ANNI 1889-1890

CRISPI: IL SECONDO MINISTERO - IL 1° MAGGIO - L' IRREDENTISMO

IL SECONDO MINISTERO CRISPI - VIAGGIO DI UMBERTO I IN GERMANIA - L' ITALIA NON PARTECIPA ALL' ESPOSIZIONE UNIVERSALE DI PARIGI - IL MONUMENTO A GIORDANO BRUNO - PROTESTA DI LEONE XIII - TIMORI DI UN'AGGRESSIONE FRANCESE E PROVVEDIMENTI POLITICO-MILITARI DEL CRISPI- VIAGGIO DEL RE IN PUGLIA.- ATTENTATO A CRISPI - IL DISCORSO DI PALERMO - INAUGURAZIONE DELLA QUARTA SESSIONE DELLA XVI LEGISLATURA - FINE DELLA LOTTA COMMERCIALA CON LA FRANCIA - ANDREA COSTA - IL I° MAGGIO - IL CONGRESSO DEMOCRATICO E IL "PATTO DI ROMA" - L' IMBRIANI E L'IRREDENTISMO - L'AUSTRIA SCIOGLIE LA SOCIETÀ "PRO-PATRIA - IL BANCHETTO DI UDINE E L'ESONERO DEL MINISTRO SEISMIT-DODA - G. GIOLITTI MINISTRO DELLE FINANZE - IL DISCORSO DI FIRENZE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - ELEZIONI
--------------------------------------------------------------------------------------------

IL SECONDO MINISTERO CRISPI

Come abbiamo letto nella precedente puntata, il 28 febbraio 1888, CRISPI volendo evitare un voto di sfiducia al suo ministero per la sola questione delle finanze, presentò le dimissioni, affermando di "non voler compromettere con un voto parlamentare i grandi interessi del Paese".

Abbiamo già detto, che molti nemici di Crispi, speravano proprio di non rivedere più al governo l'"accentratore", il "dittatore"; ma la sorpresa fu che i molti interpellati dal Re, rifiutarono l'incarico di costituire il Gabinetto. Nessuno voleva "bruciarsi", o meglio nessuno volle dimostrare, o non era in grado di dimostrarlo, di avere un po' di coraggio.
Invece, CRISPI, dall'alto dei suoi 71 anni conservava la sua fierezza, era un indomito e non voleva farsi né da parte, né voleva diventare all'improvviso un debole. E, nelle tempestive dimissioni, fu anche abile; invece di far spazzare via l'intero governo con il voto di fiducia, se la questione era solo quella finanziaria, bastava eliminare solo coloro che avevano provocato il danno.

Dopo i falliti tentativi, a costituire il Gabinetto, il Re chiamò nuovamente CRISPI, il quale il 9 marzo formò il nuovo ministero lasciando in carica, quasi tutti gli elementi del vecchio e sostituendo soltanto PERAZZI, GRIMALDI e SARACCO con GIOVANNI GIOLITTI (era lui ad aver attaccato il ministro delle finanze) al Tesoro; FEDERICO SEISMIT-DODA alle Finanze; il senatore GASPARE FINALI ai Lavori Pubblici.
Il giorno dopo fu istituito il nuovo ministero delle Poste o dei Telegrafi, e il suo portafoglio fu dato all'on. PIETRO LACAVA.

La soluzione della crisi fu, il 18 marzo, criticata aspramente da RUGGERO BONGHI (il fondatore de "La Stampa" di Torino, già ministro dell'istruzione; nel 1871 relatore della legge sulle Guarentigie) che non poteva ammettere che il vecchio Gabinetto si ripresentasse alla Camera con la sostituzione di soli tre ministri; ma Borghi andò anche oltre, e criticò duramente e direttamente il presidente del Consiglio per "le dimissioni date allo scopo di evitare un voto sfavorevole e lo accusò di avere ripreso nelle sue mani i ministeri degli Esteri e dell'Interno, continuando così la politica accentratrice e la dittatura" e proseguì:

"Quando voi - disse - avete nelle mani di una sola persona i due ministeri politici più importanti, gli altri ministri diventano capi di divisione, e tutto al più, ministri tecnici, se tecnici sono. Ed allora, signori, non vi è più davvero una seria deliberazione collettiva, ma vi è una volontà che tira a sé tutte le altre; tutti gli altri ministri diventano semplici esecutori della volontà del presidente del Consiglio; onde viene a mancare la garanzia principale del Gabinetto di un Governo parlamentare".

CRISPI rispose che la crisi era stata risolta come si doveva, perché non si erano riconfermati quei ministri i cui provvedimenti erano stati messi in discussione. Quanto all'unione di due ministeri nelle sue mani, ricordò l'esempio del Cavour nel 1857 e dichiarò: "Vi sono momenti in cui alcuni impegni, alcune obbligazioni, alcuni doveri esigono che l'amministrazione di questi due dicasteri debba essere retta dalla stessa persona".

