ANNO 1860

REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ATTO
( anno 1860 )
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vista da un'altra parte (per cercare di capire)

La lotta armata nel Sud, le bande contro e l'esercito del Regno,
tutto trae origine da un grave disagio sociale

IL BRIGANTAGGIO 
LA BORBONICA
GUERRA PER BANDE

La borbonica guerra per bande

di Orazio Ferrara

" Viva 'o re" fu il grido con cui i reggimenti napoletani del "felicissimo Regno delle due Sicilia" usavano andare all'assalto.

Questo grido risuonerà rauco e disperato nelle terre del Sud anche dopo l'annessione al Regno d'Italia. A gridarlo saranno bande di irregolari, per lo più ex soldati dell'esercito borbonico, che non intendono arrendersi.
Sono i romantici disperati dell'ultima barricata, malgrado tutto sia irrimediabilmente perduto. Per essi non ci sarà né onore né gloria, ma soltanto una crudele guerra per bande.

" Brigantaggio" lo chiameranno sprezzantemente i Piemontesi. E con il termine "briganti" i legittimisti saranno consegnati alla Storia. Il "vae victis" di Brenna non è soltanto un aneddoto storico, è una costante nella storia dell'umanità. I vinti passeranno alla storia sempre e soltanto attraverso le pagine scritti dai vincitori e dovranno sempre giustificare il perché si siano battuti "per la parte sbagliata".

Dunque, briganti ! Dopo averli massacrati si cercò quindi di liquidarne definitivamente la memoria storica con la taccia infamante di essere banditi da strada. Per questi motivi l'ossequiente storiografia ufficiale ha sempre etichettato per il passato, salvo rare e lodevoli eccezioni quali un Alianello e la sua "Conquista del Sud", ricca di spunti di riflessioni, con lo spregevole termine di "brigantaggio" quel decennio di storia italiana delle provincie meridionali, che seguì alla caduta del Regno delle Due Sicilie.

Eppure in quel complesso fenomeno politico-militare si riversò di tutto. Da certo brigantaggio vero e proprio, secolare male endemico per le nostre contrade, alla resistenza popolare di fronte ai "diversi" Piemontesi, che avevano portato tra l'altro nuove e pesanti tasse e l'odiosa coscrizione obbligatoria, per finire all'idealismo di giovani ufficiali e soldati dell'ex esercito borbonico, irriducibili innamorati, "patuti" con voce popolare, della bianca bandiera gigliata, a cui un giorno avevano giurato eterna fedeltà.

In questo esplosivo, e a volte sanguinoso, cocktail, accanto ad avanzi di galera e grassatori analfabeti, che non poche volte però riscattano il proprio passato con una morte onorevole, si riscontrano luminose figure di veri e propri "combattenti politici". Sono quest'ultimi a dare il sapore di epopea popolare alla sudista guerra per bande.
Essi non hanno letto né tantomeno studiato Clausewitz, ma la guerra o per meglio dire la guerriglia sanno farla. E bene anche. Molti capibanda legittimisti si fanno ripetutamente beffa dei migliori strateghi avversari.
Questa volta i meridionali si battono bene, li guidano capi decisi e non titubanti traditori. Viene così smentita clamorosamente la diceria che i Napoletani siano "cattivi e vili combattenti". D'altronde i Piemontesi se ne
sono già accorti alla sanguinosa battaglia del Volturno, quando l'armata di Francesco II ha dimostrato di non essere un esercito di parata o da operetta. Le migliaia di morti e feriti d'ambo le parti, contati dopo la
cruenta battaglia, testimoniano che ai Napoletani è mancata la fortuna non il valore.

Anche la guerriglia esige un altissimo tributo di lacrime e di sangue. Da tutti, dai legittimisti e dagli "invasori", ma soprattutto dalle popolazioni meridionali, che parteggiano in maggioranza per i primi.
I capi delle bande, dai soprannomi impossibili, quali solo la fantasia popolare può inventare (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Diavolillo, Pilone, etc), provengono nella quasi totalità dai quadri del disciolto esercito borbonico. Dunque soldati del re ancora in armi, malgrado il " tutti a casa", che segue fatalmente ad ogni definitivo tracollo militare. Essi sono capi amati e rispettati, e perché no temuti, ma sempre per libera scelta da parte di tutti gli altri componenti. La scelta, trattandosi di formazioni volontarie, ricade sempre, e non può essere altrimenti, sui più abili, determinati e coraggiosi.

