ANNO 1849-1856

PROCL. MONCALIERI - LEGGI SICCARDI - CAVOUR - CONNUBIO

IL PROCLAMA DI MONCALIERI - LA IV LEGISLATURA - APPROVAZIONE DEL TRATTATO DI PACE TRA LA SARDEGNA E L' AUSTRIA - COMPITI DEL MINISTRO D'AZEGLIO - LE LEGGI SICCARDIANE E L'AGITAZIONE DEGLI ECCLESIASTICI IN PIEMONTE - IL CAVOUR E I TRATTATI CON LA FRANCIA, COL BELGIO E CON L'INGHILTERRA - LA POLITICA FINANZIARIA DEL CAVOUR - IL DISSIDIO D'AZEGLIO-CAVOUR - LA LEGGE DEFORESTA SULLA STAMPA - IL CONNUBIO CAVOUR -RATTAZZI - RITIRO DEL CAVOUR DAL GOVERNO E NUOVO MINISTERO D'AZEGLIO - II DISEGNO DI LEGGE SUL MATRIMONIO CIVILE - DIMISSIONI D'AZEGLIO - IL "GRANDE MINISTERO" - LO STATO SARDO E IL SEQUESTRO AUSTRIACO DEI BENI DEGLI EMIGRATI LOMBARDI - TUMULTI E SOLLEVAZIONI IN PIEMONTE - LA V LEGISLATURA - LE LEGGI SULLE CORPORAZIONI RELIGIOSE - LUTTI DI CASA SAVOIA - FALLITO TENTATIVO DEL CLERO CONTRO LE LEGGI ECCLESIASTICHE
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APPROVAZIONE DEL TRATTATO DI PACE TRA LA SARDEGNA E L'AUSTRIA

Abbiamo visto nella precedente puntata una serie d'insuccessi mazziniani che procurarono un gran danno al suo partito; e se dopo il tramonto del federalismo, MAZZINI aveva visto ingrossare le sue file, ora con le sue "improvvisate" sollevazioni, tutte finite prima ancora di cominciare, le sue file le vide assottigliare. Ma non per questo la reazione della popolazione lombarda veniva meno. I proclami, le persecuzioni, le condanne, i capestri, esasperavano, bloccavano le attività economiche già in crisi da anni, indignavano e facevano aumentare l'odio per gli austriaci, che ormai non solo erano i padroni della città ma erano diventati i tiranni di un'intera popolazione. Erano tornati a Milano decisi a non far ripetere i fatti del '48.
La perdita di consensi al movimento mazziniano, era provocato inoltre dalle divisioni dello stesso in varie correnti. E fra queste, di giorno in giorno -dopo vedremo il perché - si affermava sempre più il partito monarchico costituzionale e le speranze di molti Italiani tornavano ad appuntarsi sullo Stato Sardo, guidato da Vittorio Emanuele II, e quindi sull'esercito piemontese.

Gradito o no, il Sabaudo era del resto l'unico esercito che esisteva nell'intera Italia del nord. Aiuti stranieri nemmeno pensarci; gli inglesi operavano principalmente sulle coste, con le flotte e non possedevano un esercito terrestre; mentre se qualcuno sperava di ricevere (e ci speravano da tempo) un aiuto dalla Francia, questa, ora non si sapeva con chi stava, non lo sapevano gli Austriaci, gli Inglesi, i Russi, e a non saperlo era la stessa popolazione francese, che in buona parte non approvava Napoleone III e il suo intervento in Italia in difesa della Stato Pontificio.

Il nuovo re, VITTORIO EMANUELE, dopo la disfatta a Novara, aveva stipulato con gli austriaci prima l'armistizio, poi il 6 agosto 1849 il trattato di pace a certe condizioni che anche se era riuscito a non renderle umilianti, erano pur sempre pesanti. E se all'armistizio il neo Re, era stato contestato come "traditore", nella pace con il Radetzky, l'appellativo di cui fu fatto spesso oggetto era quello di "venduto".

I deputati lo accusarono di "alto tradimento", per aver firmato prima l'armistizio e poi la pace "senza chiedere loro licenza". Poi quando tornò a Torino, si scatenarono in una vera e propria insurrezione dentro la Camera. Focosi discorsi, vibranti imprecazioni, teatrali lacrime, deliri patriottici, parole rintronanti ma vuote, ci fu insomma di tutto.
I "suoi nemici" (ed erano tanti, ai liberali si erano aggiunti i monarchici bellicosi) dichiararono incostituzionale tutto quello che aveva fatto; l'armistizio, la cessione della Lombardia, gli oneri finanziari (75 milioni di franchi di indenizzi) ecc. ecc. Qualcuno disse che, nell'accomiatarsi da Radetzky, il "traditore" lo aveva perfino abbracciato e questo era la prova del complotto; cioè che aveva "svenduto" la Lombardia, e "venduto" il Piemonte all'Austria. Altri, più moderati, lo accusarono di inesperienza politica, che doveva far ritorno nelle caserme da dove era venuto e che di politica non capiva nulla. E questo in effetti era anche vero.
L'assemblea propose la seduta parlamentare permanente ed iniziò a discutere alcuni urgenti provvedimenti "perché la patria è in pericolo".
Tutta demagogia anche questa: dimenticavano che il Lombardo-Veneto era stato perso già a Custoza, dimenticavano che gli austriaci erano dentro i confini del Piemonte (ad Alessandria) e dimenticavano che l'intera economia piemontese era in mano austriaca. E per mettere il cappio e strozzare quella poca autonomia che al Piemonte gli era rimasta, l'Austria aveva in mano non una corda ma due; una, era la severa burocratica amministrazione viennese decisa a egemonizzare i lombardi e controllare i piemontesi; l'altra, era il potente esercito. Il "realista" Re, anche se non era esperto di politica, non ne faceva mistero:
"oggi come siamo messi, economicamente e militarmente, da loro dipendiamo"

Alla Camera o fuori, parlavano, parlavano, ma pochi sapevano come si sarebbe comportato il nuovo re. Pochi politici lo conoscevano. Il padre tenendolo lontano dai palazzi governativi e dalla corte stessa, l'aveva voluto conservare puro e libero (e quindi anche grezzo) da ogni impegno, da ogni compromesso, fin quando sarebbe arrivato il giorno fatidico.

Quel giorno era arrivato il 26 marzo, e il giovane Re aveva le sue idee, che non avevano nulla in comune con quelle della politica intricata e prolissa del Parlamento o dei suoi consiglieri.
In caserma se non aveva imparato ad essere solenne, lui grande e grosso dai modi piuttosto popolareschi, nemmeno però aveva imparato a fare il silenzioso. Uscito dai ranghi militareschi, in anticipo di una o due decine d'anni ritrovatosi sovrano in una notte, non fu tanto convinto che doveva diventare solo un simbolo dello stato. Quel "regna ma non governa" che gli spiegarono in fretta e furia salendo al trono, non lo aveva proprio capito, ma neppure volle capirlo (almeno nei primi due-tre anni. Poi arrivò Cavour e iniziò a capire -dal "maestro"- che le due cose erano molto diverse.

VITTORIO EMANUELE iniziò subito a guardare diritto in avanti con realismo istintivo.
Ci basta ricordare l'episodio (dopo Novara) del 26 marzo, quando rientrò a notte fonda a Torino, con la città che pullulava di dimostranti contro l'armistizio che aveva firmato e chiedeva la continuazione della guerra. Il mattino del giorno dopo, il 27 marzo, dopo le infuocate sedute notturne permanenti tenute dai politici alla Camera, una commissione di deputati si recò dal Re a riferire ciò che stava avvenendo in Parlamento e nelle piazze; quindi latori delle proteste. Vittorio Emanuele rispose secco:

"Anch'io desidero la guerra, ma per farla cari signori mi dovete fornire un vero esercito combattente, non un esercito che a Novara si è squagliato in un giorno…. Insomma tornate dai vostri amici, e preparatene uno se siete capaci, poi ne riparleremo….Contro gli austriaci ci vogliono uomini, fucili e soldi, e dalla vostra seduta permanente le tre cose non nascono sotto i banchi, dove voi fate solo chiacchiere".
Insomma, indicò subito qual'era il suo biglietto da visita.