Era un'ingenuità sperare che le isolate proteste parlamentari potessero indurre Crispi a lasciare l'uno o l'altro dei due ministeri da lui tenuti. Del resto lui sapeva, che specie nella politica estera, il Governo aveva assoluto bisogno di un polso fermo e di una mente audace e di larghe vedute, e il fiero statista Siciliano non avrebbe certamente rinunciato a tenere la direzione della nave nelle acque agitate della politica europea.
I rapporti con la Francia rimanevano sempre tesi, né Crispi si curava di schiarire l'orizzonte, tutto intento com'era a coltivare l'amicizia italo-germanica.

VIAGGIO DI UMBERTO I IN GERMANIA

Ad acuire maggiormente i rapporti con la Francia contribuirono il viaggio di Umberto I in Germania e la mancata partecipazione dell'Italia all'Esposizione di Parigi.
Il Re accompagnato da CRISPI, nella seconda metà del maggio 1889, si recò a Berlino a restituire la visita in Italia di GUGLIELMO II, ricevendo accoglienze calorose. In un banchetto offertogli dai deputati tedeschi, CRISPI dichiarò che "la missione dell'uomo di Stato era di assicurare la prosperità del suo paese e che di questa prosperità la pace era la condizione prima".
Ma queste dichiarazioni non furono prese sul serio in Francia, dove grande era l'irritazione per quel viaggio che cementava maggiormente l'amicizia delle due nazioni ora alleate.

Che l'Italia non avrebbe partecipato all'Esposizione universale di Parigi, si sapeva da due anni e c'era stata alla Camera un'interrogazione di CAVALLOTTI, cui aveva risposto proprio CRISPI. Altre interrogazioni furono fatte il 3 giugno del 1889 dagli onorevoli LUIGI FERRARI e PANTANO sul rifiuto dell'Italia di partecipare all'esposizione, inaugurata il 5 maggio (anniversario in Francia della famosa riunione degli Stati Generali nel 1789), e sui criteri del Governo nell'accordare proprio in quel periodo al generale MENABREA, ambasciatore a Parigi, un congedo.

CRISPI rispose con parole molto fiere:
"Ogni paese ha le sue date illustri, ed i nostri colleghi, ricordando quella del 5 maggio 1789, credo non abbiano ricordato la migliore della rivoluzione francese; avrei capito se avessero ricordato la notte dal 4 al 5 agosto 1789, quando furono aboliti i privilegi e fu fatta la celebre dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino. Del resto, noi abbiamo qualche data migliore, quella del 20 settembre 1870, la quale, abolendo l'ultimo avanzo del feudalismo politico, accordò ai popoli completa ed intera, la libertà di coscienza. Noi non abbiamo mai domandato agli altri di festeggiare questa data, perché ogni paese festeggia le sue, e non so perché si abbia tanta fretta, tanta sollecitudine, tanto desiderio di festeggiare le date celebri delle altre nazioni, quando abbiamo invece le nostre che sono così gloriose".

IL MONUMENTO A GIORDANO BRUNO A ROMA
PROTESTA DI LEONE XI

Sei giorni dopo, il 9 giugno 1889, veniva inaugurato a Roma, a Campo di Fiori, "dove il rogo arse", il monumento a GIORDANO BRUNO, opera di ETTORE FERRARI. Tenne il discorso ufficiale GIOVANNI BOVIO. "Reca dolore al Papato - egli disse fra l'altro - meno il 20 settembre che il 9 giugno: quella data fu una conclusione, questa è un principio di un'altra età".
Finita la cerimonia, che era stata preparata dalla Massoneria e alla quale avevano partecipato le rappresentanze di tutte le nazioni con duemila bandiere, si formò un corteo grandioso per le vie della città e quando fu nelle vicinanze del Vaticano iniziarono i partecipanti a gridare di "Abbasso il Papa".
CRISPI (ricordiamoci era un importante affiliato della massoneria) quel giorno stesso, a Montecitorio, espresse a BOVIO le congratulazioni sue e del re, e il giorno dopo, alla Camera, non mancò di lanciare una stoccata contro la Santa Sede, mettendola fra i nemici della nazione;

"Noi - disse - abbiamo molti nemici che insidiano ogni nostra posizione; e n'abbiamo uno più operoso di tutti, che è nel seno della stessa patria nostra, che sarebbe lieto se, con le sue arti potesse giungere a rompere quel fascio delle tre potenze, che mantiene la pace del mondo. È un lavoro continuo, o un'insidia implacabile che ci viene da quel lato; e sventuratamente talora ha le lusinghe e talora gli aiuti di qualche potenza".

Naturalmente l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno indignò il Vaticano. LEONE XIII, il 29 giugno, in una sua allocuzione protestò altamente contro la glorificazione di quel nemico della Chiesa. "Di fronte a sì indegni attentati - disse il Papa- Noi, posti a capo di tutto il gregge di Gesù Cristo, custodi e vindici della Religione, protestiamo altamente e per lo sfregio che Roma ha patito e per l'oltraggio ignominioso della santità della sede cristiana, e con la voce della più alta riprovazione denunziamo al mondo cattolico il sacrilego fatto".

In quella circostanza in Vaticano accennò alla possibilità che la Santa Sede abbandonasse Roma. La notizia diffusasi rapidamente, produsse grande impressione all'Estero, specie in Francia, dove da qualche tempo si pensava a risollevare la questione romana. In quei giorni, a Parigi, sembrando propizia l'occasione, si autorizzò LEFEBVRE de BÉHAINE, ambasciatore presso la Santa Sede, "a promettere a Leone XIII che la Francia assumeva su di sé la soluzione della questione romana se egli avesse abbandonato Roma".