Lo spontaneismo che si osserva nella strutturazione delle bande non significa assolutamente anarchia. Come ogni vero gruppo di combattimento che si rispetti, in esse regna una ferrea disciplina militare, cosa d'altronde più che logica in quanto ne va della sopravvivenza stessa dei componenti.
Disciplina e organizzazione militare più che efficienti, come hanno riconosciuto rigorosi storici, che non si può certo accusare di essere corrivi al fascino del "mito sudista". Dell'esistenza di questa rigida disciplina ne sono prova le pagine del diario scritto dal Sergente Romano, alias Pasquale Domenico Romano, Primo Sergente ed Alfiere nella I Compagnia del V Reggimento di linea borbonico. Uno dei migliori capibanda, che
scorrazza con i suoi 500 uomini a cavallo nelle pianure pugliesi.

Gli stessi storici sono stati costretti ad ammettere che la tanto vituperata "ferocia sanguinaria" dei cosiddetti briganti è dovuta alle piccole bande di malfattori, che vivono come parassite ai margini delle grandi bande
legittimiste. Formate per lo più da delinquenti comuni, approfittano del caos di quei tempi burrascosi per meglio perpetrare i loro delitti, ammantandoli di una falsa coloritura politica.
Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri compiuti anche dalle bande legittimiste rispondono quasi sempre alle tragiche necessità della guerriglia e dell'autofinanziamento.
Il segreto del successo per cui i ribelli tengono per così lungo tempo in scacco notevoli forze avversarie sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella loro straordinaria mobilità, nella copertura, che spesso rasenta la complicità, delle popolazioni. Non solo le montagne e i boschi, luoghi naturalmente elettivi per ogni forma di guerriglia, sono teatro delle loro gesta. Anche in campo aperto, come le vasti distese della Puglia, i legittimisti dimostrano un buona padronanza della tattica militare, tanto da impegnare in combattimenti frontali interi reparti della cavalleria sabauda, tra i quali i lancieri di Montecelio e i Cavalleggeri di Saluzzo.

La carta decisiva e vincente della mobilità fa sì che il combattente legittimista viva praticamente sempre in marcia. Spesso egli, per più giorni, forma un tutt'unico con la propria cavalcatura, bardata con la doppia bisaccia, in cui trovano posto i pochi viveri e le preziose munizioni. Non è eccezionale per le bande percorrere senza soste, in solo dodici ore e di notte, anche 50 miglia su terreno impervio. Se al frugale
desinare e al poco riposo, aggiungiamo il clima inclemente e rigido, che nella stagione invernale investe le zone montuose interne del Meridione, ci si rende conto quale tempra di uomini fossero i combattenti filo-borbonici.
E si capisce del perché fosse necessario anche una dura disciplina e la presenza di un capo carismatico, riconosciuto spontaneamente per tale da tutti, per superare, senza gli inevitabili sbandamenti e diserzioni, i molti momenti di stanchezza e di sconforto. Ma soprattutto si capisce quale genuina idealità animasse il grosso delle formazioni ribelli.
La flessibilità del numero degli elementi formanti una banda è un'altra caratteristica degna di menzione. Al nucleo originario, che costituisce lo zoccolo duro della resistenza, si aggrega nella stagione propizia,
soprattutto nei primissimi anni successivi al 1860, altra gente, contadini quasi sempre, che fanno bravamente la loro guerra contro i nemici di re Francesco.

