ANNI 1881-1882

LA TRIPLICE ALLEANZA - MORTE DI GARIBALDI - OBERDAN

IL QUARTO MINISTERO DEPRETIS - LA RIFORMA ELETTORATO - ECCIDIO DI ITALIANI A MARSIGLIA - INDIGNAZIONE IN ITALIA - INTERPELLANZE PARLAMENTARI - IL DISCORSO DI G. BOVIO CONFLITTI A ROMA FRA LIBERALI E CLERICALI - PROTESTA DI LEONE XIII - NOTA DEL MANCINI - COMIZI ANTICLERICALI - G. GARIBALDI CONTRO LA POLITICA TUNISINA DELLA FRANCIA - ALLEANZA AUSTRO-GERMANICA - TRATTATO AUSTRO-RUSSO-GERMANICO - L' ISOLAMENTO DELL' ITALIA - CAMPAGNA DELL'ON. SONNINO IN FAVORE DELL'ALLEANZA DELL' ITALIA CON GLI IMPERI CENTRALI - GIOCO DELLA STAMPA AUSTRIACA - IL VIAGGIO DEI SOVRANI ITALIANI A VIENNA - BISMARCK E MANCINI - PRATICHE PER LA VISITA DI FRANCESCO GIUSEPPE IN ITALIA - IL TRATTATO DELLA TRIPLICE ALLEANZA - IL SESTO CENTENARIO DEI VESPRI SICILIANI - GARIBALDI IN SICILIA, LA MALATTIA, LA MORTE, IL CORDOGLIO MONDIALE - IL MARTIRIO DI GUGLIELMO OBERDAN ("BANDIERA DELL'IRREDENTISMO")
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IL QUARTO MINISTERO DEPRETIS
LA RIFORMA ELETTORALE
ECCIDIO DI ITALIANI A MARSIGLIA
CONFLITTI A ROMA FRA LIBERALI E CLERICALI
G. GARIBALDI E LA POLITICA TUNISINA DELLA FRANCIA

CAIROLI, dopo la non fiducia del 7 aprile del 1881, era già dimissionario, ma momentaneamente aveva accettato di restare al suo posto fino alla costituzione di un nuovo governo.
Ma quando si conobbe il testo francese del "Trattato del Bardo" scoppiò impetuoso lo sdegno in tutta Italia. La permanenza di CAIROLI al Governo si rendeva oramai impossibile, e lui, nella seduta del 14 maggio, poiché "gli alti interessi politici reclamavano tutta l'autorità del Governo e la più salda concordia della maggioranza", decise di ritirarsi.
Formare in quella situazione un nuovo governo di maggioranza non fu facile.
Prima contro DEPRETIS e poi contro lo stesso CAIROLI si era creata un'opposizione formata da un'apparente più che reale coalizione di destra (con qualche forte crepa al suo interno), e nella stessa sinistra, quella estrema, era ostile alla stessa maggioranza, facendo così gioire e a far sperare la destra. Infatti, Umberto guardò proprio a destra, volendo piuttosto ingenuamente, cambiare registro.

L'incarico di formare il nuovo ministero fu così affidato dal re a QUINTINO SELLA. L'industriale laniero biellese, ex geologo, ex politico, ex ministro delle finanze, era convinto di poterlo costituire con l'appoggio della Destra, dei Centri e della parte moderata della Sinistra. Ma a sorpresa la Destra non gli diede l'aiuto sperato e la Sinistra, temendo la rinascita della Destra, gli si mostrò ostile; e come se non bastasse, contro di lui (autore della famigerata "tassa del macinato") si scatenarono violentissime dimostrazioni popolari, con l'ostile slogan di "affamatore del popolo". Le dimostrazioni avvennero in varie città d'Italia, specialmente a Milano dove i tumulti durarono tre giorni.

Il 20 maggio SELLA si arrese e declinò l'incarico che fu dato a DEPRETIS. Questi il 29 costituì il nuovo Gabinetto (il suo quarto ministero) assumendo la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno, affidando gli Esteri a MANCINI, la Grazia e Giustizia a ZANARDELLI, l'Agricoltura a DOMENICO BERTI e lasciando le Finanze a MAGLIANI, i Lavori Pubblici a BACCARINI, la Pubblica Istruzione a BACCELLI, la Guerra a FERRERO e la Marina ad ACTON.

Il 2 giugno il DEPRETIS espose alla Camera il programma ministeriale e dichiarò che avrebbe provveduto ad aumentare le forze di terra e di mare, che in politica estera avrebbe caldeggiato una pace dignitosa e che si sarebbe attuata ad ogni costo la riforma elettorale.
La discussione del disegno di legge sulla riforma elettorale presentato dallo stesso DEPRETIS fin dal 31 maggio del 1880, poi modificato da una commissione speciale di cui ZANARDELLI fu relatore, era stata iniziata il 24 marzo del 1881 e vi avevano partecipato LACAVA, GIUSTINO FORTUNATO, MARCORA, SIDNEY SONNINO, BONGHI oltre a DEPRETIS. Sospesa il 6 aprile e il 14 maggio, fu ripresa l'8 giugno.
Parlarono fra gli altri CRISPI, FORTIS, BOVIO, ZANARDELLI, ed ERCOLE il quale propose, in nome di molti deputati, che si sospendesse il dibattito sugli articoli riguardanti lo scrutinio di lista per farne oggetto di uno speciale disegno di legge.
(La proposta fu poi accolta. Il 29 giugno la Camera approvò con 202 voti contro 116 il disegno di legge sulla riforma elettorale, che il 20 dicembre fu approvato dal Senato e il 22 gennaio 1882 la riforma elettorale fu varata. Con la riforma il numero degli elettori che era di circa 600 mila superò i due milioni. Le circoscrizioni furono 135; di queste, 35 dovevano eleggere cinque deputati ciascuna, 36 quattro, 71 tre e le ultime due dovevano eleggere ciascuna due rappresentanti).

Si era appena iniziato il lavoro parlamentare di Depretis, era appena iniziata la discussione sulla riforma elettorale, quando gravissimi incidenti avvenuti in Francia rendevano improvvisamente più tesi i rapporti di questa nazione con l'Italia.
Il 17 giugno, alcuni reparti di truppe francesi reduci dalla Tunisia sbarcarono a Marsiglia. Mentre attraversavano la città fra le entusiastiche acclamazioni della folla, furono emessi alcuni fischi che ingiustamente furono attribuiti ad operai italiani. La popolazione, inferocita contro gl'Italiani, odiati dai francesi perché questi facevano concorrenza sul lavoro, si diede selvaggiamente a dare la caccia ai 50 mila italiani là residenti, non pochi dei quali in un vero e proprio linciaggio, furono uccisi e molti altri feriti.