La partenza del Pontefice, non avrebbe preoccupato molto CRISPI, se non fosse stata connessa con un'azione militare della Francia contro l'Italia, di cui si parlava insistentemente. Di queste preoccupazioni ne abbiamo notizia da CRISPI medesimo. In una lettera del 10 luglio al ministro della Guerra, scriveva:
"I grandi comandi del nostro esercito non sono tutti bene affidati. Bisogna svecchiare il corpo dei nostri generali, e questo il più presto possibile. Non tralascerò, scrivendovi, di raccomandarvi la maggiore sollecitudine e le maggiori cure nella fabbrica delle armi, la quale, per quanto io ne so, va molto a rilento. L'Europa al presente è un vulcano, che può da un momento all'altro erompere, e bisogna trovarsi pronti. Ogni giorno ci svegliamo con il pericolo che scoppi la guerra. I grandi Stati affrettano gli armamenti con cura febbrile. Noi sventuratamente siamo indietro a tutti e siamo i primi esposti agli attacchi nemici .... La vicina Repubblica ha preparato, in mare e in terra, tutto quanto occorre per assalirci .... Ricordatevi che questa volta non basterà l'onore di saperci battere, ma bisognerà vincere, vincere a qualunque costo.
I Francesi, per darsi ragione contro di noi, hanno voluto costituire la convinzione, nel loro paese e nel nostro, che io voglio fare la guerra. I miei avversari in Italia si prestano a codesta indegna ed antipatriottica manovra. Nessun nomo di stato può volere la guerra. Ed io non posso volerla, perché non siamo forti abbastanza e perché, se fossimo forti, non oserei affrontare i risultati di un conflitto, il cui esito non è mai sicuro".

TIMORI D'UNA AGGRESSIONE FRANCESE
PROVVEDIMENTI POLITICO-MILITARI DI CRISPI

Diventando più insistenti le notizie sull'intenzione della Francia di attaccare l'Italia, CRISPI ebbe colloqui con il re e con i ministri della Guerra e della Marina per impartire le disposizioni tendenti ad impedire qualsiasi sorpresa per terra e per mare; inviò a Berlino l'on. FRANCESCO CUCCHI, garibaldino, per conferire con BISMARK; chiamò a Roma NIGRA e CATALANI, ambasciatori italiani a Vienna e a Londra; infine fu stabilito con COSENZ, capo dello Stato Maggiore, il piano di difesa.
Furono questi i giorni di maggiore ansia; poi giunsero notizie confortanti. Il Catalani, che era ritornato a Londra, scriveva:

"Benchè SALISBURY non divida le nostre apprensioni invierà in agosto un potente rinforzo alla squadra che ha nel Mediterraneo".
Allora FRANCESCO CRISPI volle fare un passo presso il Vaticano e il 21 luglio, chiamato il cardinale HOHENLOHE, suo amico, gli disse:
"Si parla della partenza del Papa, e vi è chi lo spinge ad abbandonare il Vaticano. Io non ho consigli da dare; se il Papa resterà, continuerà ad essere rispettato, e sarà garantito come prima, anche se scoppiasse la guerra, che io farò tutto il possibile per allontanare; se invece il Papa vuole partire non ci opporremo; anche nella sua partenza, e finché si trova sul territorio italiano, sarà sotto la tutela delle leggi italiane, godrà di tutti i suoi diritti, di tutta la sua libertà. Faccio intanto osservare e prego V. S. di dirlo bene al Papa: che si guardi di non essere lui la causa di una guerra, e ricordi quanto costò a Pio IX l'avere ricorso alle baionette straniere".

LEONE XIII, con un pretesto, si rifiutò di ricevere HOHENLOHE, ma questi, il 27 luglio riuscì a fare avere al Pontefice la seguente lettera, riveduta dal Crispi:
" Si parla di partenza. Persona intima di S. E. Crispi mi assicurò che il pensiero del ministro a questo proposito è il seguente: Se Lei vuole partire non vi si opporrà e La farà accompagnare con tutti gli onori, ma che Vostra Santità non tornerà più a Roma".

Nel frattempo CUCCHI, dopo i colloqui con Bismarck, scriveva a CRISPI da Berlino:
"Il Principe non crede assolutamente alla possibilità di un attacco, quale sarebbe indicato dalle tue informazioni che io ho riferito. Dice che tale fatto risveglierebbe l'indignazione del mondo civile. La responsabilità di avere provocata la guerra in Europa, con un fatto da briganti, costerebbe immensamente cara alla Francia. Sarebbe il caso del "finis Galliae". (la "fine della Francia") .

Il Bismarck previde bene. La Francia, indotta a più miti consigli dai febbrili armamenti dell'Italia, o compresa della grave responsabilità che avrebbe assunta di fronte all'Europa, o timorosa di misurarsi con le forze riunite della Triplice, o priva - per la decisione del Pontefice di rimanere a Roma - del pretesto per una guerra, o per tutte queste ragioni insieme, non si mosse e gli animi si rasserenarono.

