ANNO 1848

SUL MINCIO - PESCHIERA - MANTOVA - PASTRENGO - VICENZA
Atto Sesto

L'ESERCITO SARDO SUL MINCIO - CARLO ALBERTO OCCUPA GOITO, MONZAMBANO, VALEGGIO, BORGHETTO E VOLTA - TENTATIVI CONTRO PESCHIERA E MANTOVA - PRIMA FAZIONE DI GOVERNOLO - BATTAGLIA DI PASTRENGO - BATTAGLIA DI SANTA LUCIA - I VOLONTARI SULLE ALPI - LA GUERRA, NEL VENETO - IL GENERALE NUGENT IN ITALIA - IL GENERALE DURANDO SULLA LINEA DEL PIAVE - COMBATTIMENTO DI CORNUDA - GLI AUSTRIACI PASSANO IL BRENTA - L'EROICA DIFESA DI VICENZA


L'entrata a Goito del duca di Savoia, Vittorio Emanuele


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L' ESERCITO SARDO SUL MINCIO - PRIME OPERAZIONI GUERRESCHE
TENTATIVI CONTRO PESCHIERA E MANTOVA
BATTAGLIA DI PASTRENGO - BATTAGLIA DI SANTA LUCIA

Carlo Alberto levato il campo da Lodi, si portò a Cremona, dove il 4 aprile il consiglio di guerra decise di fare una ricognizione su Mantova, dove il 31 marzo il RADETZKY l'aveva rinforzata inviandoci novemila uomini al comando del generale WALMODEN. Il giorno 5 il re giunse a Bozzolo e il generale BAVA si fortificò sulla riva dell'Oglio. Durante la notte, sulla destra del fiume un posto avanzato sardo fu sorpreso da una colonna di Ulani e Tirolesi comandati dal colonnello BENEDEEK, che fece prigionieri nove dragoni del reggimento Regina ma poi dai Sardi fu ricacciato a Mantova.

Fallita la speranza di un colpo di mano su questa città, fu deciso di operare sul Mincio, passando a viva forza il fiume a Goito, piccola territorio presidiato dalla brigata WOHLGEMUHT del corpo d'Armata del maresciallo WRATISLAW. In quest'azione fu impiegata la 1a Divisione del I Corpo d'Armata, comandata dal tenente generale marchese FEDERICO D'ARVILLARS.
L'8 aprile, la Divisione mosse su Goito in pieno giorno.
"La seconda compagnia dei bersaglieri - scrive il Vecchi - si lanciò arditamente innanzi con pochi cavalieri di Aosta, comandati dal tenente FRANCHELLI. Questi ripulirono le alture occupate dai tirolesi, e i primi corpi avanzando riuscirono a scorgere la doppia ripa del Mincio assiepata di austriaci; dei quali molti difendevano la città dalla vecchia muraglia che la circonda, dalla caserma dei gendarmi e dalla villa Somenzari che efficacemente la domina. L'artiglieria nemica della sponda sinistra del fiume martellava gli italiani per impedire che avanzassero.
La vera prima battaglia della 1° Guerra d'indipendenza incominciava!

