ANNO 1859-1860

MORTE FERDINANDO II - RIVOLUZIONE IN SICILIA
I "MILLE" DA QUARTO A MARSALA-

MORTE DI FERDINANDO II - FRANCESCO II SUL TRONO DELLE DUE SICILIE - AGITAZIONI NEL NAPOLETANO E FERMENTO RIVOLUZIONARIO NELLA SICILIA - FRANCESCO CRISPI - ROSOLINO PILO - IL PILO E GARIBALDI - L'ASSALTO AL CONVENTO DELLA GANCIA IN PALERMO - LA RIVOLUZIONE IN SICILIA - PREPARATIVI GARIBALDINI PER LA SPEDIZIONE IN SICILIA - II CAVOUR E LA SPEDIZIONE - LA PARTENZA DA QUARTO - GARIBALDI A TALAMONE - LA COLONNA ZAMBIANCHI NELLO STATO PONTIFICIO - LO SBARCO A MARSALA

(SULLE GESTA I TEMPI E LA VITA DI GARIBALDI
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FRANCESCO II RE DELLE DUE SICILIE

Mentre nell'Italia Settentrionale la guerra sferrata dall'esercito piemontese e francese era appena all'inizio e nella sua fase più delicata (varcava il Ticino ed entrava in territorio austriaco), il 22 maggio del 1859, dopo una malattia durata quattro mesi, moriva a quarantanove anni FERDINANDO Il di Borbone, re delle Due Sicilie.

FERDINANDO II, Lasciava il suo trono al primogenito 23enne FRANCESCO II, duca di Calabria. "FRANCESCHIELLO", così era chiamato dal popolino, sarebbe stato l'ultimo Re di Napoli, discendente di Carlo III, figlio del re di Spagna Filippo V di Borbone; Carlo III aveva conquistato il Regno nel 1735, scacciando gli austriaci e dando l'indipendenza alle Due Sicilie, dopo secoli di vicereame; passato poi al trono di Spagna, a Napoli gli successe il figlio Ferdinando I, detto "Re Nasone", poi Francesco I e, infine, Ferdinando II, chiamato dagli inglesi in una vasta campagna diffamatoria "Re Bomba". Quest'ultimo aveva organizzato le Forze Armate con particolare cura, costituendo una moderna e numerosa marina e un esercito ben armato, equipaggiato e addestrato ottimamente. Quello che gli mancava però era degli ottimi generali.

FERDIANDO II aveva perseguito una politica di assoluta neutralità e di "isolamento" dal contesto italiano ed europeo; inoltre aveva duramente represso ogni tentativo di riformare le leggi del Regno. Questa politica aveva posto la sua dinastia al di fuori di quel processo politico-militare che aveva quale obiettivo l'indipendenza e l'unità di tutta la penisola italiana. La costituzione, concessa dopo i moti del 1848, non era mai stata abrogata, ma Ferdinando la ignorava, consegnando così il governo del paese ai circoli più reazionari della corte, mentre le menti più riformiste ed illuminate del Regno erano relegate ai margini del potere.
Quanto all'isolamento, si afferma da più parti, che la politica borbonica fosse protezionista, in opposizione a quella del nuovo stato unitario che era presentato come "liberale". Ma era una scelta locale. Del resto, resta il fatto che ben presto anche il Piemonte dovette introdurre dazi per proteggere la sua nascente industria del nord che, come quella nascente del sud (prima che fosse, cioè smantellata dai conquistatori piemontesi), non avrebbe potuto diversamente competere con quella francese o inglese.
Certamente il modello di sviluppo borbonico aveva contraddizioni, anche se queste non furono poi comparabili alle contraddizioni introdotte dal modello piemontese, che per il Sud furono distruttive.
Indubbiamente con un Sud indipendente, la situazione sarebbe stata meno drammatica, sia in termini economici sia umani, e soprattutto si sarebbe potuta risolvere in un altro modo quella che poi diventò per l'Italia Unita, la "questione meridionale". Li risolse invece i suoi problemi l'ex Stato Piemontese che prima della "conquista" non viveva in condizioni proprio per nulla migliori; era lo Stato più indebitato d'Italia e uno dei più arretrati d'Europa.
Il "Diritto", un giornale non sospetto, così scriveva: "L'interesse del Debito Pubblico nel Regno delle due Sicilie non arrivava a cento milioni nel 1860; e, dieci anni dopo, al 31 dicembre 1870, era salito a lire 269,388,493; al 31 dicembre 1880 alla somma di lire 433,710,345; che è insomma il prezzo della rivoluzione italiana pagata dal sud a beneficio del nord."
"Nello Stato Sardo, sembra che il bilancio annuale ammontasse quasi al doppio della somma complessiva dei bilanci dei singoli stati annessi prima del 1860, e che le uscite superassero talvolta le entrate quasi del 50 per cento"
(Mack Smith, op. cit.)
Cattaneo
non riusciva a concepire come avrebbero potuto essere valide alcune leggi e istituzioni concepite per il Piemonte, ma estese ad altre regioni senza tener conto di alcuni elementi linguistici, psicologici e sociologici delle rispettive popolazioni. Sosteneva in "Psicologia delle menti" (ancora oggi un testo molto attuale) che "...i legami linguistici di una regione sono il collante più tenace, una vera e propria  "fortezza" difensiva psicologica quasi irrazionale messa da un popolo di fronte ad ogni "scasso" politico, religioso ed economico. E sosteneva la necessità dell'unione dei vari Stati sotto forma di una federazione, che lasciasse ai singoli  Stati ampie autonomie di direzione economica e politica in considerazione della varietà dei problemi che si erano creati in essi in seguito al loro diverso sviluppo storico".
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FRANCESCO II alla morte del padre, da poco aveva sposato la bellissima diciottenne MARIA SOFIA di Wittelsbach, nipote del re di Baviera Massimiliano II, figlia del duca Max e sorella della leggendaria Sissi, imperatrice d'Austria. L'esuberante e coraggiosa Regina di Napoli era l'esatto contrario del consorte, abulico e assente; da buon meridionale attaccato alla famiglia; dedito alla religione ed alla venerazione della madre, Maria Cristina di Savoia, morta in odore di santità, proprio dopo il suo parto. Per Francesco il trono comportava un carico di responsabilità cui si sentiva del tutto impari. Avrebbe sicuramente preferito diventare frate che Re. Spesso ripeteva : "Dio mio come pesa questa corona!"