IL VIAGGIO DEL RE IN PUGLIA
ATTENTATO A CRISPI

Nella prima metà di agosto Crispi convinse il sovrano a compiere un viaggio nelle Puglie, che dalla rottura commerciale con la Francia più d'ogni altra regione d'Italia soffriva le conseguenze. Il re, accompagnato dal presidente del Consiglio, fu accolto ovunque con grandi feste, ma il viaggio non guadagnò a CRISPI le simpatie dei Pugliesi, irriducibilmente avversi al Governo e al suo capo.
E un operaio pugliese fu l'uomo che la sera del 13 settembre del 1889 attentò alla vita del presidente a Napoli. CRISPI quella sera percorreva in vettura scoperta la via Caracciolo in compagnia della figlia Giuseppina, quando l'operaio EMILIO CAPORALI, gli lanciò addosso un sasso, che centrato il ministro in viso gli causò una ferita al mento.
La notizia commosse vivamente la nazione: il re, gli amici e gli stessi avversari si congratularono con lui dello scampato pericolo. A Giuseppe Verdi, che gli telegrafava gli auguri, il ministro rispose: "A voi che avete fatto la migliore delle politiche, quella dell'arte, l'omaggio sincero di un uomo che, anche per merito del vostro genio, è orgoglioso d'essere italiano".

Un mese dopo dell'attentato, il 14 ottobre 1889, Crispi che era sceso nella sua Sicilia, pronunciò a Palermo un grande discorso, nel quale fece la sintesi della sua politica. Passò in rassegna le riforme compiute dal suo governo nel campo della giustizia, dell'istruzione, e dell'igiene, disse non essere state menomate le libertà nazionali ed essere state sventate le insidie per sottrarre Roma alla Patria, quindi esortò gli amici delle istituzioni e dell'ordine a combattere i sovversivi-repubblicani, internazionalisti, anarchici:

"Bisogna combatterli nel campo delle idee, per non aver poi a reprimerli nel campo dei fatti. Per questo motivo bisogna sorgere e raccogliersi: non perché si temano, ma per non doverli temere più tardi.
Il Governo è forte per se stesso, per le sue origini, per i principi che incarna, per gli interessi che è chiamato a tutelare; la nostra è una monarchia sorta dal suffragio popolare e che ormai rappresenta l'universalità dei cittadini italiani. Ma essa non deve essere lasciata, nella lotta, affidata soltanto alle forze legali. I fautori del disordine si agitano: ma fin qui chi si oppone? Si direbbe che la libertà è fatta solo per quelli che sono interessati a violarla. Non bisogna invece lasciare che le masse vedano in loro soltanto i difensori dei loro giusti interessi, né i mezzi di realizzare malsane speranze.
Vi sono problemi che bisogna esaminare e risolvere; opinioni che, false o vere, non devono correre sole, debbono essere dibattute e rischiarate; accuse che non si devono lasciare senza risposta. Le teorie che oggi si cerca di accreditare turbano l'animo dell'operaio, e gli guastano il senso morale, non abbastanza sicuro per motivi d'educazione; così, con il sentimento della patria, potrebbe naufragare il senso alla famiglia. Ora, e mi è grato affermarlo, il Governo accetterà e promuoverà tutte le riforme che, nel regime economico e nel regime politico, si mostrino utili e necessarie, poiché tutte possono entrare nell'orbita delle istituzioni".

Passò poi a parlare della politica estera e giustificò in questo modo il suo imperialismo:

"Eravamo megalomani dal 1848 al 1860 quanti volevamo l'Unità italiana e credevamo alla sua possibilità. E ancora nel 1860 si disse megalomania la proclamazione a Salemi - con il concorso di questo tipo borbonico che vi sta davanti - di Vittorio Emanuele a Re d'Italia.
Ai più pareva prima impossibile raggiungere l'unità con lo straniero e con la discordia in casa; poi, con un'Europa diffidente e sospettosa delle nostre rinnovate fortune, per le quali non invano hanno combattuto e sofferto migliaia di cospiratori e soldati, da Nicola Fabrizi a Benedetto Cairoli.

"Trent'anni di vita italiana hanno detto se vi era megalomania nei patrioti di quella scuola cui mi glorio di appartenere, o se non era invece, negli accusatori, pochezza d'animo e troppo misero concetto dei destini cui l'Italia era chiamata. Oggi l'accusa è non meno insistente, ma assai vaga, poiché essa non ha una ragione esplicita e manifesta cui appigliarsi. In che consiste, infatti, l'imperialismo della nostra politica? Quanto fu fatto per la situazione internazionale dell'Italia era necessario non tanto alla sua grandezza, quanto alla sua esistenza, poiché non può ammettersi che un grande stato, per quanto favorito dalla natura, possa vivere nell'isolamento materiale e, per quanto pacifico, nell'isolamento politico, oggi in cui l'attività umana e l'umana irrequietudine, se da un lato sollevano tra i popoli nuove barriere, cancellano, dall'altro, frontiere tradizionali, e la lotta per l'esistenza altri confini non ha che quelli del mondo conosciuto. Come al corpo dell'individuo, all'entità della nazione occorre, per vivere, aria respirabile; senza di essa non cesserebbe d'intisichire per poi estinguersi.

