ANNO 1860

REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ATTO
( anno 1860 )
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LA RIVOLTA - DA QUARTO A MARSALA

Le annessioni

L'11 e 12 marzo 1860 gli abitanti di Toscana ed Emilia Romagna votarono l'annessione al Regno di Sardegna, accettata da Vittorio Emanuele II il 18 e il 22 marzo successivi. Inutili furono le proteste dell'Austria e del Papa, mentre Napoleone III taceva, saziato dalla promessa di annessione della Contea di Nizza e del Ducato di Savoia.
Questo moto unitario sviluppatosi fra il '59 e il '60 nel nord Italia e culminato con le annessioni, aveva rafforzato il filopiemontesismo dei patrioti siciliani, riducendo il loro tradizionale autonomismo. In particolare, l'aristocrazia e la borghesia terriera capirono che da soli non sarebbero più riusciti a fronteggiare le campagne in subbuglio, e che solo uno Stato forte avrebbe potuto garantire i loro privilegi.

I moderati siciliani.
L'uomo che meglio incarnava questo rivolgimento di opinione era il fuoriuscito messinese Giuseppe La Farina, anima della Società Nazionale, legato a doppio filo a Camillo Benso, Conte di Cavour. Era lui che manteneva i contatti coi comitati siciliani per manovrarli in senso moderato, cioè per fare in modo che seguissero le direttive del Governo di Torino e, soprattutto, per non fare sfuggire dalle mani delle classi alte e medie l'azione rivoluzionaria.

La politica borbonica. La stasi politica del Regno di Francesco II creò una situazione di grave pericolo per l'ordine interno delle Due Sicilie, nonché per la sua stessa sopravvivenza, pressato com'era dall'esterno dalle manovre dei piemontesi e dall'interno dai rivoluzionari, repubblicani o monarchico-unitari che fossero.
La giovane regina Maria Sofia era donna di grande intelligenza, e ciò le fece comprendere quali fossero i problemi più urgenti del Regno. Cercò di spingere Francesco a concedere spontaneamente la costituzione, per fargli guadagnare la popolarità e la simpatia da parte degli elementi migliori della politica napoletana e della cultura. In questo fu appoggiato dal principe Carlo Filangieri di Satriano, di cui la Regina aveva grande stima, e dallo zio del Re, Leopoldo di Borbone, Conte di Siracusa. Ma il Re non ascoltò questi saggi consigli. Stretto tra i due partiti di corte, quello reazionario, facente capo alla sua matrigna Maria Teresa d'Asburgo e costituito da una buona parte dell'aristocrazia, dagli alti gradi militari e dalle alte gerarchie della chiesa, e quello riformista, guidato da Maria Sofia, da Filangieri e da Leopoldo, non era riuscito a promuovere una politica decisa ed a prendere una posizione precisa. Così si chiuse nel più gretto conservatorismo nel quale era stato educato e cedette alle pressioni di Maria Teresa che interferiva continuamente nella politica del Regno.

Nuovo governo.
Il rifiuto di Francesco a concedere la costituzione ed a tentare un accordo con Torino deluse ed esasperò il primo ministro Filangieri, il quale presentò le dimissioni irrevocabili e si ritirò dalla politica. Al suo posto Francesco chiamò il decrepito e reazionario Antonio Statella, Principe di Cassaro, amico personale di Maria Teresa, il quale insediò il nuovo governo il 1° marzo 1860. Agli Esteri fu posto il ministro Carafa, incapace a cogliere il significato degli ultimi gravi avvenimenti italiani ed europei e che non tentò nulla di efficace per migliorare la politica estera e la precaria posizione internazionale del Regno. Il Ministero più delicato, quello della guerra, fu affidato al gen. Francesco Antonio Winspeare, settantasettenne di Pòrtici, di antiche origini inglesi, vecchio ufficiale murattiano, divenuto poi ultraconservatore.

Gli uomini di corte.
Pur non essendo l'imbecille descritto dalla storiografia risorgimentale, Francesco era un bigotto, timido, pauroso, sfuggente ed impenetrabile, anche se, successivamente, rivelerà sprazzi di intelligenza ed audacia. Ma il problema non era solo il debole carattere del Re, ma anche la qualità degli uomini che lo circondavano.
Fra i politici, a parte Filangieri, non uno aveva la stoffa dello statista. Fra i militari, che giungevano alle alte gerarchie solo per i titoli e per l'anzianità, i generali erano quasi tutti vecchi, inetti e pronti al tradimento ; mentre gli ufficiali più capaci e arditi, come il maggiore Bosco, non avevano comandi superiori al reggimento.
Dunque, il Regno e la dinastia erano nelle mani di decrepiti incapaci, pronti a defilarsi o a saltare dalla parte del vincitore.

