuramento del re fu la seguente:
"Prometto e giuro innanzi a Dio e sopra i Santi Evangeli di professare e di far professare, difendere e conservare nel Regno delle Due Sicilie la Religione Cattolica Apostolica Romana unica Religione dello Stato. Prometto e giuro di osservare e fare osservare inviolabilmente la costituzione della monarchia, promulgata ed irrevocabilmente sanzionata da noi nel dì 10 febbraio del 1848 per il reame medesimo. Prometto e giuro di osservare e fare osservare tutte le leggi attualmente in vigore e le altre che successivamente saranno sanzionate nei termini dell'accennata costituzione del Regno. Prometto e giuro ancora di non mai fare o tentare cosa alcuna contro la costituzione e le leggi sancite, tanto per la proprietà, quanto per le persone dei nostri amatissimi sudditi".

Quando giunse notizia della costituzione napoletana, a Palermo si era già costituito un Governo provvisorio, che doveva reggere l'isola fino a che un generale parlamento non avesse adattata ai tempi la costituzione del 1812. Presidente del Governo era rimasto RUGGERO SETTIMO; a presiedere gli affari della guerra era stato chiamato il principe di Pantelleria, a capo delle Finanze era stato messo il marchese di TORREARSA, alla Giustizia, al Culto ed alla sicurezza PASQUALE CALVI, all'istruzione e al commercio il principe di SCORDIA.
Dovendosi rispondere a Napoli circa la costituzione concessa, il Comitato si riunì e all'unanimità deliberò "avere i Siciliani dichiarato di non deporre le armi e di non sospendere la guerra finché il Parlamento generale non avesse riformata la costituzione siciliana: notifichiamo soltanto esser un voto generale quello di congiungersi con i Napoletani mediante leggi approvate dal Parlamento, andando così a formare insieme come due anelli la confederazione italiana".
I siciliano insomma volevano la loro Costituzione e non quella di Napoli modificata.

Plaudì tutto il popolo a quella deliberazione tanto più che in quei giorni la rivoluzione conseguiva l'ultimo trionfo con la resa del presidio Borbonico del castello di Palermo nelle mani di Giacomo Longo; tuttavia il ministero di Napoli non disperò di giungere ad un accordo con il comitato siciliano e chiese la mediazione di lord NAPIER ambasciatore inglese presso Ferdinando II.
Il NAPIER accettò a patto che alla Sicilia si concedesse un parlamento separato. Lord MINTO che allora, per ordine del governo inglese, viaggiava in Italia allo scopo di consigliare i principi a concedere riforme; chiamato a Napoli e interpellato, fu del parere di dare alla Sicilia una costituzione separata, che avesse l'aspetto di una riforma simile a quella del 1812 e non di una costituzione nuova concessa dal re, nel qual caso non sarebbe stata accettata dai Siciliani.

Allora per mezzo del console inglese residente a Palermo, fu inviata dal Minto al comitato siciliano una copia dello Statuto con queste avvertenze:

"Un parlamento separato sarebbe stabilito in Sicilia; esservi tutte le disposizioni a consultare i desideri del paese sopra alcuni punti attenenti all'organica costituzione delle due camere; avere ricevuto ripetute assicurazioni che si sarebbe posto mente agli antichi diritti della Sicilia ed alla costituzione del 1812; il comitato generale avendo espresso il desiderio della sua mediazione, e avendo il re dal canto suo manifestato il medesimo desiderio, esser pronto ad assumere questo ufficio quando il comitato fosse d'accordo che su quelle basi potesse effettuarsi l'accomodamento".

La risposta di Palermo fu:
"Il voto generale di tutta l'isola è che il generale parlamento adunato in Palermo accomodi ai tempi la costituzione, che, riformata sotto l'influenza della Gran Bretagna nel 1812, i Siciliani non avevano mai cessato di possedere in diritto; le assicurazioni di lord Minto certificano che il re è pronto a riconoscere gli antichi diritti della Sicilia e la sua costituzione del 1812; è idea manifestata dall'universale che a questa costituzione si facciano riforme per adattarla ai tempi; e se le riforme alle quali accenna il rappresentante del governo inglese conducono a tale scopo, certamente la mediazione di lord Minto è accolta da tutti con il massimo piacere".

Le istruzioni date a lord Minto dai ministri di Napoli
per trattare con i Siciliani furono le seguenti:

"Che …Annunciasse pure che il re acconsentiva a concedere per i suoi domini al di là del faro un separato parlamento, composto di due camere, una di deputati, l'altra di pari a vita, con i medesimi e identici poteri che si trovano attribuiti nella costituzione al Parlamento dei suoi domini al di qua del Faro. Nella composizione della camera dei pari si avrebbe riguardo ai desideri e alle tradizioni dei Siciliani, per cui il sovrano non dissentiva di nominare pari a vita quelli che si trovassero già pari destinati negli antichi parlamenti, e seguendo per gli altri le norme stabilite nella costituzione.
Oltre al separato parlamento vi sarebbe nei domini al di là del Faro un ministero ed un Consiglio di Stato, composto tutto di cittadini siciliani; ai soli cittadini siciliani sarebbero ivi del pari conferiti gli impieghi civili, i benefici ecclesiastici ed i gradi della Guardia Nazionale; in quei rami di pubblico servizio che erano comuni ad entrambe le parti dei reali domini, un dovuto numero di cittadini siciliani sarebbe impiegato in proporzione della popolazione di Sicilia comparata a quella di Napoli, dovendo sempre la Sicilia fornire il suo contingente per le forze di terra e di mare con le medesime proporzioni; nei domini al di là del Faro fosse tra le prerogative della Corona il destinare un luogotenente di libera scelta del re, in persona di un principe di sangue o di altro illustre e benemerito personaggio del reame; come il disporre della forza pubblica nel modo che stimerà più confacente a sostenere l'indipendenza e l'integrità del territorio; infine, per gl'interessi comuni saranno tratte dai due parlamenti commissioni speciali, composte di due terzi di Napoletani e di un terzo di Siciliani".