I bersaglieri si proiettarono in avanti, parte verso la porta sotto gli ordini del tenente LIONS; parte a destra, difilati al ponte. Alla loro testa era il colonnello ALESSANDRO FERRERO LA MARMORA, cavaliere di Malta, (un ex paggio-cadetto di Napoleone nella sua prima gioventù).
Il LIONS con pochi suoi uomini, superate le barriere, assaliva Goito; lo seguiva con il suo battaglione Real-Navi e con lui in testa il marchese MACCARANI, ma una palla di cannone cogliendolo nel petto, lo eliminò dal comando e anche dall'esempio, subito imitato, perché i suoi uomini lo vendicarono subito, entrando nella città come una furia, abbattendo, distruggendo ogni ostacolo, e mettendo in fuga il nemico; il quale, sgominato da tanto ardire, corse a rompicollo al ponte per difendersi sull'altra linea del fiume.
Il colonnello LA MARMORA, a cavallo e con la spada in alto gridava ai bersaglieri, di inseguire i fuggiaschi; ma anche per lui una palla di moschetto, gli penetrò a sinistra nel mento e gli uscì fuori sotto l'orecchio destro. Dalla ferita il sangue usciva a getti, immaginando che si era rotta l'arteria e convinto di essere allo stremo della sua vita, volle vender cara la pelle, con la spada in mano, scagliandosi come una furia con il cavallo su un gruppo di nemici, ferì o uccise tutti quelli che incontrava; finché, stanco e trafelato, raggiunto poi dai suoi uomini, fu tratto da quella bolgia e ricoverato su un'ambulanza.
In quell'istante una mina faceva saltare in aria un arco del ponte, ma lasciando indenne il parapetto. Gl'imperiali divisi in due corpi; uno sgombrava il paese, ritirandosi sulla riva destra a Borghetto e l'altro occupava le case del borgo sulla sponda sinistra aprendo il fuoco con i moschetti e i cannoni sulla città; dove il generale TROTTI aveva appostato anche lui una sezione di artiglieria e li colpiva di fianco; e sul ponte, il generale D'ARVILLARS con un battaglione della brigata Regina e con una sezione di artiglieria li colpiva di fronte.
La resistenza fu lunga e ostinata. Combattevano mille e duecento fanti tirolesi - i migliori soldati dell'Austria - che si difendevano con accanimento grande, forse degno di una causa migliore .... Nonostante il tempestar delle palle, gli zappatori del genio, riparavano il ponte, ma i nostri, impazienti, saltavano sul piccolo parapetto rimasto indenne e si buttavano a baionetta spianata sul borgo" (Vecchi)

Quell'attacco così risoluto convinse il nemico alla ritirata. Ventiquattro tirolesi ma di origine italiana, fatti prigionieri, abbracciarono i loro carcerieri del capitano GRIFFINI come fratelli. Un altro centinaio furono catturati insieme a un cannone; gli altri ripararono a Pozzolo e a Valeggio, dov'era il grosso dell'esercito condotto personalmente dal maresciallo Radetzky.
Il giorno 9 aprile la III Divisione, comandata dal generale BROGLIA di Casalborgone, assaliva, Monzambano, cacciava gli Austriaci e, rifatto il ponte distrutto dal nemico passava sulla sinistra del Mincio ed occupava Borghetto. Il giorno 11, ricostruito anche il ponte di Valeggio, anche l'omonimo paese era occupato dai Piemontesi mentre Carlo Alberto si trasferiva a Volta.
Era proprio quello il momento più propizio per un'avanzata audace nel Veneto, e pare che il DE SONNAS spingesse Carlo Alberto a compierla; ma il re di Sardegna che non si credeva abbastanza forte, preferì puntare sulle fortezze del Quadrilatero. Ma senza avere le idee chiare, senza una strategia, e la cosa più grave senza avere delle precise informazioni, prima di agire.

Cominciò con Peschiera. Essendogli stato riferito che quella fortezza era in cattivo stato e con una guarnigione poco disposta a difenderla, si lasciò tentare per assaltarla.
Il 13 aprile vi andò con la brigata Pinerolo, sei pezzi d'artiglieria, sei di campagna e otto obici per l'assedio, ma con pochi uomini. Dopo due ore di bombardamento con il nemico che rispondeva energicamente, fu intimata la resa ai milleottocento croati che presidiavano la fortezza, ma il maresciallo ROTH si rifiutò; a quel punto Carlo Alberto, lasciata la brigata a bloccare Peschiera nell'attesa dell'arrivo di un maggior numero di artiglierie e di uomini da permettere un assedio più energico, tornò al suo quartiere generale.

Nonostante l'insuccesso di Peschiera, per nulla riuscito, pochi giorni dopo, Carlo Alberto volle fare pure un tentativo su Mantova. La mattina del 19, sapendo che la guarnigione di Mantova per provvedere al vettovaglia effettuava continue scorrerie nelle campagne e manteneva per coprirsi "posti avanzati" fino a Rivalta e alle Grazie, furono inviate quattro colonne di tremila uomini circa ciascuna da Sacca, Ceresara, Gazzoldo e Piubega per piombare sui "posti", assalirli di fronte e dai fianchi, tagliar loro la ritirata e quindi avanzar sotto le mura di Mantova. Ma il nemico, messo sull'avviso, aveva già iniziato il ripiegamento e le colonne piemontesi, dopo un'inutile comparsa sotto le mura, prese di mira dai cannoni ben piazzati del fortino dovettero ritirarsi senza nemmeno avere respinto una sola uscita degli Austriaci.