Crispi.
In questa situazione di instabilità politica scoppiò la rivolta nel punto più debole del
Regno : la Sicilia.
Parallelamente al cavouriano La Farina, nell'isola operava Francesco Crispi, avvocato di Ribera, dal passato repubblicano e mazziniano, esule dal '48. Era tornato clandestinamente in Sicilia nel '59 e vi aveva organizzato comitati rivoluzionari con lo scopo di scatenare un'insurrezione che fornisse al Piemonte il pretesto di intervenire. Ma non riuscì ad ottenere né il pieno appoggio di Torino, né la collaborazione del conterraneo La Farina. Così decise di rivolgersi a Giuseppe Garibaldi, il quale accettò di sbarcare in Sicilia con un contingente di volontari solo in appoggio ad una eventuale insurrezione già in corso. Crispi, allora, inviò in Sicilia i due palermitani Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per organizzare e guidare gruppi rivoluzionari che avrebbero dovuto accendere la rivolta.

Scoppia la rivolta.
Il 3 aprile 1860 scoccò la scintilla della rivolta siciliana. Le prime bande comparvero sui monti di Boccadifalco, piccolo paese nei pressi di Palermo. Intervennero due cmp del 9° btg cacciatori, guidate dal cap. Francesco Saverio Simonetti, che dispersero le bande dopo non poca resistenza.
I ribelli inneggiarono a Vittorio Emanuele di Savoia, chiaro segno del mutato clima politico dell'isola, ove operavano emissari di La Farina che lavoravano attivamente per orientare l'opinione pubblica in senso monarchico-unitario.
Intanto, in marzo era partito invano un altro gesto amichevole del Regno di Sardegna: l'inviato straordinario piemontese, marchese Salvatore Pes di Villamarina, era venuto a Napoli per indurre il Borbone a stipulare un accordo per risolvere la questione italiana, ma il risultato era stato negativo, dimostrando l'inesperienza e l'impreparazione politica del giovane re Francesco II.

Rappresentante del governo di Napoli in Sicilia era il t. gen. Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, avente la carica di Luogotenente del Re, con poteri sia militari sia amministrativi. Egli era nato in Inghilterra nel 1791 dall'ambasciatore del Re di Napoli alla corte inglese Fabrizio Ruffo. Ebbe un'educazione britannica e si arruolò nell'esercito inglese, partecipando alla battaglia di Waterloo col grado di tenente del 6° rgt dragoni, e rimanendo gravemente ferito. Nel 1821 rientrò a Napoli, dove fu integrato nell'esercito borbonico col grado di colonnello. Alternò la carriera militare a quella diplomatica. Nel 1855 fu chiamato a sostituire Filangieri quale Luogotenente del Re in Sicilia. Uomo di profonda esperienza e di ricca intelligenza, capì la delicatezza del còmpito, ma, malgrado ciò, non riuscì a fermare lo scoppio della rivolta. Suo braccio destro era il maggiore dei carabinieri Salvatore Maniscalco, palermitano nato nel 1814, Direttore di Polizia dal 1849, freddo, efficiente e zelante, riuscì a riorganizzare la polizia ed i compagni d'arme dopo lo sfascio del 1848, riuscendo a mantenere l'ordine pubblico e a reprimere ogni tentativo di rivolta. Divenne l'uomo più odiato dell'isola.