Malgrado le inevitabili rivalità esistenti tra di loro, non sono poche le volte in cui diverse bande si concentrano in un'unica grossa forza da battaglia per colpire più duramente il nemico. Raggiunto lo scopo, ci si disperde rapidamente, riformando i gruppi originari. Normalmente la tecnica di combattimento è quella di sempre della guerriglia. Imboscate, attacco ai fianchi di colonne in marcia, rapide incursioni con ancor più rapide ritirate sulle montagne.
Come tutti i combattenti irregolari i legittimisti non hanno una vera e propria divisa, anche se qualcuno indossa ancora orgogliosamente qualche vecchio e lacero capo della divisa dell'ex reggimento borbonico in cui ha militato. Quasi tutti però portano il cappello nero a larghe tese ornato da un nastro rosso. I capibanda più famosi ostentano sul petto le onorificenze concesse dal sovrano borbonico in esilio. Anche le bandiere di combattimento sono le più diverse e fantasiose. Accanto all'immancabile ed amata bianca bandiera gigliata, sventolano colorati stendardi con diafane figure di santi protettori e di bellissime madonne.
Nella sudista guerra per bande anche la fede va in battaglia.

Orazio Ferrara

(Tratto dal libro dello stesso autore Viva 'o Rre. Episodi dimenticati della
borbonica guerra per bande - Centro Studi I Dioscuri, 1997, vincitore 2°
posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini
di Firenze Edizione 1997)

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L'autore:
Orazio Ferrara, è nato a Pantelleria (1948), vive a Sarno in provincia di Salerno. Scrittore e saggista, ha pubblicato i volumi Parole sudiste, d'amore e altre ancora (1978), Storie Sarnesi (1993), Paputi un mito antico (1994), Arcaiche radici e diafane presenze (1995), Un capitano d'industria nella Valle del Sarno (1995), Il mito negato (1996), Sarno guida alla città
(1996, con altri autori), Viva 'o Rre. Episodi dimenticati della borbonica guerra per bande (1997, vincitore 2° posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini di Firenze Ed. 1997), Il Celeste Patrono della Gente di Mare. San Francesco da Paola (1997), L'antica terra murata della città di Sarno: San Matteo (1998), I Signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie (1998), Un ragazzo di piazza Croce.
Contributo per un processo di beatificazione (2003). E' redattore dei periodici locali La Voce ed Eventi, collabora a diverse riviste e giornali a diffusione nazionale, tra cui L'Alfiere, il mensile Storia del Novecento e la bilingue Santini & Similia. Dirige il Centro Studi di Storia, Archeologia e Araldica I Diòscuri.

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IL BRIGANTAGGIO 
FU SOLTANTO
LA GUERRA DEI POVERI

di MARCO LAMBERTINI

Che brigante, si dice bonariamente di un individuo dall'elasticità morale comprovata che non esita per il proprio tornaconto a ricorrere a furberie di ogni genere pur di condurre l'acqua al suo mulino. Il termine, attualmente usato soprattutto per stigmatizzare la condotta riprovevole di una persona in campo sentimentale, nel secolo scorso indicava l'appartenenza a una delle numerose bande che, in un arco temporale ristretto, dal 1860 al 1865, imperversarono nel Sud dell'Italia dando vita a quel fenomeno dalle implicazioni sociali e politiche classificato dagli storici sotto l'etichetta di "Brigantaggio meridionale". Ma chi erano i briganti? Gruppi di malfattori riuniti in una zona delimitata e disciplinati sotto l'autorità di un capo che attentavano con le armi in pugno alle persone e alle proprietà. Razziatori, ladri, delinquenti o, come si direbbe oggi, tutti coloro che agendo al di fuori della legalità appartengono alla cosiddetta malavita organizzata. Ma anche se i metodi e le "imprese" non differivano da quelli della delinquenza comune, la connessione finiva lì. Il brigantaggio, infatti, a cominciare dalla sua durata che si manifestava per poi estinguersi in un periodo di tempo definito, si è sempre discostato, almeno per le cause da cui trae origine, dal banditismo fine a se stesso ed è sempre stato l'espressione di un profondo disagio socio-economico.

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico sconfitto dall'esercito dei volontari garibaldini, il Meridione veniva annesso di fatto agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all'appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e di grande squilibrio sociale. Nella vasta zona dello Stato pre-unitario popolata da oltre 7.000.000 di abitanti, quasi un terzo della popolazione globale italiana dell'epoca, la distribuzione della ricchezza che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola era iniquamente spartita fra un ristrettissimo numero di latifondisti mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame. Le premesse per una rivolta popolare erano già nell'aria fomentate dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere e nell'autunno del 1860 una violenta guerriglia sfociò in tutta la parte continentale dell'ex Regno delle due Sicilie, con una diffusione massiccia nell'area compresa tra l'Irpinia, la Basilicata, il Casertano e la Puglia. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l'esercito piemontese.