"E, per quel che ci riguarda, noi l'abbiamo compreso, e l'abbiamo raccolta quell'aria con i polmoni d'Italia con l'influenza che abbiamo assicurato alla Patria nei Consigli d'Europa. Senza questo avevamo visto quali sorti l'aspettava. Risolute senza di noi le grandi questioni da cui dipende l'avvenire del mondo; prigioniera l'attività nazionale entro i confini materiali dello Stato; spenti i focolari della nostra tradizione fuori di quei confini; depressi od oppressi, in ogni parte del mondo, gli Italiani dell'oggi; conteso ogni campo di lavoro agli Italiani dell'avvenire; e quindi interdetto fin d'ora ogni sviluppo a quella materiale prosperità, che, secondo i nostri accusatori noi sacrificheremmo alla vanagloria.

"Oggi l'Italia si sofferma e cammina. Udite la voce che si leva dalle nostre colonie: esse sono esultanti. Italia ! si grida dalle sponde del Mediterraneo, e si risponde dai più lontani oceani. Fanciulli a migliaia, della nostra e delle più diverse stirpi, apprendono oggi, nei più diversi paesi, nella scuola da noi rinnovata, a benedire, nella nostra lingua, questa Italia laica, operosa e pacifica, che procede liberando schiavi e rispettando credenze.
Domani, fatti uomini, essi saranno altrettanti strumenti della nostra ricchezza. Saremo dunque megalomani e politici di vista corta. Ma non ci farebbero una colpa esserlo in questo modo né Mazzini, né Vittorio Emanuele, né Garibaldi, né Cavour; poiché essi non hanno mai pensato di condannare l'Italia alla sterilità politica. Solo ispirandoci alla loro grandezza, potremo ottenere per il cittadino italiano che non invano possa ripetere di fronte agli altri popoli il "civis romanus sum".

INAUGURAZIONE DELLA QUARTA SESSIONE DELLA XVI LEGISLATURA

Il 25 novembre del 1889 s'inaugurò la quarta sessione della XVI Legislatura con un discorso in cui il re affermò che era necessario compiere delle riforme a favore delle classi meno abbienti, dichiarando che nel bene degli umili agi riponeva "principalmente la gloria del suo regno" e annunciò fra l'altro che avrebbe proposto l'abolizione della tariffa differenziale contro le provenienze francesi.

FINE DELLA LOTTA COMMERCIALE CON LA FRANCIA

Il 28 novembre 1889, il ministro SEISMIT-DODA presentava un disegno di legge, che abrogava le tariffe differenziali, messe in vigore con decreto del 29 febbraio 1888; e il 20 dicembre la Camera lo approvava, avendo Crispi dichiarato che tale legge rappresentava una necessità politica ed economica. "Quest'iniziativa dell'Italia - aveva aggiunto il presidente del Consiglio - non significa però umiliazione o mutamento d'indirizzo nella politica estera. Noi non vogliamo l'egemonia di nessuna nazione, perché questo concetto urta con il sentimento dell'autonomia e della sovranità d'Italia. E da un lato e dall'altro noi lavoreremo sempre a mantenere questa autonomia, a tenerci "uguali fra uguali", senza permettere che altri possano in alcun modo dominarci o dominare l'Europa".

Il 1° gennaio del 1890 cessò di aver vigore il decreto del 29 febbraio 1888 e alle merci francesi fu applicata la tariffa del 14 luglio 1887; la lotta commerciale da parte della Francia terminò il 1° febbraio del 1892 con l'applicazione di una nuova tariffa.

Il 1° dicembre CRISPI destituiva i sindaci di Umbertide e di Città di Castello, che avevano dichiarato sulla stampa di aver subito il giuramento di fedeltà e avevano confermato la loro fede repubblicana. Il 21 marzo la Camera accordava l'autorizzazione a, spiccare mandato di cattura contro l'on. ANDREA COSTA, che era stato condannato a 3 anni di carcere per aver preso parte ai disordini romani durante la manifestazione in memoria dell'irredentista Guglielmo Oberdan, e per ribellione alla forza pubblica. Il Costa, che era l'unico rappresentante del socialismo italiano al Parlamento, fuggì all'estero. Rieletto poi a Bologna e a Ravenna nel novembre del 1890, fu poi amnistiato.

1° MAGGIO
PATTO DI ROMA - LE RICHIESTE DI CAVALLOTTI

Si avvicinava intanto il 1° maggio, che dal Congresso internazionale dei lavoratori tenutosi nel luglio del 1889 a Parigi era stato dichiarato giorno della "festa del lavoro".
La data scelta era l'anniversario della morte dei cinque "martiri", "anarchici", condannati a morte e impiccati negli USA, a Chicago, il 1° maggio del 1886, accusati di essere i responsabili dell'attentato dinamitardo, avvenuto durante lo sciopero di otto ore da loro organizzato. I cinque americani diventarono così il simbolo dell'Internazionale.

CRISPI, dava ordine ai prefetti di reprimere senza misericordia qualsiasi dimostrazione. A Milano la Galleria Vittorio Emanuele fu occupata da reparti militari. Le energiche misure del governo fecero sì che solo in poche città l'ordine fosse turbato, ma furono aspramente censurate alla Camera dal CAVALLOTTI, che, passato da qualche tempo all'opposizione, non perdeva occasione per assalire con veemenza la politica crispina.