Poi la sera stessa del 27, chiamò la Guardia Nazionale a giurargli fedeltà, il 29 si recò al Parlamento a giurare a sua volta sulla Costituzione (Lo Statuto del Padre). Pronunciò un brevissimo discorso. Firmò un decreto di proroga di quella ostile Camera, ma pochi giorni dopo la sciolse. Con una motivazione molto semplice; ma con che carattere!

"Mi dispiace tanto, ma non posso collaborare con chi mi ha accusato di tradimento. Devo fare appello a dei leali collaboratori, quindi signori si cambia."
Questa volta non indicò il biglietto da visita, ma indicò loro…la porta.

Le violenti contestazioni al sovrano, non cessarono. La campagna di stampa che si scatenò nei suoi confronti fu impietosa, sprezzante e di pessimo gusto. Nei circoli e nei caffè era messo in ridicolo indicandolo come il "bamboccio di Radetzky". Per quasi un mese Vittorio Emanuele assistette in silenzio alla penosa gazzarra demagogica. Intanto per cautelarsi iniziò ad utilizzare le relazioni austriache della consorte, Maria Adelaide. Che furono utili per sospendere l'occupazione di Alessandria, ma anche per umanizzare gli incontri con gli asburgici severi funzionari di Vienna e con il vegliardo Radetzky.
Vittorio Emanuele, dunque si lasciò guidare solo dal buonsenso e dall'istinto; del resto aveva gusti e atteggiamenti non proprio aristocratici ma piuttosto popolari. Ma essendo un realista, entrato subito nella parte, voleva fare, voleva governare, se necessario anche duramente e possibilmente togliendosi di torno le canaglie e i demagoghi.

In agosto andò a Milano dal Radetzky a firmare la pace. Poi in novembre a Moncalieri con un proclama ritornava sulla questione "o guerra o pace".

".... Ho promesso di salvare la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque sia il loro nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono. Questa promessa, questi giuramenti li adempio, disciogliendo una Camera divenuta impossibile, li adempio convocandone un'altra immediatamente; ma se il paese, se gli elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà oramai la responsabilità del futuro, e nei disordini, che potrebbero accadere, non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro stessi. Se io ho creduto essere dovere mio il fare udire in questa occasione parole severe, mi confido che la giustizia pubblica conosca che queste sono dettate al tempo stesso da un profondo amore dei miei popoli e dei loro vantaggi, e sorgono dalla ferma mia volontà di mantenere la loro libertà e di difenderla dagli esterni, come dagli interni nemici. Giammai fin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno, all'amore del suo popolo. Ho dunque il diritto di confidare in lui nell'occasione presente e di tenere per sicuro, che uniti, potremo salvar lo Statuto e il paese dai pericoli che lo minacciano".

Queste parole le scriveva Vittorio Emanuele II il 20 novembre nel proclama di Moncalieri sciogliendo nuovamente la Camera che aveva accolto la mozione di CARLO CADORNA, proponente, contro il ministero, di sospendere l'approvazione del trattato di pace con l'Austria.
Il paese aveva ascoltato con attenzione il monito del sovrano, e grande fu il concorso dei cittadini alle urne.
Le nuove elezioni avvennero sotto l'influsso di quel suo proclama. Nello scorso luglio gli elettori erano stati 30.000. A dicembre salirono a 80.000. A dire il vero aumentarono non per una nuova "educazione politica", né per il proclama, ma perché si esercitò qualche pressione nei luoghi mirati, soprattutto nelle campagne, con l'aiuto di alcuni fedeli monarchici, debitori alla corona di qualche privilegio o proprietà. Una chiamata a raccolta insomma. La maggioranza che ne venne fuori, ovviamente fu un blocco fedele alla monarchia, quindi pronti i nuovi eletti ad approvare in Parlamento tutto quello che il re proponeva e gradiva.

La nuova camera, fu aperta il 20 dicembre del 1849, con il ministro D'Azeglio che ottenne una maggioranza di cinquanta voti.

Il Re trovò subito in MASSIMO D'AZEGLIO un prezioso e valido alleato, il solo uomo politico che era passato attraverso la crisi senza esserne intaccato come reputazione. Il re era soddisfatto di avere al suo fianco quel gentiluomo letterato ed artista, cattolico e volteriano, circondato da una splendida popolarità pur conservandosi uomo semplice.
Si piacquero e si trovarono perfettamente d'accordo che linea seguire. Impossibile era fare la guerra che reclamavano i demagoghi, ma era anche inaccettabile la pace che voleva l'Austria.
Su un'altra cosa si trovarono d'accordo: "soltanto nello Statuto, niente fuori dello Statuto"; quello era di suo padre, ed era sacro, anche se di Costituzioni di altri paesi non sapeva nulla e sui diritti e doveri di un Re costituzionale non aveva idee molto chiare.

Nell'educazione giovanile aveva appreso la rigida coscienza dei doveri della dinastia, in quella militare, i doveri di soldato. Sapeva e distingueva solo una cosa: che la monarchia voleva dire ordine, e che la repubblica era anarchia, disordine, rivolte, rivoluzioni da domare. Questo, gli avevano insegnato in trent'anni, e non era possibile cambiare in un giorno o in un mese

Uno dei compiti più urgenti ed importanti della quarta legislatura, fu quello di approvare il contestato trattato di pace con l'Austria firmato in agosto.
Il 31 dicembre 1849, il D'Azeglio, come ministro degli esteri, presentò il disegno di legge e il 7 gennaio del 1850 CESARE BALBO espose la sua relazione, raccomandando ai deputati una "sanzione quanto più silenziosa possibile della legge proposta". Sul tanto biasimato trattato di pace, Balbo invitò a votare a favore, aggiungendo (che profeta!) che "più che approvare un trattato di pace quello era solo un armistizio di una decina di anni"
Vittorio Emanuele (l'uomo che era stato indicato sprovveduto e incompetente) aggiunse:
"Per essere libero e prospero, occorre che il Piemonte resti alcuni anni senza far parlare di se". (Non conosceva ancora Cavour!)

Il giorno 9 gennaio parlarono contro il trattato di pace gli onorevoli JOSTI, RADICE e LANZA; quest'ultimo, fra le altre cose, disse che non poteva approvare "un patto che disonorava la patria"; ma fu rimbeccato dal D'AZEGLIO, il quale, tra segni e parole di approvazione di molti suoi colleghi (i nuovi eletti), disse:

"Prima di parlare io chiedo l'indulgenza della Camera, perché sono tormentato da una violenta emicrania, per tale motivo io avrei voluto astenermi dal dire molto, ma sentendo che si parla di onore e che si accusa il Piemonte di aver accettato un trattato disonorante, e si accusa me di averlo firmato, grazia a Dio, ho ancora la forza di dire che il Piemonte è un'antica terra d'onore, è un'antica terra militare, e che se noi avessimo fatto un trattato disonorante, i Piemontesi, per il vilipeso onore nazionale, ci avrebbero presi a sassate e non avrebbero mandato così solennemente i loro eletti e darci un forte sostegno. Ed aggiungerò che se, com'è ben noto, l'Europa tutta ha trovato che abbiamo fatto un trattato onorevole, io posso ardire di aggiungere che un trattato disonorevole Massimo D' Azeglio non l'avrebbe firmato mai".
Quel giorno stesso il "trattato di pace" fu approvato con 110 voti favorevoli, 17 contrari e 6 astenuti. Il 18 gennaio il trattato fu approvato anche dal Senato con 50 voti favorevoli e 5 contrari.
Finiva così la crisi. Soddisfazione per Vittorio Emanuele e D'Azeglio, e per entrambi un accresciuto prestigio. Gli fu riconosciuto a Londra, ma non dispiaceva nemmeno a Vienna pur avendo sperato gli austriaci che la crisi allargandosi avrebbe tolto di mezzo il Re e quindi automaticamente lo Statuto.

Quando gli fecero notare che tutti gli altri principi si erano adeguati alla restaurazione e avevano subito stracciato la costituzione che avevano concesso, lui aveva risposto "Più gli altri principi violano i loro giuramenti e più io mi sento obbligato a mantenere il mio!". Razionalmente non sapeva esattamente quello che faceva, ma intanto istintivamente lo faceva. Mettendoci del genuino orgoglio che a molti proprio non dispiaceva.