I massacri di Marsiglia suscitarono grandissimo sdegno in Italia e in molte, città, specialmente a Torino, a Milano e a Genova, ci furono tumultuose dimostrazioni al grido di "Abbasso la Francia !"
Alla Camera, il 20 giugno, l'on. MASSARI interrogò il ministro degli Esteri MANCINI e il 21 presentò un'interpellanza l'on. BILLIA, un'altra NICOTERA e una terza, gli onorevoli BOVIO, FORTIS, MARTORA, FAZIO E. MAIOCCHI, FRISSI, LUIGI FERRARI, SCIPIONE RONCHETTI, MORI, APORTI e PELLEGRINI.
BOVIO, svolgendo quest'ultima interpellanza, si chiedeva:

"…Per quale forza occulta avviene che la Francia, la quale dalle proprie storie può e deve desumere cagioni evidenti d'amicizia per l'Italia, spia animosamente le occasioni di recare all'Italia pubblico segno d'umiliazione, senza accorgersi di due chiari fenomeni: che l'andare dell'Italia è fatale "oltre la defension dei sensi umani" e che i danni passeggeri d'Italia tornano lutti durevoli alla Francia?". E continuava:
"Nel 1859, incalzati da nuove necessitá, combattemmo uniti. La Francia contava i suoi caduti in Lombardia, quando noi non avevamo ancora numerato i nostri morti al passaggio della Beresina. Ce ne avevano appena fatto accorti con un grido inascoltato di Leopardi ed un'imprecazione di Guerrazzi. Sulla via di Roma ritrovammo le armi francesi; quelle che fulminee contro di noi inermi, ma che dovevano poi fare cilecca contro gli eserciti prussiani.
Ed erano nostri fratelli uccisi, quelli che si erano messi sulla via di Digione a difesa di una Francia che si disse repubblicana. La Francia si rialzava nella repubblica e noi entravamo a Roma capitale. Roma conta gli anni di quella repubblica. Idee e fatti s'intrecciano. Ora perché la repubblica francese, per umiliare Roma e l'Italia, rompe le date sincrone e mette in mezzo cifre d'odio e di provocazione? Ciascuno interpreta questo fatto strano a suo modo, ed io manifesto il mio.
Ogni volta che, in Francia un dittatore palese od occulto volle fare esperimento delle proprie armi contro la Piazza di Parigi, cercò pretesto di provarle prima contro gli Italiani, per creare capitani docili. È una politica a doppia minaccia, per l'Italia e per la Francia. Ai francesi io dunque dico: Rompete il concerto delle due storie, ma rimanete isolati in Europa e sotto la suggestione nordica. Al Governo italiano dico, che arma terribile delle nazioni è la dignità offesa! E vedo gli italiani che onorarono il centenario dei grandi francesi, disporsi in Sicilia a commemorare il 1282 (i Vespri Siciliani). Così queste interrogazioni non devono né domandare chiarimenti, né ripetersi. I popoli offesi si raccolgono".

Il ministro degli Esteri cercò di calmare gli animi: "Dobbiamo tutti lealmente e sinceramente cooperare a ricondurre negli spiriti commossi la calma e la fiducia; dobbiamo impedire da una parte e dall'altra ogni specie d'assembramenti e dimostrazioni di piazza; dobbiamo resistere ad ogni specie d'ostili eccitamenti, e specialmente vegliare, io penso, sopra i tentativi tenebrosi di coloro che sono nemici comuni di due libere nazioni".

Ma l'eccitazione perdurò. Il 25 giugno, ABELE DAMIANI presentava un'interrogazione per sapere il numero degli uccisi e dei feriti a Marsiglia; la stampa teneva accesi gli animi con articoli di fuoco e intanto l'impresa tunisina proseguiva con l'occupazione di Sfag, da parte della flotta francese, avvenuta il 12 luglio del 1881.
Il giorno dopo a Roma si verificava uno spiacevolissimo incidente. Costruita in San Lorenzo la tomba dove, morendo, Pio IX aveva espresso il desiderio di esser sepolto; il Vaticano si era accordato con il prefetto e con il questore di Roma per trasferire la salma del Pontefice da San Pietro all'altra basilica e si era stabilito che il trasporto sarebbe stato fatto in sordina nella notte del 12 al 13 luglio; dunque senza dare molta pubblicità alla cosa.
Invece alla cerimonia (e fu presa come una provocazione) fu data una solennità straordinaria. Inoltre l'intervento di molte associazioni con varie bandiere diede al trasporto il carattere di una manifestazione politica, che fu, infatti, confermata da grida di "Viva il Papa-RE!". Reagì prontamente un gruppo di liberali; furono scagliati sassi, avvennero tafferugli, si tentò di assalire il carro con la bara, si minacciò di buttare nel Tevere la salma del Pontefice. Il corteo dovette proseguire di corsa e in disordine inseguito da una folla minacciosa ed urlante.

LEONE XIII colse l'occasione per protestare contro il Governo italiano, accusandolo d'essere impotente a garantire la libertà e l'indipendenza spirituale del Papa, e il ministro MANCINI dovette, per mezzo di una lettera circolare diretta ai sovrani d'Europa, giustificare la condotta del Governo, dichiarando che gli esecutori testamentari di Pio IX si erano impegnati di non dare alcuna, pubblicità ai funerali e invece i clericali avevano voluto convertire la cerimonia in una dimostrazione politica provocando la reazione dei liberali.

La stampa europea contraria all'Italia e specialmente quella francese, si buttò a capofitto su questi incidenti, e cercò di sfruttare l'incidente risollevando la "questione romana"; intemperante si mostrò la stampa italiana, e la demagogia promosse in varie città d'Italia dimostrazioni e comizi in cui -per rivalsa- fu reclamata l'abolizione della "legge delle Guarentigie".
Nel comizio tenutosi il 7 agosto a Roma parlarono con estrema violenza contro il Papato GIUSEPPE PETRONI, ULISSE BACCI e ALBERTO MARIO. Quest'ultimo, per avere pronunziato ingiurie contro il Pontefice e per avere offesa la Monarchia, fu processato e, nonostante la poderosa difesa di Giovanni Bovio, fu condannato.
Placate le ire contro i clericali, l'attenzione degli Italiani tornava a fissarsi su Tunisi e sulla politica anti-italiana della Francia, la cui flotta il 24 luglio aveva occupato Sabes. GIUSEPPE GARIBALDI, rispondendo ad una lettera di M. DELATRE, deputato della Senna, in data del 29 settembre del 1881, scriveva "Laver le drapeau italien trainé dans la boue des rues de Marseilles. Décrirer le traité, arraché par la violence au Bey de Tunis. Laisser Bismark cajoler le Pape. Ne pas déshonorer la république en s'alliant avec l'officine du mensonge, alliance dont on menace l'Italie. A ces conditions seulement les Italiens pourront fraterniser de nouveau avec les Francais. Nos voisins autrichiens et francais doivent comprende que le temps de leurs promenades dans le beau pays et à tout jamais passé. Et si leurs maftres ont peur, les Italiens sont décidés à ne plus se laisser outrager !". (…gli italiani hanno deciso di non farsi più oltraggiare!)

Il 9 ottobre i Francesi entravano a Tunisi e GARIBALDI, scrivendo sdegnato al poeta Clovis Hugues, affermava che "l'Italia doveva contare solo su se stessa", Quattro mesi dopo, il 9 marzo del 1882, l'Eroe levava ancora la voce (pesante, come spesso aveva fatto nel corso della sua vita), per la questione tunisina, scrivendo una fiera e tremenda lettera a LEONE TAXIL, direttore de "L'Anticlericale":
"È finita! - La vostra repubblica chiercuta non ingannerà più alcuno. L'amore e la venerazione che avevamo per lei si sono mutati in disprezzo. La vostra guerra tunisina è vergognosa. E se il Governo italiano avesse la viltà di riconoscere il fatto compiuto sarebbe assai spregevole, come codarda sarebbe la nazione che tollerasse tale Governo. I vostri famosi generali, che si sono lasciati ingabbiare dai Prussiani nei vagoni da bestiame e trascinare in Germania, dopo avere abbandonato al nemico un mezzo milione di prodi soldati, oggi fanno i rodomonti (i gradassi Ndr.) contro le deboli popolazioni della Tunisia, che nulla loro debbono e in nulla li hanno offesi".