Il patriottismo siciliano
In passato il movimento patriottico siciliano aveva sempre conservato una colorazione speciale. Grazie alla maggiore solidità dell'impalcatura feudale, l'aristocrazia, secondata dalla nuova borghesia terriera, riusciva a convogliare l'odio delle masse popolari contro il governo borbonico, cui erano addebitate tutte le colpe della miseria e dello sfruttamento. Il barone era riuscito a persuadere il contadino che ad affamarlo non era lui col suo gabellotto, ma Napoli col suo fisco. Questo determinava fra loro una certa solidarietà e facilitava la partecipazione popolare ad un movimento che però non mirava all'unità nazionale, ma all'indipendenza o, almeno, all'autonomia dell'isola che avrebbe consentito al barone di sfruttare ancora di più il contadino. Tra l'altro, il parlamento, simbolo di democrazia, abrogato in Sicilia nel 1816 da Ferdinando I, era stato utilizzato dall'aristocrazia siciliana e dalle alte gerarchie ecclesiastiche per proteggere con più forza i loro privilegi, in contrapposizione alla volontà riformatrice del governo di Napoli ed alle rivendicazioni delle classi subordinate, in specie quella contadina.

La rivolta della Gancia
Il comitato rivoluzionario di Palermo aveva fissato la rivolta per il 4 aprile. Gli insorti avrebbero formato tre gruppi: il primo, al comando del fontaniere Francesco Riso, doveva riunirsi la sera del 3 aprile nel magazzino del convento della Gancia, sito nel quartiere Kalsa, preso in affitto col finto proposito di utilizzarlo come deposito di attrezzi, in realtà usato per occultare le armi, all'insaputa dei proprietari, i frati francescani; il secondo gruppo, agli ordini di Salvatore La Placa, doveva raccogliersi in un magazzino di via Magione; il terzo, guidato da Salvatore Perricone, in una casa di via della Zecca. Il segnale d'inizio della rivolta sarebbe stato lo sparo di mortaretti in piazza Fieravecchia; sùbito dopo i tre gruppi avrebbero dovuto assaltare i corpi di guardia e i commissariati di polizia. Dall'esterno della città sarebbero giunte le squadre da Misilmeri, Carini, Cìnisi, Torretta, Sferracavallo e Colli a dare man forte agli insorti palermitani.
La sera del 3 aprile la polizia effettuò due arresti decisivi: i rivoltosi Gioacchino Muratore e Alessandro Urbano, i quali confessarono tutti i particolari della rivolta. Venuto a conoscenza di ciò, il direttore Maniscalco, con la collaborazione del gen. Salzano, comandante della piazza di Palermo, mise in allarme posti di polizia e caserme. Le vie principali e le porte della città furono presidiate, piazzando anche dei cannoni. Il convento della Gancia fu circondato dai compagni d'arme del cap. Chinnici e dai fanti del 6° rgt di linea del t. col. Andrea Perrone. All'alba del 4 aprile i convenuti spari dei mortaretti in piazza della Fieravecchia non vi furono, a causa dell'occupazione militare della piazza. Così, le squadre appostate fuori città, non sentendo il segnale, tornarono indietro. Salvatore La Placa, malgrado non avesse sentito i mortaretti, tentò col suo gruppo di unirsi a quello del convento, ma si scontrò con i compagni d'arme di Chinnici. Vi furono morti e feriti da ambo le parti. Al rumore delle fucilate, Riso ed i suoi 60 uomini, saliti alle finestre, si diedero a sparare contro la truppa, a gettar bombe e a suonare la campana a stormo per incitare i palermitani alla rivolta. Prontamente intervenne il 6° rgt di linea di Perrone che, col fuoco di un òbice, sfondò il portone del convento e le barricate. I soldati penetrarono nell'edificio e, nel combattimento che seguì, uccisero 19 rivoltosi (fra i quali Antonio Riso, figlio di Francesco) e un frate, e ne catturarono 13, tutti condannati a morte e giustiziati dieci giorni dopo. I soldati regi ebbero 2 morti e 9 feriti. Lo stesso Francesco Riso, tentando di fuggire fu ferito e catturato. Oltre ai rivoltosi, furono arrestati anche gli innocenti ed inconsapevoli frati, sospettati di complicità, ma assolti al processo. Riso, in fin di vita, fu torchiato dalla polizia ed indicò i nomi di tutti i cospiratori, molti dei quali furono arrestati nei giorni successivi. Poi morì in ospedale il 27 aprile. La Placa, ferito gravemente, fu nascosto e curato da alcuni popolani. Guarito, partecipò ai combattimenti del 27-30 maggio e fu nuovamente ferito.