Superata la difficoltà rappresentata dall'approvazione del trattato di pace, rimaneva al governo sardo di superare tutte le altre difficoltà che ostacolavano il libero sviluppo della vita dello Stato. Poiché era il solo Stato della penisola in cui si conservavano intatte le libertà costituzionali e sul pennone sventolava il tricolore italiano, tutti i nemici interni ed esterni degli ordini liberi si affaticavano a combatterlo o apertamente o slealmente di nascosto. L'Austria e tutti i principi degli Stati d'Italia erano avversi al Regno Sardo; mentre all'interno altro nemico pericoloso era il partito conservatore e quello clericale che dalla Costituzione temevano entrambi apocalittici sconvolgimenti.
Il ministero D'AZEGLIO aveva un compito ben difficile da assolvere. Doveva sanare tutte le piaghe prodotte o acutizzate dalla guerra; restaurare le finanze; riordinare l'esercito; dare impulso alle industrie e ai commerci; applicare con larghezza lo Statuto; dare larga ospitalità agli esuli; fare una politica nazionale senza urtare eccessivamente l'Austria e gli altri Stati della penisola; accostarsi risolutamente alle potenze occidentali senza che il regno diventasse vassallo della Francia; legare strettamente al trono l'elemento liberale di ogni parte d'Italia con l'applicare la legislazione in senso liberale e democratico e con l'indebolire le classi conservatrici, togliendo loro i privilegi di cui godevano.

Scrive il SAVELLI: "Per quanto si atteneva alle faccende interne, il regno di Sardegna, abbisognava di energici provvedimenti nella politica ecclesiastica, perché era lo Stato più arretrato in questa materia, regolata dal concordato del 1828, stipulato sotto gli auspici della "Società dell'amicizia cattolica", e applicato conforme alle idee profondamente religiose di CARLO ALBERTO e del SOLARO DELLA MARGARITA.
Ormai molte istituzioni occorreva "sopprimerle", come il foro ecclesiastico per le cause civili e penali implicanti sacerdoti, per fidanzamenti, matrimoni, decime, eresie, bestemmie, come il diritto d'asilo, che durava tuttora in molte chiese, la dipendenza delle scuole e della beneficenza dalle autorità ecclesiastiche. Oppure "modificarle", come la "manomorta", che fino ad allora non gli era mai stata imposta alcuna restrizione. E meglio"sfruttare" le rendite del clero, amplissime, ma così male distribuite che, mentre l'alto clero aveva molto più del superfluo, il basso campava a stento, tanto che lo Stato lo soccorreva con un milione annuo all'incirca (Savelli)".
Per molti anticlericali le principale accuse sulla "manomorta" erano che le donazioni non erano spontanee, ma erano solo delle estorsione fatte a gente che era in punto di morte, minacciando di castigo divino e pene d'inferno i malcapitati.

LE LEGGI SICCARDIANE

Riusciti infruttuosi i tentativi di modificare il concordato, GIUSEPPE SICCARDI ministro di Grazia, Giustizia e Culto, il 25 febbraio del 1850 presentò alla Camera un disegno di legge, il quale aboliva il foro ecclesiastico, sottoponendo alla giurisdizione civile tutte le cause civili e penali del clero, annullava il diritto d'asilo nelle chiese e nei luoghi sacri, limitava il numero delle feste obbligatorie, imponeva il regio consenso agli istituti ed enti morali ecclesiastici e laici per acquistare o ricevere in dono o ereditare beni stabili; infine prometteva una legge sul matrimonio nei rapporti del diritto civile.

La commissione (PANIERI, RIVA, MOLLARD, BUNICO, FARINA, VINCENZO RICCI e GIACCONE), eletta per esaminare il disegno-legge Siccardi, propose che se ne stendessero tre: uno per l'abolizione del foro ecclesiastico, uno per la diminuzione delle feste ecclesiastiche e il terzo per l'introduzione del matrimonio civile.
La discussione cominciò il 6 marzo 1850 e terminò l'8. Un discorso del canonico PERNIGOTTI, il quale chiedeva se la S. Sede aveva dato il suo assenso, provocò una convincente risposta del ministro SICCARDI, coronata da applausi vivissimi e prolungati. Parecchi altri parlarono, fra cui il BALBO e il REVELA nome della destra, ma il discorso più importante fu quello del 7 marzo del Conte CAMILLO BENSO di CAVOUR, il quale difese la legge con tale lucidità d'idee e con tale acutezza di osservazioni politiche da rivelare tutto il suo ingegno e l'esperienza che si era fatta in giro per l'Europa.
La legge che aboliva il foro ecclesiastico l'8 marzo fu approvata dalla Camera con 130 voti favorevoli e 26 contrari.
Significa che anche l'opposizione democratica votò a favore del governo. I 26 voti erano del clero e dei filo-clericali. Ricordiamo che alla Camera c'erano come deputati pure alcuni vescovi, che alzarono le loro proteste, dichiarando: "il Piemonte è indegno di una religione, l'hanno offesa; il Piemonte è l'obbrobrio e l'onta fra tutte le altre cattoliche nazioni"; e minacciarono le scomuniche.
Un mese dopo anche il Senato la votò con 51 voti favorevoli e 25 contrari.

L'approvazione della "LEGGE SICCARDIANA" fu accolta con entusiasmo da tutti i liberali d'Italia, non così invece - ovvio -dai conservatori, dai retrivi, dai clericali del Piemonte e di tutta la penisola e dalla S. Sede. Il cardinale ANTONELLI richiamò da Torino il Nunzio apostolico e le autorità cattoliche del Regno Sardo iniziarono una lotta accanita contro il Governo, il quale fu costretto a prendere severi provvedimenti contro il clero ribelle.
Monsignor FRANZONI, arcivescovo di Torino, che con lettera pastorale aveva ordinato al clero di non presentarsi davanti ai giudici laici senza il permesso del vescovo; finì sotto processo. E così pure i vescovi di Cagliari e di Sassari, imitatori del Franzoni.

Strillò la stampa clericale prontamente rimbeccata da quella liberale che si fece invece promotrice dell'erezione di un monumento a ricordo perpetuo dell'abolizione del foro ecclesiastico; la S. Sede pronunciò gravissime minacce contro il Piemonte.
Pio IX bollò i "siccardiani" come una "classe di corruttori che si agita per dichiarare guerra alla Chiesa".
Ma non dimentichiamo (è questo è importantissimo per capire l'anticlericalismo che avanzava in Piemonte) che PIO IX, oltre essersi messo contro i "repubblicani" si era messo anche contro i "monarchici", quando con la sua allocuzione (a favore dei "poveri cattolici austriaci") non solo abbandonò al suo destino CARLO ALBERTO, ma con quel defilarsi (a guerra iniziata) gli fece franare l'appoggio di tutti gli altri stati (Napoli, Toscana, Romagna, Roma) che erano accorsi ad aiutare il Sabaudo.
Accadde paradossalmente che, i due poli politici nel votare a favore o contro il trattato di pace con l'Austria, si erano divisi su una questione, ma si erano trovati riuniti su quest'altra, sull'anticlericalismo.
E il Re ora con chi si doveva schierare? con il papa in nome della religione, oppure schierarsi contro i suoi sudditi -addirittura delle due fazioni- entrambe unite e schierate ora contro il papa?

La reazione dell'episcopato piemontese alla legge Siccardi, poi fece il resto rendendosi odioso per certe impopolari iniziative.
Infatti, la situazione si aggravò il 18 aprile. Il Nunzio pontificio per protestare contro la legge Siccardi abbandonò Torino. Contemporaneamente l'arcivescovo FRANSONI diramò una circolare a tutto il clero con le istruzioni circa il modo di comportarsi: levare regolarmente protesta contro le nuove disposizioni di legge.
In pratica ci si metteva contro il Re e contro il Parlamento che avevano votato la legge. Era dunque una chiara ribellione contro i poteri dello Stato, che fece scattare un procedimento giudiziario. Fransoni non comparì davanti ai "nuovi" giudici e questi lo mandarono ad arrestare. L'atto si presentò a molti poco politico, un errore, definito brutto e indecoroso. Per alcuni questa imprudente precipitosa mossa, era un falso rispetto dello Stato e molti rimasero sconcertati e, pur non essendo praticanti, indignati.