ALLEANZA AUSTRO-GERMANICA
TRATTATO AUSTRO-RUSSO-GERMANICO
CAMPAGNA DELL'ON. SONNINO
A FAVORE DELL'ALLEANZA DELL'ITALIA CON GL'IMPERI CENTRALI
GIOCO DELLA STAMPA AUSTRIACA
VIAGGIO DEI SOVRANI ITALIANI A VIENNA

Risoluto a conservare il primato europeo alla Germania, che dopo Sadowa e Sédan si era acquistato, BISMARCK aveva fin dal 7 ottobre del 1879 stipulato a Vienna un'alleanza con l'Austria secondo la quale i due imperi, se uno di questi fosse stato attaccato dalla Russia, avrebbero dovuto difendersi reciprocamente con tutte le sue forze. Ma nel trattato vi era anche detto che se una delle due parti contraenti era attaccata da un altra potenza, l'alleata doveva mantenere un atteggiamento benignamente neutrale e se l'attaccante riceveva l'appoggio della Russia, l'altra parte contraente aveva l'obbligo d'intervenire.
Il 18 giugno del 1881 Germania, Austria e Russia conclusero a Berlino un trattato segreto ("Alleanza dei Tre Imperatori"). Ricordiamo che il 13 marzo era stato assassinato lo Zar Alessandro II e il successore Alessandro III aveva, congedato il ministro Gorciakoff, oppositore del Bismark, iniziato una politica germanofila.
I tre imperatori s'impegnavano di mantenere una benevola neutralità nel caso che uno di loro entrasse in guerra con una quarta potenza e di tener conto dei rispettivi interessi nella penisola balcanica, promettendo di non modificare, se non in seguito a comune intesa, lo "status quo" territoriale della Turchia. In un protocollo aggiunto, in cui erano specificati gli interessi dei tre Stati nei Balcani, l'Austria-Ungheria si riservava di annettersi, nel momento ritenuto più opportuno, la Bosnia e l'Erzegovina.
Dobbiamo però qui ricordare che pochi giorni dopo, il 28 giugno, la Serbia stringeva un "trattato segreto" con l'Austria, in virtù del quale si riduceva ad una sorta di protettorato dell'impero absburgico.

BISMARCK con questi due trattati credeva di avere reso più solida e duratura la posizione della Germania in Europa. Inoltre, spingendo la Francia in Tunisia, l'aveva distratta dal pensiero della rivincita e gli aveva messa contro l'Italia ponendo quest'ultima nell'alternativa di rimanere o isolata o di avvicinarsi agli imperi centrali rendendo così la posizione della Germania ancora più forte.
Fra l'isolamento e l'amicizia di Berlino, l'Italia, dopo l'invasione francese della Tunisia e i massacri di Marsiglia, non poteva scegliere che la seconda; ma allearsi con la Germania significava allearsi anche con l'Austria, perché nel 1880 al conte MAFFEI mandato da CAIROLI in Germania per tentare un'alleanza italo-tedesca il Bismarek aveva risposto che "la via per arrivare a Berlino era quella di Vienna".

L'alleanza con gl'imperi centrali implicava la rinuncia da parte italiana all'aspirazione di riunire alla madre patria le terre ancora soggette all'Austria, ma era una rinuncia che non pochi uomini politici italiani credevano necessaria.
Il 20 maggio del 1881, sulla "Rassegna settimanale" l'on. SIDNEY SONNINO scriveva:

"Bisogna che sia meta suprema della diplomazia italiana quella di togliere ogni sospetto, anche il più giustificato, che la nostra politica possa in qualche modo riuscire di detrimento a quelle potenze sulla cui amicizia dobbiamo contare; sopratutto bisogna mettere risolutamente da parte la questione dell'"Italia Irredenta". Il possesso di Trieste nelle presenti condizioni dell'Impero é di somma importanza per l'Austria-Ungheria: questa lotterebbe a tutta oltranza prima di rinunciare a quel porto. Inoltre Trieste è il porto più conveniente al commercio dell'intera regione tedesca, la sua popolazione è mista come tutte le popolazioni di confine; la rivendicazione di Trieste come di un diritto sarebbe un'esagerazione del principio di nazionalità, senza poi rappresentare nessun interesse reale per la nostra difesa.
Trento è certamente terra italiana, e rappresenterebbe un completamento della nostra difesa, senza avere per l'Austria l'importanza di Trieste. Ma gl'interessi che possiamo avere a Trento sono troppo piccoli di fronte a quelli rappresentati dalla nostra amicizia sincera con l'Austria. Questa amicizia rappresenta per noi la libera disposizione di tutte le nostre forze di terra e di mare; rappresenta, è inutile illuderci, l'autorevolezza della nostra parola nel concerto europeo.
È serio da parte nostra rinunciare ad ogni influenza nei Consigli dell'Europa per correre dietro ad un acquisto che non rappresenta nessun grande interesse, e che non otterremmo mai finché durino in Europa i presenti aggruppamenti di Stati?
Se vogliamo contare qualche cosa in Europa, cominciamo dall'esser seri noi stessi, persuadendoci che è una politica. infantile quella che ci condanna all'impotenza per il solo obbiettivo pratico di mantenere dei dissapori con l'Austria. L'amicizia con l'Austria è per noi condizione indispensabile per una politica concludente ed Operosa; coltiviamola con ogni cura, e dissipiamo ogni malumore, se ci vogliamo stornare dal capo la tempesta che si addensa a danno nostro sulle coste dell'Africa".

SONNINO concludeva affermando che:
"…isolamento equivale annullamento: il caso di Tunisi c'insegni quale tra le diverse politiche è la più conforme ai nostri veri interessi, e quali sono i danni del non risolversi a tempo".

Più esplicito del Sonnino fu l'on. MORSELLI nell'appoggiare l'alleanza con gli imperi centrali.
"L'Italia, -scriveva il l° luglio del 1881 sulla "Nuova Antologia" - si trova di fronte a due potenze, di cui una, l'Austria-Ungheria, tende fatalmente verso Salonicco, l'altra la Francia, mira ad espandersi sulla costa settentrionale dell'Africa. Poiché noi non eravamo in grado di opporci né ad una, né all'altra potenza e avevamo bisogno di una delle due per frenare l'altra, a quale dovevamo accostarci?
"Il pericolo maggiore che l'Italia possa correre - diceva - si è di vedere la Francia stabilirsi sulla costa settentrionale dell'Africa, dirimpetto e a poca distanza da quella di Sicilia, che è la nostra sentinella avanzata, e che, in caso di guerra, potrebbe diventare una sentinella perduta. L'Egeo è un mare lontano, ma le acque che penetrano fra Marsala e Capo Bon formano un vero stretto siciliano. I pericoli derivanti dall'occupazione di questo stretto, per parte di una grande potenza marittima, sono ben più gravi di quelli che potrebbero scaturire dalla dilatazione fino a Salonicco di una potenza marittima di secondo ordine"
(cioè l'Austria).

Sosteneva un'alleanza con gl'imperi centrali anche CARLO CADORNA e LUGI LUZZATTI e, più di loro due, il barone ALBERTO BLANC, segretario generale del Ministero degli Esteri, il quale riuscì a convincere MANCINI -che con DEPRETIS non voleva fare una politica nettamente antifrancese - della necessità e dell'utilità che aveva l'Italia di accordarsi con l'Austria, ed ispirò MICHELE TORRACA, direttore del "Diritto", a scrivere su questo giornale a favore di un'alleanza dell'Italia con gli imperi centrali, essendovi fra le tre grandi monarchie armonia d'interessi economici e politici.