Rivolta nelle campagne
Salzano dichiarò lo stato d'assedio ed a Palermo fu instaurato un regime di terrore con numerosissimi arresti, in conseguenza, soprattutto, della zelante attività di Maniscalco. Alle campane della Gancia i palermitani non risposero, ma la rivolta divampò nei paesi vicini: Bagheria, Misilmeri, Carini, S. Lorenzo e Capaci. Salzano inviò varie colonne mobili per reprimere le rivolte.
La colonna mobile del gen. Letizia, formata da 4 compagnie di linea, 2 di cacciatori e 2 cannoni, soffocò sul nascere quelle di Trapani e Marsala, scoppiate il 6 aprile.
Il 4° rgt di linea "Principessa", al comando del col. Ascanio Polizzy, fu respinto dai rivoltosi di S. Lorenzo e subì la perdita di 30 uomini. Il 9 aprile Polizzy tornò a S. Lorenzo con quattro compagnie, scacciandone i ribelli ed infierendo con rigore sul paese.
A Tèrmini Imerese un tentativo di rivolta fu soffocato sul nascere, mentre all'ingresso di Palermo furono fermati e dispersi i rivoltosi che tentavano di entrare in città. Qui furono eseguiti diversi arresti, fra cui anche importanti elementi del comitato rivoluzionario.
A Monreale, cittadina sei chilometri ad ovest di Palermo, i rivoltosi, guidati dal barone Santanna, assalirono i quartieri del 9° btg cacciatori, ma furono respinti ed inseguiti da quattro compagnie condotte dal mag. Ferdinando Beneventano del Bosco, valoroso e pluridecorato ufficiale che sarà protagonista delle battaglie successive. Gli uomini di Santanna ebbero 2 morti e vari feriti; i regi solo un ferito grave.
Gli avamposti intorno a Palermo subivano attacchi continui. Un notevole scontro a fuoco si verificò in una fabbrica di cuoio sita sulla via che da S. Antonino porta al ponte delle Teste. Qui era attestato un buon numero di rivoltosi che, la notte dell'8 aprile, fu attaccato e scacciato da un reparto del 2° btg cacciatori al comando del 1° ten. Giovanni Torrenteros.
Il 12 aprile entrarono nuovamente in azione i cacciatori del mag. Bosco che scacciarono da una masseria fortificata, sita su di un monte nei pressi di Monreale, un numeroso gruppo di insorti. Alcuni furono uccisi o feriti, altri arrestati, mentre il resto riuscì a fuggire. I regi ebbero un morto ed alcuni feriti.
Il 16 aprile le bande della zona di Palermo, guidate da Rosolino Pilo, si riunirono e si fortificarono nell'abitato di Carini, cittadina a circa 30 chilometri ad ovest del capoluogo. Due giorni dopo il 4° rgt del col. Polizzy e due compagnie del 2° btg cacciatori al comando dell'ufficiale Cataldo attaccarono Carini e, dopo due ore di accaniti combattimenti, riuscirono a conquistare le case fortificate una ad una, usando anche il fuoco. Gli uomini di Pilo si ritirarono verso ovest, per poi disperdersi. Fu l'ultima vampata della rivolta di aprile e, nei giorni successivi, ci furono solo arresti di sbandati.
Nel resto dell'isola, a parte qualche assalto a piccoli posti militari in provincia di Messina, i comitati rivoluzionari non si mossero. La rivolta di Sicilia era stata sedata in appena quindici giorni.

DA QUARTO A MARSALA

Il governo piemontese
Mentre in Sicilia si sparava, l'8 aprile Garibaldi si recò da Vittorio Emanuele per chiedere il suo appoggio all'impresa; in particolare chiese la brg di fanteria Bergamo. Il Re si dichiarò, in linea di massima, favorevole, ma, prima di dare una risposta, consultò il governo che espresse il suo dissenso. Erano particolarmente ostili alla spedizione, ed a Garibaldi, il primo ministro Cavour ed il ministro della guerra, gen. Manfredo Fanti, i quali temevano un riaccendersi delle violente reazioni diplomatiche di tutte le cancellerie d'Europa, già in allarme per il disordine e le guerre che si susseguivano nella penisola italiana, nonché per le annessioni del Piemonte. Così, il 10 aprile il Re dovette dare una risposta negativa a Garibaldi, anche se poi non ostacolò l'organizzazione della spedizione.