Il 23 maggio Fransoni fu condannato ("per le offese contro il rispetto dovuto alle leggi") con un mese di arresto e 500 lire di multa, e tutto si svolse mentre il Re era assente in partite di Caccia nella Savoia.
L'ambiente era già perplesso da entrambi le parti per questo zelo punitivo, quando il 5 agosto fu invece sconvolto da una rivalsa ecclesiastica. Ammalatosi gravemente PIETRO DE ROSSI DI SANTA ROSA ministro dell'industria e commercio, fratello del ministro SANTORRE SANTA ROSA, l'arcivescovo condannato,
vietò al parroco di S. Carlo, certo PITAVINO, dell'ordine dei servi, di somministragli i Sacramenti e vietò pure la sepoltura religiosa al defunto.
Il governo aveva sfidato la Curia con i suoi strumenti,
e la Curia sfidava il governo con i suoi.

Il gravoso fatto causò a Torino commenti e gravi agitazioni in città e scontri fra cattolici e tutti gli altri. Vittorio Emanuele nel frattempo rientrato, non criticò i magistrati che avevano condannato l'arcivescovo, ma criticò aspramente il prelato, ed espresse un….
"sentimento di disprezzo e di indignazione contro l'autore di una simile nefandezza, il quale dimentico dei sacri doveri di religione e di carità, che doveva ispirargli il suo santo ministero, scendeva a sì bassa ed irreligiosa vendetta"...."con questi mezzi, e questi esempi non potremo mai costruire un felice e glorioso avvenire; non sono certo questi i mezzi per combattere i nemici".

D'Azeglio consigliò il Re di essere cauto. Si correva il rischio di far diventare il Fransoni un martire. Per fortuna il popolo sulla questione fu abbastanza distaccato, ed anche il piccolo clero. Solo la passione politica aveva commesso quest'errore, quindi i politici dovevano ripararlo. L'unica cosa era non ritornarci più sopra. Da sola tutta la politica ora avrebbe potuto trarre le sue conclusioni. Bisognava seguire la linea indicata dal re: indignarsi ma poi tirare diritto.
Il governo tenne duro. I frati serviti furono espulsi da Torino e i loro beni sottoposti al regio economato; l'arcivescovo Franzoni non volle rinunziare alla diocesi e prima
fu chiuso nella fortezza di Fenestrelle, quindi mandato in esilio. Lo steso provvedimento fu preso per il vescovo di Cagliari. Più ci furono altri fatti minori, che non elenchiamo, ma che gli stessi servirono solo ad inasprire i rapporti Stato e Chiesa.

CAVOUR NEL MINISTERO D'AZEGLIO


Morto il Santarosa, fu dato il portafoglio dell'Agricoltura e del Commercio (11 ottobre 1850) e, poco dopo, la direzione dell'Amministrazione della Marina al CAVOUR. Il 23 novembre s' inaugurava la seconda sessione della quarta legislatura e il Re, nel discorso della Corona, fra le altre cose diceva:

"In ogni tempo l'impresa più degna dell'umana virtù fu l'ordinare uno Stato a quella libertà che unicamente riposa sopra giuste leggi, imparzialmente applicate ed universalmente ubbidite" (…) "Forti, perché concordi, trapasseremo incolumi le gravi condizioni presenti e ci condurremo a quella sicura ed onorevole stabilità, che può derivar soltanto dalla fiducia dei popoli, fondata sulla fede dei principi e sulla probità dei governi".

E probo in verità, se non proprio all'altezza delle circostanze, fu il ministro D'AZEGLIO: e, sebbene non dirigesse un dicastero di prim'ordine, ebbe parte importantissima Cavour.

Il Conte CAMILLO BENSO di CAVOUR, un deputato della destra moderata, era da qualche tempo che cercava di entrare in un qualsiasi ministero. Era impaziente di mostrare le sue capacità, che nei discorsi in Parlamento (e sul giornale "Il Risorgimento") manifestava. In ogni intervento metteva bene in risalto che lui aveva frequentato i parlamenti esteri e soprattutto aveva visto come agiva quello inglese a Londra; insisteva sulla necessità di promuovere una politica di movimento, destinata a togliere forze allo spirito rivoluzionario. Questo mentre proveniente da Londra, questo "spirito" proprio in questo periodo era tornato (8 settembre) a diffondersi in Italia con il manifesto programmatico di Mazzini che incoraggiava l'azione rivoluzionaria unitaria repubblicana.

D'Azeglio, Cavour lo aveva in antipatia, non l'avrebbe mai chiamato, ma aveva perso un consistente appoggio (Balbo e Revel) della destra nella disputa ecclesiastica. Mandò quindi giù il boccone amaro nel fare di malavoglia quest'opportunista scelta.
Dopo venne il peggio; era insofferente quando Cavour pretendeva di guidarlo, come guidava tutti i ministri e i deputati, che si lamentavano dicendo di lui "vuole tutto dire, tutto sapere, e tutto fare".
Ma bisogna dire che il D'Azeglio in questo clima, lui pacifico com'era, non avrebbe combinato un bel nulla. Inoltre la sinistra di Rattazzi -con una destra debole- iniziava a rivelare qualche ambizione, quella di ritornare al potere. In soccorso arrivò proprio Cavour che decise poi di accordarsi per dominare la situazione, o meglio crearsi un proprio partito; liquidare prima il D'Azeglio con il Rattazzi, poi liquidare anche lui, infine rimanere padrone del governo. Nel '59 poi invertì il ruolo: richiamò e usò D'Azeglio per eliminare Rattazzi.
RATTAZZI era un uomo grezzo, un tedioso uomo di provincia, con un passato triste, uno dei più vivaci nemici dell'armistizio e della pace, aveva anche lui protestato piuttosto energicamente contro il proclama di Moncalieri, sembrava un democratico ma dentro di sé conservava in una forma atavica la devozione monarchica.

Il re era della stessa opinione del D'Azeglio, condivideva l'antipatia per il conte, ne aveva diffidenza, perché gli sembrava a dismisura ambizioso, intrigante e troppo dinamico e spregiudicato nei suoi affari. Detestava perfino suo padre, Vicario della Polizia Regia, che agiva con un autonomo potere assoluto. "Pensateci bene - gli disse a D'Azeglio mentre si accingeva a chiamare Cavour- quello lì vi manderà tutti con le gambe all'aria".
Quando poi in seguito Cavour si prese anche il portafoglio delle Finanze, fu perfino sarcastico e malizioso "Attenzione, quello lì, vi prenderà tutti… i portafogli".

Inghilterra, aveva visto all'opera -e ammirava- i "connubi" dei conservatori e dei progressisti (entrambi flessibili, secondo le pragmatiche circostanze) il D'Azeglio nei suoi confronti appariva un dilettante della politica; e altrettanta incompetenza lo scrittore aveva in economia, che era poi il più grosso problema da risolvere nel regno sabaudo. Inoltre di tattica e abilità parlamentare D'Azeglio non aveva nessuna malizia. Era un puro, un artista, un placido uomo solitario; cioè un carattere (sebbene appartenessero entrambi alla vecchia aristocrazia) contrapposto a quello di Cavour, che invece era frenetico, autoritario, realistico, guardingo, machiavellico, spavaldo e ottimista, Negli affari e poi nella politica si aveva paura a seguire la sua audacia, e non si aveva la forza di ostacolarlo.
Fu un uomo privo di scrupoli che confidava nel "Genio dell'intrigo spinto fino all'eroismo", ma la sua figura è stata ben analizzata e definita da Piero Gobetti "Il ministro piemontese sovrasta ai suoi contemporanei perché guarda gli stessi problemi con l'occhio dell'uomo di Stato".

Cavour faceva parte di quell'aristocrazia arrogante, che addirittura insegnavano ai re cos'erano le tradizioni che dovevano conservare e rispettare. E nel farlo ricordavano quindi ai Re che dovevano solo "regnare ma non governare". Dopo il suo soggiorno e l'esperienza in Inghilterra, Cavour era ancora più convinto; là era il governo a governare, non la monarchia. Negli ultimi anni lo fece capire anche a Vittorio Emanuele, quando il re imparò a valutarlo come uomo prezioso, intelligente; un uomo sicuro per la sopravvivenza della monarchia. Senza i dieci anni di Cavour la dinastia Sabauda corse questo pericolo.

Diffidenza o no, a Vittorio Emanuele ad un certo punto gli fu comodo un uomo così energico per dare una svolta. Utile quando gli si presentò il grosso problema di come purgare la magistratura troppo reazionaria; o quando i rapporti con la Santa Sede si fecero molto tesi e lui non sapeva come riprendere le relazioni con il papa dopo l'episodio del Fransoni. Fino al punto che nessuno voleva accettare l'increscioso compito di andarsi ad esporre con una missione a Roma temendo di uscirne poi con il prestigio a pezzi. La maggior parte sosteneva che era inutile.
E gli fece ancora comodo quando udì pronunciare in Parlamento, dall'impudente cattolico La Tour una frase molto sibillina, perfino inquietante: non esitò il cattolico a ricordare al re che "…in più di un paese le guerre civili erano state causate da contrasti religiosi: ed Enrico IV ne era caduto vittima". Con quel clima che c'era fra Santa Sede e Monarchia Sabauda, suonò come una minaccia! A non tremare fu solo Cavour.

Ma torniamo a questo prima nomina del CAVOUR come ministro dell'Agricoltura e Commercio, nominato tale per la sua competenza nel settore.
Convinto com'era che i progressi economici sono estremamente importanti per la vita politica di un paese egli si dedicò ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese:

(interessante leggere un suo articolo sulla questione apparso sul primo numero del suo giornale il "Risorgimento" > >VEDI >

Cavour lasciò dunque la direzione del suo giornale e si insediò nel governo. Fin dal primo momento nel "muoversi" apparve subito come un uomo superiore di fronte ai pigri colleghi, barbosi, oppure agitati, ma sempre inconcludenti; e proprio per questo il Conte usciva spesso dalle sue competenze per ingerirsi in quelle degli altri dicasteri; lo stesso D'Azeglio con questa continua invadenza, iniziò a sentirsi messo da parte, esautorato, preso a rimorchio; fino a quando un bel giorno disse "non ne posso più" e si ritirò.

Abile Cavour lo era, ed ebbe lui il merito della stipulazione di trattati commerciali con la Svezia, con la Danimarca, con l'Austria, con il Belgio, con l'Inghilterra e con la Francia, con la quale stipulò anche una convenzione per la reciproca tutela della proprietà letteraria e un accordo postale. Viva opposizione incontrò nel paese il trattato commerciale con la Francia, non tanto favorevole al Regno di Sardegna, ma era il meno peggio che si potesse ottenere dal vicino stato protezionista e la Camera, dopo un mirabile discorso del Cavour, lo approvò.
Maggior ostilità incontrarono i trattati con il Belgio e con l'Inghilterra, che ebbero un abilissimo oppositore nel conte OTTAVIO DI REVEL, ma il Cavour con un altro dei suoi magnifici discorsi infranse l'opposizione e il 16 aprile del 1851 i due trattati furono approvati quasi ad unanimità.
A lui si deve anche la riforma doganale, presentata nel gennaio dello stesso anno e discussa nel maggio; si doveva abolire il porto franco di Nizza, ma le molte agitazioni sorte in quella città pur stroncate dal governo con estrema energia, fece sospendere il provvedimento.
Il Cavour non solo si occupava di affari del suo ministero, ma prendeva viva parte tutte le discussioni importanti intorno agli affari degli alti ministeri, sulla politica estera, sull'istruzione pubblica e specialmente sulle questioni finanziarie, in cui mostrava grande competenza.
Proprio nelle discussioni finanziarie ebbe tanta parte da oscurare lo stesso NIGRA, che era lui ministro delle finanze, al quale il Cavour successe nell'aprile del 1851.

L' 8 maggio, delucidando sull'esposizione finanziaria, il Cavour, mostrò che pagati tutti i debiti di guerra e tutte le altre passività, il bilancio del 1851 presentava un disavanzo di trentacinque milioni. Inoltre occorrevano settantacinque milioni per le spese ferroviarie (linee in corso Genova-Torino e Genova-Lago Maggiore).
Per dare assetto alle finanze erano necessari centotrenta milioni, e per procacciarli il ministro proponeva un'operazione di credito all'interno e un'altra all'estero oltre l'approvazione delle nuove tasse proposte dal Nigra. I prestiti furono approvati senza molto contrasto (quello estero di settantacinque milioni fu contratto in Inghilterra a condizioni vantaggiose, quello interno, di diciottomila obbligazioni dello Stato di lire mille ciascuna, fu presto coperto), ma le nuove tasse incontrarono fortissima opposizione e furono approvate con pochissimi voti di maggioranza.

Quantunque il Cavour cercasse di assoggettare i suoi colleghi e si atteggiasse a capo del gabinetto, il suo accordo con il D'Azeglio - i motivi li abbiamo già accennati sopra- durò fino a tutto il gennaio 1852. Con la forte brama di comando e con lo spirito d'iniziativa eccessivamente traboccante del Cavour non poteva durare oltre. Occasione al dissidio fu data dal disegno di legge sulla libertà della stampa presentata dal ministro DEFORESTA il 17 dicembre del 1851.

Il disegno di legge era stato provocato dal linguaggio violento e ingiurioso della stampa ultraliberale, contro i sovrani anticostituzionali e in particolar modo contro Napoleone III, che da Presidente della Repubblica Francese era stato dal plebiscito del 2 dicembre 1851 nominato imperatore e dai liberali italiani estremisti considerato traditore della causa della libertà.
Il disegno di legge che proponeva di togliere ai giurati il giudizio sulle offese fatte per mezzo della stampa ai capi di Stati esteri e di sottoporlo ai tribunali civili e criminali era ben visto dal D'Azeglio e dal Cavour che per i fini nazionali seguivano una politica di avvicinamento all'Inghilterra e alla Francia e miravano perciò ad ingraziarsi di là delle Alpi il potente vicino, ma era ben visto anche dai reazionari, che speravano fosse un primo passo verso il ritorno al passato, e dalla destra parlamentare composta di Savoiardi poco amici della causa nazionale e di rappresentanti di opinioni molto moderate, che pur accettando lo Statuto, erano contrari a quello che loro chiamavano "abusi di libertà".

Sulla guerra Cavour aveva una sua filosofia: "Non dovevano ripetersi "quarantottate" che avrebbero allarmato i conservatori; ciò che occorreva era una guerra regolare, non una rivoluzione popolare. Cavour guardava lontano, mirando a coinvolgere se necessario, persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto mondiale; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo" e affermava: "noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa". Il seguito, gli inglesi (pur all'inizio apprezzandolo) rimasero addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, "senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore" cercasse in modo così deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati" (C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307 - G. Massari, Diario delle cento voci, Bologna 1959, pag. 116, 140, 142, 147,148, 206. - D. Mack Smith, Univ. Cambridge, Storia del Mondo Moderno, Garzanti, 1970-82, X vol, pag.734 ) .

IL CONNUBIO CAVOUR - COME NACQUE

La destra e l'estrema destra facevano parte della maggioranza ministeriale; tuttavia Cavour non era lieto di quell'appoggio; lui che era il capo del centro destra, avrebbe invece preferito quello del centro sinistra perché aveva in comune gl'intenti: libertà all'interno, indipendenza all'estero; perciò vagheggiava da qualche tempo la costituzione di una nuova maggioranza con l'unione dei due centri.
Avendo deliberato di conseguire il suo scopo, il Cavour comunicò i suoi propositi a LUIGI CARLO FARINI, ministro dell'Istruzione, che la pensava come lui, ma, non rivelò il suo disegno agli altri colleghi, che sapeva contrari, ma era tuttavia convinto che avrebbero accettato il fatto compiuto. Appunto per questo, intermediari gli onorevoli MARTINI e CASTELLI, il 2 febbraio 1852, FARINI s'incontrò con URBANO RATTAZZI, capo del centro sinistra e con lui stabilì che, messa in discussione la "legge Deforesta", il RATTAZZI avrebbe dichiarato di non potere per quella volta sostenere il ministero, ma avrebbe promesso di appoggiarlo in futuro a patto però che il gabinetto abbandonasse la destra.
Il Cavour che approvò e accettò il piano concordato rimase nell'attesa del giorno dopo, forse già scrivendosi il discorso.