BISMARCK, che sorvegliava attentamente lo stato d'animo dell'Italia, ritenne che era giunto il momento di dare la spinta, senza mostrarsi, al Governo di DEPRETIS, affinché passasse il Rubicone, ed ebbe al riguardo, un colloquio con il barone HAYMERLE, ministro degli Esteri austriaco, a Kissingen. Nei primi d'agosto del 1881, due giornali ufficiali di Praga e di Vienna annunciarono una prossima visita del Re d'Italia all'imperatore d'Austria. La notizia, che non era vera, aveva lo scopo di indicare all'Italia il modo con il quale poteva essere iniziata la politica d'avvicinamento, e il conte CARLO di ROBILANT, ambasciatore italiano a Vienna, comprese subito la manovra.
"È chiaro -scrisse a MANCINI - che l'Austria desidera la nostra alleanza. Se noi sapremo astenerci dal mostrare eccessiva premura nell'andare incontro a questa alleanza, dall'elemosinarla .... saremo ricercati, nonostante ci si dica oggi che questa alleanza non si farà. Ammessa in tale maniera la nostra accettazione all'alleanza, conseguenza più dei fatti che delle trattative, sarà, allora conveniente, promuovere una visita Reale".

ROBILANT era d'avviso che per il momento si doveva lasciar cadere la cosa. Di aspettare di essere cercati. E, infatti, in Austria, vedendo che il Governo italiano non si decideva a far compiere ad UMBERTO I il viaggio, si cercò di provocarlo fingendo di non desiderarlo, ma in un modo singolare, non certo elegante ma indubbiamente provocatorio.
Nel settembre del 1881, un giornale ufficioso austriaco pubblicò che l'idea di una visita del re d'Italia all'imperatore, attesa e gradita a Vienna (ed erano stati loro i primi ad inventarsela), era stata dal governo di Roma abbandonata ed aggiunse che, essendo l'alleanza degli imperatori d'Austria, di Germania e di Russia già stata cementata dal recentissimo convegno avvenuto a Danzica, l'adesione dell'Italia all'alleanza degli imperi centrali aveva oramai uno scarsissimo valore.
L'articolo raggiunse lo scopo che si voleva conseguire. MANCINI capì che la visita del re doveva esser fatta ed ordinò a ROBILANT, che si trovava in vacanze in Italia, di tornar subito in Austria e comunicare all'imperatore che UMBERTO I intendeva fargli visita a Pest. FRANCESCO GIUSEPPE espresse il desiderio che la visita fosse fatta a Vienna, dove sarebbe stato lietissimo di vedere anche la regina Margherita.

Il 26 ottobre del 1881, i Reali d'Italia, accompagnati da DEPRETIS e MANCINI (il re all'inizio non voleva essere da loro accompagnati) partirono da Monza e giunsero a Vienna la sera del 27. Il soggiorno nella capitale austriaca durò quattro giorni e la Corte e la popolazione festeggiarono con calore gli augusti ospiti, che ripartirono il 31.

Questo viaggio, i balli, i pranzi e le feste, suscitò non poche polemiche.
Fra le tante cose che aveva irritato non solo i radicali e i repubblicani, ma anche i monarchici, ci fu un episodio non molto elegante.
FRANCESCO GIUSEPPE nel corso delle "teatrali" cerimonie, conferì ad UMBERTO I il titolo onorifico di colonnello di un reggimento austriaco.

Al pranzo di gala nella Halle viennese e alla Kaisermesse, UMBERTO I sfoggiò la divisa di colonnello austriaco e titolare del 28° reggimento fanteria.

Ed ecco il commento sull'"Illustrazione Italiana" di dicembre:
"Umberto soldato di Custoza, travestito da colonnello di un reggimento austriaco? È un genere d'effetto teatrale …e ci lasciava così di colpo l'impressione di un pugno nello stomaco".
Ricordiamo che il 28°, nel '48, si era battuto e aveva fatto strage d'italiani a Novara e a Brescia! E com'era Umberto in vita (lui allora aveva 4 anni), così erano in vita gli orfani e le mogli di quei caduti italiani a Custoza.

Sua moglie invece, MARGHERITA, al braccio di questo colonnello austriaco posticcio, riscosse un personale successo, sfoggiando la sua eleganza dentro stupendi abiti di raso biondo o di velluto rosso cangiante, e che i giornali viennesi così commentarono "apparizioni di una creatura del Tiziano e del Veronese" le sue entrate nella Halle, o a Teatro di corte, sotto lo sfolgorio di 4 mila candele.
Del resto doveva trovarsi di fronte a quella donna di rara beltà che era Elisabetta (Sissi) e la regina d'Italia si era preparata bene al confronto come un generale ad una parata; "Sfolgora un bouquet di Fiori di brillanti sui biondi capelli intrecciati alla nuca, un grande diadema di brillanti, poi perle alle orecchie e al collo, il cui bianco argentino fanno spicco sulla porpora del vestito intersecato di raso pure rosso cangiante", così scriveva il "Neue Freie Presse", il venerdi 28 ottobre 1881.

La maggioranza degli Italiani salutò con gioia il viaggio dei Reali con cui vedeva iniziarsi una nuova politica estera (e in effetti questo primo viaggio fu decisivo per stipulare il successivo trattato del 20 maggio 1882). Fu invece disapprovato dai radicali e dai repubblicani, i quali erano convinti (ed era proprio così) che la visita significasse rinuncia a Trento e a Trieste e non risparmiarono invettive all'indelicato "colonnello austriaco di pezza".

In effetti era sanzionato il definitivo distacco della politica governativa italiana dal movimento irredentista e dalle istanze patriottiche di compimento dell'unità nazionale. Comune era anche l'orientamento dei tre sovrani a rafforzare il principio monarchico e dell'ordine sociale (e questo lo leggeremo poi nel trattato)
Per l'Italia, l'adesione aveva una chiara connotazione antifrancese, e per questo motivo, forse un po' allarmati, si sentirono subito gli effetti nel tono dimesso della stampa francese e nella sollecitudine con cui il Parlamento francese approvò il trattato di commercio con l'Italia stipulato subito dopo, il 3 novembre, votato dalla Camera francese il 9 dicembre e dal Senato nell'aprile del 1882. Il Parlamento italiano invece lo approvò nel maggio del 1882. Che non fu per nulla gradito a chi stava valutando un loro ingresso nell'Alleanza.

PRATICHE PER UNA VISITA DI FRANCESCO GIUSEPPE IN ITALIA
IL TRATTATO DELLA TRIPLICE ALLEANZA

Il viaggio dei sovrani d'Italia a Vienna per esser fecondo di risultati doveva essere seguito sollecitamente da pratiche per l'accessione dell'Italia all'alleanza degli imperi centrali, invece, DEPRETIS e MANCINI volevano fare una "politica di pace e d'amicizia" con tutte le nazioni e se da un canto, con la visita reale, credevano di essersi riavvicinati all'Austria, dall'altro, con il "trattato di commercio", avevano voluto mostrare le disposizioni concilianti del Governo italiano verso la Francia.
Ma non erano tempi da permettere una simile politica "del piede dentro due scarpe". TORRACA, ispirato da BLANC, scriveva sul "Diritto" che bisognava stipulare accordi con gl'imperi centrali e non con la Francia; e la "Rassegna settimanale", organo di SONNINO, ammoniva: "Il viaggio del Re è stato un primo passo fortunato, ma si convertirebbe in un pericolo e in un danno, quando non diventasse il punto di partenza di un'alleanza italo-germanica. Ricordiamoci che dopo gli scambi di visita tra gli Imperatori e Vittorio Emanuele, incominciò appunto, per l'errore da noi commesso di non dare a quelle solennità sceniche alcun seguito pratico e serio, uno dei periodi più infausti per le nostre relazioni estere; l'Italia esclusa dalla partecipazione agli affari d'Egitto; il nostro ministro degli esteri tenuto al buio a Berlino di quanti accordi si prendevano per la spartizione del Mediterraneo; la spedizione francese a Tunisi; tutto ciò dovrebbe bastare a dimostrare quanto possa essere sterile ed inconcludente una visita tra Sovrani quando non sia accompagnata da chiari patti e impegni positivi. Onde ci pare evidente che una semplice ripetizione delle visite sovrane del 1873 e del 1875, seguite dallo stesso tentennare e tergiversare da parte dell'Italia, non solo non potrebbe rimediare ai danni sofferti dalla nostra politica in questi ultimi anni, ma li aggraverebbe grandemente".

