ANNO 1848

DAL MINCIO AL TICINO - CUSTOZA - RITIRATA - (Garibaldi)
Atto Undicesimo

GIUSEPPE GARIBALDI IN AMERICA - SUE GESTA E SUO RITORNO IN ITALIA - IL BLOCCO DI MANTOVA - LA SECONDA FAZIONE DI GOVERNOLO - COMBATTIMENTI A RIVOLI E ALLA CORONA - L'OFFENSIVA DEL RADETZKY - BATTAGLIA DI CUSTOZA - RITIRATA DELL'ESERCITO SARDO - PROCLAMA DI CARLO ALBERTO AI POPOLI DELL'ALTA ITALIA
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(vedi anche "La costituzione del "BATTAGLIONE DELLA MORTE" )

GIUSEPPE GARIBALDI IN AMERICA
SUO RITORNO IN ITALIA

Proprio il 7 luglio, lo stesso giorno in cui il re scriveva al FRANZINI la lettera di cui abbiamo riportato un brano nel precedente capitolo, si presentava a CARLO ALBERTO al campo di Roverbella e gli offriva il suo braccio un uomo che era vissuto quattordici anni in esilio e che oltre l'Oceano Atlantico aveva compiuto -narrano i suoi apologisti- gesta gloriose: GIUSEPPE GARIBALDI.
Era giunto a Rio Janeiro nel principio del 1836 e prima aveva esercitato il corso tra questa città e Capo Fico, poi, schieratosi a difesa della piccola Repubblica di Rio Grande do Sul, aveva cominciato la sua carriera di corsaro (di stato) contro le navi del potente Brasile con un violento combattimento tra la sua goletta e due grossi navigli nemici.
Ferito gravemente, sottoposto alla tortura dopo un tentativo di fuga e rimesso in libertà dopo parecchi mesi di prigione, era tornato ancora al servizio degli insorti riograndesi e, incaricato di organizzare e comandare una flottiglia, aveva costruito, armato ed equipaggiato due golette e con queste aveva ricominciato la guerra corsa contro la flotta brasiliana forte di trenta navi.

"Combattere per terra e per mare, - scrive il Guerzoni - oggi sottrarsi alla caccia di una flotta venti volte superiore, domani affrontare con un pugno di uomini nugoli di cavalieri; oggi lanciarsi all'arrembaggio di un vascello nemico e predarlo, domani lottare disperatamente contro l'uragano e scampar per miracolo da un naufragio; essere al tempo stesso marinaio, cavaliere, calafato, boaro; vivere alla ventura e in perpetuo; ambire, vincitore, unico premio alla vittoria, i sorrisi delle belle e ottenerli; conseguire, vinto, l'ammirazione di tutti i generosi; trovarsi ad ogni istante a faccia a faccia con la morte e sentirsi beato; non possedere che una striscia di terra su cui posare il capo, ed una tavola di barca su cui piantare il piede, e, ciò nonostante avere il corpo fiorente di salute e l'anima piena di fantasie giovanili"

Questa era stata la vita di Garibaldi per oltre quattro anni.
Ma poiché le opinioni sono diverse se raccontate da due fazioni in eterna contrapposizione, riportiamo anche queste in una pagina a parte.
E non solo in Italia il giudizio è diverso, ma dato che questo sito è sfogliato anche all'estero, dallo stesso Uraguay, dall'Argentina, dal Brasile, mi hanno scritto e le opinioni sono opposte. Chi lo ammira e chi lo detesta. Né più e né meno come in Italia.
Combatté disinteressatamente per l'indipendenza del Rio Grande del Sud contro l'impero brasiliano e dell'Uraguay, si batté in Italia per l'Unità nazionale con tante contraddizioni, e finì la sua carriera di soldato nel 1870 difendendo contro i Prussiani quella stessa Francia che negli anni precedenti l'aveva oltraggiato, fatto arrestare, che gli aveva "rapinato" la sua Nizza.

Di lui è stato scritto di tutto: "idealista senza ideologie", "eroe per antonomasia", "uomo della libertà, uomo dell'umanità" (Hugo), "il Che Guevara dell'800", e fra tanti altri titoli l "eroe dei diseredati", e proprio per questo presero le distanze i suoi contemporanei che allora avevano grandi interessi personali a combatterlo, a diffidare, oppure a dipingerlo come un pittoresco avventuriero. E' chiaro che i nobili, la borghesia, la classe media, hanno di Garibaldi tutta un'altra opinione.
Ma come tutti sanno dietro ogni ideologia, c'è dietro una condizione economica di chi la professa. "Dimmi che opulenza o miseria hai e ti dirò di che partito sei". I diseredati non saranno mai dei conservatori, e questi non vorranno mai dividere con i diseredati se hanno ereditato da un avo di mille anni fa un castello, delle proprietà terriere, o un'industria.


Ma torniamo alla campagna garibaldina accennata sopra. Che fa parte dell'agiografia del nostro (ognuno poi si faccia l'opinione che crede).
Il 17 aprile del 1839, assediato con dodici compagni nella fattoria Saladero di Galpon da centocinquanta cavalieri nemici, con la sua presenza di spirito e la sua astuzia, aveva saputo trarsi d'impaccio. Incaricato di assecondare con operazioni navali la spedizione del generale Canavarro nella provincia di Santa Caterina, e trovandosi con la flottiglia bloccato nella laguna di Los Patos, Garibaldi aveva fatto trainare due grossi lancioni fino al lago di Taraamnday e di là fino all'Oceano.
Il 23 ottobre nelle acque d'Imbituba in un impari combattimento, tenendo in scacco tre navi,
nell'assalto alla nave Rio Pardo, capitanata da un certo Manuel Duarte (che poi mori per le ferite riportate o forse per il crepacuore) conobbe (o si portò via) la sua bella moglie, Anita Riberas, (che non era uruguayana né argentina come molti libri scrivono, ma era brasiliana dello stato di Santa Catarina. Infatti in Brasile esiste un paese al quale hanno dato il nome di Anita Garibaldi, questo perchè era la città natale di Anita Garibaldi).
Costretti i Riograndesi a sgomberare dalla città di Laguna, Garibaldi aveva protetto prima la difficile operazione di sgombero e quindi la faticosissima ritirata.
Ritiratosi nel 1841 a Montevideo, dopo essersi distinto nella giornata di Curitybanos, nel ripiegamento su Lages, nella tormentata discesa dalla Serra al campo di Malacam e nell'assalto alla fortezza di S. Josè do Norte, era ridisceso in campo dopo breve riposo in difesa della Repubblica dell'Uruguay contro la grande Repubblica Argentina, Ricevuto il comando di tre piccole navi e l'ordine di andare ad accendere l'insurrezione nel Paranà, navigando per circa settecento miglia, Garibaldi aveva accettato l'audacissima impresa e dal luglio al novembre del 1842 l'aveva condotta a termine dopo infinite peripezie, numerosi atti d'audacia, immense difficoltà superate, lunghe settimane di difficile navigazione fluviale contrastata dalle artiglierie nemiche, faticose manovre per disincagliare navi e superare rapide e infine l'acceso combattimento navale e terrestre di Nuova Cava, durato tre giorni e tre notti.
Durante questa guerra, a Garibaldi gli fu affidato, nel gennaio del 1842, da parte del diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando d'alcune navi, con le quali costituì una grossa banda formata quasi tutta da italiani, vestiti con una camicia rossa.

Richiamato a Montevideo, minacciata dal nemico, aveva assunto il comando della flottiglia e quello della Legione Italiana. Alla testa di questa e con al fianco l'amico Francesco Anzani, Giuseppe Garibaldi si era dato molto da fare, e per i locali si era coperto di gloria: l'8 giugno del 1843 aveva in un mirabile attacco alla baionetta respinto il nemico dall'altura del Cerro; il 17 novembre, in una sanguinosa battaglia aveva sbaragliato alle Tres Croces il nemico, il 24 aprile del 1844 aveva alla Boyada salvato la ritirata dei Montevideani contrattaccando impetuosamente i nemici superiori di numero, il 28 marzo del 1845 ancora al Cerro aveva combattuto con brillante successo.
In questo periodo si iscrisse alla Massoneria Universale e precisamente nella loggia irregolare "L'asilo della Virtù", regolarizzandosi poi a Montevideo il 24 agosto 1844, nella loggia "Gli Amici della Patria", dipendente dal Grande Oriente di Francia.
Palmeston, capo del governo inglese, era allora gran maestro della Massoneria e (alias Henry John Temple) fondatore dell'Ordine ebraico di Sion; l'uomo che avrebbe in sostanza dominato la politica estera britannica (e, in un certo senso europea) fino all'anno 1865.

Prescelto a capitanare un'ardita spedizione lungo il gran fiume Uruguay, Garibaldi aveva dato prove di valore da meritare l'appellativo di benemerito della Repubblica. L'occupazione di Colorica e dell'isola di Martin Garcia, la distinzione delle batterie costiere nemiche del Paranà, il vittorioso combattimento presso l'estancia di Rervidero, la sanguinosa battaglia di Tapeby e infine quella gloriosa del Salto di Sant'Antonio (8-9 febbraio 1846) aveva confermato la sua fama d'invincibile soldato e di geniale condottiero, che, varcato l'Oceano, aveva fatto palpitare di speranza il cuore degli Italiani.

Ad un tratto giunse al suo orecchio attraversando l'Atlantico una grande notizia: che Pio IX aveva concesso l'amnistia. Seguite da altre notizie sensazionali, di cui l'ultima era quella della rivoluzione siciliana dai primi di gennaio 1848.
Garibaldi aveva deciso di rientrare in patria. Aveva prima spedito in Europa nel febbraio, GIACOMO MEDICI perché si accordasse con il MAGRINI e lo aspettasse in Toscana, ammonendolo: "Terrai presente soprattutto che lo scopo nostro è di recarci in patria, non per contrariare l'andamento attuale delle cose ed i Governi che le cose acconsentono, ma per aggregarci ai buoni e, d'accordo con loro, andare innanzi, per il meglio del paese".

Ovviamente, non sapeva ancora nulla delle giornate di Milano, di Venezia, dello Statuto di Carlo Alberto, e nemmeno che il Re il 24 marzo si era deciso a marciare contro gli Austriaci.

Il 15 aprile era partito da Montevideo con 63 legionari sul brigantino "Speranza".
In un porto della Spagna, a Santa Pola, aveva saputo dell'insurrezione di Milano e di Venezia, della cacciata degli Austriaci, della guerra intrapresa da Carlo Alberto, del concorso degli altri principi italiani. A quel punto invece che verso le coste toscane, Garibaldi aveva diretto la prora verso Nizza per offrire il suo braccio al re di Sardegna. Lo stesso sovrano che lo aveva costretto a fuggire con una condanna a morte in contumacia, per "alto tradimento" essendo allora Garibaldi un appartenente alla marina sarda.

Sbarcato nella sua città natia il 21 giugno, quattro giorni dopo aveva fatto in pubblico la sua professione di fede:
"Voi sapete che non fui mai partigiano dei Re; ma poiché Carlo Alberto si è fatto il difensore della causa popolare, io penso di recargli il mio concorso e quello dei miei camerati".

Poi il 2 luglio, sbarcato a Genova, al "Circolo Nazionale" aveva confermato quanto aveva detto a Nizza; e fu -qui bisogna dirlo- realista come il Manin a Venezia:

"Noi dobbiamo fare ogni sforzo possibile perché gli Austriaci siano presto cacciati dal suolo italiano e non si abbia a sostenere una guerra di due o tre anni. Ma non possiamo ottenere quest'intento se ora non siamo molto uniti. Si dia il bando ai sistemi politici, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si sollevino partiti. La grande, l'unica questione del momento è la cacciata dello straniero e la guerra dell'indipendenza. Pensiamo a questo solo .... Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e seguire fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza; Carlo Alberto sia, dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli Italiani si concentrino in. lui. Fuori di lui non vi può essere salute. Guai a noi se invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi ed inutili e, peggio, ancora, se cominciamo a spargere fra noi i semi di discordia".

Il 7 luglio, come già accennato, Giuseppe Garibaldi si recava a Roverbella, ma Carlo Alberto, che forse non credeva alle qualità del condottiero, formatosi fuori dalle caserme e dalle scuole di guerra, né poteva dimenticare che era stato un "traditore" del suo Regno; prendendo a pretesto le norme costituzionali, gli disse di rivolgersi ai suoi ministri. Una settimana dopo, a Torino, il ministro RICCI rifiutava di accogliere la richiesta di Garibaldi dicendo che il Governo non poteva considerare la possibilità di formare corpi volontari accanto a quelli dell'esercito regolare.

Nessuno forse aveva dimenticato le sue passioni repubblicane, ed erano proprio queste che a Torino (e alcuni anche a Milano) diffidavano.

Disilluso ed offeso, riconciliatosi accanto al letto dell'ANZANI morente con il MEDICI che lo aveva accusato di voltafaccia al partito repubblicano, Garibaldi si recò a Milano e fu dal Governo provvisorio nominato maggior generale con l'incarico (finalmente si erano mossi a far qualcosa) di organizzare corpi di volontari.
Il 18 luglio formerà il "Battaglione Italiano della Morte".
(abbiamo rintracciato il regolamento per entrarvi, il giuramento,
e la scheda da riempire per farne parte - vedi link sopra all'inizio


Ma ormai era troppo tardi; gli avvenimenti volgevano male per l'esercito sardo e Garibaldi e i suoi volontari ben poco potevano fare a favore di questa prima guerra d'indipendenza italiana.

IL BLOCCO DI MANTOVA

Sebbene fosse persuaso -la lettera molto realistica che abbiamo letto nella precedente puntata ne è la testimonianza- che solo una buona pace poteva farlo uscire con onore dalla guerra, vinto dalle continue pressioni che da ogni parte gli erano fatte, Carlo Alberto, il 13 luglio decise di riprendere l'offensiva, rivolgendo i suoi maggiori sforzi su Mantova, di cui ordinò il blocco.

In conseguenza di quest'ordine la 2a divisione si trasferiva da Goito a Belfiore e Cerese; la divisione lombarda del Perrone, la brigata Casale e un battaglione di cacciatori franchi si collocarono davanti al forte di Pietole; la divisione Visconti occupò il corso superiore del Mincio mettendo tre battaglioni a Valeggio e a Goito e con due presidiando Peschiera; la divisione, rinforzata con le compagnie Griffini e Longoni, occupò Castelbelforte; la divisione di riserva fu posta a Roverbella, Castiglione Mantovano e Canevole; il quartier generale rimase a Roverbella.
A presidiare Villafranca erano poste le truppe toscano; la cavalleria comandata dal generale OLIVIERI, teneva una linea che, per Marengo, Malavicina, Quaderni, Rosegaferro, andava fino a Villafranca, e qui il II Corpo d'Armata si stendeva fino a Rivoli.
Erano appena cominciate le operazioni per l'attacco a Mantova quando si seppe che il generale austriaco LIECHTENSTEIN con una brigata di cinquemila uomini si era recato a Ferrara per vettovagliare il presidio di quella cittadella. Contemporaneamente i conti LUDOVICO SAULI e PIETRO SANTAROSA, commissari piemontesi a Modena e a Reggio, considerando che gli abitanti del Ducato non erano disposti a difendersi nell'eventualità di un'invasione austriaca, chiedevamo soccorsi al re.

LA SECONDA FAZIONE DI GOVERNOLO

II generale BAVA, che comandava le truppe incaricate del blocco di Mantova, con una brigata di fanti, un reggimento di cavalleria, una compagnia di bersaglieri e due batterie di cannoni mosse verso il Po per rendersi conto dello stato delle cose; ma quando giunse a Borgoforte seppe che il Liechtenstein era tornato da Ferrara sulla sinistra del fiume per Ostiglia e Governolo. Allora il Bava pensò d'impadronirsi di quest'ultimo villaggio, che, in mano degli Austriaci rappresentava una grave minaccia per l'estrema sinistra dello schieramento dell'esercito sardo.

L'operazione fu compiuta il 18 luglio. I bersaglieri, al comando del capitano LIONS, furono mandati oltre il Mincio per cogliere alle spalle il presidio del villaggio composto di millecinquecento uomini; il resto delle truppe fu diviso in due colonne, la prima comandata dal generale TROTTI, la seconda dallo stesso Bava, e dovevano insieme attaccare il villaggio di fronte.
Gli Austriaci, assaliti dal grosso dei Piemontesi, dopo aspra resistenza si ritrassero oltre il fiume, ma, udendo il suono delle trombe dei bersaglieri mentre si disponevano a nuova difesa, per non esser presi tra due fuochi indietreggiarono ancora e, giunti in un prato, si disposero in quadrato. Fulminato dai cannoni e caricato vigorosamente dalla cavalleria sarda il nemico cedette le armi.

Il vittorioso combattimento costò pochissime perdite ai piemontesi: ventitré feriti e una mezza dozzina di morti, tra cui i tenenti Gattinara ed Appiotti. Gravissime furono invece le perdite austriache, che, oltre i morti e i feriti, lasciò sul campo cinquecento prigionieri, due cannoni, molte armi, molti cavalli e la bandiera del reggimento.

COMBATTIDIENTI DI RIVOLI E DELLA CORONA

Il combattimento di Governolo, sebbene coronato dal brillante successo, fu più dannoso che utile ai piemontesi, perché allungò di un'altra diecina di chilometri lo schieramento del nostro esercito che, dalle alture di Corona e Rivoli si stendeva fino alla confluenza del Mincio con il Po ed era ovunque, ma specialmente alla sinistra, debole ma soprattutto non coordinato.
Di questa debolezza pensò di approfittare il Radetzky, che già disponeva di 132.000 uomini, 250 pezzi d'artiglieria e 3 fortezze dove andare eventualmente a trincerarsi. Concepì il piano di impadronirsi di S. Giustino, Sona e Sommacampagna, spingersi fino al Mincio, tagliare i corpi del DE SONNAZ e del BAVA e batterli separatamente. Dal Trentino il generale THURN, attaccando l'estrema sinistra sarda, doveva impedire questa che accorresse in aiuto del centro.

La mattina del 22 luglio il generale THURN scese dal monte Baldo con due colonne, una mosse contro Spiazzi e la Corona, e dopo un accanito combattimento i pochi soldati del maggiore S. VITALE furono costrette dallo schiacciante numero dei nemici a sloggiare; l'altra per Incanale marciò contro Rivoli, dove il colonnello DAMIANO con quattromila uomini prima resistette agli assalti di oltre diecimila Austriaci, poi sopraggiunto il DE SONNAZ con due battaglioni e mezza batteria, il nemico fu nettamente respinto.
Nonostante la vittoria, il De Sonnaz, sapendosi fronteggiato da forze notevolmente superiori alle sue, e che il giorno dopo avrebbero senza dubbio riattaccato e con maggior successo, e sospettando che l'azione su Rivoli era solo dimostrativa, all'alba del 23 abbandonò quelle lontane posizioni e ritirò le truppe a Cavajon, Calmasino e Sandrà.

Intanto il RADETZKY, lasciato a difesa di Verona il generale RAYNAU, la sera del 22 era uscito dalla piazza con il grosso del suo esercito (quarantamila uomini e centocinquanta cannoni) diviso in tre corpi comandati dai generali D'ASPRE, WRATISLAW, WOCHER, che dovevano assalire, durante la notte, la linea piemontese da S. Giustina a Custoza.
Era questa difesa da soli seimila uomini, comandati dal generale BRAGLIA di CASALBORGONE, con il 1° reggimento della Savoia a Palazzuolo, a S. Giustina e nelle cascine di Colombara e Colambarolo, il 2° reggimento e un battaglione di Parmigiani a Sona e all'Osteria del Bosco, difesa da quattro pezzi, e un battaglione del 13° Pinerolo e un reggimento toscano comandato dal BELLUOMINI a Sommacampagna.

BATTAGLIA DI CUSTOZA

Un fortissimo uragano fece differire l'attacco al mattino del 23 luglio. Lo sforzo maggiore del nemico fu fatto a Sommacampagna dove i Toscani e i Piemontesi resistettero valorosamente per ben tre ore, ma, sopraffatti dal numero, dovettero poi ripiegare su S. Giorgio in Salice, ma quasi raggiunti dagli usseri della brigata Liechtenstein, furono costretti a proseguire la ritirata fino a Cavalcaselle, giungendovi la sera insieme con le truppe che avevano abbandonato Rivoli.

All'Osteria del Bosco, a S. Giustina e a Sona i Piemontesi combatterono con grandissimo valore, ricacciando alla baionetta da qualche punto il nemico, il quale pur di vincere, ricorse anche a vergognosi stratagemmi. Vittima di uno di questi fu il prode generalo D'ARVIENOZ, il quale, andato incontro a un grosso reparto nemico che sventolava bandiera bianca e gridava "Viva l'Italia ! Siamo fratelli !", fu circondato da forze schiaccianti e, dopo un'accanita difesa, cadde in mano del nemico. Ferito al petto e al ginocchio e rovesciato da cavallo, all'intimazione d'arrendersi il D'Arvienoz, gettando a terra la spada, gridò sdegnosamente: "Io non la rendo ai traditori !"

RITIRATA DELL'ESERCITO SARDO

Caduta Sommacampagna, anche la resistenza di Sona, dovette cessare e il generale BROGLIA ordinò la ritirata di tutta la linea verso Peschiera. Così, verso il mezzogiorno del 23 il Radetzky era già padrone di tutte le alture da S. Giustina a Custoza e, pur avendo subito gravi perdite, prima di sera si spingeva fino al Mincio.
A guardia del fiume stava la divisione di riserva comandata dal barone VISCONTI, la quale all'avvicinarsi del nemico, passava sulla destra del Mincio, rompeva i ponti di Borghetto e di Monzambano e collocava un battaglione davanti a Salionze per impedire agli Austriaci di traghettare in quel punto.
Il DE SONNAZ, che si trovava a Cavalcaselle, la mattina del 24 alla testa di circa dodicimila uomini si mise in marcia in direzione di Monzambano e Ponti per sostenere la divisione Visconti, non credendo che il Radetzky, minacciato di fianco da Carlo Alberto, pensasse seriamente di forzare il passaggio del Mincio.
Invece gli Austriaci impadronitisi di Salionze, stavano gettando un ponte di barche presso i Molini e riuscivano a compiere l'operazione nonostante la pronta ma non sufficiente reazione di due battaglioni della riserva. Allora il De Sonnaz, che era giunto a Monzambano, saputo che il nemico era passato sulla sponda destra, mandò il 14° fanteria, la sezione toscana e la compagnia Cassinis a Ponti, ma queste truppe, giunte sul posto, proprio mentre la riserva presa dal panico l'abbandonava, non riuscendo a sostenersi da sola sostenere ripiegarono su Peschiera e così il De Sonnaz si vide costretto a rinunciare alla controffensiva su Molini e Ponti e a ritirarsi a Volta.