Nel Regno la situazione sociale era precaria per la povertà dei contadini e l'arretratezza del sistema agrario. Ma bisogna anche dire che le riforme agrarie promosse dai Borbone erano state boicottate e, negli effetti, ridimensionate da una potentissima (ma piccola) aristocrazia terriera, rapace ed inefficiente, attaccatissima ai propri privilegi, e capaci di passare se era necessario (paradossalmente avvenne con il contributo dei "patrioti" e delle classi contadine, rivelatisi utili) dalla parte dei Savoia, pur di conservarli.
"Il Regno (fra parentesi quelli in Sicilia) contava 380 (208) principi, 441 (123) duchi, 610 (244) marchesi, 185 (104) conti. Il CARPI rivolse la domanda al prefetto di Napoli che ruolo svolgevano nella società questi aristocratici; rispose in modo inequivocabile "L'artistocrazia antica e moderna è impotente, niente istruita, generalemente povera e poco influente, nulla sotto il rapporto politico, onesta di carattere, incapace di qualunque iniziativa, niente laboriosa, rappresentata da largo numero di famiglie bisognose, da poche mezzariamente agiate, e da rare ricchezze" (L. Carpi, L'Italia vivente, Milano 1878, pag. 162).

Tutto ciò era aggravato dalle scarse qualità politiche degli uomini che (suo malgrado) circondavano il Re (un terzo era formato da quella piccola parte di aristocrazia che era potente, ricca ed influente ma incapace come l'altra).
Ma non tutta l'eredità di Ferdinando II era negativa: Francesco si ritrovò a governare un paese amministrato bene, ordinato, prospero nelle sue zone costiere, grazie anche ad una numerosa ed attiva marina mercantile, finanziariamente stabile; Ferdinando II aveva inaugurato la prima ferrovia italiana (Napoli-Portici -1839); il primo battello di linea a vapore d'Italia, collegato telegraficamente con una delle prime reti italiane Napoli con la Sicilia. Inoltre aveva costituito una polizia efficiente ed un buon esercito.
Ma il nuovo Re non aveva ricevuto alcuna educazione militare, e finì con il trascurare l'esercito proprio nel momento di maggior pericolo.

Ferdinando lasciava il trono al figlio in un momento estremamente delicato. Francesco II, debole e inesperto, seguendo gli ultimi consigli paterni, non volle aderire ad un'alleanza con la Sardegna proposta al padre ancora nel giugno 1858 dal Cavour per mezzo dell'inviato speciale conte di SALMOUR; non volle accogliere la proposta di uno statuto, che il generale FILANGIERI, presidente dei ministri, gli aveva presentato; si rifiutò di concedere riforme e franchigie ai sudditi e soltanto il 16 giugno 1859, condonò la pena residua ai condannati che giacevano in carcere dal 1848-49 e concesse il rimpatrio agli emigrati.

Simile condotta non poteva naturalmente conciliare al giovane sovrano le simpatie dei liberali che avevano preso animo alle notizie degli avvenimenti dell'Italia centrale ma soprattutto settentrionale ed ora non nascondevano i propri sentimenti, agivano allo scoperto ed intensificavano i rapporti con gli esuli e con gli emissari del MAZZINI e del LA FARINA.
Che nel Regno delle Due Sicilie si fosse alla vigilia di grandi avvenimenti tutti erano certi. Il 7 giugno del 1859 in Napoli un folto nucleo di liberali si recava, sotto gli occhi della polizia, davanti alle legazioni di Francia e di Sardegna e al palazzo del conte di Siracusa, zio del re, parente di casa Savoia e animato da sensi di italianità, ad acclamare alla guerra d'indipendenza.
Il 21 di quello stesso mese una seria rivolta scoppiava tra gli allievi del collegio medico e il 7 e l'8 di agosto si ammutinavano i quattro reggimenti svizzeri che dal 13 al 17 agosto furono sciolti, facendo aumentare cosi le file degli anti-borbonici.

AGITAZIONI NEL NAPOLETANO E FERMENTO RIVOLUZIONARIO IN SICILIA

Ma più che nelle province della terraferma, il fermento rivoluzionario era in Sicilia. Passando il 23 giugno da Messina per recarsi nell'Adriatico a bloccare gli austriaci sulle coste venete e istriane, la flotta sarda fu salutata da una grande dimostrazione, seguita da altre dimostrazioni in varie città dell'isola e non solamente nei grandi centri, ma anche nei piccoli, come Naso ed Aragona dove nei primi di luglio qualcuno mise fuori le bandiere tricolori gridando: Viva Vittorio Emanuele ! Viva l'Italia ! (ma questi non erano di certo i contadini -che erano la maggioranza della popolazione- che non sapevano nemmeno chi era Vittorio Emanuele di Savoia e com'era quell'Italia fatta di stati e staterelli (difficile perfino oggi capirla).

Il sentimento nazionale italiano era assai più debole in Sicilia di quanto immaginava Mazzini. Le due forze esplosive sull'isola erano ben diverse dagli altri Stati italiani: una composta di nobili e borghesi era alimentata (già da molti anni) dall'ostilità dal dover dipendere da Napoli; l'altra, era una latente rivolta contadina potenzialmente pronta ad esplodere.
I primi erano avversi ai Borboni ma non s'identificavano certamente con la rivoluzione; e i secondi - che formavano la gran massa della popolazione- le lotte per le loro misere condizioni le conducevano contro il governo e contro i grandi latifondisti, poco sapevano cosa stava accadendo in altre regioni d'Italia; e più che conquistare il potere volevano solo terre e meno discriminazioni economiche.

A Napoli - anche se non c'era la forte tendenza indipendentistica- la situazione non era molto diversa. "Non ci sono cento unitari in sette milioni di abitanti"; questo lo riferiva il nuovo governatore di Napoli, FARINI, a Massimo D'Azeglio (M. D'Azeglio, Scritti e discorsi politici vol. III (1938) pp. 399-400).