Lo stesso SONNINO, riapertosi nel dicembre il Parlamento, rammentò che la politica dell'isolamento era di grave danno all'Italia, la quale "aveva l'interesse di non amoreggiare con la Francia" da cui era stata offesa, di uscire dall'incertezza e di allearsi con l'Austria-Ungheria e con la Germania, e l'on. ARBIB, rispondendo a MANCINI che sosteneva la politica della "pace con tutti", disse: "L'Italia ha già fatto un triste esperimento di questa politica. In un'occasione solenne al Congresso di Berlino, si è visto che, mentre tutti avevano accomodato le loro questioni, mentre lord Beaconsfeld non aveva tardato a prendere impegni con il conte ANDRASSY, l'uno per farsi innanzi nell'Erzegovina, l'altro per occupare Cipro; mentre la Francia aveva gettato giú le basi della spedizione di Tunisi, noi, sebbene "amici di tutti", non abbiamo trovato nessuno che fosse veramente e sinceramente amico nostro".

La politica incerta e per qualche verso ambigua di DEPRETIS non poteva certamente esser gradita a BISMARCK specialmente dopo l'avvento al potere in Francia del GAMBETTA (14 novembre del 1881) notoriamente sostenitore della rivincita.
Allora BISMARCK si adoperò, per spingere l'Italia nelle braccia degli imperi centrali, con le armi che di solito usava con i meno forti: il disprezzo e la minaccia.
Tacque, il 17 novembre, nel messaggio imperiale del viaggio dei sovrani italiani a Vienna; ma poi il 29, nella seduta al Reichstag, accennò al pericolo che" la Dinastia Sabauda correva di cadere per il continuo sviluppo delle idee democratiche in Italia"; e minacciò di sollevare la questione romana; anzi, per mezzo di BUSCH, sottosegretario di Stato agli Esteri, propose a papa LEONE XIII di trasferire la Santa Sede a Fulda.
Quest'ultima manovra insidiosa del cancelliere tedesco provocò una fiera nota (10 gennaio 1882) da parte di MANCINI, il quale sostenne che la questione romana doveva considerarsi come un problema interno dello Stato italiano, e scriveva:

"Se si ammettesse anche solo una volta che un governo estero potesse interloquire in una questione simile, sarebbe uno stabilire per l'avvenire precedenti e corollari cui l'Italia non può, nel sentimento del suo diritto, prestarsi. L'Italia, oggi nazione unita e forte di trenta milioni di abitanti, rammenta quante volte il Papato attirò contro di essa, gli interventi e le ingerenze straniere, e non è disposta a lasciare rinnovare la storia antica".

Ma non era con la fierezza delle risposte che si poteva scongiurare il pericolo di vedere riaperta la questione romana. Occorreva stipulare un'alleanza con gli imperi centrali e MANCINI, sollecitato dal barone BLANC, incaricò il conte DI ROBILANT di iniziare trattative con il conte KALNOKY, ministro degli esteri austriaco.
Durante queste trattative, che non furono né brevi né facili, FRANCESCO GIUSEPPE mostrò desiderio di ricambiare a Roma la visita di Umberto I. LEONE XIII, appreso questo progetto, dichiarò all'imperatore che non avrebbe potuto riceverlo in Vaticano e poiché Francesco Giuseppe non voleva subire un affronto simile, né rompere le relazioni con la Santa Sede propose al Governo italiano di restituire la visita a Torino o a Firenze.
Ma sia MANCINI sia Di ROBILANT risposero che evitare Roma sarebbe tornato a disdoro della monarchia Sabauda; e così della visita imperiale in Italia non si parlò più.
Teniamo presente che riguardo all'integrità territoriale raggiunta dopo il 1871, non era ancora stata riconosciuta implicitamente dall'Austria, la massima potenza cattolica.
Ma dobbiamo anche ricordare, che dopo la proposta fatta da Bismarck al Papa (di trasferirsi la Santa Sede a Fulda), e la fiera nota del 10 gennaio 1882 da parte di MANCINI dell'ingerenza di Berlino sui fatti italiani, il Papa il successivo 15 febbraio, colse la palla al balzo per lamentarsi, e si mise a denunciare pubblicamente la politica anticlericale del governo italiano, a rivendicare i diritti della Santa Sede, e a far nuovamente acutizzare le tensioni fra Stato e Chiesa, e fu Lui questa volta a minacciare di andarsene da Roma e trasferirsi nella cattolica e prediletta Austria; idea che allarmò Francesco Giuseppe, che inviò subito a Roma in missione straordinaria il conte JOSEPH ALEXANDER UBNER per togliere questa idea dalla testa del papa.

IL TRATTATO (SEGRETO) DELLA TRIPLICE ALLEANZA

Le trattative per l'alleanza continuarono e il 20 maggio del 1882 fu sottoscritto a Vienna dai rappresentanti dell'Italia, della Germania e dell'Austria il seguente trattato:

"Le LL. MM. l'Imperatore d'Austria, Re di Boemia ecc. e Re apostolico di Ungheria, l'Imperatore di Germania, Re di Prussia, e il Re d'Italia, animati dal desiderio d'aumentare le garanzie della pace generale, di rafforzare il principio monarchico e con ciò di mantenere intatto l'ordine sociale e politico dei loro rispettivi Stati, si sono trovati d'accordo nel conchiudere un trattato che, per la sua natura essenzialmente conservatrice e difensiva, non persegue altro scopo che di premunirli contro i pericoli che potrebbero minacciare la sicurezza dei loro Stati e la tranquillità dell'Europa. Per questo scopo le LL. MM. hanno nominato S. M. l'Imperatore d'Austria ecc. e Re apostolico di Ungheria, il conte Gustavo Kalnoky, generale, suo ministro della casa imperiale e degli Affari Esteri; S. M. l'Imperatore di Germania e Re di Prussia il principe Enrico VII di Reuss, aiutante di campo generale, suo aiutante straordinario plenipotenziario presso S. M. imperiale e reale apostolica; S. M. il Re d'Italia il conte CARLO FELICE NICOLIS di ROBILANT tenente generale, suo ambasciatore straordinario e plenipotenziario presso S. M. imperiale e reale apostolica, i quali muniti di pieni poteri, che sono stati trovati in piena e debita forma, hanno convenuto gli articoli seguenti:
Art. I. Le alte parti contraenti si promettono mutualmente pace ed amicizia e non entreranno in nessuna alleanza o impegno diretto contro di alcuni dei loro Stati. Essi s'impegnano a venire a uno scambio d'idee sulle questioni politiche ed economiche di indole generale che potessero presentarsi e si promettono inoltre il loro mutuo appoggio nel limite dei loro propri interessi.
Art. II. Nel caso che l'Italia, senza provocazione diretta da parte sua, fosse per un qualunque motivo attaccata dalla Francia, le altre parti contraenti saranno tenute a prestare alla parte attaccata aiuto e assistenza con tutte le loro forze. Questo stesso obbligo incomberà all'Italia nel caso di un'aggressione non direttamente provocata, della Francia contro la Germania.
Art. III. Se una o due delle alte parti contraenti, senza provocazione diretta da parte loro, venisse ad essere attaccata e a trovarsi impegnata in una guerra con due o più grandi Potenze non firmatarie del presente trattato, il "casus foederis" si presenterà simultaneamente per tutte le altre parti contraenti.
Art. IV. Nel caso che una grande Potenza non firmataria del presente trattato minacciasse la sicurezza degli Stati di una delle alte parti contraenti, e la parte minacciata si vedesse perciò costretta a farle la guerra, le due altre parti si obbligano ad osservare verso la loro alleata una neutralità benevola. In questo caso ciascuna di esse si riserba la facoltà di prender parte alla guerra, se lo ritiene opportuno, per fare causa comune con il suo alleato.
Art. V . Se la pace di una delle alte parti contraenti venisse ad essere minacciata nelle circostanze previste dagli articoli precedenti, le altre parti contraenti, si concerteranno in tempo utile nelle misure militari da prendere in vista di un'eventuale cooperazione. Esse s'impegnano fin da ora, in ogni caso di partecipazione ad una guerra, a non concludere né armistizio, né pace, né trattato che di comune accordo tra loro.
Art. VI. Le alte parti contraenti si promettono scambievolmente il segreto sul contenuto e sull'esistenza del presente trattato.
Art. VII. Il presente trattato resterà in vigore per cinque anni, a partire dal giorno dello scambio delle ratifiche.
Art. VIII. Le ratifiche del presente trattato saranno scambiate a Vienna nel tempo di tre settimane, o più presto se far si può. In fede di che i rispettivi plenipotenziari hanno firmato il presente trattato, e vi hanno apposto il sigillo delle loro armi"