L'accordo con i Siciliani non fu possibile perché questi non solo insistevano nel volere la costituzione del 1812, ma pretendevano che nell'isola vi fossero soltanto truppe composte di Siciliani. Allora il ministro dì Napoli rassegnò le dimissioni. Il re lasciò alcuni dei vecchi ministri, fra cui il BOZZELLI e il duca di SERRACAPRIOLA, che rimase alla presidenza; agli Esteri mise il principe di CARIATI, alla Guerra e Marina il colonnello VINCENZO degli UBERTI, ai Lavori Pubblici GIACOMO SAVARESE, all'Istruzione CARLO POERIO; il ministero di Grazia e Giustizia e degli Affari ecclesiastici lo divise in due, lasciando al primo il BONANNI e affidando il secondo ad AURELIO SALICETI che però lo tenne pochi giorni.
FERDINANDO II, per consiglio di lord MINTO, con vari decreti stabilì che in Sicilia vi fosse un luogotenente nominato fra i principi della famiglia reale o fra i più autorevoli cittadini dell'isola, assistito da un consiglio di tre ministri per il Culto, Grazia e Giustizia, per l'Interno e per le Finanze, e da un segretario, e affidò la luogotenenza a RUGGERO SETTIMO, affidando i ministeri a quelle stesse persone che presiedevano i consigli del Comitato generale. Quindi nominò ministro in Napoli per gli affari di Sicilia GAETANO SCOVAGLIO e convocò per il 25 marzo il parlamento per le opportune riforme da fare alla costituzione del 1812.

Sperava il MINTO che i Siciliani avrebbero accettato queste condizioni ed egli stesso le portò a Palermo; ma la plebe lo accolse ostilmente e il Comitato, esaminati i decreti reali, dichiarò che non erano accettabili, e propose invece le condizioni seguenti:
"Che ….Il re avesse il titolo di re delle Due Sicilie; il suo rappresentante in Sicilia chiamato viceré fosse un membro della famiglia reale o un siciliano; l'ufficio di viceré fosse investito irrevocabilmente di un perfetto alter ego con tutte le facoltà e tutti i vincoli che la costituzione del 1812 dà al Potere Esecutivo; si rispettassero gli atti e gli impieghi fatti o dati dal Comitato generale e dagli altri Comitati dell'isola finché durerebbe la loro autorità; entro due giorni le milizie regie sgombrassero le due fortezze che occupavano a Messina e a Siracusa e fossero demolite quelle parti delle stesse fortezze che potrebbero nuocere alla città a giudizio dei Comitati o, in mancanza, dei magistrati municipali; i ministri di guerra e marina, degli affari esteri e gli altri per affari di Sicilia risiedessero presso il viceré e fossero responsabili ai termini della Costituzione; la Sicilia non dovesse riconoscere alcun ministro degli affari siciliani a Napoli; infine, formandosi una lega commerciale e politica con altri Stati Italiani, che era il desiderio di ogni Siciliano, la Sicilia vi fosse rappresentata distintamente, al pari d'ogni altro Stato, da persone nominate dal potere esecutivo con residenza in Sicilia".

FERDINANDO II, il 22 marzo, fece sapere al MINTO che non poteva accettare le proposte dei Siciliani e pubblicò questa dichiarazione:

"Visti i reali decreti relativi alla Sicilia del giorno 6 del corrente mese; considerando che qualsiasi modificazione alle concessioni contenute in quei decreti per assicurare la durevole felicità dei nostri amatissimi sudditi al di là del Faro, eccederebbe i nostri poteri e violerebbe l'unità ed integrità della monarchia e la costituzione da noi giurata, dichiariamo di protestare, e con il presente solennemente protestiamo, contro qualunque atto che potesse aver luogo nell'isola di Sicilia che non fosse pienamente in conformità ed esecuzione degli accennati decreti, agli Statuti fondamentali ed alla costituzione della monarchia, dichiarando da ora per sempre illegale e nullo qualunque atto in contrario".

Così la decisione della controversia era affidata alla sorte delle armi, che dovevano essere impugnate da Italiani contro Italiani, e proprio quando tutte le forze avrebbero dovuto adoperarsi contro lo straniero nella guerra nazionale.


Ed infatti, in fermento c'erano ormai tutti gli Stati Italiani
Dobbiamo ora risalire la penisola e portarci prima di tutto a Torino, in Piemonte
poi in Toscana, e in una successiva puntata
in Lombardia e nel Veneto
Anno 1848 - Atto Secondo

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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