Ma sia in Sicilia che a Napoli, i malcontenti li potevano utilizzare ai fini tattici sia i sostenitori dell'unificazione sotto lo scettro sabaudo, sia gli indipendentisti, sia i rivoluzionari repubblicani

I patrioti siciliani, in gran parte unitari, erano tutti in costante corrispondenza con gli esuli. Di questi, quelli che più si adoperavano per tener desta l'insofferenza contro i Borboni e il desiderio dell'unità e per preparare cospirazioni e insurrezioni erano i due mazziniani FRANCESCO CRISPI e ROSOLINO PILO dei principi di Capace ( che avevano rifiutato i prender parte alla guerra dinastica del '59) GIOVANNI CORRAO e GIUSEPPE LA MASA. Questi cominciavano a prendere in considerazione e a tracciare i piani per una spedizione in Sicilia, convinti che i tempi erano maturi per la rivoluzione. Anche se FABRIZI suggeriva che l'unica speranza non era la repubblica ma l'unificazione.

D'accordo con il MAZZINI (una spedizione simile a quella che farà Garibaldi, lui l'aveva progettata già anni prima) allo scopo di preparare una sollevazione nell'isola, CRISPI sotto falso nome si recò in Sicilia, sbarcando il 26 luglio del 1859 a Messina. Di là si recò a Catania, a Siracusa e a Palermo, ebbe colloqui con i suoi amici e con i patrioti più autorevoli e con loro concertò il piano dell'insurrezione, che fu fissata per il 4 ottobre; quindi, data promessa che sarebbe ritornato prima di quella data, partì su un piroscafo francese, fu a Malta, a Marsiglia, a Tolone, a Torino, a Genova e il 14 settembre giunse a Firenze, dove ebbe un incontro con il Mazzini.

Il 22 settembre il CRISPI era a Londra. Con passaporto intestato a Tobia Glivaie, pochi giorni dopo già ripartiva per la Sicilia.
Qui la rivoluzione programmata per il 4, era stata rimandata al 12 ottobre; già il giorno 10 molte squadre dei dintorni dovevano muovere alla volta di Palermo. Ma per mancati accordi o per defezione, si era mossa una sola squadra di circa 40 uomini, comandata da GIUSEPPE CAMPO e che facilmente fu dispersa dal fuoco delle truppe borboniche a Villabate.

FRANCESCO CRISPI - ROSOLINO PILO
L'ASSALTO AL CONVENTO DELLA GANCIA

Informato di questi avvenimenti l'11 ottobre quando giunse a Messina ed esortato a partire subito per non destare sospetti nella polizia, FRANCESCO CRISPI si allontanò dalla Sicilia e, seguendo la rotta del bastimento su cui si era imbarcato, finì in Grecia, poi a Malta, in Spagna e infine a Genova. Si diresse poi in Emilia, giunse il 3 dicembre a Modena per conferire con il dittatore FARINI, informato dal FABRIZI dell'arrivo del Crispi.
In quell'incontro si parlò della necessità di un movimento in Sicilia e il Farini offerse un milione di franchi. Il Crispi avrebbe voluto che il dittatore mettesse a disposizione del partito d'azione i duemila volontari che, temendosi sconfinassero nelle Marche, erano stati mandati nell'isola d'Elba, ma il Farini rispose che per averli era necessario il consenso del RICASOLI e del RATTAZZI; il Crispi allora "volò" a Torino, dove il 15 parlò con il Rattazzi e la notte del 24 con La Farina.

Ma non ottenne gli aiuti che sperava. "Qui sono mandato da Erode a Pilato -scriveva all'amico Rosolino Pilo - e temo anch'io che nulla ne uscirà". Poi lasciata Torino, si trasferì a Genova, per essere più vicino al comitato d'azione.
Persuaso che per ottenere aiuti dall'esterno bisognava prima accendere l'esca in Sicilia, esortò ROSOLINO PILO a recarsi nell'isola per farvi scoppiare la rivoluzione. Il Pilo, che era impaziente d'agire, non fu sordo al consiglio, ma prima di partire, spronato dal Crispi, scrisse una lettera a GARIBALDI a Caprera (22 febbraio 1860), scongiurandolo ad aiutare e capitanare l'impresa. "E' tempo - terminava la lettera - che, voi non veniate meno all'Italia; dai vostri ultimi scritti indirizzati agli italiani (sono i proclami che accenniamo sotto nel link - Ndr.) ho visto che voi siete convinto che non resta agli italiani se non l'armarsi, e l'audacia e la fermezza di propositi per liberarsi dagli stranieri, che tuttavia baldanzosi stanno nella penisola. Generale, voi potete, aiutando con i mezzi che si sono raccolti con il vostro nome, fare che l'Italia non rimanga, dalla volpina diplomazia sacrificata e smembrata per altri lunghi anni; apprestateci vi prego, quanto di sopra vi ho richiesto in nome dei buoni di Sicilia, e state certo che riusciremo a mettere in fiamme tutto il mezzogiorno d'Italia al grido dell'Unità e Libertà. Voi, generale, capitanerete militarmente il paese e così avrete garanzia che non si cambierà nulla dal convenuto programma, che solo può riunire tutti gli elementi d'azione, e così solamente l'Italia sarà".

E' il momento in cui avvengono profondi mutamenti negli schieramenti per l'Unità d'Italia.
Alcuni mazziniani tendono verso Garibaldi, lo stesso Garibaldi tende verso la monarchia, e la monarchia utilizza i rivoluzionari. Lo afferma Cavour: "I mazziniani stanno rialzando la testa con gli intrighi di Garibaldi; e cosa più grave, parlano, direi quasi, in nome del Re".
E a sua volta Cavour sta sollevando molti interrogativi sia ai francesi sia agli inglesi. Ed entrambi finanziano in modo occulto Garibaldi (gioco pericoloso, dunque, da una parte e dall'altra; e quello di Cavour ancora di più; infatti, sembra prendersi gioco di entrambi, scavalcando i loro ambigui intrighi).