Il 22 maggio 1882 MANCINI inviò ai due governi alleati la seguente dichiarazione:
"Il regio governo italiano dichiara che le stipulazioni del trattato del 20 maggio 1882 fra l'Italia, l'Austria-Ungheria e la Germania non potranno, come già è stato convenuto in alcun caso essere considerate contro l'Inghilterra. In fede di che la presente dichiarazione ministeriale, che dovrà egualmente restare segreta, è stata redatta per essere scambiata con delle identiche dichiarazioni del governo imperiale e reale d'Austria-Ungheria e del governo imperiale di Germania". Le stesse dichiarazioni furono fatto il 28 maggio dal principe di Bismarck e dal conte Kalnoky.

Nonostante il trattato fosse segreto, qualcosa trapelò suscitando in Italia vari sentimenti. Tutti coloro che temevano che fosse risollevata la questione romana, tutti coloro che stimavano dannoso per la nazione l'isolamento, tutti coloro che ardevano di sdegno per le umiliazioni inflitte all'Italia dalla Francia, furono lieti dell'alleanza stretta con gli imperi centrali. Soltanto gl'irredentisti furono malcontenti perché nel trattato videro (non se ne parlava proprio) un'implicita rinunzia a Trento e a Trieste. Agli irredentisti scontenti si debbono aggiungere i clericali che videro tramontare la speranza, in quegli ultimi anni intensamente accarezzata, di un ritorno della questione romana sul tappeto della politica internazionale. E forse speravano come in passato, che al Papa bastava chiamare Vienna o Parigi, e subito un potente esercito scendeva in Italia in soccorso al Papa.

Il Trattato, di carattere puramente difensivo, rimase ufficialmente segreto fino alla prima guerra mondiale. Era un trattato conservatore e militarista di una "politica monarchica" che sanzionava il definitivo distacco della politica governativa verso il movimento irredentista-patriottico ostinatamente legato ai valori risorgimentali. Un trattato che aveva come obiettivo comune dei tre sovrani: a) il rafforzamento innanzitutto del principio monarchico b) una chiara connotazione contro la Francia c) altrettanto chiara connotazione contro la Russia d) consolidamento del sistema di sicurezza di Austria e Germania e) neutralità o appoggio dell'Italia all'Austria e Germania in caso di conflitti con b) e c).

Tra i vantaggi dell'Italia: la "grande cattolica" Austria, riconosceva all'Italia i territori della Chiesa (questione romana) mentre paradossalmente la "rivoluzionaria" Francia difendeva le rivendicazioni pontificie.

IL SESTO CENTENARIO DEI VESPRI SICILIANI
GARIBALDI IN SICILIA, LA MALATTIA, LA MORTE, IL CORDOGLIO

I luoghi, che erano stati teatro della sua epopea, esercitavano ancora sull'animo di GIUSEPPE GARIBALDI un fascino straordinario. Gli pungeva il cuore l'intenso desiderio di rivederli, di vivere, fosse pur per poco, nell'ardente clima del Mezzogiorno, tra la gente franca e generosa che lo aveva accolto dittatore. Pareva che egli presentisse prossima la fine e volesse congedarsi dalle terre che aveva reso libere ed aveva donato al Re Sabaudo.
Il 21 gennaio del 1882 GARIBALDI giunse a Napoli, che non lo vedeva da oltre vent'anni e lo accolse con grande entusiasmo. Pochi giorni dopo, il 28, cadde ammalato. Tuttavia si recò poi a Catanzaro, a Reggio e a Messina e alla fine di marzo, il 29, era a Palermo, nella sua Palermo che -narrano le cronache- lo accolse con "un entusiasmo delirante".
Le apprensioni degli italiani degli ultimi mesi, che il mare di Sicilia si trasformasse in un mare francese, ovviamente in Sicilia non era solo un'ansia ma era una preoccupazione. Garibaldi quando sbarcò l'avvertì nell'aria.

La capitale dell'isola, quasi per protestare contro la Francia e per ammonire la sorella latina, celebrava il 31 marzo di quell'anno il sesto centenario dei Vespri Siciliani e a quella significativa cerimonia aveva invitato il suo liberatore.
La commemorazione riuscì grandiosa. Intervennero e parlarono il senatore FRANCESCO PEREZ e FRANCESCO CRISPI; mentre GARIBALDI lanciò alla cittadinanza un manifesto molto allusivo e con il suo solito e pesante stile:
"A te, Palermo - città delle grandi iniziative e maestra nell'arte di cacciare i tiranni - a te appartiene il diritto della sublime iniziativa di cacciare dall'Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della menzogna, che, villeggiando sulla riva destra del Tevere, sguinzagliò di là i suoi neri cagnotti alla falsificazione del suffragio universale, quasi ottenuto, dopo essersi provato a vendere l'Italia per la centesima volta: il papato infine ! Ricordati, valoroso popolo, che il papa mando e benedisse gli sgherri che nel 1282 tu cacciasti con tanto eroismo. Forma, quindi, nel tuo seno, dove palpitano tanti cuori generosi, un'Associazione con il titolo "L'emancipazione dell'intelligenza umana" e la sua missione sia quella di combattere l'ignoranza; svegliare il libero pensiero e mandate tra le plebi delle città e delle campagne a sostituire alla menzogna la religione del vero".

Il 17 aprile, sul "Cristoforo Colombo", GIUSEPPE GARIBALDI se ne tornò a Caprera, da dove non usci mai più. Aggravatosi il 1° giugno il catarro bronchiale che lo tormentava, fu telegrafato al dottor ALBANESE in Palermo, a CANZIO a Genova e a RICCIOTTI a Roma perché accorressero presso l'infermo, vegliato dalla moglie, FRANCESCA ARMOSINO, da MENOTTI e dal dottor CAPPELLETTI; ma nessuno giunse a tempo.

"Nel pomeriggio del 2 giugno 1882,- scrive il Guerzoni - la difficoltà crescente del respiro, l'affievolimento della voce, l'abbandono delle forze fecero a tutti comprendere che la catastrofe era imminente. Tuttavia il Generale, sebbene parlasse a stento, aveva ancora la mente serena. L'inquietava solo il ritardo di Albanese, e chiedeva continuamente se Albanese era arrivato; se il vapore era già in vista; ma nessuno riuscì a dargli la consolante risposta ! Ad un certo punto due capinere, consuete visitatrici del Generale, andarono a posarsi sul davanzale del balcone aperto, cinguettando allegramente; la moglie, temendo disturbassero l'ammalato, fece un gesto per allontanarle; ma il Generale, con un fil di voce soave, sussurrò: "Lasciatele stare, sono forse le anime delle mie due bambine che vengono a salutarmi prima di morire. Quando non sarò più vi raccomando di non abbandonarle e di dar loro sempre da mangiare".
E pare che siano state queste le ultime parole.