In un primo tempo la matrice della ribellione sembrava essere circoscritta a fattori di natura prettamente politica e configurarsi nella lotta armata contro l'oppressore, ma quando la giurisdizione del Regno d'Italia s'insediò ufficialmente, la vera causa della sollevazione popolare si rivelò come il prodotto di un incontenibile disagio sociale. Il vecchio regime borbonico era caduto per l'iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l'espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini.

La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse di diseredati. Lo Stato forte dell'Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l'insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. A tutto ciò andava aggiunta l'incapacità da parte della Destra conservatrice di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante dell'esplosione di quel gravissimo fenomeno di rivolta popolare noto come brigantaggio meridionale.

Qual era la consistenza delle forze ribelli dislocate su un territorio che si espandeva fino ai confini meridionali dell'Abruzzo? Si calcola che le bande di briganti siano state oltre 350, di cui almeno 33 con oltre 100 uomini e le più corpose con un organico che sfiorava le 400 unità, e che schierarono in campo decine di migliaia di ribelli "prelevati" con la persuasione o con la forza dall'immenso serbatoio delle masse contadine. Le "formazioni" erano comandate da capi dal nome leggendario come Crocco, La Gala, Pasquale Romano, Caruso, Luigi Alonzi, Gaetano Manzo, Tranchella.

Crocco, al secolo Carmine Donatelli, era originario di Rionero e dominava la zona della Basilicata e del Melfese. Arruolatosi nell'esercito borbonico, aveva ucciso un commilitone nel 1850 e aveva disertato per evitare la forca. Dieci anni dopo si aggregò a un gruppo di patrioti lucani insorti per iniziativa di alcuni borghesi di Rionero. Di nuovo ricercato, si diede alla macchia nei boschi del Vulture seguito da un manipolo di compagni di sventura e divenne un temuto fuorilegge. Le sue file ben presto si ingrossarono e Crocco si mise a disposizione dei reazionari borbonici da cui ricevette assistenza e sovvenzioni. La sua banda nutrita e compatta impegnò in durissimi scontri le truppe regolari piemontesi, ma alla fine di luglio del 1864 Crocco prese la decisione di ritirarsi dalla guerriglia e si trasferì nel territorio dello Stato Pontificio convinto di farla franca. Benchè il clero appoggiasse ufficiosamente gli insorti, il capobanda lucano fu arrestato dal governo papale e incarcerato per le sue nefandezze. Nel 1872 fu processato dalle autorità italiane a Potenza e condannato all'ergastolo. Morì dopo oltre 30 anni di reclusione nel penitenziario di Santo Stefano a Ventotene.

Michele Caruso di Torremaggiore era considerato uno dei capibanda più sanguinari e temibili. Agiva con i suoi briganti nel Molise, nel Beneventano e nella Capitanata ( l'attuale provincia di Foggia ). Le sue azioni di vera e propria guerriglia organizzata diedero molto filo da torcere alle forze dell'esercito del Regno d'Italia dal 1862 al 1863. Catturato in seguito alla soffiata di un delatore il 10 dicembre 1863 nei pressi di Molinova, venne trasferito a Benevento e fucilato il giorno successivo dopo un processo sommario. Con la sua morte la banda in breve tempo si disperse.

Luigi Alonzi, soprannominato "Chiavone", originario di una famiglia di agiati contadini e guardaboschi di Sora, capeggiava una banda di oltre 400 briganti e combattè contro le truppe regolari del Regio Esercito tra il 1861 e il 1862 nelle zone confinanti del Sorano, del Casertano e dello Stato Pontificio. Venne fucilato nell'estate del 1862 per ragioni rimaste oscure, forse per rivalità, dall'ufficiale spagnolo Raffaele Tristany, inviato sul luogo su preciso ordine borbonico per organizzare azioni di guerriglia contro l'esercito italiano. Il Tristany assunse successivamente il comando di tutte le bande di briganti che operavano ai confini dello Stato Pontificio.