GARIBALDI rispose a Pilo il 15 marzo: "Intendetevi con il BERTANI e con la Direzione di Milano per avere quante armi e mezzi sia possibile. In caso d'azione convincetevi che il programma è: Italia e Vittorio Emanuele. Io non respingo qualunque impresa per azzardata che sia, ove si tratti di combattere i nemici del nostro paese. Però al momento presente non credo opportuno un moto rivoluzionario in nessuna parte d'Italia, a meno che non fosse con non poca probabilità di successo. Oggi la causa del paese è nelle mani dei "faccendieri" politici che tutto vogliono sciogliere con trattative diplomatiche; bisogna aspettare che il popolo italiano conosca l'inutilità delle mene di quei "dottrinari". Allora verrà il momento d'agire. Oggi saremmo biasimati dalla gran maggioranza. Fate conoscere questa mia opinione ai vostri concittadini che per ora lavorino a prepararsi a tutt'oltranza. Io spero che il momento favorevole non tarderà a comparire". (Crispi, I Mille pp.118-19 - a cura Palamenghi-Crispi, Milano 1927).

Garibaldi scrive queste cose, ma è quanto mai incline alla ribellione e all'azione (vedi i proclami). Benché avesse divergenze non indifferenti con Mazzini, il baratto di Cavour della sua città natale lo aveva esasperato. Inoltre alla guerra del '59, in Lombardia, dal Cavour gli era stata lasciata una parte assai modesta nei combattimenti; anzi gli ufficiali dell'esercito regolare piemontese, avevano guardato i suoi volontari con un misto di disprezzo, di gelosia e di paura.

(Prima di lasciare il servizio, Garibaldi aveva lanciato i tre famosi proclami, a PAVIA, all'ITALIA CENTRALE, e il proclama "MILIONE DI FUCILI")

Non dimentichiamo che il 21 gennaio del '60 era tornato Cavour al Governo, tenendo per sé anche il ministero degli Esteri e degli Interni (e a lui indubbiamente si riferisce Garibaldi nella lettera quando parla di "faccendieri" e "dottrinari").
Nella lettera parlando della Direzione di Milano, Garibaldi alludeva alla sottoscrizione nazionale del "milione di fucili", da lui iniziata fin dallo scorso ottobre, che aveva fruttato la raccolta di circa quindicimila fucili, parecchie migliaia di lire, munizioni ed altro materiale. Amministratori del fondo raccolto per il milione di fucili erano il Besana e il Finzi.

ROSOLINO PILO, insieme con GIOVANNI CORRAO e preceduto da ROSALIA CRISPI partì da Genova alla volta della sua isola natia il 26 marzo, ma era ancora in viaggio quando scoppiò ma fu anche presto repressa l'insurrezione a Palermo.

LA RIVOLUZIONE IN SICILIA

Il "comitato rivoluzionario" aveva fissato per il 4 aprile la sollevazione che contemporaneamente doveva avvenire nelle tre principali città dell'isola. A Palermo, base d'operazione doveva essere il Convento della Gancia, dove erano state introdotte armi e si trovava pronto un nucleo di patrioti comandati dal fontaniere FRANCESCO RISO. All'alba del 4 aprile la campana della Gancia doveva dare il segnale e allora sarebbero entrate in città le squadre delle campagne e dalla via Scopari e dalla chiesa della Magione sarebbero uscite due squadre palermitane. Avendo avuto sentore del moto che si preparava, MANISCALCO, direttore della polizia, nella notte del 3 aprile fece occupare dalle truppe i punti strategici della città. Queste misure fecero sì che le squadre delle campagne non riuscirono a penetrare nella città e quelle di via Scopari e della Magione, uscite per le vie, furono sopraffatte dai soldati borbonici, i quali da ultimo diedero l'assalto al convento, sfondarono a cannonate la porta e ingaggiarono una lotta furiosa con gli insorti e, pare, anche con i frati. Il RISO fu ferito gravemente e morì il 27; venti ribelli, fra cui un frate, il PADRE ANGELO di Montemaggiore, furono uccisi; tredici, sorpresi con le armi in pugno, furono da un consiglio di guerra subito condannati alla pena capitale il 14 aprile 1860 e fucilati il giorno stesso.
I nomi
SEBASTIANO CAMARRONE, DOMENICO CUCINOTTA, PIETRO VASSALLO, MICHELE FANARA, GIOVANNI RISO, padre di Francesco, GIUSEPPE TERESI, ANDREA CUFFARO, MICHELANGELO BARONE. LIBORIO VALLONE, NICOLO' DI LORENZO, FRANCESCO VENTIMIGLIA, GAETANO CALANDRA e CONO CANGERI, tutti operai.

Il governo borbonico mise subito sotto stato d'assedio Palermo e fece eseguire numerosi arresti, che però non valsero a domare la rivolta. MESSINA insorse il 6 aprile, ma intimorita dal fallimento del moto palermitano, rientrò nell'ordine; ma insorsero Catania, Noto, Caltanissetta, Termini, Piana dei Greci, Carini, Trapani e il 13 nuovamente la popolazione di Palermo, riversatasi nelle vie della città, che sotto gli occhi della polizia borbonica attonita, osò gridare il suo odio al Borbone ed acclamare all'Italia e al Re Vittorio.
ROSOLINO PILO e GIOVANNI CORRAO sbarcarono nei pressi di Messina il giorno 9 aprile e, sfidando la polizia borbonica, si diedero a percorrere l'isola, cercando di non fare spegnere del tutto gli entusiasmi della rivolta, assicurando i rivoltosi che era imminente l'arrivo di una spedizione e nello stesso tempo accrescendo di contadini ed organizzando le squadre, che nella fuga si trascinano rifugiandosi sulle montagne.
Ma l'organizzazione non era tale da permettere una lunga resistenza alle truppe regie. Il 18 una squadra si accanì presso Carini, ma i borbonici, decisamente superiori di numero, riuscirono a disperderla poi misero a ferro e fuoco il paese; il 22 aprile i regi rientrarono a Trapani, il cui vescovo salvò con la sua intercessione i capi della rivolta; anche Termini e Piana dei Greci furono rioccupate, e le truppe, divise in colonne, rastrellando le campagne cominciarono a dar la caccia alle squadre decimate.