CARLO ALBERTO fin dalla sera del 23, aveva riportato il suo quartier generale da Marmimolo, dove l'aveva messo il 18, a Villafranca. Qui fu riunito il consiglio di guerra la mattina del 24 e, scartata l'idea di ritirarsi sulla destra del Mincio, fu deciso di attaccare il nemico sulle stesse posizioni che aveva conquistate il giorno precedente, quindi, convergendo a sinistra, cacciarlo sul fiume, tagliarli la ritirata di Verona e schiacciarlo.
Il piano era buono, ma perché riuscisse occorreva impiegare il maggior numero possibile di truppe, togliere l'inutile blocco di Mantova ed effettuare la congiunzione con il De Sonnaz.
Invece questa manovra non fu possibile a farsi e il blocco fu mantenuto.
Alle due pomeridiane del 24 luglio Carlo Alberto usciva da Villafranca e, lasciato a presidio della città il MANNO con i volontari toscani e due battaglioni della Pinerolo, ordinato al SOMMARIVA di sorvegliare la strada di Valeggio, e al generale OLIVIERI che comandava ventisette squadroni, di lasciare una brigata al centro e di perlustrare sulla destra il terreno per tutelare il fianco della fanteria, il Re si avviò verso la valle di Staffalo con il grosso dell'esercito.
Questo era diviso in due colonne: una, composta delle brigate Guardie e Cuneo, comandata dal duca di Savoia (VITTORIO EMANUELE) l'altra, formata dalla brigata Piemonte, al comando del DUCA DI GENOVA. Facevano da avanguardia una compagnia di bersaglieri ed una di volontari lombardi; seguivano cinquantasei cannoni. La brigata Aosta era rimasta di riserva presso Villafranca.
Quantunque gl'imperiali avessero il vantaggio delle posizioni e la superiorità numerica, i Piemontesi assalirono con tanto impeto e combatterono con tanto valore che verso il tramonto furono padroni di tutte le alture attaccate, e con perdite piuttosto lievi: cinquantaquattro feriti e sedici morti, tra i quali il maggiore BAUDI di Selve; mentre più gravi furono quelle austriache: cinquanta morti, centoquattro feriti, millecentosessanta prigionieri, di cui quarantasei ufficiali, e due bandiere.

Lo scontro del 24 luglio, che prese il nome di BATTAGLIA DI STAFFALO, avrebbe dato ben altri risultati all'esercito sardo se questo conquistava, quel giorno stesso - e lo poteva fare -Valeggio, che era il perno dell'intera impresa.
(Chi conosce il luogo, Valeggio e Borghetto, che sono due incantevoli località, oggi molto frequentate dai turisti, e con ottimi ristoranti, non può non correre ai giorni di questa battaglia - e di tante altre battaglie, che si sono svolte sui formidabili bastioni del ponte sul Mincio).

Invece si rimise la conquista di questa posizione il giorno dopo, impiegando le medesime truppe stanche ed affamate; e intanto il Radetzky ebbe il tempo di rafforzarsi, di far giungere un'altra brigata da Verona; di richiamare le truppe che erano passate di là del Mincio, serbando però il possesso dei passi di Salionze, Monzambano e Valeggio; e di radunare sotto di sé un numero di truppe così rilevante da assicurarsi la vittoria.

Per le operazioni del 25 Carlo Alberto e il generale Bava avevano fatto il seguente piano: il DE SONNAZ, varcando il Mincio ai Molini di Volta, doveva portarsi per Borghetto sopra Valeggio e assalir questo villaggio alle otto del mattino; quindi doveva poi aiutare le truppe dell'altro corpo che operava sulla sponda sinistra. Queste dovevano agire in tre colonne: la prima, composta della brigata Aosta, guidata da CARLO ALBERTO e assecondata dal BAVA, doveva assalire Valeggio a sinistra; la seconda, formata delle brigate Guardie e Cuneo al comando del DUCA DI SAVOIA, avanzando da Custoza, doveva puntare su Salionze per favorire l'azione dell'Aosta; la terza, che comprendeva la brigata Piemonte e una quindicina di squadroni ed era comandata dal DUCA DI GENOVA, partendo da Berettara e Sommacampagna, doveva puntare su Oliosi.

CARLO ALBERTO assalì Valeggio alle 8 del mattino, ma i due figli fratelli principi tardarono a muoversi perché i viveri non erano ancora giunti da Villafranca e con il loro indugio (ma diciamo pure assenza sul posto concordato) diedero tempo al generale D'ASPRE, che li fronteggiava con forze doppie, di capire cosa volevano fare i piemontesi e di prendere lui l'iniziativa dell'offensiva contro le posizioni di Berettara, Sommacampagna e Custoza.

Il combattimento, impegnatosi verso le dieci, al centro e alla destra dell'esercito sardo, in poco tempo raggiunse una violenza straordinaria e si propagò su tutta la linea. Poco riuscì a fare la sinistra, tenuta a rispetto dai cannoni di Valeggio e non coadiuvata dalle truppe del De Sonnaz, il quale, ricevuto in ritardo l'ordine di muoversi, avvertì che non sarebbe giunto prima delle sei del pomeriggio; intanto entrate in campo le truppe dei due principi combatterono con superbo valore. Il DUCA DI GENOVA, a Sommacampagna, respinse per tre volte il nemico numerosissimo alla baionetta; il DUCA DI SAVOIA, al centro, riuscì inutilmente ad impadronirsi di un'altura presso Valeggio, perché da solo e senza aiuti dal Bava, non poté ad impedire agli Austriaci di occupare Custoza.

A quel punto fu difficile tenere anche le altre posizioni e Carlo Alberto, alle cinque pomeridiane, ordinò la ritirata su Villafranca, che fu fatta in buon ordine, senza che gli austriaci stanchi dalla lotta, osassero molestarla.

I Piemontesi pur non proprio sconfitti del tutto, erano stati vinti dal numero, dall'imperizia d'alcuni capi, quindi non tanto dal valore del nemico. L'esercito sardo ebbe 1339 uomini fuori combattimento, gli Austriaci 1320.

Durante la notte, poiché la posizione di Villafranca era insostenibile, le truppe che avevano preso parte alla battaglia di Custoza, i Toscani del Laugier e le truppe giunte da Governolo ebbero ordine di trasferirsi a Goito. Il movimento di ritirata fu eseguito in ordine né il nemico cercò di recare molestie. Partirono prima i feriti, i prigionieri e i convogli con la scorta di due battaglioni della brigata Pinerolo e della brigata toscana. Le brigate Guardie e Cuneo passarono per Mozzecane, Roverbella e Marengo; la Piemonte e l'Aosta per Quaderni e Massimbona. A protezione delle truppe in ritirata furono poste a Mozzecane la cavalleria e l'artiglieria da campagna, a Roverbella il 17° fanteria, tra Marengo e Goito la brigata sopraggiunta da Governolo. Da retroguardia fecero due battaglioni della Cuneo comandati dal duca di Savoia.
Intenzione del generale BAVA era di richiamare tutte le truppe da Mantova, spiegarle sulle alture di Volta, Cavriana e Solferino e costringere gli Austriaci ad accettar battaglia con il Mincio alle spalle. Le truppe del DE SONNAZ, che il giorno prima erano a Volta, dovevano rimanervi; invece, giungendo a Goito, il Re e il Bava le trovarono là. Il De Sonnaz, nel pomeriggio del 25, mentre si preparava a muovere su Valeggio, aveva ricevuto un biglietto, scritto a matita e firmato dal colonnello FECIA di COSSATO, sottocapo di Stato Maggiore Generale, con il quale gli si ordinava di sospendere la marcia su Valeggio, di sgombrare Volta e ritirarsi a Goito. Questo movimento egli lo aveva compiuto durante la notte dal 25 al 26 luglio.

Il COSSATO poi in seguito negò di avere scritto il biglietto, del quale alcuni attribuirono la paternità al Radetzky, altri più maligni allo stesso Carlo Alberto.
Il De Sonnaz sarebbe voluto ritornar subito a Volta per giungervi prima che l'occupasse il nemico; ma, essendo le sue truppe stanche e senza cibo, d'accordo con il Re e col Bava, differì la partenza alle quattro pomeridiane; fu fatale.
Quando il De Sonnaz, alle sei del pomeriggio, giunse alle falde della collina di Volta, questa era già in potere dei soldati del LIECHTENSTEIN. La brigata Savoia pur avvicinandosi la sera, andò subito all'assalto e riuscì a cacciare il nemico dalla parte alta della terra; ma poi giunti durante la notte al Liechtenstein rinforzi da parte del D'Aspre, i piemontesi dovettero abbandonare le posizioni occupate.