Gaetano Manzo di Acerno, un centro del Salernitano, comandava una banda di medie proporzioni ed era noto con il nomignolo di Mansi. Il suo campo d'azione era ristretto ai territori situati intorno a San Cipriano Picentino e Giffoni Valle Piana, nell'entroterra del Salernitano. La sua banda si arrese alle truppe regolari solamente nel 1866.

Gaetano Tranchella, a capo di una banda di media consistenza formatasi nel 1861, infieriva pure lui nel Salernitano e precisamente nelle zone fra Eboli, Battipaglia e Persano. Fu ucciso nel 1864 dalle truppe regolari e la sua banda fu decimata.

I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia. Forti degli appoggi tangibili forniti dalla corrente reazionaria borbonica e a volte addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che essi depredavano, ma che avevano accolto con sospetto l'arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull'aiuto della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino in cui fu presa la decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora saldamente nelle mani di Papa Pio IX, fermamente intenzionato a non rinunciare al potere temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento.

Fin dai primi mesi del 1860, il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 22.000 a un contingente di 50.000 nel dicembre del 1861, aumentato a 105.000 unità l'anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 nel 1863. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell'esercito regolare in cinque anni fece un'ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che tra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento o passati per le armi 5212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5044. Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio e fu determinante al riguardo la "Legge Pica" del 15 agosto 1863, che sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei banditi.Venne proclamato lo stato d'assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti.

A proposito del brigantaggio e delle cause che lo scatenarono, vale la pena di sentire l'autorevole relazione dello storico e letterato napoletano Pasquale Villari, che condusse sull'argomento una meticolosa ricerca raccolta sotto il titolo di "Lettere meridionali", una diagnosi quanto mai spietata e realistica sui mali che affiggevano il Mezzogiorno d'Italia negli anni dell'unificazione.

"Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso certamente può dirsi la conseguenza d'una questione agraria e sociale che travaglia quasi tutte le province meridionali. Le prime cause del brigantaggio sono quelle predisponenti e prima fra tutte la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo , che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice: i contadini non hanno nessun vincolo che li stringa alla terra. Mangiano un pane " che non mangerebbero neppure i cani", diceva il direttore del Demanio e delle tasse. Nelle carceri di Capitanata ( quelle della provincia di Foggia ), e così altrove, quasi tutti i briganti sono contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovo venuti e in una medesima provincia si osservava che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell'Abruzzo, per la sola ragione che il contadino ridotto alla miseria e alla disperazione può andare a lavorare la terra della campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l'esistenza del brigantaggio e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione...

"Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l'urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici...".

Quando queste "Lettere" furono pubblicate, un ufficiale dell'esercito, che si trovava ancora nelle Province Meridionali, dove aveva partecipato alla campagna del brigantaggio, mandò al Villari le sue memorie, che cominciò a scrivere a Viggiano, in Basilicata, nel 1861, e che continuò fino al 1868. Egli non volle che fosse reso noto il suo nome, avendo mandato quel manoscritto solo per fargli conoscere i risultati della sua personale esperienza, l'opinione sua e quella di molti altri ufficiali dell'esercito intorno alle vere origini del brigantaggio. Villari rispettò la sua volontà e pubblicò in forma anonima qualche brano di quelle memorie nella versione originale. Eccone alcuni stralci.

"Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva indole o nequizia degl'indigeni, che in verità hanno dalla natura vivezza d'ingegno, carattere dolce e sommesso e in alcune province, come nell'antico Sannio, negli Abruzzi e nelle Calabrie, a queste naturali disposizioni uniscono una robustezza e un'energia invidiabili. Errerò, ma secondo quello che io penso il brigantaggio in sostanza altro non è che una questione ardente agraria e sociale.

"Fa meraviglia il trovare, in quasi tutti i centri popolosi, soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso fra loro imparentate, e il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti, che imperano al lor talento, e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miserie e guai, quasi a derisione illuminati dal più bel cielo. Vive ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalesimo, il diritto nei proprietari di pretendere in determinati giorni dell'anno l'opera gratuita del lavoratore. E non è raro il caso nel quale, invece di retribuire la mercede in cereali o denaro, la si paga con una data misura del più abbondante prodotto della terra, come sarebbero frutta, agrumi, cedri ecc., generi tutti che, per il difetto di esportazione o mancanza di vie di comunicazione discendono a vilissimo prezzo; per il che il povero subisce una nuova perdita sul già magro salario.