Alcuni giorni dopo, un migliaio di Modenesi comandati dal maggiore LUDOVICO FONTANA e una compagnia di bersaglieri mantovani capitanati dal LONGONI, che dal 18 aprile presidiavano Governolo, furono assaliti da una colonna austriaca tre volte superiore di forze uscita da Mantova, e dopo otto ore di accanito combattimento la mettevano in fuga producendole gravissime perdite.
Continuava intanto l'assedio di Peschiera, bloccata dalla destra del Mincio dalla brigata Pinerolo e dalla parte del lago di Garda da due battelli a vapore armati di cannoni e montati da reparti di fanteria della marina. Per completare l'assedio occorreva occupare la riva opposta del fiume e scacciare gli Austriaci dalle posizioni che occupavano tra Peschiera e Verona.
Lasciato un forte presidio a Goito e i Toscani alle Grazie, a Curtatone e Montanara, Carlo Alberto iniziò il movimento il 26 aprile e in due giorni passò il Mincio a Goito, a Valeggio, a Monzambano e, su un ponte di barche, vicino a Volta, senz'alcun incidente se si eccettui uno scontro a Villafranca, dove gli Austriaci furono respinti a Sommacampagna.
Il 1° Corpo, composto delle divisioni D'ARVILLARS e FERRERO, occupò Custoza, Sommacampagna e Sonà; il 2°, formato dalle divisioni Broglia e Federici, investì Peschiera dalla riva sinistra, poi prese posizione a Castelnuovo, quindi, combattendo espugnò i villaggi di Cola, Sandrà e Santa Giustina (28 e 29 aprile). La divisione di riserva fu collocata a Guastalla, Oliosi e San Giorgio.
Gli Austriaci occupavano le posizioni di Bussolengo e di Pastrengo, importantissime perché dominavano la gola dell'Adige ed assicuravano le comunicazioni di Verona con Rivoli e il Trentino; ed erano decisi gli austriaci a difenderle ad ogni costo; anzi il 29 il Radetzky diede ordine al Tagis di riprendere agli Italiani le posizioni di Cola, Sandrà e Santa Giustina. Il combattimento durò accanito tutto il giorno, ma a sera il nemico dovette ritirarsi da quel tentativo.

La mattina dopo, il 30 aprile, Carlo Alberto ordinò al generale DE SONNAZ di attaccare gli Austriaci con le divisioni Broglia e Duca di Savoia, con la brigata Piemonte e una brigata di cavalleria, in tutto circa venticinquemila uomini. L'azione cominciò molto in ritardo e solo verso le undici, perché, essendo domenica, si volle che le truppe prima di muoversi ascoltassero la Messa. La divisione Broglia, che costituiva l'ala destra, avanzò da Santa Giustina verso Bussolengo, la divisione Duca di Savoia puntò sul centro nemico, la brigata Piemonte, che formava la sinistra, si spinse da Cola, e, impegnatasi prima delle altre truppe con il nemico, lo ricacciò di collina in collina.
Alla destra della Piemonte, la Cuneo attaccò quasi contemporaneamente, ma a causa del terreno accidentato fu costretta ad avanzare lentamente. Il re, che guardava lo svolgersi della battaglia da un'altura di fronte a Sandrà, scese per accelerare l'avanzata della Cuneo, la quale raggiunta finalmente la Piemonte, andò all'assalto di Pastrengo, mentre l'ala destra procedeva animosa sloggiando il nemico dalle posizioni che occupava.

Gli Austriaci, che erano stati cacciati, si riordinarono e si gettarono improvvisamente sulle due brigate piemontesi di sinistra riuscendo a impegnarle e a trattenerle, e forse avrebbero in quel punto sfondato la linea e forse mutate le sorti della giornata se tre squadroni di carabinieri che scortavano il re, visto il pericolo, non avessero caricato con impeto il nemico trascinandosi poi dietro e salvando le truppe su per la collina.
Gli Austriaci, battuti da ogni parte, ripiegarono in disordine sui ponti di barche da loro gettati a Pescantina e a Pontoni.
Carlo Alberto anche qui rifece l'errore ancora più grave di Valeggio; cioè non seppe trarre profitto dalla vittoria e dallo scompigli che aveva causato. Invece d'inseguire il nemico e renderne disastrosa la ritirata, egli si accontentò di rimanere sulle posizioni conquistate. La battaglia era durata cinque ore e le truppe piemontesi avevano dato prova di gran bravura e intelligenza. Poche le perdite; invece gli Austriaci ebbero mille e duecento tra morti e feriti e lasciarono nelle mani dei piemontesi cinquecento prigionieri.
A parte i morti, i feriti, i prigionieri, lo stesso Radetzky poi confessò che fu quello il momento più critico, se i piemontesi incalzando gli austriaci superavano Pescantina e Pontone, ci sarebbe stata una gravissima deleteria demoralizzazione nelle file austriache; anche perché, durante la battaglia, più di tremila Austriaci usciti da Verona, e che avevano puntato su Sonà e Sommacampagna, furono ricacciati dal generale SOMMARIVA con un reggimento della brigata Aosta.
Ed anche la guarnigione austriaca di Peschiera tentando una sortita dalla fortezza, in quello stesso giorno fu energicamente respinta e le costò un centinaio di morti e parecchi feriti.