Villa Spìnola
Garibaldi decise di fare da sé, stabilendo il suo quartier generale a villa Spìnola, fuori Genova. Qui, circondato dai migliori uomini del movimento patriottico italiano, fra i quali Bixio, Sirtori, La Masa, Medici, Crispi, Bertani, ecc., cominciò ad organizzare la spedizione. I volontari accorrevano da tutto il nord Italia, in particolare dalla Lombardia, cominciando ad affollare le pensioni di Genova. Dei preparativi non era sicuramente ignara la polizia; ma il governo di Cavour, indebolito dalla cessione di Nizza e della Savoia, non poteva permettersi di far arrestare l'eroe dei due mondi, e si limitò, quindi, a far spiare villa Spìnola. Poi, temendo le proteste degli ambasciatori stranieri a Torino, nonché la perdita della leadership del movimento unitario, nel consiglio dei ministri Cavour pose il veto all'invio di moderne carabine ai garibaldini, già acquistate con una pubblica sottoscrizione e pronte per la consegna in un magazzino di Milano, dove furono sequestrate dai carabinieri. Per cui Garibaldi si dovette accontentare di mille vecchi fucili ad anima liscia, acquistati dalla Società Nazionale.

La società Rubattino
A raffreddare l'entusiasmo, il 27 aprile, arrivò un telegramma da Malta, inviato dal patriota modenese Nicola Fabrizi che si trovava in quell'isola per organizzare la rivolta siciliana, in cui comunicava che questa era stata soffocata dalle truppe borboniche. A superare questo ostacolo ci pensarono Crispi e Bixio, falsificando dispacci e lettere giunti dalla Sicilia il 30 aprile, annunciando che la rivolta si era riaccesa, che Marsala era in mano agli insorti e che Rosolino Pilo era al comando di un esercito di ribelli. Così, Garibaldi decise definitivamente di partire per la Sicilia e telegrafò ai suoi aiutanti l'ordine di richiamare i volontari. Nel frattempo concludeva le trattative con Fauché, agente della società marittima Rubattino, la quale avrebbe fornito due vecchi piroscafi: il Piemonte ed il Lombardo.

Quarto
La sera del 5 maggio 1860 Bixio, con qualche decina d'uomini, s'impadronì dei due piroscafi, simulandone il furto per non creare problemi alla società Rubattino. Lì imbarcò 600 uomini; poi navigò verso Quarto, dove salirono a bordo Garibaldi ed il resto dei volontari, caricando, inoltre, le armi, le munizioni ed i bagagli. Invero le munizioni erano insufficienti, ma a largo avrebbero dovuto incontrare dei barconi di contrabbandieri carichi di cartucce; ma questi non si presentarono all'appuntamento.
Prima dell'alba del 6 maggio, il Piemonte, al comando di Benedetto Castiglia, e il Lombardo, al comando di Nino Bixio, salparono verso sud-est.

I Mille
Compresi i marinai, a bordo c'erano 1170 uomini. Una parte di questi sarebbero poi sbarcati a Talamone per effettuare una spedizione diversiva contro lo Stato Pontificio. Così il numero si ridurrà a 1089 uomini ed una donna, Rosalia Montmasson, la moglie savoiarda di Crispi.
Saputo il numero, Garibaldi, meravigliato, commentò: "Eh! Eh! Quanta gente!". Poco più di mille uomini, male armati e mal equipaggiati, andavano ad affrontare un esercito di quasi centomila soldati addestrati, con armamenti ed equipaggiamenti moderni, e l'Eroe dei Due Mondi li considerava tanti!
Si trattava, però, per la maggior parte, di reduci della II guerra d'indipendenza, e di altre campagne, addestrati al combattimento e fortemente motivati. Molti di loro erano personaggi straordinari che avrebbero fatto molta strada nel nuovo Regno d'Italia. Uomini come Turr, Sìrtori, Bixio, La Masa ed altri avrebbero raggiunto i più alti gradi nell'Esercito Italiano. Altri, come Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba e Giuseppe Bandi, sarebbero diventati famosi scrittori. Crispi sarebbe arrivato al vertice della politica: primo ministro. Garibaldi aveva ai suoi ordini un gruppo eccezionale.