Solo più tardi chiese ripetutamente del piccolo Manlio, infermo pure lui, si asciugò con un moto convulso della mano la fronte, mormorando sudo ...., cercò il suo cielo, il suo mare .... sorrise ai suoi cari .... e con la placidità di un patriarca, fra le braccia della famiglia, alle 6,22 pomeridiane spirò".

La notizia della morte dell'Eroe piombò nel lutto la nazione ed addolorò profondamente tutto il mondo. Re UMBERTO, di suo pugno, scrisse a Menotti: "Mio padre m'insegnò nella prima gioventù ad onorare nel generale Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato. Testimone delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l'affetto più profondo e la più grande riconoscenza e ammirazione. Queste memorie mi fanno sentire doppiamente la gravità irreparabile della perdita. Mi associo quindi al supremo cordoglio del popolo italiano e prego di essere interprete delle mie condoglianze, condividendole con l'intera nazione".
VICTOR HUGO telegrafò da Parigi: "…più che una morte, è una catastrofe; non è in lutto l'Italia, non la Francia, ma l'umanità: la grande nazione piange il grande patriota. Tergiamo le lagrime: sta bene dov'è se vi è un altro mondo, perché ciò che è lutto per noi è festa per esso".

"In tutta l'Italia si commemorò l'Eroe; il Parlamento decise che si sospendesse la festa nazionale dello Statuto, che i funerali fossero fatti a spese dello Stato, che gli s'innalzasse un monumento sul Gianicolo e si assegnasse alla vedova e a ciascuno dei cinque figli, Menotti, Ricciotti, Teresita, Manlio e Clelia, una pensione vitalizia di diecimila lire annue.
"Il parlamento di Francia, degli Stati Uniti, dell'Ungheria, il consiglio nazionale di Berna, il consiglio municipale di Londra, piansero la morte del grande italiano, i giornali di tutto il mondo esaltarono la eroica figura dello scomparso; sulle folle tuonò la voce di cento e cento oratori commemoranti e su tutte quella del CARDUCCI, il 4 giugno, al teatro Brunetti di Bologna, fece fremere gli ascoltatori:
"La parte migliore del viver nostro è finita. Quella bionda testa con la chioma. di leone e il fulgore d'arcangelo, che passò, risvegliando le vittorie romane e gettando lo sgomento e lo stupore negli stranieri, lungo i laghi lombardi e sotto le mura aureliane, quella testa giace immobile e fredda sul capezzale di morte. Quella inclita destra resse il timone della nave Piemonte per il mare siciliano alla conquista dei nuovi destini d'Italia, quella destra invitta, che a Milazzo abbatté da vicino i nemici con il valore sicuro di un paladino, é in dissoluzione. Sono chiusi e spenti in eterno gli occhi del liberatore che dai monti di Gibilrossa fissarono Palermo, gli occhi del Dittatore che sul Volturno fermarono la vittoria e costituirono l'Italia. La voce, quella fiera e soave voce che a Varese e a Santa Maria gridò "Avanti, avanti sempre, figliuoli! Avanti coi calci dei fucili!" e dalle rocce del Trentino espugnate rispose "Obbedisco", quella voce è muta nei secoli. Non batte più quel nobile cuore che non disperò in Aspromonte, né s'infranse a Mentana".

"Giuseppe Garibaldi aveva lasciato una disposizione testamentaria, scritta il 17 settembre del 1881. Essa diceva: "Avendo per testamento determinato la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell'eseguimento di tale volontà e prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. Ove ella morisse prima di me, io farò lo stesso per lei. Sarà costruita una piccola urna in granito che racchiuderà le mie e le sue ceneri. L'urna sarà collocata sul muro dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto l'acacia che lo domina".

"Ma l'ultima volontà dell'Eroe non fu rispettata: gli amici decisero che il corpo del Generale fosse imbalsamato e sepolto a Caprera. "L'8 giugno, presente il Principe Tommaso per il Re, i ministri Ferrero e Zanardelli per il Governo, le Presidenze della Camera e del Senato, le Rappresentanze della marina e dell'esercito, gli inviati delle città e delle corporazioni, i superstiti dei Mille e dei Volontari, presente in simbolo tutta l'Italia ufficiale e reale, Garibaldi, in un giorno di uragano, protestando il cielo ed il mare, fu fatto scendere a forza sotto l'umida terra, e a forza vi fu chiuso e suggellato dentro sotto una duplice lapide; la volontà dei vivi mise a giacere per sempre la volontà del morto; la inviolabilità della pietra sepolcrale tagliò corto a tutti i reclami e a tutte le querele; e il popolo italiano, facile alle accidie perché facile agli entusiasmi, piegò la testa al fatto compiuto e lo subì (Guerzoni)".

IL MARTIRIO DI GUGLIELMO OBERDAN

Nel grande corteo che si tenne a Roma, nel giugno del 1882, per la morte di Giuseppe Garibaldi, fu notato un giovane pallido, bello, biondo, che portava la bandiera abbrunata di Trieste e che, giunto sotto l'ambasciata austriaca, emise un urlo terribile: era GUGLIELMO OBERDAN.
Era nato a Trieste nel 1858 e, avendo, dopo il Congresso di Berlino, l'Austria mobilitato alcuni reggimenti per occupare la Bosnia e l'Erzegovina, lui, che faceva parte del reggimento Weber, per non andare contro gente che si batteva per l'indipendenza, era fuggito in Italia.
A Roma si era iscritto alla facoltà d'ingegneria e per vivere e per pagare le tasse si era messo a dare lezioni e a rilegare libri, ma nelle ore che lo studio e il lavoro gli lasciava libere frequentava il circolo democratico studentesco, la trattoria dell'Aquila, ritrovo d'irredentisti, e, sostenendo la necessità di liberare Trieste, comunicava ai compagni, il suo entusiasmo, la sua fede, la sua passione.
Nel luglio del 1882 l'Oberdan si recò a Napoli per conferire con MATTEO RENATO IMBRIANI, capo dell'irredentismo italiano e per informarlo forse della sua decisione di tentar la sollevazione della sua città natale a costo del sacrificio della propria vita. Lui credeva che per la redenzione di Trieste era necessario il sangue di un martire triestino, era d'avviso che con il sacrificio di una vita si potessero scuotere i giovani "liberi e non liberi" ed aveva stabilito di offrire il proprio sangue alla causa della sua città.
Si preparavano in quel tempo grandi feste a Trieste per la visita di FRANCESCO GIUSEPPE. L'Oberdan pensò che quella era l'occasione più propizia per agire e, costruite due "bombe Orsini", partì con il farmacista istriano DONATO RAGOSA. Lui avrebbe tentato di sollevar Trieste, il suo compagno l'Istria.