Solo il giorno dopo Carlo Alberto si spinse a fare una ricognizione fino a Pontone. In quegli stessi giorni il presidio di Mantova assaliva i Toscani, ma fu ricacciato nella città con considerevoli perdite.
Dopo la vittoria di Pastrengo, Carlo Alberto, essendo stato informato che i Veronesi si sarebbero ribellati se l'esercito sardo si fosse presentato davanti la città a dare battaglia al Radetzky, decise senza verificarne la fonte o la consistenza di questi gruppi, per il 6 maggio di fare una ricognizione in forze su Verona, dandone l'incarico al generale BAVA.
Gli Austriaci occupavano la linea che, passando per Crocebianca, San Massimo e Santa Lucia, si stende da Chievo a Tomba e avevano degli avamposti fino a Zamponi, Feniletto e Dossobuono. Le forze sarde, composte di quattro divisioni, dovevano marciare sulle posizioni centrali della Crocebianca, San Massimo e Santa Lucia, impadronirsene, indurre il nemico alla battaglia e dar modo così, traendone profitto, che i cittadini veronesi insorgessero.
La mancanza di precisione negli ordini, il ritardo nello spedirli, l'imperfetta conoscenza del terreno, il difetto di unità, le grandi difficoltà che presentavano le posizioni occupate dal nemico furono la causa del fallimento dell'azione, nonostante gli uomini si batterono con grandissimo valore, ottenendo pure qualche successo davvero brillante.
La colonna di centro, marciando verso San Massimo, incontrò forze nemiche soverchianti e si spostò a destra verso Santa Lucia, assalendo questa posizione con estremo vigore. Più tardi, essendo giunte le truppe dell'ala destra, gli assalti dei piemontesi si rinnovarono e il nemico, che aveva accanitamente difeso Santa Lucia, ne fu scacciato.
Ugual successo non ebbe la sinistra, comandata dal generale BROGLIA, ma forse perché inutilmente si accanì contro le posizioni della Crocebianca e infine senza aver combinato nulla, dovette desistere temendo perfino di essere aggirata dalle truppe austriache che stavano a San Massimo e che non erano state per nulla attaccate. Considerati l'insuccesso della sinistra e la minaccia nemica al centro e poiché i Veronesi che dovevano insorgere rimasero tranquilli, Carlo Alberto ordinò la ritirata generale ed abbandonò con il grosso dell'esercito Santa Lucia, e vi lasciò per coprire la ritirata la brigata Cuneo comandata dal DUCA DI SAVOIA.

Gli Austriaci, accortisi del ripiegamento dell'esercito sardo, non si comportarono come Carlo Alberto a Valeggio e a Pastrengo, ma assalirono risolutamente il villaggio di Santa Lucia, ma furono respinti dalla povera solitaria Cuneo, lasciata lì proprio per immolarsi per permettere la ritirata piemontese. Gravissime furono le perdite dei Piemontesi con più di millecinquecento uomini fuori combattimento; e anche se le perdite nemiche furono di circa un migliaio di soldati, la ritirata gli austriaci riuscirono a compierla in perfetto ordine, mentre se Carlo Alberto non avesse abbandonato Santa Lucia, avrebbe potuto se non proprio sbaragliare, almeno far subire gravissime perdite al nemico

I VOLONTARI SULLE ALPI - LA GUERRA NEL VENETO
IL GENERALE NUGENT IN ITALIA
IL GENERALE DURANDO SULLA LINEA DEL PIAVE
COMBATTIMENTO DÌ CORNUDA - GLI AUSTRIACI PASSANO IL BRENTA
L'EROICA DIFESA DI VICENZA

Si combatteva intanto sulle Alpi, dove operavano contro gli Austriaci, colonne di volontari milanesi, bresciani, tirolesi, cremonesi, trentini, svizzeri, ticinesi, napoletani, francesi, polacchi, costituite subito dopo le Cinque giornate e comandate dal generale MICHELE ALLEMANDI, emigrato piemontese del 1821, che aveva militato nell'esercito elvetico, e che aveva sotto di sé, come capi delle varie legioni, il bresciano BORRA, l'alsaziano THANNBERG, il cremonese TIBALDI, l' ANFOSSI, fratello dell'eroico caduto di Milano, il MANARA, il TROTTI, il BERETTA, il LONGHENA ed altri.
Erano sì circa cinquemila valorosi uomini, ma indisciplinati, variamente armati, poco o niente affiatati fra di loro, i quali per formare corpi veramente redditizi sarebbero dovuto esser comandati da un condottiero di grande valore, dalla mano di ferro, di straordinario ascendente e professionalità militare. Ma in tutte le latitudini, pochi militari di carriera sono disposti a addestrare gruppi di volontari, e tanto meno doverli guidare. Ogni volontario, -dicono i generali- perché volontari vorrebbe fare tutti il generale.

Così l'ALLEMANDI, se non faceva difetto il valore, mancavano assolutamente l'energia e il fascino. Questi volontari avevano il compito d'invadere il Trentino e a questo scopo dovevano operare d'accordo con altre due colonne, di cui una, di corpi franchi e finanzieri era in Valtellina e allo Stelvio, l'altra, di volontari e alcuni regolari, si trovava al Tonale.
L' 11 aprile, quattrocentocinquanta uomini della colonna MANARA, avendo fatto un'azione diversiva verso Peschiera che allora l'esercito sardo cominciava ad investire, furono assaliti a Castelnuovo da due battaglioni austriaci di fanteria, da uno squadrone di cavalleria e da alcuni pezzi d'artiglieria al comando del generale TAXIS. I volontari, colti alla sprovvista, si difesero accanitamente, ma, sopraffatti dal numero, si ritirarono a Salò, dov'era il grosso del gruppo, mentre il nemico sfogava la sua rabbia contro la misera popolazione.
Quattro giorni dopo, la colonna di volontari comandata dal ticinese ANTONIO ARCIONI, unitasi a Tione nelle Giudicarie, con quella di VITTORIO LONGHENA, assalì gli Austriaci alle Sarche, presso il castello di Toblino, ma fu battuta. Trentuno volontari della compagnia bergamasca di ANTONIO GASPERINI, che si erano spinti fino a Vezzano, poco lontano da Trento, furono catturati dal generale VON ZOBEL e furono fucilati proprio a Trento come disertori dell'esercito austriaco.
Il giorno 20, giunte le colonne Manara e Tibaldi, si ricominciò a combattere, ma una compagnia di carabinieri della colonna Arcioni, posta a difesa di Selemo, abbandonò il villaggio, che cadde in potere del nemico, e il Manara e il Tibaldi dovettero ritirarsi prima a Stenico, poi a Tione.
Esito ugualmente infelice le operazioni dei volontari della Valtellina e della Valcamonica, che furono respinti dal passo del Tonale. Allora il generale ALLEMANDI, lasciate al Caffaro le colonne Beretta e Thannberg, ordinò la ritirata su Brescia, suscitando vivaci critiche negli stessi volontari, i quali poi vollero attribuire tutti i loro insuccessi all'inettitudine del generale. Il Governo provvisorio di Milano esonerò l'Allemandi e diede il comando dei volontari al piemontese GIACOMO DURANDO, fratello del generale che comandava l'esercito pontificio.
Il Durando pose il suo quartier generale a Rocca d'Anfo e riordinò alla meglio il corpo dei volontari, che comprendeva i battaglioni Manara, Thannberg, Borra, Berretta, Trotti, i cacciatori bresciani, la legione polacca Kamiensky, le legioni trentina e cremonese e il reggimento della morte del colonnello Anfossi.