Il 3 febbraio cominciò la discussione della legge Deforesta. Il 4 febbraio c'era il voto, e URBANO RATTAZZI a quel punto dichiarò di essere dolente di combattere in quell'occasione il Governo ed accennò all'opportunità di riunire nella futura sessione le forze liberali. Quel giorno parlò in favore del disegno il MENABREA, esponente dell'estrema destra, il quale chiese che "la legge sulla stampa doveva essere modificata nei riguardi alle offese della Religione e dei suoi ministri".
Il 5 febbraio, il CAVOUR, rispondendo al RATTAZZI e al MENABREA (il D'Azeglio era assente perché ammalato) rilevò l'importanza delle benevoli espressioni rivolta dal Rattazzi al ministero e aggiunse:

"Mi corre inoltre l'obbligo di ringraziarlo della dichiarazione che egli volle far precedere al suo discorso, con cui fece promessa d'accordare il suo appoggio al ministero nella futura sessione, in vista delle gravi circostanze in cui versa il paese; promessa di cui prendo atto, promessa che io apprezzo altamente, poiché, se le circostanze consentono che l'onorevole oratore possa mandarla ad effetto, noi possiamo riprometterci che, se nella futura sessione egli impiegherà nel difendere il Ministero una sola parte di quell'ingegno che ha fin ad ora impiegato nel combatterlo, noi possiamo riprometterci, dico, di vederci spianata di molto la via nelle parlamentari arringhe".
Poi attaccò il Menabrea e i suoi partigiani, dichiarando che:
"…il Ministero non avrebbe mai seguito coloro che, menomando la libertà di stampa, credono di giovare alla Religione e che non avrebbe dato tregua - anche se il ministero perdesse in modo assoluto il debole appoggio del Menabrea e dei suoi amici politici- a chi si era messo alla testa di coloro che si preoccupavano delle idee di conservazione a tal punto, da dimenticare i grandi principi di libertà".
.
Il connubio, come fu chiamato l'unione dei due centri, non tardò a dare i suoi frutti. Apertasi il 4 marzo 1852 la terza sessione parlamentare, il RATTAZZI fu eletto con l'aiuto del Cavour vicepresidente della Camera. Il D'AZEGLIO non avrebbe voluto, ma accettò, sebbene a malincuore, il fatto compiuto; ma quando, morto PIER LUIGI PINELLI presidente della Camera, il Cavour e il Farini, contro tutti gli altri colleghi, sostennero l'elezione alla presidenza del RATTAZZI, avvenne la rottura tra il Cavour e D'Azeglio.
Il metodo seguito da Cavour? Forse in Inghilterra gli era rimasta in testa questa frase riportata più tardi su un libro: "I vari gabinetti, si formano e cadono a secondo degli accordi e degli intrighi di palazzo, praticamente senza alcun rapporto con ciò che succede in Parlamento" (Bayle St. John, The Subalpine Kingdom, London 1856, vol II, pag 57-58).
Infatti, "Spesso si servì di funzionari governativi per garantirsi che i candidati d'opposizione non fossero eletti in Parlamento. Riconosceva in questa pratica una componente necessaria del suo sistema; e non si arrestò neppure di fronte a provvedimenti illegali quando volle sopprimere dei giornali dell'opposizione" (C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L. Chiala, 7 vol., Torino 1883-87, vol, VI, pag. 130)

II 16 maggio 1852, cinque giorni dopo l'elezione del RATTAZZI, il Ministero diede le dimissioni. Il re incaricò di formare il nuovo gabinetto lo stesso D'Azeglio, che chiamò intorno a sé il LA MARMORA, il PALEOCAPA, il PERITATI di Morno, il BUONCOMPAGNI e LUIGI CIBRARIO.
Nel dare annunzio della composizione del nuovo ministero, il presidente del Consiglio dissi (22 maggio 1852):
"E mio debito dare alla Camera alcune brevi spiegazioni sulla passata crisi ministeriale in momenti difficili, affinché nel pubblico sia tolta ogni occasione ad appassionati commenti. Sorsero dissensi nel gabinetto non sopra questioni di principi, bensì su questioni di modo nella loro applicazione. Il gabinetto dovette rassegnare a S. M. i suoi poteri. II re desiderò incaricarmi di formare una nuova amministrazione. Io lo ringraziai di questo segno della sua fiducia, ma al tempo stesso lo pregai di voler considerare quanto mi sentivo affievolito per i travagli di salute e di mente sostenuti negli ultimi anni, e come non mi rimanesse pressoché altra forza fuori che quella del buon volere. Rispose il re bastargli questa e credere utile al servizio suo e del paese che io assumessi l'incarico: io non cercai altro e lo assunsi. Lo assunsi perché confido in ben altre forze che non sarebbero le mie. Confido in quella benevolenza con la quale sono seguito dal Parlamento e dalle parti che lo compongono. Confido ancor più nel sentimento d'amor patrio, in quella facilità alla concordia, che ci ha già visti fra tante difficoltà, e ci ha dato abbastanza virtù per uscirne con il nostro onore e con la libertà inviolata. Confido nell'aiuto dei nostri antichi come dei nuovi amici ed altrettanto in quello dei miei nuovi colleghi. Confido finalmente in quell'inconcussa lealtà che veglia dall'alto sulle sorti dello Stato e che sarà, come fu sempre, nostra guida e sostegno. Il programma del ministero non è mutato. Fermezza nel sostenere gli ordini costituzionali e proseguimento delle iniziate riforme: fede ai patti giurati all'interno: fede ai patti giurati all'esterno: indipendenza intera ad ogni costo, sempre. Su queste basi, e con la convinzione che non gli mancheranno gli accennati aiuti, il ministero riprende animoso la sua via. Ove le sue previsioni fallissero, Iddio che vuole salvo il Piemonte saprà affidare a migliori strumenti l'opera sua. A noi rimarrà il conforto di avere in momenti difficili, fatto quanto si poteva ed era nostro dovere fare".

Il nuovo ministero, proseguendo l'opera iniziata dal Siccardi, presentò per mezzo del guardasigilli BONCOMPAGNI il 12 giugno del 1852 un disegno di legge sul matrimonio civile che fu approvato dalla Camera dei deputati il 5 luglio con 100 voti contro 25.
Mentre si aspettava l'approvazione poco probabile del Senato, il re ricevette una lettera dal Pontefice, resa pubblica dai giornali, con la quale PIO IX esternava vaghe minacce di castighi divini e pregava VITTORIO EMANUELE di "…non sanzionare quella legge fertile di mille disordini". Il re, impressionato da quella lettera, dichiarò il 21 ottobre al consiglio dei ministri che non avrebbe concesso la sanzione alla legge, e il D'Azeglio con i suoi colleghi, il giorno dopo rassegnò le dimissioni.

Per indicazione dello stesso D'Azeglio, Vittorio Emanuele chiamò il CAVOUR, reduce da un viaggio a Londra e a Parigi, il quale, non volendo accettare la condizione impostagli dal re d'intendersi con Roma, indicò il BALBO. Questi accettò, ma poi, viste le difficoltà di formare un gabinetto, rifiutò l'incarico, che il 2 novembre fu affidato nuovamente al Cavour.

IL "GRANDE MINISTERO"

Il 4 novembre 1852 il ministero era già formato: CAVOUR ebbe la presidenza del Consiglio e il portafoglio delle Finanze; gli altri ministri furono: DABORMIDA agli Esteri, S. MARTINO agli Interni, BUONCOMPAGNI alla Grazia e Giustizia, LA MARMORA alla Guerra, PALEOCAPA ai Lavori Pubblici, CIBRARIO all'Istruzione. Questo ministero, che, attraverso varie crisi e rimpasti, durò fino al 13 luglio del 1859, fu comunemente chiamato il "Grande ministero", e, principalmente per opera del suo presidente, preparò la riscossa del Regno Sardo sabaudo, portando via allo straniero una grande regione, ma oltre a questo successo, il piccolo Piemonte entrò di prepotenza -grazie proprio al disinvolto suo primo ministro- ad essere partecipe della politica europea.

CAVOUR nel formare il governo, aveva promesso al re di non porre la questione di fiducia sul disegno di legge intorno al matrimonio civile nel Senato, di lasciar insomma cadere la controversia sulla questione. Portata la legge alla Camera Alta, iniziò a metà dicembre la discussione, il 20 l'esame degli articoli; il 1° (articolo che prevedeva di sposarsi solo con il rito civile) fu respinto con 39 voti contro 3; allora il ministero ritirò il disegno (21 dicembre).

RATTAZZI: CONFLITTO DIPLOMATICO AUSTRO-SARDO

Poco tempo dopo scoppiava un conflitto diplomatico tra il Regno Sardo e l'Austria, che faceva convergere tutti gli sguardi dei patrioti italiani su CAVOUR. Il conflitto traeva origine (in seguito al moto mazziniano del 6 ottobre 1853 ) dal sequestro ordinato dall'Austria (come abbiamo visto nel capitolo Lombardo-Veneto) dei beni dei profughi lombardo-veneti, compresi quelli che avevano preso la cittadinanza sarda; un sequestro che essendo retroattivo, violava l'amnistia concessa nel 1851 e il recente trattato commerciale austro-sardo.
CAVOUR prese le difese degli emigrati inviando a Vienna un'accigliata anche se dignitosa protesta, appoggiata dai Gabinetti di Londra e di Parigi, ma, non avendo raggiunto lo scopo di far revocare il sequestro, senza esitazione, ordinò al conte REVEL, ambasciatore a Vienna di abbandonare per protesta la capitale austriaca, e indirizzò alle potenze europee un memoriale in cui accusava l'Austria di:
"aver violato il diritto delle genti, di aver strappato una pagina dal suo codice civile, di non aver mantenuto le promesse, di avere annullato un trattato recentemente concluso, e dallo Stato Sardo invece scrupolosamente osservato"
e terminava dicendo:

"Noi non possiamo tollerare, senza mancare all'onore e ai più sacri doveri, che il governo austriaco per semplici supposizioni si permetta di violare diritti ben stabiliti e incontestabili con il sequestrare i beni di tante famiglie i cui membri sono divenuti, secondo le leggi dei due paesi, cittadini sardi. Per questo grave attentato noi richiamiamo alla coscienza meglio conformata dei ministri imperiali ed invochiamo i buoni uffici dei sovrani alleati ed amici".

Era la lettera di un uomo che senza avere nessun timore riverenziale per l'Austria, che era considerata la più grande potenza d'Europa, la metteva alla berlina. Inoltre -in fondo- parlava d'alleati e amici.

Mentre il Cavour si rivolgeva alle potenze, il parlamento votava un sussidio di quattrocentomila lire per gli emigrati colpiti dal sequestro, sussidio che fu orgogliosamente dagli esuli rifiutato. Seguì la partenza da Torino dell'ambasciatore austriaco conte APPONY, anche se le relazioni fra i due stati non rimasero interrotte.

Messo in mezzo da Cavour i governi francese e inglese, l'Austria, per bocca del ministro BUOL, rispose "non esser vero che il governo imperiale fosse deciso, come prima gli era venuto in animo di sequestrare indistintamente i beni tutti dei fuorusciti. Si fanno invece i processi, come vogliono le leggi, per accertare il contegno dei proscritti lombardi nella tentata sommossa del 6 febbraio: l'Austria reintegrerebbe subito il libero possesso dei beni di tutti i fuorusciti, se rimane provato che essi non hanno partecipato né offerto aiuto a quel tentativo di ribellione".

In quel conflitto il governo cavouriano mantenne un contegno così corretto e così fermo che le simpatie dell'Inghilterra per il Regno di Sardegna aumentarono; si consolidò pure il connubio parlamentare dei due centri, ma cosa più importante, il Conte con la fermezza e il suo agire, si conquistò tutto ad un tratto l'affettuosa stima dei liberali del Piemonte e delle altre parti della penisola.

Nella considerazione dell'Europa, dei liberali italiani e di Vittorio Emanuele cresceva di giorno in giorno il Cavour, anche perché con questo governo il commercio iniziava a prosperare in maniera molto confortante. Ma nonostante questo, le finanze dello stato non erano floride, ed il bilancio era sempre in deficit. Il Cavour aveva cercato di aumentare il reddito con nuove imposte (basandole non solo sulle indirette ma anche su quelle dirette, che colpivano soprattutto i grandi redditi) ma aveva cosi dato motivo ai conservatori, ai clericali e in genere a tutti i nemici della sua politica di spargere il malcontento che nell'autunno del 1853 ben strumentalizzato provocò dei tumulti a Torino e una sollevazione nella Val d'Aosta.

Il 18 ottobre 1853, a Torino la plebaglia, istigata dagli avversari del grande statista che lo dipingevano come "l'affamatore", assalì la casa del Cavour; fu presto dispersa ma il fatto increscioso, fece aumentare le simpatie e il prestigio del ministro.
Verso la fine dell'anno alcuni contadini valdostani occuparono Chatillon, s'impadronirono del palazzo municipale, buttarono giù il tricolore, quindi mossero verso Aosta con il proposito di proseguire verso Torino e abbattere la costituzione. Il governo gli mandò incontro un buon contingente di truppe e i pochi e isolati ribelli furono presto dispersi.

Sebbene gli avversari non cessassero d'intrigare contro di lui, Cavour consolidava
sempre di più la propria posizione. Il connubio con il centro sinistro diventò più stretto quando URBANO RATTAZZI sostituì il BUONCOMPAGNI (27 ottobre 1853) al ministero di Grazia e Giustizia, che poi nel 1855 doveva lasciare per quello degli Interni.
Il Senato (composto da vescovi e gente che era nata ancora nel '700) si mantenne gran parte contrario al Cavour e la sua opposizione sistematica -su quasi tutto- alla fine provocò lo scioglimento della Camera dei Deputati prima del termine della legislatura.
Fecero un favore al Cavour!

Dichiarando al re le ragioni di tale deliberazione (20 novembre 1853) il Cavour così diceva (anzi attaccava):
"Alcuni voti emessi nel corso della presente sessione dal Senato hanno dato motivo di sospettare che il ministero non abbia più l'appoggio di questo Consiglio. Siccome si tratta di un'assemblea essenzialmente conservatrice e composta di uomini autorevoli, potrebbe argomentarsi che il ministero, benché sostenuto dalla grande maggioranza della Camera elettiva, non possieda più l'appoggio della maggioranza delle popolazioni. In tale stato di cose sembra a noi che sia rigoroso dovere di ministri affezionati alle libertà costituzionali, che per conservarle desiderino ardentemente un perfetto accordo fra i grandi poteri dello Stato che in ogni tempo e soprattutto nelle presenti circostanze hanno bisogno di sentirsi forti della benevolenza del paese come pure dell'aiuto certo dello due Camere, ci sembra, diciamo, che noi adempiamo ad un dovere rigoroso di ministri proponendo alla M. V. che voglia per mezzo di nuove elezioni interrogare il libero voto della nazione".

L'8 dicembre ci svolsero le elezioni invocate, che diedero al ministero una forte maggioranza, e il 19 dicembre si inaugurava la prima sessione della nuova legislatura con un discorso della Corona in cui il sovrano, fra le altre cose, diceva:

"Recato a compimento l'edificio della quasi restaurata finanza, procederò alacremente nella via delle riforme economiche, fatto ormai sicuro dai lumi di non dubbia esperienza; ed estendendo ai prodotti del suolo i principi fecondi del libero scambio, procurerò ai proprietari largo compenso con la riforma del catasto e con istituzioni di credito, innanzi alle quali verrà a dileguarsi l'usura. Assicurata l'indipendenza del potere civile, esso proseguirà nella sfera di azione che gli compete, l'opera delle intraprese riforme, inteso questo ad accrescere, non a menomare, l'affetto e la reverenza dei popoli per la Religione degli avi nostri, e rendere più efficace, non ad affievolire la sua salutare influenza. Dovrò provvedere perché meglio si conformino ai nuovi ordini il reggimento e l'amministrazione dei comuni e delle province, perché si compia la riforma dei codici, si tuteli la pubblica sicurezza, si costituisca, la magistratura, si riformino le vari parti del pubblico insegnamento. Il valoroso esercito, che si va continuamente segnalando per nuovi progressi sarà anch' esso oggetto di sollecitudini"

Il discorso, applauditissimo, così terminava:
"Nel compiere questa missione io confido in Dio, nella saggezza e concordia dei grandi poteri dello Stato, nel buon senso e patriottismo, di cui la nazione ha dato così notevoli e così recenti prove. Fidate voi di me, ed uniti coroneremo il grande edificio, che la mano di mio padre ha innalzato e che la mia saprà difendere e conservare".