L'insurrezione siciliana cominciava ad agonizzare. Restavano qua e là dispersi sui monti alcuni frammenti di squadre; ma circondate da ogni parte, stremati di forze, privi di viveri e di munizioni, solo i più tenaci riuscirono a trascinarsi di rupe in rupe in una vita precaria. Poi di tanto in tanto qualche fucilata annunciava a quelli in città che alcuni rivoltosi combattevano ancora.
E se nella campagne agonizzava, nei grossi centri (come a Palermo quella del Riso e compagni) era del tutto finita, soffocata da una milizia che nella capitale disponeva di circa 20.000 uomini. (Ma anche da una stupefacente calma dei palermitani rispetto ai sanguinosi disordini del 1848). L'unica sostanziale differenza con le precedenti rivoluzioni, come quella del '20 o del '48, era che il governo aveva perso il controllo dei centri minori, nonostante l'invio di colonne mobili. E l'aveva perso perché questa volta l'insurrezione si era estesa nelle campagne, e più che una rivoluzione, era diventata una sollevazione generale di contadini, una temibile "jacquerie". Che d'ora in poi guidata da esperti di guerriglia sudamericana, riusciranno a demoralizzare e a terrorizzare un esercito e una polizia inducendoli a resi umilianti.
Ma questo non l'avevano previsto, né i mazziniani, né Garibaldi (con i loro sogni utopistici legati alle dottrine del '48), né Cavour (convinto anzi che con un ennesimo insuccesso finalmente il paese si sarebbe sbarazzato di entrambi).
Invece con il facile successo, ognuno cercherà di sfruttarla a suo modo; e alcuni commettendo errori clamorosi. (Mazzini pensando in grande; Garibaldi quando volle introdurre la coscrizione obbligatoria; e Cavour quando "prese la decisione di fare quello che ha sempre impedito a noi di fare" scriveva Mazzini (Mazzini S.E.I vol. LXX, pag. 36), cioè di non tener conto dei giochi diplomatici.
Il movimento contadino (soprattutto fra giugno e agosto) aveva assunto vaste proporzioni, rivelando i suoi moventi sociali che nulla avevano a che vedere con quelli patriottici; era contro il governo e i proprietari (ovviamente borbonici) dov'erano esclusi i borghesi che da anni premevano, in Sicilia come del resto - dopo la Rivoluzione Francese- in ogni parte d'Europa.
Quello che poi ne venne fuori, non piacque nè ai democratici (mazziniani, garibaldini, crispini); non piacque ai nobili nostalgici del passato assolutistico; non piacque agli autonomisti, ai nuovi monarchici sabaudi, nè piacque ai contadini che si erano illusi appoggiando qui e là un po' tutti (in città facendo un favore ai borghesi e nelle campagne i proprietari, che entrambi accusavano i Borbone di essere all'origine di tutti i mali sociali e delle miserie dell'isola. E se siamo cattivi diciamo che caddero dalla padella nella brace, se non lo vogliamo essere, diciamo che rimase lo statu quo).

LA SPEDIZIONE GARIBALDINA IN SICILIA: DA QUARTO A MARSALA

Appena giunse in Genova la notizia dell'insurrezione siciliana, FRANCESCO CRISPI e NINO BIXIO corsero a Torino, dove era giunto GIUSEPPE GARIBALDI per l'interpellanza sulla cessione di Nizza, e il 7 aprile, presentatisi a lui, lo scongiurarono di volersi mettere, secondo la promessa, alla testa di una spedizione e accorrere in aiuto dei "fratelli" dell'isola. Il generale, commosso e vinto dalle suppliche promise che sarebbe andato, purché la rivoluzione fosse ancora viva.
Mandato il CRISPI a Milano per ritirare armi e denari dal comitato del milione di fucili, il Garibaldi si presentò a VITTORIO EMANUELE e, palesatogli il proposito di recarsi in Sicilia, gli chiese se gli avrebbe dato per la spedizione una brigata dell'esercito piemontese e precisamente il "Bergamo", che aveva un reggimento (il 42°) comandato dal SACCHI che contava nelle sue file numerosi elementi che avevano partecipato alle campagne garibaldine. Il re sul momento non dissentì, ma pochi giorni dopo fece sapere al generale che non poteva dargli la brigata perché voleva avere sottomano e pronto l'esercito per fronteggiare i nemici che gli avvenimenti della Sicilia potevano suscitare.

Una consultazione del Re con Cavour indubbiamente ci fu. E forse il Conte fece tutto il possibile per impedire l'idea della spedizione, ma alla fine decise di prendere tempo: se la spedizione e l'insurrezione fosse fallita, il suo governo non avrebbe detto nulla; se avesse vinto, sarebbe intervenuto per riportare l'ordine.
Inoltre c'erano anche altre 4 ragioni (per questo "prendere tempo"):
1) la coalizione che aveva appena formata il 21 gennaio ritornando al governo rischiava di rompersi sulla questione Nizza;
2) il 24 marzo alle elezioni si era sì assicurato una forte maggioranza, ma il voto aveva portato in Parlamento un'agguerrita pattuglia di democratici, fra i quali proprio Garibaldi;
3) il 15 e 22 aprile dovevano svolgersi i plebisciti a Nizza e Savoia e il 12 Garibaldi (dopo la dura requisitoria che aveva fatto alla Camera) aveva minacciato di correre a Nizza per far fallire il piano della cessione cavouriana; anche se in un colloquio il Re "cercò di calmare il Generale e convincerlo a non comparire a Nizza, perché la questione non si aggravasse" (Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 196)
4) sapeva che Napoleone III si sarebbe arrabbiato (perché a Plombieres non si era parlato di Sud Italia, né della sorte dei Borbone);