Giunto a Udine il 15 settembre, Guglielmo Oberdan scrisse "Ai fratelli italiani" il suo testamento politico:
"Vado a compiere un atto solenne ed importante. Solenne, perché mi dispongo al sacrificio; importante perché darà i suoi frutti. necessario che atti simili scuotano dal vergognoso torpore l'animo dei giovani, liberi e non liberi. Già da troppo tempo giacciono i sentimenti generosi; già da troppo tempo si china vilmente la fronte ad ogni specie di insulto straniero. I figli dimenticano i padri: il nome italiano minaccia di diventar sinonimo di vile o di indifferente. No, non possono morire così gli istinti generosi: sono assopiti e si ridesteranno. Al primo grido d'allarme, correranno i giovani d'Italia; correranno, con i nomi dei nostri Grandi sul labbro, a cacciar per sempre da Trieste e da Trento l'odiato straniero che da tempo ci minaccia e ci opprime. Oh, potesse questo mio atto condurre l'Italia a guerra contro il nemico ! Alla guerra, sola salvezza, solo argine che possa arrestare il disfacimento morale, sempre crescente, della gioventù nostra. Alla guerra, giovani, finché siamo ancora in tempo di cancellar la vergogna della presente generazione, combattendo da leoni ! Fuori lo straniero ! E vincitori, e forti ancora, del grande amore della patria vera, ci accingeremo a combattere altre battaglie, a vincere per la vera idea, quella che ha spinto sempre animi forti alle cruenti iniziative, per l'idea repubblicana. Prima indipendenti, poi liberi. Fratelli d'Italia! Vendicate Trieste e vendicatevi!".

Guidati dal vetturale friulano SABBADINI, i due compagni raggiunsero il confine che varcarono il 16 settembre. A Ronchi, il RAGOSA si divise dall'amico per raggiungere l'Istria, ma resosi conto che qui quasi nessuno pensava ad insorgere se ne ritornò in Italia; l' OBERDAN invece, tradito dall'avvocato Giuseppe Fabris-Basilisco, fu sorpreso dai gendarmi e, dopo una coraggiosa resistenza, fu legato e tradotto nelle carceri di Monfalcone e poi in quelle di Trieste.
All'Oberdan furono sequestrate due bombe, che -dissero loro- dovevano servire per uccidere l'imperatore. Accusato di diserzione e di tentato regicidio, fu processato dalla Corte marziale di Trieste e condannato al capestro. Tentarono gli amici di farlo evadere, ma non riuscirono; la vecchia madre lo pregò con insistenza di firmare la domanda di grazia, ma lui si rifiutò.

La notizia della condanna di Guglielmo Oberdan commosse l'Italia. Illustri personalità italiane e straniere invocarono la grazia imperiale. Victor Hugo telegrafò a Francesco Giuseppe: "Ho ricevuto in due giorni dalle Università e dalle Accademie d'Italia undici dispacci. Tutti domandano la vita di un condannato. L'imperatore d'Austria deve in questo momento fare una grazia. Che la faccia questa grazia e sarà grande !".
Ma meglio del poeta francese giudicava un poeta italiano: GIOSUÈ CARDUCCI. "No, perdoni il grande poeta: no, Guglielmo Oberdan non è un condannato. Egli è un confessore e un martire della religione della patria"

Così scriveva il Carducci e continuava:
"Egli andò, non per uccidere, ma per essere ucciso. E oggi, in questo oscuramento d'Italia, c'è un punto ancora della sacra penisola che risplende come un faro, ed è la tua austriaca prigione, o fratello. Tutte le memorie, tutte le glorie, tutti i sacrifici, tutti i martiri, tutte le aspirazioni, tutte le fedi si sono raccolte là, nella oscurità fredda, intorno al tuo capo condannato, per consolarti, o figliuolo, o figliuolo d'Italia! Oh poesia d'una volta! Chi potesse pigliare il tuo cuore e darne a mangiare a tutti i tapini della patria, sì, che il loro animo crescesse e qualche cosa di degno alla fine facessero ! Oh poesia d'una volta ! Chi potesse, consolandoti anzi morte con la visione del futuro, farti segno di rivendicazione, e trarre intorno la tua immagine, e batterla su i cuori, gridando: Svegliatevi, o dormenti nel fango, il gallo rosso ha cantato. No, l'imperatore non grazierà. No, - perdoni il grande poeta - l'imperatore d'Austria, non che fare cosa grande non farà mai cosa giusta. La giovine vita di Guglielmo Oberdan sarà rotta su la forca".

Poi il Carducci terminava maledicendo l'imperatore degli impiccati ed augurandogli sorte uguale a quella delle vittime: "Nel sangue ringiovanì, nel sangue invecchia, nel sangue speriamo che affoghi; e sarà sangue suo".

Il 20 dicembre 1882, GUGLIELMO OBERDAN fu giustiziato. Salì sul patibolo sorridendo e, porgendo il capo al boia, gridò con forza: "Evviva l'Italia ! Evviva Trieste libera !"
Il corpo del Martire fu sepolto in luogo ignoto; la testa fu mandata al Museo Antropologico di Vienna. Solo nell'anno 1933, Mussolini volle che gli fossero rese onoranze solenni in ogni centro, dalla capitale fino all'ultimo villaggio, mettendolo sull'altare delle glorie d'Italia il Martire.

Il Governo austriaco chiese l'estradizione del RAGOSA, ma non l'ottenne. Mandato all'Assise di Udine il Ragosa fu assolto; il vetturale Sabbadini, condannato a morte dall'Assise d'Innsbruck, ebbe commutata la pena in dodici anni di carcere.
Il martirio di Guglielmo Oberdan produsse, un'indignazione indicibile in tutta la penisola. CAVALLOTTI disse che dal capestro "con la salma del pallido martire penzolava insieme l'onore italiano"; l' IMBRIANI lanciò agli Italiani l'appello seguente: "Marmo! Pietra ! No, per ora. Ma ferro. Apriamo una sottoscrizione per numero di cento carabine che serviranno ad armare la compagnia Oberdan, quando l'Italia muoverà alla rivendicazione del Diritto nazionale, alla redenzione delle Alpi Giulie".
Oberdan è immediatamente riconosciuto come il primo martire del movimento irredentista.


Dimostrazioni di protesta si svolsero in ogni parte d'Italia e il Governo, in ossequio all'alleanza con l'Austria, ordinò che ogni manifestazione antiaustriaca fosse energicamente repressa, e manifestazioni da reprimere erano quelle della stampa; furono pertanto sequestrati 147 giornali; il 6 gennaio del 1883 furono a Roma perquisiti i locali dell'Associazione per i diritti dell'Uomo e furono spiccati mandati di cattura, contro Antonio Fratti e due studenti universitari che avevano promossa una sottoscrizione per erigere un monumento al Martire. Il 7 vi furono tumulti, seguiti da tafferugli fra repubblicani e guardie di pubblica sicurezza e quindi numerosi arresti di malcapitati; contro di loro fu istruito un processo, che però, dopo arringhe di Ceneri, Fortis, e del Crispi, furono quasi tutti assolti.

Durante il periodo narrato in queste pagine, 1881-1882, periodo che segna una svolta nella politica della sinistra al potere, erano avvenuti molti altri fatti di carattere economico, commerciale, agrario e scolastico che narreremo nel prossimo capitolo.
Ma i più importanti furono proprio gli avvenimenti politici.
E il più importante fu, che nelle elezioni del 22 ottobre 1882, il capo del governo DEPRETIS inaugurò la politica del "trasformismo".
Essendo le elezioni con il suffragio allargato (da circa 600 mila elettori si passò a circa 2 milioni) con la riforma elettorale varata in gennaio, era nata la necessità di costituire dei cartelli elettorali.
Rappresentò pure una risposta al crescente peso politico dei partiti dell'estrema sinistra e alle agitazioni dei contadini in un periodo di grave crisi.
Nascono associazioni operaie; in Romagna si costituisce un partito socialista rivoluzionario; a Milano gli internazionalisti danno vita agli "evoluzionisti"; a Genova si riuniscono a congresso le società operaia "affratellate".

L'Italia sta ribollendo !

Per la prima volta entra in Parlamento
il primo deputato socialista (ANDREA COSTA)
e anche il primo operaio (ANTONIO MAFFI).

Inizia il trasformismo
Le prossime pagine sono quelle che vanno dal…

… periodo 1882 al 1886 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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