Nonostante la vittoria elettorale, il ministero si trovava in una situazione molto delicata perché da una parte non doveva irritare troppo il partito conservatore riformando con troppa sollecitudine e radicalmente gli abusi, dall'altra non doveva esser troppo arrendevole con i più esaltati. Pur tuttavia con molto tatto e molta prudenza Cavour seppe superare non pochi ostacoli. Con il differire la legge sul matrimonio si rese più benevola la Curia Romana, che accennava anzi a scendere ad amichevoli composizioni. Infatti, il Pontefice
approvò la riduzione di alcune feste religiose e nel breve intervento usò parole molto affettuose per Vittorio Emanuele. Ma questo contegno della Santa Sede mutò improvvisamente quando il RATTAZZI, il 28 novembre del 1854 presentò un disegno di legge per la soppressione di alcune corporazioni religiose e per l'incameramento dell'asse ecclesiastico.

LE LEGGI SULLE CORPORAZIONI RELIGIOSE

Da parte della S. Sede, dei clericali e dei conservatori fu fatto di tutto per mandare a monte il disegno; la stampa cattolica usò un linguaggio violentissimo, Pio IX, in una
sua allocuzione, dichiarò il governo sardo "persecutore dei sacri ministri, calpestatore della fede dei trattati, violatore delle libertà ecclesiastiche, fautore del comunismo e del socialismo", e minacciò gli autori, promotori ed esecutori della legge delle censure della Chiesa, si cercò perfino di turbare la coscienza del re facendolo rimproverare da monsignor Charvaz, suo precettore.

Le discussioni alla Camera del disegno cominciarono il 9 gennaio del 1855, ma furono interrotte il 12 per la morte della regina Maria Teresa, madre di Vittorio Emanuele; si ripresero le sedute il 21, ma si sospesero subito i lavori per l'annunzio della morte della regina MARIA ADELAIDE D'AUSTRIA, moglie del sovrano, avvenuta il giorno prima.
Il 26 gennaio, si riaprì la Camera ma, dovendo discutere d'urgenza sul trattato d'alleanza con le potenze occidentali, RATTAZZI rimandò la discussione del disegno al 12 febbraio; ma l'11 dello stesso mese ci fu la morte del duca di Genova, FERDINANDO MARIA ALBERTO fratello del Re, e si dovetti rimandare ancora la discussione.

Finalmente, ripresa la discussione, la legge fu approvata il 2 marzo 1855 con 116 voti contro 36. La discussione al Senato cominciò il 23 aprile, ma già il sovrano, volendo tentare un accordo diretto con il clero, si era rivolto a monsignor NAZARI di Colobiana vescovo di Casale e senatore del regno. Questi, messosi, con l'autorizzazione della S. Sede, d'accordo con il senatore BILLIET, arcivescovo di Chambery, e con monsignor GHIBERTI, vescovo di Mondovì, presentò il 24 al re e lesse il 26 al Senato la seguente proposta:

"I vescovi degli Stati Sardi devoti alla Maestà del Re e ossequiosi al suo Governo ma nello stesso tempo o per affetto e per debito sacro indeclinabilmente legati alle prescrizioni inviolabili della Chiesa, presentono in loro cuore, non senza grave angoscia, le funestissime conseguenze, che trarrebbe seco la legge sulla soppressione di comunità religiose e di stabilimenti ecclesiastici, qualora dai poteri dello Stato fosse adottata e sancita.
Desiderosi perciò di allontanare da questa nazione, eminentemente cattolica, il temuto infortunio, e di tutelare con i principi di giustizia i diritti della Chiesa, consci quali sono le difficili contingenze finanziarie dello Stato, e rammentando come la Chiesa medesima nelle pubbliche calamità sia venuta sempre in sollievo dello Stato, per organo dei sottoscritti vengono a rassegnare all'augusto sovrano Vittorio Emanuele II ed al suo Governo la seguente proposta: Siccome il fine principale della progettata legge, secondo le espressioni letterali del ministro di finanze nella sua relazione, sarebbe quello di trovar modo di sopperire alle lire 930,000 destinate alle congrue dei parroci di terraferma, così i vescovi sottoscritti debitamente incaricati dichiarano che, ove quella legge venga perentoriamente ritirata, l'episcopato acconsente che detta somma sia imposta e ripartita su tutto l'asse ecclesiastico di terraferma, e si rende fin d'ora garante della autorizzazione della Santa Sede, purché dal Governo siano accettate le condizioni seguenti:
1° - Che la presentazione di cui si tratta, la quale comincerebbe a decorrere dal 10 luglio 1855, sia riguardata come una misura provvisoria e in concerto con la Santa Sede;
2° - Che il riparto della suddetta prestazione si faccia dall'autorità ecclesiastica su tutto l'asse della Chiesa in quel modo che sarà dalla medesima Santa Sede designato;
3° - Che il regio apostolico economato concorra a formare la predetta somma con quei mezzi di cui potrà disporre, e principalmente con le rendite dei benefizi vacanti.

L'episcopato crede con ciò di offrire al Re un prezzo non dubbio dell'illimitata sua devozione e di prestare alla patria un sincero atto del suo inalterabile attaccamento e confida che una simile proposta abbia a preparare fra la Chiesa e lo Stato quella concordia per cui si felicitano i popoli e crescono unicamente e si rafforzano i regni".
.
Il ministero, giudicando inaccettabile la proposta del Colobiana e volendo lasciar libera la Corona, quel giorno stesso si dimise e il sovrano affidò l'incarico di formare il nuovo Gabinetto al generale GIACOMO DURANDO, che teneva il portafoglio della Guerra in assenza del La Marmora, partito per la Crimea-

Di questo intervento di Vittorio Emanuele II a interporsi con il Parlamento, e appoggiare la proposta del vescovo, i veri motivi non sono noti. Chi afferma che fu tentato di avere subito a disposizione quella somma, chi afferma che voleva essere sempre lui il protagonista della politica, e altri affermano che questa apertura al clero fu dettata dalla improvvisa scomparsa il 20 febbraio della moglie Maria Adelaide e l'11 febbraio del fratello Ferdinando duca di Genova. Si disse che i due lutti così vicini lo avevano riavvicinato a Pio IX e al clero piemontese. Ne approfittò subito lo schieramento clericale e quello conservatore sollecitando i re ad appoggiare la proposta del vescovo

Ma non riuscendo il DURANDO a costituire un ministero liberale che accettasse la proposta Colobiana, Vittorio Emanuele, preoccupato del contegno minaccioso da parte dei Torinesi, irritato dal fatto che la S. Sede non voleva togliere alla proposta quanto era lesivo ai diritti dello Stato e consigliato da molti, specie dal D'Azeglio che in una lettera, assicurandolo non trattarsi "di religione ma d'interessi" lo aveva ammonito di non andare più avanti nella strada che aveva preso, il 3 maggio il Re richiamò Cavour.

Ritornato in carica il Ministero, il Senato riprese la discussione interrotta e i 22 maggio approvò con 53 voti contro 42 il disegno di legge leggermente modificato, il quale, ripresentato alla Camera fu il 29 approvate anche in questa con 95 voti contro 23 e nel giorno stesso sanzionato dal re.

Il 30 maggio si chiuse la sessione. La posizione del Grande Ministero era uscita così salda dalle lotte fra clericali e i conservatori, che la "scomunica" di tutti i deputati e i senatori, annunziata dal Papa il 26 luglio "contro i committenti, fautori, consultori, aderenti ed esecutori delle leggi ecclesiastiche" non si osò neppure pubblicarla in Piemonte e gli stessi preti poveri disubbidirono all'ordine di accettare i soccorsi dal Governo.

La legge per il clero fu pesantissima. Questi gli ordini religiosi maschili che furono soppressi: Agostiniani - Carmelitani scalzi e calzati - Domenicani - Filippini - Certosini - Benedettini - Cisterciensi - Olivetani - Cappuccini - Passionisti - Canonici di S. Egidio - Servi di Maria e altri minori. Quelli femminili:  Clarisse - Terziarie francescane - Celestine - Battistine - Benedettine cassinesi - Canonichesse lateranensi - Cappuccine -  Carmelitane scalze e calzate -Cisterciensi - Crocifisse benedettine - Domenicane - Terziarie - Francescane.
Oltre che alla soppressione furono incamerati anche i beni; soprattutto terreni e immobili. La cui destinazione fu però un vero e proprio "pasto" degli "avvoltoi".

Fin qui abbiamo parlato di problemi interni
ma nello stesso periodo ci furono altre controversie di grande importanza,
che determinarono la rottura dell'equilibrio politico europeo
creatosi dopo il Congresso di Vienna.
La cosiddetta "Questione d'Oriente".

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anno 1849 -1856 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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