"Nei mesi di giugno e di luglio, tempo delle messi, molti lavoratori si recano nelle Puglie o nella Terra di Lavoro ( la provincia di Caserta ) per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano al loro paese malati per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole o per causa della malaria. In tal modo le famiglie, lottanti giorno per giorno con la fame e coi più stringenti bisogni, abbrutite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria, e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano fuori i bambini ad accattare ( chiedere la carità ), a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi Ducati a vili speculatori le loro creature e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d'innocenti che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria.Tutte queste angherie, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell'odio che separa le due classi; spingono ad atroci vendette o alla volontaria emigrazione, non quella feconda, lucrosa e intraprendente dei Genovesi e Biellesi, ma bensì quella che non ha altra mira che di sfuggire alle miserie e alle soperchierie, che spopola e isterilisce interi paesi, vi fa mancare le braccia robuste, e priva le famiglie dei loro cari più vegeti e più atti al lavoro. Il brigantaggio, ripeto, è solo la conseguenza dell'odio vicendevole fra oppressi e oppressori, cioè fra quelli che possiedono e i nullatenenti, odio tanto più intenso quanto meno progredita è la civiltà.

" Nè è a credere che, per i danni e per le stragi che fa il brigante, sia egli dalla generalità esecrato, tutt'altro. Anche i più tranquilli e i più onesti del basso popolo hanno lo spirito talmente pervertito e il livore contro il signore così vivo che inclinano a vedere nel bandito la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armata verso chi li tiranneggia. Non è dunque da meravigliare se trovansi facilmente tanti manutengoli ( sostenitori ), non essendo l'orrido mestiere del brigante aborrito. Per le plebi i banditi sono anzi eroi e questo universale favore fa sì che qualche volta anche i maggiorenti ( i ricchi ), i quali naturalmente non possono vedere nei briganti che i loro acerrimi nemici, li temono, li accarezzano e invece di cercare il rimedio nell'educare e nel trattare meglio le plebi, non disdegnano di passare nelle file dei manutengoli, largamente sovvenendo e non mai tradendo il brigante.
Allorchè il capobanda Mansi ricattava il ricco... a Giffoni, nell'interno del paese, entrando coi suoi in sull'imbrunire d'un bel giorno d'estate, ed operandone l'arresto presso un tabaccaio e caffettiere, egli tradusse seco il malcapitato proprietario e appena fuori dall'abitato un'onda di campagnuoli, anzichè prestarsi alla liberazione del loro padrone, proruppe in un'ovazione al bandito, gridando a squarciagola "Evviva il capitano Mansi!". E fecero corteo alla banda di briganti. I terrazzani ( contadini legati alla terra da contratto con il proprietario ) di Postiglione, Serre, Persano e luoghi limitrofi parlano ancora oggi con religioso rispetto di quella "buona anima" di Don Gaetano, che in vita fu il famigerato Tranchella.

" E' certo che la calma materiale, come abbiamo al presente, si potrà sempre ottenere con la repressione, ma questa per se stessa non è che un'operazione violenta di sangue e di terrore, è il tagliare del chirurgo senza l'opera curativa del medico, dell'igienista e del moralista: perciò è utile che le due azioni vadano di conserva ( insieme ), e che i mezzi preventivi e d'incivilimento prevalgano".
Il brigantaggio, insomma, era stato stroncato con le leggi speciali e la forza e si estinse nel 1865 scomparendo definitivamente dal Meridione dell'Italia continentale. Gli equilibri politici andavano mutando e nel 1876 la questione meridionale che la Destra non aveva saputo capire fu ereditata dalla Sinistra che si avvicendò al potere. Ma il modello di quest'ultima, fondato sul protezionismo frutto del blocco agrario-industriale, avrebbe di fatto contribuito ad allontanare ancora di più il Sud dal Nord. E il problema del Mezzogiorno si è trascinato insoluto fino a oggi.

di MARCO LAMBERTINI

Si ringrazia per l'articolo
offerto a Storiologia  
il direttore Gianola di Storia in Network

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