Talamone
Lungo il viaggio il mal di mare colpì quasi tutta quella gente non avvezza al mare: quei poveri milanesi, pavesi, bergamaschi che formavano il grosso della spedizione.
La mattina del 7 maggio i due piroscafi si ancorarono a Talamone, in Toscana. Qui Garibaldi sbarcò e si recò nella fortezza di Orbetello, dove convinse il comandante, col. Giorgini, che la spedizione avveniva per un ordine segreto di Vittorio Emanuele e che gli avrebbe dovuto fornire armi e munizioni. Giorgini, sebbene titubante, alla fine cedette e consegnò due pezzi d'artiglieria da campagna, vari cassoni di cartucce, polvere da sparo, vecchi fucili e sciabole ed alcune migliaia di capsule. Per questa sua arrendevolezza Giorgini sarà arrestato, processato, ma, infine, assolto. Due vecchissimi cannoni furono ceduti dal comandante della fortezza di Talamone.

Grotte S. Lorenzo
Rifornitisi pure di viveri e, a Porto S. Stefano, di carbone, il pomeriggio del 9 maggio i garibaldini presero la rotta della Sicilia, lasciando, però, in Toscana una sessantina di uomini che, agli ordini del col. Callìmaco Zambianchi, avrebbero eseguito un'incursione diversiva negli Stati del Papa, allo scopo di distrarre l'attenzione dalle navi garibaldine, facendo credere l'obiettivo della spedizione Roma.
Zambianchi era un gigantesco romagnolo cinquantenne, fanatico anticlericale, torturatore e giustiziere di preti durante la Repubblica Romana nel 1849. Avviatosi verso il confine pontificio, ingrossò le sue file con nuovi volontari, raggiungendo la forza di 320 uomini che divise in tre compagnie, al comando di Elìa Stèccoli, Andrea Sgarallino e Giuseppe Guerzoni.
La notte fra il 18 e il 19 maggio sconfinavano nello Stato del Papa, giungevano a Làtera, nel viterbese, dove le autorità pontificie diedero l'allarme. Spostatisi a Grotte S. Lorenzo, si sparsero per il paese, gozzovigliando nelle taverne e nei caffè.
In questa situazione, nella tarda mattinata del 20 maggio, furono sorpresi da una furiosa carica di una sessantina di gendarmi pontifici a cavallo, guidati dal trentottenne colonnello Georges de Pimodan, nobile e valoroso mercenario francese, già ufficiale della cavalleria austriaca. Malgrado Zambianchi fosse ubriaco, i garibaldini si riorganizzarono, respingendo il secondo attacco. Sul terreno rimasero un morto e 6 feriti (di cui uno morirà l'indomani) fra i volontari, 2 morti e 3 feriti tra i gendarmi.
Temendo l'arrivo di rinforzi (un btg di cacciatori si era già mosso da Viterbo), Zambianchi ordinò la ritirata e rientrò in Toscana, dove le tre compagnie furono disarmate e sciolte dall'esercito italiano.

La Real Marina Borbonica
Tornando alle vicende dei due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, facendo un largo giro per non essere intercettati dalle navi da guerra borboniche, arrivarono in vista di Marsala, la mattina dell'11 maggio. Questa città era stata scelta perché creduta in mano agli insorti; ma così non era.
Alla partenza da Genova il console napoletano di quella città aveva intuito lo scopo della spedizione ed aveva inviato un telegramma al suo governo, il quale aveva messo in stato di allerta la flotta del Tirreno.
La marina da guerra borbonica era la più potente del Mediterraneo, si componeva di due vascelli da 80 cannoni: uno ad elica, il Monarca, l'altro a vela, il Vesuvio; tre fregate a vela: la Partenope, l'Amalia e la Regina; due ad elica: la Farnese e la Borbone; sei fregate a vapore a ruote: il Guiscardo, l'Ercole, il Tancredi, l'Ettore Fieramosca, il Veloce e il Fulminante; sei corvette a vapore: il Miseno, la Maria Teresa, il Palinuro, lo Stromboli, il Capri e il Ferdinando II; e due a vela: la Cristina e l'Amalia; quattro brigantini a vela: il Valoroso, l'Intrepido, lo Zaffiro e il Prìncipe Carlo; cinquanta bombarde e barche cannoniere.
Il comandante della Real Marina era lo zio del Re, Luigi conte d'Aquila, il quale, però, si occupava di tutto fuorché di cose di mare. Le navi napoletane che incrociavano nel Tirreno non intercettarono i piroscafi garibaldini, forse, perché non vollero intercettarli. Ne è forte indizio la defezione di molti ufficiali superiori della marina nei mesi successivi.