All'alba del 22 maggio, due colonne austriache comandate dal MELEZER assalirono a Lodrone i volontari con il proposito di forzare il ponte Caffaro, invadere il bresciano e prendere alle spalle l'esercito sardo che investiva Peschiera. Una valorosa resistenza la fece la colonna Manara, sostenuta dai pezzi del tenente Guerini, ma la colonna dell'Arcioni e quella dell'Anfossi, prese dal panico, si diedero alla fuga.
Il Durando, che si trovava a Vestone, piombò con il suo Stato Maggiore e, giunto a Sant'Antonio, perfino minacciandoli, fermò e riordinò i fuggiaschi, mentre Luciano Manara muoveva da Salò con il suo battaglione e con le guide tirolesi del Thannberg.
Fu allora che il combattimento si riaccese. I volontari occuparono Monte Snello, ricacciando il nemico che tentava di conquistare quell'importantissima posizione; un battaglione austriaco, che avanzava sullo stradale di Rocca d'Anfo, fulminato dagli italiani, dovette ripassare il fiume, dove non pochi annegarono; un'altra colonna nemica, che per la via Lodrone-Bagolino minacciava la sinistra dei volontari, fu respinta dal secondo battaglione dei cacciatori bresciani accorso prontamente da Ricco Massimo. Così furono salve quelle posizioni e qui poi rimasero inattivi per quasi tutto il resto della campagna i volontari, che nell'ozio non solo persero l'entusiasmo dei primi giorni, ma anche quel po' di disciplina che il generale Durando all'inizio era riuscito a riportare fra di loro.

Meglio dei volontari delle Alpi non si comportavano quelli del Veneto, dove mancava qualsiasi accordo tra le province e Venezia, pessima l'organizzazione e faceva difetto l'unità di comando. L' 8 aprile, prima ancora che Carlo Alberto giungesse sul Mincio, il generale austriaco LIECHTENSTEIN assali a Serio con forze preponderanti un corpo di millecinquecento volontari comandati dal generale MARCANTONIO SANFERMO e lo mise in fuga. Era questo l'inizio nel Veneto di quella lotta che in così breve tempo doveva avere vicende così numerose e dolorose, le quali dovevano dimostrare come una rivoluzione può in un primo tempo avere ragione di eserciti regolari, ma nulla può contro di loro se le sue forze non ubbidiscono con severa disciplina a un capo capace, che sia consapevole della grande difficoltà del compito affidatogli e con un minimo di strategia militare.

Questo capo mancava agli irregolari del Veneto. In questa regione anzi non si era neppure organizzata una seria difesa perché si credeva che gli Austriaci non fossero in grado di inviare rinforzi al Radetzsky e si era sicuri che a sbaragliare questo a Verona bastasse l'esercito di Carlo Alberto. Stando così le cose non deve meravigliare la facilità con cui il generale NUGENT, inviato dall'Austria con ventimila uomini, riuscì a riconquistare tutto il Veneto all'imperatore.
Il NUGENT passò l'Isonzo il 16 aprile e si diresse contro Palmanova. A Visco, distante circa tre miglia da quella fortezza, il generale CARLO ZUCCHI assalì la brigata del generale SCHVCARTZENBERG e la respinse dal villaggio. Il Nugent, persuaso che la sua missione richiedeva celerità di mosse e che perciò non era opportuno attardarsi all'assedio di una piazza che poteva opporre lunga resistenza, cambiò direzione e il 22 si gettò su Udine.
Presidiavano questa città, cui non poteva costituir difesa una vecchia cinta di mura con un fossato asciutto, due compagnie di fanti, cinquecento militi della Guardia civica variamente armati, una compagnia di granatieri mandati da Venezia e quattro cannoni da 6. Queste truppe si rifiutarono di arrendersi e ingaggiarono con il nemico un ostinato e fiero combattimento che, dopo sei ore, fu interrotto dal buio della notte. Il giorno seguente le autorità cittadine, disperando dei soccorsi, offrirono per mezzo del vescovo la capitolazione a buoni patti e l'ottennero; ma i soldati, allontanatisi con tre cannoni, andarono a chiudersi ad Osoppo.
Il Nugent, occupata Udine, proseguì celermente verso il Tagliamento, dove frattanto era corso il generale piemontese ALBERTO FERRERO DELLA MARMORA, inviato da poco da Carlo Alberto a Venezia per organizzare le truppe della Repubblica; ma, provvisto di scarse milizie, il La Marmora non riuscì opporre, al fronte di Casarsa, che una breve resistenza; quindi si ritirò sulla Livenza e sul Piave.

A contrastare la marcia del NUGENT, che puntava su Conegliano, Carlo Alberto inviò il generale pontificio GIOVANNI DURANDO, che si trovava con i suoi regolari ad Ostiglia e Governolo. Il 27 aprile il Durando partì da Ostiglia e il 29 arrivò a Treviso. Qui lasciò il La Marmora, che poi, chiamato a Venezia, fu sostituito dal generale bolognese ALESSANDRO GUIDOTTI sotto i cui ordini erano posti circa tremila uomini; il Durando, con il grosso dei pontifici, andò a stabilirsi a Montebelluna.
Il Nugent, sapendo che dalle Romagne avanzavano a marce forzate i dodicimila volontari del generale ANDREA FERRARI, stabilì di tentare il passaggio del fiume prima che queste truppe arrivassero sul Piave e mandò una colonna, comandata dal generale CULOZ, nell'Alto Piave. Il Culoz riuscì a passare il fiume tra Belluno e Feltre, occupando senza resistenza il 5 maggio la prima di queste due città e minacciando la seconda.
Informato, il Durando ordinò al Ferrari che in quel momento giungeva a Treviso, di proseguire per Montebelluna, quindi risalì il Piave. Era giunto a metà strada da Feltre, quando venne a sapere che anche questa città era caduta nelle mani del nemico. Allora il Durando ripiegò frettolosamente su Bassano per chiudere la valle del Brenta e, poiché il nemico, uscendo da Feltre, non poteva prender che due strade, quella di Primolano (in Valsugana) e l'altra di Pederobba, inviò nella prima località il colonnello Casanova con milleduecento uomini: Pederobba era guardata dal generale Ferrari che teneva il grosso a Montebelluna e Nervosa.

Il generale NUGENT, che aveva le sue forze distribuite tra Conegliano, Belluno e Feltre, mandò da quest'ultima città duemila uomini su Pederobba ed altrettanti su Primolano. Da Pederobba, dopo breve resistenza, gli avamposti del Ferrari ripiegarono su Cornuda, dove il generale giunse con tremila volontari, che la sera dell'8 maggio furono attaccati dagli Austriaci. Aspro fu il combattimento e sostenuto con molto valore dai volontari, confortati dal sapere che il Durando si era già mosso da Crespano in loro soccorso. Il giorno dopo, il combattimento, interrotto dalla notte, si riaccese più aspro e i volontari, sempre aspettando i rinforzi del Durando, resistettero per alcune ore, ma verso le due del pomeriggio, sopraffatti dal numero e sfiduciati dalla vana attesa, ripiegarono ordinatamente su Montebelluna.
Qui giunti, i volontari, non trovando truppe regolari, gridarono di essere stati ingannati dal Ferrari, traditi dal Durando, venduti al nemico e, non ascoltando le esortazioni e i comandi dei capi, si allontanarono disordinatamente verso Treviso, costringendo il resto della divisione a fare altrettanto.
Il Durando il giorno 9 si era effettivamente mosso in soccorso dei volontari impegnati a Cornuda e il suo intervento tempestivo avrebbe indubbiamente causato la vittoria dei volontari; invece, saputo che a Fastro il giorno prima era avvenuto uno scontro d'avamposti e che una colonna austriaca avanzava su Arsiè, persuaso che quello di Cornuda fosse un attacco dimostrativo e che il pericolo maggiore sovrastasse a Primolano, era tornato indietro, quindi sul Brenta.
Il FERRARI, ristabilito un po' d'ordine fra i suoi, volle rioccupare Montebelluna prima che vi giungesse il nemico, ma i suoi soldati si rifiutarono di uscire da Treviso e in questo frattempo il NUGENT occupò Montebelluna e andò ad accamparsi al di là di Felze sulla strada di Treviso. L'11 maggio il Ferrari riuscì a trascinare una gruppo di volontari contro il nemico, ma ai primi colpi si diedero alla fuga né fu più possibile ricondurli alla battaglia.
Il Durando, non potendo più raggiungere il Ferrari a Treviso perché i dintorni erano tutti in potere degli Austriaci, lasciò Bassano e si recò a Piazzola, dietro il Brenta, da dove gli era facile contrastare al nemico il passaggio a Fontaniva o verso Padova, i soli punti in cui poteva esser tentato.