Fu lo stesso CAVALLOTTI uno dei promotori del Congresso democratico (forze radicali e repubblicane) svoltosi l'11-13 maggio al teatro Costanzi di Roma, dove fu discusso ed approvato il programma della democrazia italiana per la prossima legislatura, che fu chiamato "Patto di Roma" redatto dal deputato di Corteleona. Il patto stabiliva che:

"la nazione dovesse essere consultata nei suoi interessi supremi, nell'uso del suo sangue e del suo denaro"; proclamava essere tutti i poteri emanazione della sovranità nazionale; caldeggiava il risanamento dell'ambiente parlamentare con una legge sull'incompatibilità del mandato con funzioni retribuite e con la concessione di un'indennità ai deputati; chiedeva garanzie all'esercizio del diritto d'interpellanza, la convocazione straordinaria del Parlamento su domanda di cinquanta deputati, l'abolizione dell'istituto dell'ammonizione e del domicilio coatto, e la tutela del diritto di riunione, di associazione e di stampa; proponeva il decentramento amministrativo, il divieto del cumulo di portafogli in una stessa persona, l'esclusione dei membri del Governo nei voti di fiducia e una legge sulla responsabilità dei ministri; stabiliva l'indipendenza morale materiale dei magistrati, la semplificazione del processo civile, il gratuito patrocinio ai poveri, l'indennizzo ai cittadini per carcere e danni ingiustamente sofferti, l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, il miglioramento degli stipendi dei maestri, la riforma della scuola secondaria, l'autonomia completa delle università; voleva il distacco dell'Italia dalla Triplice Alleanza, rapporti cordiali con l'Inghilterra, la Francia, la trasformazione progressiva dell'esercito permanente in Nazione Armata, una sosta nella costruzione di navi da guerra, sensibili economie sui bilanci militari e riduzione della burocrazia; proponeva infine le otto ore di lavoro, l'istituzione di Camere del lavoro e di collegi di probiviri, la cassa pensioni per la vecchiaia e l'invalidità, il risanamento dei territori malsani e la colonizzazione interna".

Con questo programma i radicali si presenteranno alle elezioni generali del 23 novembre nelle quali però non riusciranno a trovare l'appoggio degli operai, che si stanno dotando di proprie organizzazioni politiche.
Da notare che anche al III Congresso socialista rivoluzionario svoltosi a Ravenna il 19 ottobre (sempre in vista delle elezioni), questo non riesce ad assumere carattere nazionale, anche per la mancata partecipazione di alcuni personaggi di spicco del socialismo italiano. Non interviene Andrea Costa che è in Francia, né gli anarchici, né i repubblicani scissionisti che nel congresso di Forlì del 1883 avevano costituito la Confederazione repubblicana collettivista della Romagna. Chi si attendeva (come Costa) l'unificazione delle forze socialiste e operaie, fu deluso. Tutto questo, più una violentissima campagna condotta da Crispi contro i radicali (oltre agli altri) fu la causa un forte astensionismo al voto e permise un rafforzamento dell'asse della maggioranza spostato verso destra.

Essendo al su accennato Congresso democratico di Roma del CAVALLOTTI intervenuto un forte nucleo di agenti di pubblica sicurezza, l'on. BOVIO, nella seduta del 26 maggio, protestò contro la violazione del diritto di riunione privata, e non soddisfatto della risposta di CRISPI, presentò la seguente mozione:
"La Camera, ritenuto che le disposizioni della legge di pubblica sicurezza non consentono l'intervento degli agenti di pubblica forza nelle private riunioni, invita il Governo a rispettare le libertà garantite dallo Statuto".
Ne seguì una discussione vivace. CAVALLOTTI, CHIAVES, NICOTERA assalirono con estrema violenza CRISPI, che con grande energia, prima si difese da solo, poi gli andarono in soccorso molti altri suoi deputati. Infine nella seduta del 31 maggio BACCELLI presentò un ordine del giorno di fiducia al Governo, e la Camera lo approvò con 329 voti contro 61.

Crispi, come si è visto dal voto, ottenne una strepitosa vittoria, ma in quell'occasione fu palese che un'opposizione non trascurabile si andava organizzando contro il "dittatore".

MATTEO IMBRIANI E L'IRREDENTISMO -
SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÁ "PRO-PATRIA"

Uno degli oppositori più fastidiosi a Crispi, era MATTEO RENATO IMBRIANI, ed una delle cause dell'opposizione era il suo "irredentismo". L'anno precedente, l'irredentismo era stato attivissimo anche per reazione ad un processo che le autorità austriache avevano intentato nei confronti del giornalista italiano ULMANN e al divieto imposto ad una comitiva italiana di sbarcare a Riva di Trento. L'Imbriani, che era il capo del movimento irredentista, aveva, insieme a BOVIO e FRATTI, preparato un violento manifesto, in cui si accusava il Governo di aver fatto l'Italia mancipia (un diritto di proprietà - Ndr) dello straniero e si esortavano gli Italiani a stringersi "in un patto nei sacri nomi di Trieste e di Trento"; ma CRISPI aveva vietato l'affissione del manifesto (17 luglio) ed aveva sciolto il Comitato per Trieste e Trento per non inimicarsi l'Austria proprio quando sembrava che la Francia dovesse assalire l'Italia.
Per iniziativa della più accesa democrazia, mentre oltremodo tesi erano i rapporti italo-francesi, si era organizzato un pellegrinaggio di operai italiani in Francia e Imbriani aveva tenuto a Parigi un discorso contro la Triplice alleanza e in favore dell'unione delle due nazioni latine.