La reazione borbonica
Il luogotenente Castelcicala, ricevendo informazioni sul prossimo sbarco di Garibaldi, aveva organizzato tutta la truppa in colonne mobili e le aveva sguinzagliate per tutta la Sicilia occidentale. Quella destinata ad operare nel circondario di Trapani aveva avuto l'ordine di marciare per Calatafimi ed era partita da Palermo all'alba del 6 maggio, col còmpito principale di impedire uno sbarco di "emigrati", previsto lungo il litorale tra Mazzara e Capo S. Vito. Si trattava di una brigata al comando di Francesco Landi, cilentano di 67 anni, da poco promosso brigadiere, in fama di discreto militare. Marsala era già presidiata da un btg del rgt carabinieri a piedi (col. Francesco Donati).
Era inverosimile la confusione regnante nel comando generale borbonico, diviso tra il Luogotenente e il gen. Giovanni Salzano, comandante militare della provincia di Palermo. Solo così può spiegarsi l'incredibile errore di inviare verso Marsala la brg Landi e, contemporaneamente, il 10 maggio, di ritirare la colonna mobile del gen. Giuseppe Letizia da Trapani e da Marsala, per rinforzare il presidio di Palermo, già numerosissimo.

Lo sbarco
La mattina dell'11 maggio era serena e soleggiata. Verso le undici furono avvistate la fregata Partenope e le pirocorvette Stromboli e Capri della Real Marina Borbonica che avevano la rotta verso i due piroscafi garibaldini, i quali si diressero a velocità dentro il porto di Marsala, cominciando, poi, a sbarcare uomini e materiali con lance e barche di pescatori.
I legni borbonici, inspiegabilmente, si attardarono prima di fare fuoco; cosicché i garibaldini completarono le operazioni di sbarco, malgrado il Lombardo si fosse arenato. Forse i napoletani non erano riusciti ad identificare la nazionalità dei due piroscafi, scambiandoli per inglesi, dato che nel porto c'erano ancorate due navi di quella Nazione. O, forse, il tarlo del tradimento stava avendo i suoi effetti che, in séguito, avrebbero disfatto le forze armate del Borbone.
Quando i napoletani cominciarono il bombardamento del porto, le armi e le munizioni dei garibaldini erano ancora lì, e ci volle molto tempo a portarle via sotto il fuoco d'artiglieria che, però, non provocò danni né a persone né a cose. Poi, dalle navi si staccarono quattro barconi carichi di marinai regi, i quali s'impadronirono dei due piroscafi, riuscendo a rimorchiare solo il Piemonte, dato che il Lombardo si era arenato.
Nel frattempo i garibaldini si erano schierati per poter affrontare un eventuale sbarco che i napoletani non tentarono neppure, dato che a bordo non erano presenti reparti di fanteria di marina.
Marsala si presentò deserta. Gli abitanti, impauriti, si erano chiusi in casa, mentre i gendarmi di presidio e le guardie del carcere erano fuggiti verso Trapani. Fortuna volle che proprio il giorno precedente il btg carabinieri a piedi aveva ricevuto l'ordine di trasferirsi a Girgenti. Liberati i prigionieri politici ed estorte alcune coperte nei numerosi monasteri e conventi della cittadina, i garibaldini andarono a dormire, delusi di aver constatato che nella zona non vi erano rivoltosi pronti ad unirsi a loro.

Le forze borboniche in Sicilia
Il luogotenente del Re nell'isola, il ten. gen. Paolo Ruffo, prìncipe di Castelcicala, aveva alle sue dipendenze un cospicuo numero di truppe, così schierate: due divisioni di stanza nella Sicilia occidentale, una in quella orientale, comprendenti 8 rgt di fanteria di linea, 4 btg cacciatori, 5 btr d'artiglieria e il rgt cacciatori a cavallo, il tutto con un organico di 587 ufficiali e 24.227 tra sottufficiali e militari di truppa. Forze più che sufficienti a fermare i Mille, ed altre ne stavano giungendo in rinforzo in quei giorni. C'era, però, il problema degli insorti che impegnavano i reparti in piccoli e continui scontri, mentre il timore di un'insurrezione nella capitale siciliana spingeva l'alto comando napoletano a far presidiare la città da un numero eccessivo di truppe

 

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