Intanto il FERRARI, il giorno 12, si ritirava a Mestre e lasciava a Treviso quattromila uomini di quelli che credeva i migliori, che avrebbero potuto insieme agli abitanti tener testa al nemico e difendere la città, ma il generale GUIDOTTI non volle assumerne il comando e, indignato dal contegno indisciplinato dei volontari, impugnato un fucile e seguito da pochi coraggiosi, senza ascoltare le esortazioni del p. UGO BASSI, uscì dalla città contro, gli Austriaci, votato alla morte. E la morte la trovò poco dopo, colpito in fronte da una palla nemica. Delle truppe rimaste assunse il comando il conte LANTE di Montefeltro.

Il generale THURN, che sostituiva il NUGENT in quei giorni ammalato, non aveva nessuna intenzione di attaccar Treviso, né aveva interesse ad occuparla, desiderava solo giungere a Vicenza e mettersi in contatto con il Radetzky; ma a contrastargli il passo del Brenta, c'era il Durando ed era pericoloso tentare il passaggio lasciandosi dietro la guarnigione che occupava i dintorni di Treviso.
Allora gli Austriaci, allo scopo di attirare verso Treviso il Durando, cominciarono a saccheggiare il territorio. Il Durando, in sulle prime, indovinando l'intenzione del nemico, non si mosse, ma, tacciato di viltà dai trevigiani e vivamente richiesto dalle autorità di Venezia di correre in aiuto di Treviso, lasciò le posizioni che occupava e si portò da Piazzola a Mogliano e di là a Quinto per passare il Sile e attaccare di fianco gli Austriaci. Ed era quello che questi volevano. Abbandonati subito i dintorni di Treviso, nella notte dal 17 al 18 passarono il Brenta, il 19 proseguirono rapidamente per Vicenza, dove giunsero a Lisiera (a est circa cinque chilometri da Vicenza) il 20. Il giorno prima in città vi era giunto il colonnello GALLIANO con tre battaglioni, avanguardia del DURANDO, il quale, venuto a conoscenza della mossa nemica, era corso a Mestre e aveva cominciato ad avviare a Vicenza le sue truppe, servendosi della ferrovia.

Il 20 maggio, mentre il THURN prendeva con il grosso dell'esercito posizione a Lisiera lo SCHWARTZEWBERG con l'avanguardia austriaca attaccava Vicenza, ma dopo cinque ore di combattimento ripiegava sul corpo principale. Il giorno dopo giungeva lo stesso DURANDO con il resto delle sue truppe e vi giungevano il MANIN, il TOMMASEO e il generale ANTONINI con la sua legione messa insieme dall'Associazione Nazionale. Quest'ultimo, impaziente di menar le mani, attaccò gli Austriaci e dopo un accanito combattimento dovette ritornarsene in città con il braccio destro spezzato dalla mitraglia.

Il 22 maggio l'esercito austriaco, aggirò la città che l'aveva respinto, si mise in marcia alla volta di Verona. Ma a S. Bonifacio il THURN incontrò il RADETZKY, che però gli ordinò di tornare indietro con diciottomila uomini e quaranta cannoni per espugnare la ribelle Vicenza.
L'assalto fu dato la sera del 23 maggio fra un diluviare di pioggia, ma per quanto improvviso e vigoroso si infranse nella valorosa resistenza dei diecimila difensori. Per tutta la notte del 23 si combatté con estremo accanimento da ambo le parti.
"Le truppe regolari - scrive uno storico - difendevano i sobborghi, i dintorni della città come le alture a sud che la dominano (Monte Berico); le altre come riserva piazzati alle porte e in differenti direzioni, e pronte per correre in soccorso nei punti più minacciati. La città era tutta illuminata, le case aperte, e gli abitanti che non combattevano correvano in mezzo alle bombe e alle palle, che da tutte le parti piovevano, a spegnere gli incendi che di tanto in tanto scoppiavano in qualche parte della città".
Il THURN, che aveva perso circa duemila uomini, alle 10 del mattino del 24 abbandonò l'impresa e si ritirò a Montebello. Si concludevano le drammatiche "Cinque giornate di Vicenza".


Di Vicenza nella prossima puntata parleremo ancora,
con la sua drammatica caduta a giugno,
assieme alla battaglia di Curtatone e Montanara, di Goito
e come finì la prima fase di questa guerra, prima di Custoza

1848 Atto Settimo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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