In poche ore Cavour doveva decidere, perché Garibaldi, era partito proprio per Genova con l'intenzione di correre a Nizza per impedire il sacrificio della sua città natale, la sua patria.
Ma a Genova, trattenuto dai suoi amici con buone notizie sull'insurrezione siciliana, Giuseppe Garibaldi, poiché gli era stata negata una parte dell'esercito regolare stabilì di compiere ugualmente l'impresa in Sicilia con un contingente di volontari.
E invece di partire per Nizza, il 15 aprile andò a porre il suo quartier generale presso Quarto, nella Villa Spinola, di proprietà di CANDIDO AUGUSTO VECCHI, suo amico e compagno d'armi durante l'assedio di Roma.
Furono iniziati i preparativi per la spedizione. I navigli, che dovevano trasportare ì volontari in Sicilia.Per la questione delle navi si pensò alla Società di Navigazione a vapore Rubattino e al direttore gerente della Società. G. B. Fauchè, che all'insaputa (?) di Raffaele Rubattino, assicurò che avrebbe lasciato nel porto due vapori, il "Piemonte" e il "Lombardo", ma che i garibaldini dovevano fingere di rapire.
Quanto alle armi, c'erano quelle depositate a Milano, ma il D'AZEGLIO, governatore, non volle che fossero portate via, ma più tardi, proprio alla vigilia della partenza, il LA FARINA mise a disposizione del Garibaldi mille e diciannove fucili e cinque casse di munizioni appartenenti alla "Società Nazionale Italiana". I denari non mancarono. Ce ne furono anzi in abbondanza.
I preparativi della spedizione non era un mistero, furono fatti alla luce del sole, e dell'impresa era consapevole tutta l'Europa, compreso il re delle Due Sicilie, che aveva ordinato alla flotta di stare in crociera per impedire lo sbarco.

Il 28 aprile, era, quasi tutto pronto per la partenza quando un telegramma cifrato spedito da NICOLA FABRIZI, che si trovava a Malta, ad ANTONIO MOSTO a Genova, minacciò di mandare a monte la spedizione. Il telegramma diceva: "Completo insuccesso della rivoluzione nella provincia e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta. Non vi muovete".
Indubbiamente nulla sapeva il Fabrizi della rivolte contadine all'interno.

A quelle notizie il generale dichiarò che l'impresa era impossibile e manifestò il proposito di tornarsene a Caprera, invano scongiurato a tentare l'impresa dal CRISPI, dal BERTANI, dal BIXIO e da altri. Il Crispi, il quale voleva effettuare la spedizione ad ogni costo, la mattina del 29 telegrafò al Fabrizi chiedendo chiarimenti. La sera stessa giunse un secondo telegramma: "L'insurrezione, vinta nella città di Palermo, si sostiene però nelle province. Notizie raccolte da profughi giunti a Malta su navi inglesi".
Evidentemente non poteva essere la risposta del Fabrizi al Crispi, ma una nuova comunicazione da Malta del vecchio cospiratore se pure il secondo telegramma fu veramente spedito da lui. Il TURR afferma che fu un artificio del Crispi per indurre il generale a partire e può anche darsi, ma la storia è muta su questo riguardo.

Siamo al 1° maggio. Cavour è inquieto e infuriato e scrive -questa frase l'abbiamo già anticipata- a Nigra "I mazziniani stanno rialzando la testa; con gli intrighi di Garibaldi; e cosa più grave, parlano, direi quasi, in nome del Re".
Lasciar partire la spedizione, ufficiale o non ufficiale per il Sud era come voler accendere un fiammifero dentro una polveriera. Il 1° maggio si precipitò in Emilia e volle affrontare il Re per chiarire fino in fondo le sue intenzioni e le oscure manovre, ignorando il suo ministero. L'incontro avvenne a Bologna, di notte, dopo una serata di gala al Comunale. Il colloquio fu tempestosissimo come quello di Monzambano (Villafranca). Non c'erano testimoni, ma si concluse evidentemente allo stesso modo, visto che è rimasto un significativo breve biglietto di Cavour inviato poi il giorno dopo il 2 maggio: "Maestà, dopo le parole che voi ieri sera pronunciaste, qualsiasi ministro avrebbe dovuto dare a quest'ora le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque, perché sento che ho ancora troppi doveri verso la Dinastia e verso l'Italia. Attendo al riguardo "particolari comunicazioni" di Vostra Maestà. Pertanto rimango! Cavour". (Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 201).
E' proprio un biglietto di sfida ad un ventilato siluramento.

Sembra, infatti, che Vittorio Emanuele per la seconda volta intenda fare a meno di Cavour, per affidare nuovamente il governo al suo nemico Rattazzi. Nello stesso giorno a Bologna il Re dopo il biglietto di Cavour, interrogò qualche personaggio (si afferma il Minghetti o il Pepoli) poi rispose al Cavour mandandogli le "particolari comunicazioni". Non sappiamo quali. Ma il tenore della successiva risposta di Cavour del 2 maggio sera, non lasciano dubbi, è la risposta ad un insinuante tentativo di liberarsi di lui; infatti diceva "Questa prova della persistenza del cattivo volere di Sua Maestà a mio riguardo non mi scoraggia. Sono deciso a servire il Re "malgrè lu" (in piemontese "malgrado lui" - al Re!. (Ib. pag.202)

Il Re, sulla spedizione non era favorevole, l'idea però non gli dispiaceva, ma non voleva assumersi - lui, capo di una monarchia- le responsabilità dirette di un movimento rivoluzionario com'era considerato quello di Garibaldi. Non voleva confondere le due cose, anche perché era chiaro che se Garibaldi falliva la missione, per lui e per la sua dinastia non c'era più scampo. Dal '21 fino alla battaglia di Novara, la monarchia sabauda aveva sempre fatto ambigui accordi con la rivoluzione italiana (anche se era stata sempre in funzione anti-austriaca); questo era ormai risaputo in tutta Europa; ma un conto era questo lontano passato che il sabaudo aveva a fatica cercato di cancellare, un altro era ora scendere in campo di persona a guidare o semplicemente acconsentire ad una spedizione rivoluzionaria contro un'altra monarchia potente come quella dei Borboni. Per farla breve Vittorio Emanuele virtualmente si dissociò, non acconsentì alle richieste di Garibaldi, ma nello stesso tempo lasciò che il capo rivoluzionario seguisse il suo ben noto impulso (menare le mani in qualche posto, a Nizza, come in Veneto, a Roma, come a Napoli o in Sicilia, in Ungheria come poi (nel '70) in Francia - e il suo passato in Sud America non era stato molto diverso).