Le agitazioni irredentistiche ebbero eco anche alla Camera. Il 22 febbraio del 1890, Imbriani protestò per lo scioglimento del Comitato per Trieste e Trento, avvenuto a luglio che "su per giù seguiva la tradizione degli antichi comitati emancipatori, tendeva a diffondere l'idea nazionale ed a cercare tutti i mezzi per far sì che l'unità della Patria si compisse"; ma il Crispi difese energicamente il suo operato. "Questo - disse - non è ordine, né questo è il modo di amar la Patria; questo è il disordine, questo è il modo di mettere in pericolo le istituzioni. Ebbene, finché io sarò a questo posto, non permetterò che queste istituzioni siano da voi poste in pericolo; le difenderò con tutti i mezzi che la legge mi dà e, se è necessario, anche con la mia persona".

CRISPI, mentre teneva a freno gli irredentisti con il "pugno di ferro" verbale, nello stesso tempo faceva passi a Vienna a favore degli irredenti, raccomandando al Governo austriaco di comportarsi paternamente verso gli Italiani; ma Vienna non cambiava la sua linea di condotta.
Il 29 giugno del 1890, a Trento, il Congresso della società culturale "Pro Patria" inviava un telegramma di felicitazioni alla "Società Dante Alighieri", allora costituitasi sotto la presidenza del BONGHI. Alcuni giorni dopo, il Governo austriaco sciolse la "Pro Patria" con il pretesto che faceva della politica contraria alla monarchia d'Absburgo.
Come se ciò non bastasse, da Vienna si scriveva a Roma di richiamare la "Dante Alighieri", diffidandola di svolgere azione contraria all'Austria.
La "Dante" non operava nel campo politico, e tanto meno era attiva nell'irredentismo; per mezzo di istituzione di scuole di italiano il suo scopo era quello di mantenere vivo il sentimento di italianità fra gli italiani o quelli che erano per lavoro emigrati nelle zone sotto l'impero austriaco (TN, BL, UD, TS, Istria).

CRISPI, ha un soprassalto di orgoglio, muta quasi atteggiamento finora tenuto nei confronti dell'Austria, e scrisse all'ambasciatore NIGRA: "Sono dolentissimo di dover constatare le condizioni difficili che sono fatte al Ministero italiano in questa occasione. Finché la fiaccola dell'irredentismo si teneva accesa dai radicali, io non li temevo. Ma l'atto ultimo, il quale ravviva la memoria di altri atti, non pochi, che ogni tanto rivelano l'intolleranza di codesto Governo, basterà, temo assai, a turbare o per lo meno a raffreddare la gente moderata, tranquilla, sul cui appoggio il Governo sapeva di potere sino ad ora contare .... L'alleanza con l'Austria, che io solo potevo difendere, avrebbe contro di sé un maggior numero di nemici .... e non so se nel 1892 io o il mio successore avremmo la forza necessaria a rinnovarla".

E alcuni giorni dopo, il 31 luglio, scrisse ancora: " Si vuole intanto osservare che in Italia l'alleanza con l'Austria non è simpatica, essendo purtroppo recenti i ricordi delle lotte nazionali e del malgoverno imperiale. Necessario quindi che l'Austria faccia dimenticare il suo passato, e che negli atti di Governo eviti di ferire il sentimento di nazionalità, che è ancor vivo negli Italiani".

Lo scioglimento della Pro Patria suscitò in Italia comizi e dimostrazioni di protesta e Crispi, per tutelare l'ordine pubblico, il 22 agosto sciolse tutti i circoli Oberdan e Barsanti, provocando lo sdegno dei democratici, ma guadagnandosi le approvazioni del Re (!).
Ma altro provvedimento più grave e più doloroso dovette prendere un mese più tardi.

IL BANCHETTO DI UDINE

A Udine, in un banchetto offerto al ministro delle Finanze SCISMIT-DODA, oriundo dalmata, l'avvocato FEDER, dopo avere ricordato che il ministro nel 1848 si era recato a Trieste alla difesa di Venezia, gli augurò di poter compiere "un viaggio inverso su nave italiana, con il tricolore italico spiegato vittoriosamente al vento".

CRISPI, appreso, che il collega, aveva ascoltato in silenzio l'augurio, lo invitò telegraficamente a dimettersi. "Capo del Governo, non devo permettere che si dubiti, della lealtà con la quale sono eseguiti i patti internazionali, né far sospettare che uno solo dei miei colleghi sia contrario alla mia politica".

Avendo il SCISMIT-DODA dichiarato di mettersi al giudizio degli altri ministri, CRISPI, con decreto reale del 19 settembre 1890, lo esonerò sostituendolo con GIOVANNI GIOLITTI (già ministro del tesoro) cui fu così affidato anche l'interim delle Finanze).