Albeggiava, quando le truppe del De Sonnaz, che avevano ridisceso le falde della collina, furono raggiunte dalla brigata Regina mandata (anche questa in ritardo) da Goito. Allora il generale volle tentare un nuovo assalto, ma il tentativo non riuscì e ripiegarono su Cerlungo. La cavalleria austriaca volle disturbare la ritirata, però, assalita dai cavalleggeri del Savoia e del Genova, rinunciò al tentativo.

L'insuccesso di Volta -dovuto a tutti questi malintesi, ritardi, - fu l'ultimo e più grave colpo al morale dei soldati piemontesi. Carlo Alberto, costatate le condizioni del suo esercito e visto che non era possibile non solo tentare la riscossa ma neppure sostenere subito dopo un nuovo urto nemico, mandò, il 27 mattina, al Radetzky i generali Bes e Rossi e il colonnello La Marmora per trattare una tregua. La risposta venne alle cinque pomeridiane. Il nemico avrebbe sospeso le operazioni a patto che Carlo Alberto si ritirasse oltre l'Adda, consegnate Venezia, Peschiera, Rocca d'Anfo e i Ducati, e posti in libertà tutti gli ufficiali prigionieri.

PROCLAMA DI CARLO ALBERTO ALLE POPOLAZIONI DELL'ALTA ITALIA

Erano condizioni inaccettabili e il re ordinò il ripiegamento di tutto l'esercito dietro l'Oglio. Da Bozzolo egli lanciò alle popolazioni dell'alta Italia il seguente proclama:

"Dopo vari combattimenti, nei quali il nostro esercito, nonostante l'inferiorità delle forze, seppe ottenere con mirabile coraggio non pochi successi, sopraffatto dal nemico, sfinito dalla stanchezza per le continue fazioni sotto un calore eccessivo e per la mancata provvista di viveri, perdette e ripiegò, ma in definitiva non riuscì a conservare le posizioni conquistate lungo il Mincio; accerchiato nei dintorni di Goito, si trovò ridotto ad una di quelle crisi terribili, nelle quali un supremo sforzo ha per effetto orrende stragi. In queste gravi circostanze; che premevano il nostro cuore come Re e come capo di quel prode e ben amato esercito, sentito un consiglio di guerra, cercammo di porre un termine a tanto spargimento di sangue con il proporre al nemico una sospensione d'armi. Ma le condizioni poste furono tali da metterle nemmeno in discussione, dovendo esporci con voi e a compromettere l'onore e l'interesse della patria. Italiani ! Armatevi e provvedete al pericolo con l'energia che il pericolo aumenta nei forti. Eredi di tante glorie, preferite l'ultimo sacrificio all'umiliazione ed alla perdita della vostra indipendenza. L'esercito, sostenuto dall'amor patrio in mezzo ai dolori ed alle disgrazie è pronto ancora a dare per la patria quanto gli avanza di sangue, e spera che la Provvidenza non ci abbandonerà nella, difesa della santa causa cui è consacrata la mia vita e quella dei miei figli".

Ai soldati indirizzò nello stesso tempo quest'altro proclama:

"Le mirabili prove di coraggio nel combattimento, di forza nel sopportare i disagi che avete dato in questi ultimi giorni, mi hanno commosso profondamente. Il nemico pagò assai caro la conquista delle nuove posizioni: nella nostra ritirata portiamo duemila prigionieri e non si può vantare di un solo trofeo. Alla vista delle privazioni e degli stenti derivati dalla mancanza dei viveri, al pensiero di lasciar la Lombardia aperta a incursioni barbariche, l'animo mio cedette all'idea di cercare la sospensione delle ostilità; ma le condizioni che mi si proponevano, erano tali che ognuno di voi avrebbe dovuto arrossirne. L'onore dell'armata risplende in faccia a tutta l'Europa, nessuno potrà strapparglielo giammai, ed il vostro re ne sarà sempre geloso sostenitore. Fra brevi giorni ritorneremo a fronte di quel nemico, che molte volte abbiamo visto fuggire dinnanzi a noi: fra pochi giorni lo faremo pentire della sua audacia. Quei pochi che sregolatamente si sono sbandati, riprendano subito le loro file. Io conto su di voi con fiducia, o figli prediletti della patria, che versate il sangue per la sacra causa dell'indipendenza italiana".

Purtroppo neppure la linea dell'Oglio era possibile tenere
bisognava arretrare ancora.
Ma dove?
é il contenuto della prossima puntata
Dall'Adda a Milano - L'ultima Battaglia

Anno 1848 - Atto Dodicesimo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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