La partenza fu fissata per la notte del 6 maggio. Il 5 GARIBALDI scrisse al Re, al Bertani e al Medici.
Al RE scriveva fra le altre cose per annunciargli l'avvenuta partenza ma termina con una frase curiosa: "Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà; temevo, infatti, che per la riverenza che le professo, Vostra maestà riuscisse a persuadermi di abbandonarlo". Questa frase sembra destinata a coprire il Re, a mascherare la sua adesione al progetto (in caso di sconfitta)

Al BERTANI, scriveva che la rivoluzione siciliana andava aiutata non solo in Sicilia, ma nell'"Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano .... ovunque ci sono nemici dar combattere";
Al MEDICI raccomandava di fare ogni sforzo per inviare soccorso di gente ed armi in Sicilia.

Una lettera la inviò pure alla società RUBATTINO per scagionare il FAUCHÈ, che però il 18 giugno fu destituito dall'ufficio; poi indirizzò vari proclami: uno ai soldati italiani, esortandoli a "stringersi di più ai loro valorosi ufficiali ed a quel Vittorio, la cui bravura può essere rallentata un momento da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria"; uno all'esercito napoletano, esortandolo "a schierarsi con i soldati di Varese e di S. Martino"; ed uno infine agli italiani: "Non si ascolti, per Dio la voce dei codardi che gozzovigliano in laute mense. Armiamoci e pensiamo per i fratelli, domani penseremo per noi".

Ovviamente non inviò nulla al suo "nemico" (? Alcuni affermano invece una lettera simile a quella inviata a Re). Ma Cavour fu quasi contento di essere stato informato a partenza avvenuta. Per lui fu una liberazione per non essere stato coinvolto nella "trama rivoluzionaria". Che era in sostanza un'invasione senza aver dichiarato guerra ad uno Stato non piccolo, riconosciuto in tutta Europa, prima e dopo Vienna.
Cavour, rimase alla finestra a guardare. Se le cose andavano male, la soddisfazione sarebbe stata doppia, si liberava dei filo-garibaldini e dei filo-mazziniani), mentre se andavano bene c'erano mille modi per intervenire e per modificare a proprio favore i successivi eventi: come entrare (facendo bella figura con i Francesi) nei territori pontifici in difesa del Papa, ed entrare pure nel regno Borbonico per fermare i "ribelli" che minacciavano i Borboni (facendo bella figura con gli Austriaci).

5 Maggio - Alla sera al porto di Genova una quarantina di seguaci garibaldini guidati da NINO BIXIO braccio destro di Garibaldi, con un (fantomatico) atto di pirateria ai danni della società Rubattino si impadronirono di due piroscafi: il "Piemonte" e il "Lombardo". Se a Torino Cavour mostrava i denti, e il Re s'infervorava ma poi si nascondeva dietro le ambiguità, a Genova abilmente si finse il colpo di mano per offrire un alibi ad entrambi.
A Genova l'arruolamento per la spedizione era proceduto indisturbato e il denaro per il Fondo era affluito abbondantemente

Mentre i volontari si radunavano a Quarto, i due navigli facevano rotta verso la spiaggia dove a mezzanotte giungeva Garibaldi, che indossava la camicia rossa sotto il poncho americano e aveva il sombrero in testa, la sciabola sulle spalle e il revolver e il pugnale alla cintola.
Durante la sosta furono caricate le armi e imbarcati i volontari. Erano mille e ottantanove uomini, più una donna (Rosalia Montmasson, moglie di Crispi)

Per la maggior parte i volontari erano Lombardi (434), Veneti (194), Liguri (156), Toscani (78), Siciliani palermitani (45), Stranieri (35), Pochissimi i piemontesi, poco più di una decina. Solo 26 erano siciliani di altre città dell'isola.
La composizione sociale: 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti, circa 500 ex artigiani, ex commercianti.

I "Mille" nella composizione politica riflettevano le forze di sinistra; quasi metà erano professionisti e intellettuali, l'altra metà artigiani, affaristi, commercianti e qualche operaio. Assente la componente contadina che pure rappresentava la maggioranza della popolazione italiana. All'incirca la stessa composizione era quella dei rivoluzionari che cooperarono poi in Sicilia con i garibaldini.
Come forza però era debole; tuttavia trovarono (e fu un fatto imprevedibile) un valido appoggio nella jaquerie locale, che non aveva nulla in comune con le ideologie dei "conquistatori"; le masse contadine lottavano solo per ottenere terre da coltivare e meno vessazioni; né avevano nulla in comune (sic) con i proprietari terrieri, borghesi, e aristocratici emarginati del Regno, che lottavano per il potere e volevano staccarsi da Napoli).

Fatta la rivoluzione, i primi rimasero delusi, perché avevano prestato il loro valido aiuto alla ribellione, e che senza volerlo avevano aiutato a conquistare il potere ai secondi che poi non mutarono nulla, cambiarono solo Re referente (ancora più lontano e ancora più esoso sulle risorse umane come in quelle economiche).

I "Mille", quasi tutti avevano alle spalle delle esperienze cospirative; alcuni erano reduci dei Cacciatori delle Alpi, dalle campagne del Veneto, della, Lombardia, di Roma, alcuni anche in America, e altri nuovi alle battaglie.
E alcuni anche filibustieri, o già cacciati dalla sicilia dai Borboni.


Al corpo dei volontari fu dato in un primo tempo il nome di "Cacciatori delle Alpi". Questi furono divisi in sette compagnie, comandate da BIXIO, VINCENZO ORSINI, FRANCESCO STOCCO, GIUSEPPE LA MASA, FRANCESCO ANFOSSI, GIACINTO CARINI e BENEDETTO CAIROLI; il comando dei carabinieri genovesi fu dato ad ANTONIO MOSTO, all'intendenza furono messi ACERBI, BOVI, MAESTRI, RODI, allo Stato Maggiore CRISPI, MANIN, CALVINO, MAJOCCHI, GRIZIOTTI, BOCCHETTE, BRUZZESI, con a capo SIRTORI; furono scelti come aiutanti di campo il TURR, CENNI, MONTANARI, BANDI, STAGNETTI e come segretario del generale BASSO.
GARIBALDI salì a bordo del "Piemonte", di cui era pilota il siciliano SALVATORE CASTIGLIA, il BIXIO ebbe il comando del "Lombardo".

All'alba del 6 maggio i due piroscafi partirono; il carbone, fu caricato presso Chiavari e poiché le casse di munizioni non erano state caricate, il Garibaldi per procurarsene ordinò di fare rotta verso il canale di Piombino. La mattina del 7, giunte le navi a Talamone, Garibaldi, indossata la divisa di generale sardo (!?), si presentò ai comandante del forte ed ebbe i pochi malconci fucili che vi si trovavano ed una colubrina arrugginita; ma saputo che ad Orbetello vi era una certa quantità di armi e di munizioni, vi mandò il TURR, il quale persuase quel comandante, tenente colonnello GIORGINI, che l'impresa era voluta dal Re ed ottenne centomila cariche di fucile, quattro pezzi d'artiglieria da sei, e milleduecento cariche per i medesimi.
Quel giorno stesso il Garibaldi diede organizzazione militare al corpo di spedizione e, scelta una schiera di sessantaquattro uomini, l'affidò al colonnello ZAMBIANCHI con l'ordine di recarsi nello stato pontificio e suscitarvi l'insurrezione. La piccola colonna sarebbe stata raggiunta in un punto della costa maremmana da ANDREA SGARALLINO con un drappello di livornesi.
Il minuscolo drappello Zambianchi-Sgarallino passò il confine pontificio a Pitigliano; il 21 a Grotte di S. Lorenzo ebbe uno scontro con uno squadrone di gendarmi pontifici comandati dal colonnello PIMODAN; tornato indietro, fu fermato e disarmato da un distaccamento del 1° granatieri e condotto ad Orbetello. Lo Zambianchi riuscì a fuggire, ma a Genova fu arrestato. Ottenuto un passaporto per l'America, s'imbarcò ma durante la traversata cessò di vivere.
Il giorno 8 maggio Garibaldi formò l'8a compagnia che affidò al BASSINI, diede il comando della seconda al DEZZA, e all' ORSINI quello dell'artiglieria, e costituì un nucleo del Genio agli ordini del MINUTILLA; quindi riprese la navigazione e, dopo una sosta a Santo Stefano, fece volgere le prore verso la Sicilia.

Due giorni di navigazione tranquilla. Alcuni ordini venuti dall'alto dalla Marina furono comunque necessari per la navigazione, come quelli impartiti dall'ammiraglio Persano. Furono tutti ordini ambigui. Tuttavia alla Rubattino si parlò anche di certi compensi. L'atto di pirateria fu tutta una messa in scena. Alla Ribattino, infatti, poi andarono -non a caso o come compenso- buona parte di tutta la flotta marittima (la Florio) confiscata al Regno delle Due Sicilie.

Nella notte del 10 poco mancò che tra i due piroscafi, i quali durante il cammino si erano distanziati, credendosi nemici, non s'impegnasse un combattimento. All'alba dell'11 il "Piemonte" e il "Lombardo" giunsero nelle acque di Marettimo. Oltrepassata la punta sud-ovest della Favignana, furono in vista di Sciacca dove dovevano sbarcare, poi si scelse Marsala. Nel primo sito evitarono di incrociarsi con tre navi da guerra borboniche, nel secondo trovarono (!?) invece una singolare protezione…

Due navi inglesi erano nel porto; l'"Intrepid" comandato dal MARRYAT e l'"Argus" al comando dell' INGRAM. Questa "provvidenziale presenza" fu poi così giustificata: "per difendere gli interessi dei sudditi britannici sull'isola".
La sera precedente - informati della spedizione- era partita una compagnia di soldati e la flotta navale borbonica (Valoroso, Stromboli, Partenope e Capri) diretta a Capo Bianco.
I piroscafi garibaldini alle ore 13 entrarono a tutto vapore nel porto e subito cominciarono le operazioni di sbarco. Erano queste iniziate quando sopraggiunsero lo "Stromboli" e il "Capri" seguite dalla "Partenope".

Il bombardamento delle navi borboniche verso la spiaggia fu bloccato dal comandante inglese INGRAM, il quale avvertì l' ACTON, comandante dello "Stromboli", che lo avrebbe reso responsabile di qualunque offesa fosse recata a due ufficiali britannici che si trovavano a terra e inoltre raccomandò di rispettare i magazzini e gli edifici che a Marsala innalzavano la bandiera inglese.
Quando gli ufficiali inglesi tornarono a bordo, cominciò il fuoco, ma questo riuscì inefficace perché le operazioni di sbarco erano ormai già avvenute. L' ACTON, che si era vantato che avrebbe buttato a mare Garibaldi, dovette accontentarsi di condurre con sé il "Piemonte" vuoto, e lasciare il "Lombardo" perché arenato sulla spiaggia; mentre i garibaldini ormai sbarcati avevano già occupato la cittadina.

L'accoglienza della popolazione fu un po' fredda perché l'arrivo fu inaspettato ma anche perché sorsero dubbi nel vedere poche forze, fra l'altro non soldati, ma solo volontari. Ma non fu ostile, anzi, convocato dal Crispi (che sbarcato tra i primi era corso ad assicurare la custodia delle casse pubbliche, della posta e ad aprire le carceri), il Municipio borbonico proclamò all'unanimità Vittorio Emanuele re d'Italia e per lui Giuseppe Garibaldi dittatore in Sicilia; inoltre stabilì d'invitare tutti i comuni dell'isola a fare altrettanto.

 

Quel giorno stesso il generale lanciò
il primo proclama alle popolazioni dell'isola:

passiamo alla "fase due" della spedizione, nella prossima puntata

Da Marsala a Palermo a Messina > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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