Con decreto regio del 3 agosto 1890 si era intanto chiusa la quarta sessione della XVI legislatura. Essendo prossime le elezioni dell'anno successivo, già erano iniziati i discorsi elettorali. Uno lo tenne a Trapani ABELE DAMIANI, sottosegretario agli Esteri, accennando alla politica internazionale e a quella coloniale del Governo; un altro a Caraglio parlò GIOLITTI.

IL DISCORSO DI CRISPI A FIRENZE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA

Ma il più importante fu quello che CRISPI tenne a Firenze l'8 ottobre; qui lo statista siciliano toccò il tasto dell'irredentismo:
"Da qualche tempo, con parola seduttrice, una pericolosa tendenza cerca adescare l'animo delle popolazioni: quella che grida la rivendicazione delle terre italiane non unite al regno .... Circondato, però, in apparenza dalla calda poesia della Patria, l'irredentismo non è meno oggi il più dannoso degli errori in Italia. Nemico, ad un tempo, a quell'unità che pretende integrare e a quella di cui pur si afferma l'apostolo, il suo grido, sfida a tutta quanta l'Europa, è, infatti, grido di guerra, che potrebbe rimettere in forse l'esistenza della nazione. Ora, l'unità è per noi quel primo dei beni da cui tutti gli altri dipendono; e abbiamo, per goderne, bisogno di pace. Non che, per tenerla cara, si debba da noi rinnegare la ragione del nostro risorgimento. Soltanto, dobbiamo intenderla ed applicarla secondo onore, dovere e convenienza, consigliano. Il principio di nazionalità, nella sua ultima espressione, non può, infatti, qualunque sia il desiderio ideale, essere costantemente la norma esclusiva del diritto politico e diplomatico".

"L'irredentismo, che non poteva aver per oggetto soltanto la liberazione di Trento e Trieste, ma anche l'unione di Malta, della Corsica e del Canton Ticino, avrebbe fatto schierare contro l'Italia mezza Europa. Eppure gli irredentisti erano ostili alle spese militari !
"Guerra e disarmo essi chiedono - disse il Crispi - Solo si può volere con il disarmo la guerra, quando si medita, a fini partigiani, con la creata sconfitta, il danno della Patria. Intanto scopo immediato dell'agitazione è la rottura della Triplice Alleanza. Però 1'irredentismo è bandiera che si sventola a mezzo, e in una direzione soltanto, verso il confine orientale. Gli agitatori si illudono così di non destare altrove diffidenze sospetti, e non scorgono le cortesie che dalla Francia lunga veggente usa nei confronti dell'Austria; così si addensano all'estero antipatia contro l'Italia, e neppure mostrano di avvertire che assecondano ad un tempo le mire di chi si mantiene d'Italia nemico.
La Triplice Alleanza avendo per scopo e per base la garanzia territoriale degli stati contraenti, è naturale se ne desideri lo scioglimento da chi aspira a riacquistare il poter temporale. Se l'Austria - e qualcuno lì lo pensa - non fosse amica ed alleata dell'Italia, si potrebbe ricostruire il fascio delle potenze cattoliche a vantaggio della Santa Sede.
Così chi cerca di minare la Triplice per rompere l'unità, diventa il naturale alleato di chi l'aggredisce per distruggere le istituzioni. Ora questa politica della guerra all'estero, di sfacelo all'interno, può essere la politica degli italiani ?".

Non si poteva certo rimproverare a Crispi di avere una visione realistica della situazione. Far vibrare le corde dei sentimenti era una cosa, ma i sentimenti non sarebbero stati sufficienti a fermare le vibrazioni dei cannoni di due, tre e forse quattro stati; e forse cannoni benedetti dal Papa che non perdeva l'occasione.

Quattro giorni dopo, nella stessa Firenze, ad un banchetto al quale partecipava mezzo migliaio circa di persone, FELICE CAVALLOTTI pronunciava un discorso in cui cercava di confutare quello di Crispi. Poi il 15 ottobre, il Pontefice in un'enciclica scritta in italiano e indirizzata ai vescovi, al clero e al popolo italiano, accendeva altre micce: "rivendicava i suoi diritti sovrani, attaccava la massoneria, enumerava i torti fattigli dal governo ed esortava i conservatori ad opporsi al socialismo, che favorito dalla miseria e dalla debolezza dei poteri pubblici, minacciava di sconvolgere la penisola".

FRANCESCO CRISPI "rispose" ai due in un secondo discorso a Torino il 18 ottobre 1890, difendendo il suo governo dalle accuse degli avversari e ribattendo dutramente alle affermazioni dell'enciclica del Papa. Due giorni dopo il Re con un regio decreto (si dice su pressioni di Crispi) scioglieva la Camera e convocava i comizi elettorali per il 23 novembre 1890, con un anticipo di sei mesi sulla scadenza della legislatura.

Queste elezioni le riprenderemo più avanti, alla fine del successivo capitolo;
che andiamo iniziare soffermandoci prima sugli avvenimenti
verificatisi nel corso di questo stesso anno in Africa.

... cioè il periodo anno 1890 - 1891 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI