ANNI 1896-1897

GUERRA D'AFRICA - ADUA (POLEMICHE) - TRATTATO DI CASSALA

DOPO ADUA - IL SECONDO MINISTERO DI RUDINÌ; IL PROGRAMMA - DISEGNO DI LEGGE PER LE SPESE DI GUERRA NELL' ERITREA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE -. IL GENERALE BALDISSERA IN ERITREA - ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA - RITIRATA DEGLI ABISSINI - OPERAZIONI CONTRO I DERVISCI - SCONTRO DI GULUSIT - COMBATTIMENTO DI SABDERAT - COMBATTIMENTI DI MONTE MOCRAM E DI TUCRUF - RITIRATA DEI DERVISCI - OPERAZIONI PER LA LIBERAZIONE DI ADIGRAT - SGOMBRO DI ADIGRAT E DELL'AGAMÈ - SEPPELLIMENTO DEI MORTI DI ADUA - LA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI - COMITATI E SPEDIZIONI DI SOCCORSO - LA DURA LETTERA DI CRISPI - IL TRATTATO DI PACE DI ADDIS ABEBA - LA POLITICA AFRICANA DISCUSSA ALLA CAMERA - L'ECCIDIO DI LAFOLÈ - UCCISIONE DEGLI ESPLORATORI VITTORIO BOTTEGO E MAURIZIO SACCHI - LA CAMERA APPROVA LA POLITICA COLONIALE DI RACCOGLIMENTO - FERDINANDO MARTINI GOVERNATORE CIVILE DELL' ERITREA - ABBANDONO DI CASSALA
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DOPO ADUA - IL SECONDO MINISTERO DI RUDINÌ - SUO PROGRAMMA - DISEGNO DI LEGGE PER LE SPESE DI GUERRA NELL'ERITREA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE

Abbiamo già visto - nella precedente puntata- lo "spettacolo" dopo l'arrivo della triste notizia del massacro di Adua.
Indegno di una grande nazione fu quello che diede l'Italia. Si tumultuò, si gridò "Abbasso Crispi ! Via dall'Africa!" e, purtroppo, anche "Viva MENEDICK !" l'autore del massacro.
Invece di accogliere la notizia della sconfitta con la calma dei forti ed esprimere energici propositi di rivincita (che è forse irrazionale ma è spontaneo in un popolo), alcuni si lasciano vincere dalla viltà; perfino approvando un massacro, che indubbiamente non proveniva da un sentimento "sentito" nella profondità dell'anima; perché allora voleva dire rinunciare alla tutela dei propri interessi morali e materiali del proprio paese.

Giusta o sbagliata che fosse la "spedizione in Africa", nel momento del dolore, qualsiasi recriminazione o discussione in quel momento non doveva essere fatta. Anche perché spesso si cambia opinione; infatti, l'errore della politica colonialista crispina, sarà ripetuto in Libia da chi aveva in questo periodo attaccato Crispi, cioè da Giolitti. E sarà poi curioso constatare -proprio con Giolitti- come alla testa dei "socialisti rivoluzionari", contrari alla "sua" guerra di Libia, ci sarà un certo Benito Mussolini, che darà vita in Romagna a violente dimostrazioni di piazza, proprio lui che sarà di lì a pochi anni un interventista acceso, e poi l'incarnazione stessa del nazionalismo e imperialismo fascista, rispettivamente nei confronti dell'Austria (nella Prima Guerra Mondiale) e poi più tardi in Africa (nella Seconda)..

A Milano e a Pavia si tentò di smuovere i binari per impedire la partenza delle truppe; a Napoli si ebbe una dimostrazione di protesta da parte degli studenti, capitanata dal prof. F. SAVERIO NITTI e a Bologna gli studenti universitari votarono un ordine del giorno contro l'espansione in Africa.

Certa stampa -lo abbiamo visto nelle pagine precedenti- riportava più che il sentimento addolorato di una popolazione per i suoi figli morti, riferiva l'opinione di alcuni gruppi insofferenti agli alti costi economici e sociali delle avventure coloniali; gruppi paradossalmente legati con un perverso connubio, la nuova borghesia e i socialisti rivoluzionari; i primi miranti ad accelerare i tempi del processo di sviluppo economico, i secondi, il processo di sviluppo sociale.
Il fenomeno si ripeterà nel 1920, quando il foglio mussoliniano muta il sottotitolo del Popolo d'Italia da "Quotidiano Socialista" a "Quotidiano dei combattenti e dei produttori". Poi il 1° gennaio del '21, sarà ancora più esplicito (quando arriveranno i finanziamenti dei "siderurgici"), e metterà il motto di Blanqui "Chi ha del "ferro" ha del pane". Il patto dell'ex rivoluzionario, con la borghesia industriale, era ormai senza più sottintesi".

Dunque, mentre i gruppi che abbiamo citato, gioivano, e gridavano perfino "Viva Menelick", nel frattempo anche in Francia e in Russia si gioiva dello scacco italiano. La stampa della vicina repubblica parlava dell'incapacità militare degli Italiani, faceva l'apoteosi di MENELICK, esaltava il valore degli Abissini e dava a Crispi dell'avventuriero; così in Russia dove i giornali si compiacevano dell'insuccesso italiano, si celebravano funzioni religiose per la vittoria delle armi abissine ed erano accolte con grandi feste, a Pietroburgo e a Mosca, due missioni etiopiche.

Diverso ma ipocrita invece fu il contegno dell'Inghilterra, della Germania e dell'Austria-Ungheria. Lord CURZON, segretario inglese degli Esteri, disse: "Abbiamo tutti fede nella forza riparatrice e nel coraggio delle truppe italiane, e nutriamo speranza che si rialzeranno dalla sventura e rivendicheranno l'onore della bandiera".
I sovrani (della Triplice) alleati espressero il loro vivo dispiacere agli ambasciatori italiani a Berlino e a Vienna per gli avvenimenti d'Africa, e l'imperatore GUGLIELMO II, anziché rimandare il viaggio che aveva stabilito di compiere in Italia, lo affrettò e, dopo avere visitato Genova, Napoli e la Sicilia, in compagnia dell'imperatrice, s'incontrò l'11 aprile a Venezia con UMBERTO I.

Il ministero CRISPI, dimessosi il 5 marzo 1896, rimase in carica fino al 9 marzo. Il giorno 7 il Re dopo le manifestazioni dentro e fuori il Parlamento, si era reso conto che era impossibile affidare il compito di costituire un nuovo governo sia agli uomini della sinistra costituzionale e del centro che avevano fatto parte del governo Crispi, sia all'opposizione anticrispina. Incaricò così un generale, CESARE RICOTTI a costituire il nuovo ministero, che però non guiderà lui, trattiene per sé solo il ministero della guerra e indica il presidente del consiglio.

Il 10 marzo 1986, fu costituito il nuovo Gabinetto. La presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno furono dati al Di RUDINÌ, il ministero degli Esteri al duca ONORATO CAETANI di Sermoneta, quello delle Finanze ad ASCANIO BRANCA, quello del Tesoro a GIUSEPPE COLOMBO, quello dei Lavori Pubblici a COSTANTINO PERAZZI, quello delle Poste e dei Telegrafi a PIETRO CARMINE, quello di Grazia e Giustizia a GIACOMO GIUSEPPE COSTA, quello della Pubblica Istruzione ad EMANUELE GIANTURCO; quello della Marina a BENEDETTO BRIN e quello dell'Agricoltura a FRANCESCO GUICCIARDINI.
Tutti benché la maggior parte di loro appartengono alla destra, hanno il sostegno della sinistra zanardelliana e giolittina e della maggioranza dei radicali, in quanto tutti i ministri erano stati ostili a Crispi e alla sua politica coloniale.
Il sostegno è ulteriormente rafforzato dalla concessione dell'amnistia ai condannati dai tribunali militari crespini.
Infatti, il primo atto politico del Gabinetto Di RUDINÌ fu l'amnistia completa concessa il 14 marzo, genetliaco di Umberto I, a tutti i condannati politici per i moti della Sicilia e della Lunigiana, considerati vittime del governo di Francesco Crispi.

Il 17 marzo Di Rudinì, presentando il nuovo Gabinetto alla Camera, rivolse un saluto ai prodi caduti in Africa e dichiarò che i nostri soldati erano stati sul campo di battaglia con la più scarsa preparazione e in condizioni tali che qualsiasi esercito si sarebbe trovato soccombente.
Disse quindi che "il ministero dimissionario aveva lasciato arbitro il generale BALDISSERA di prender tutte le misure necessarie per far fronte alla difficile situazione in Eritrea, abbandonando anche, se le circostanze lo avessero richiesto, Adigrat e Cassala". Per di più -fu riferito- che "fin dall'8 marzo era stato ordinato a BALDISSERA di trattare la pace in quelle migliori condizioni che egli avesse creduto "prescrivere per la salute della colonia ed il decoro d'Italia". Inoltre il presidente del Consiglio annunciò che "il corpo d'occupazione era bene animato e fiducioso, che non era necessaria la seconda metà dei rinforzi non ancora partita e che si sarebbero continuate le ostilità "fino a quando non si fosse fatta una situazione tale da soddisfare agl'interessi della colonia e al sentimento del popolo italiano".

Quanto alla politica dichiarò che mai si sarebbe accinto a farne una di espansione, che avrebbe rifiutato il Tigrè se lo stesso Negus l'avesse offerto e che in un trattato non avrebbe mai messo come condizione il protettorato sull'Abissinia. Quanto alla pace affermò che le trattative sarebbero state condotte con prudenza e con fierezza, che "sarebbero state respinte le proposte contrarie al nostro decoro e ai nostri interessi e, infine, che il Governo voleva, sì, la pace, ma non aveva fretta di stipularne una qualsiasi e che per conseguirla quale il nostro interesse e il nostro prestigio imponevano, occorreva prepararsi a continuare la guerra". Pertanto, d'accordo con i ministri della Guerra, della Marina e del Tesoro, presentava un disegno di legge, con il quale si chiedeva la somma di 140 milioni (dai fatidici 9 milioni si è già passati ai 140! Ndr.) per provvedere a tutte le spese che avrebbero potuto essere necessarie fino al dicembre, somma che doveva esser procurata mediante l'emissione di titoli del consolidato 4.50 % netto, e, data la massima urgenza, pregava la Camera di acconsentire che il suo presidente nominasse una Commissione di 9 membri cui sarebbe stato deferito l'esame del disegno.
A far parte della Commissione il presidente della Camera chiamò gli onorevoli BIANCHERI, BOVIO, CADOLINI, COPPINO, DI SAN GIULIANO, FORTIS, LUZZATTI, MARTINI e TITTONI, che nella seduta stessa dichiararono di accogliere la richiesta del Governo.
Aperta la discussione, l'on. IMBRIANI dichiarò che avrebbe approvato qualunque azione del Governo contraria alla politica d'espansione, affermò che sarebbe stato meglio, molto più decoroso, prudente e nobile ritirarsi assolutamente dall'Africa ed espresse la speranza che il passato ministero sarebbe stato messo in stato d'accusa.

L'on. CAVALLONI, dopo aver tributato un plauso alle parole del presidente del Consiglio, disse che non era il momento dell'esame delle responsabilità, urgendo altri doveri, ed affermò che, esaminati i libri verdi del precedente Ministero, aveva visto come i documenti posti innanzi alla Camera non fossero che "un infelice travisamento dei documenti veri, stampati in segreto nella tipografia del ministero degli Esteri. Concluse, esprimendo il desiderio che mai più si doveva ripetere l'esempio di quel modo d'informare la rappresentanza nazionale, un modo che si poteva chiamare reato".
L'on. SONNINO, che aveva fatto parte del passato Gabinetto, essendo assente dalla seduta Crispi, volle prender la parola per rilevare alcuni punti delle dichiarazioni governative che gli sembravano d'intonazione polemica. Dichiarò non esser vero che il Ministero Crispi, dopo Adua, avesse ordinato al Baldissera di trattar la pace; ma di essere stato invece Baldissera, il quale, informando di voler mandare SALSA al campo del Negus per trattare la questione dei feriti e dei prigionieri, aveva chiesto al Governo se per mezzo del suddetto ufficiale, poteva intavolare negoziati di pace.

L'on. MOCENNI, ex-ministro della Guerra, affermò che attendeva serenamente il giudizio del suo operato, che non voleva per il momento difendersi dalle accuse di scarsa, preparazione, ma desiderava che la Camera prendesse visione del carteggio passato tra lui e i generali Baratieri e Baldissera.
L'on. Tortis disse che gli interessi italiani non sarebbero stati efficacemente tutelati da un Governo che anticipatamente dichiarava che avrebbe rifiutato il Tigrè e il protettorato sull'Etiopia ed avrebbe abbandonato Adigrat e Cassala. "Io credo fermamente - concluse - che non riusciremo a mantenere il nostro grado in Europa, se ci, lasceremo annientare da una sconfitta in Africa. Non basta una pace onorata per conservare in Europa il prestigio della nostra potenza militare: importa superare tutte le difficoltà dell'impresa che abbiamo affrontato".

Prima di togliere la seduta, fu data lettura di due mozioni. La prima, firmata dagli onorevoli FERRI, AGNINI, BADALONI, BERENINI, CASILLI, ANDREA COSTA, DE MARINIS, PRAMPOLINI, SALSI E ZAVATTARI, diceva:
"La Camera, ritenuto che la responsabile dell'ultimo disastro in Africa è tutta intera del Governo, il quale, violando la costituzione e ingannando il paese sul carattere e l'importanza dell'impresa, ha dato alla conquista militare un'espansione non voluta dal Parlamento ed ha sacrificato alla sua politica il sangue e gli interessi vitali della nazione; ritenuto che l'impresa africana, favorevole soltanto ai militaristi, agli speculatori ed agli avventurieri politici, è contraria alla civiltà ed incompatibile con le condizioni economiche d'Italia; delibera di richiamare immediatamente le truppe dall'Africa, e secondo l'art. 47 dello Statuto, di porre il Ministero in stato d'accusa".

La seconda, firmata dagli onorevoli SACCHI, A. GAETANI, PIPITONE, TASSI, MUSSI, DE CRISTOFORIS, SOCEI, CAROTTI, MOSCIONI, BOVIO, DILIGENTI, PANTANO, A. MARESCALCHI, VENDEMINI, TARONI, ZAVATTARI, ZABEO, BARZILAI, ENGEL, CREDARO, BUDASSI, PENNATO, S. SANI, BASETTA, CELLA, MARCORA, MERCANTI, IMBRIANI, POERIO, SEVERI, PRIARIO, CALDESI, PANSINI, PINNA, RAMPOLDI E GAVARETTI, diceva: "La Camera, augurando che il popolo con calma e con finezza sappia fare giustizia di tutti i colpevoli dell'impresa africana, contraria al diritto ed agli interessi del paese, delibera di provvedere al richiamo delle truppe dall'Africa e di porre in stato d'accusa il Ministero".

Nella seduta del 18 marzo il presidente VILLA inviò in nome della Camera un saluto plaudente e affettuoso all'esercito, cui appartenevano i prodi che si erano misurati con un nemico soverchiante, e una parola di conforto non infecondo d'aiuto alle famiglie angosciate; gli onorevoli MARAGHI, PINCHIA e TOZZI commemorarono il generale Dabormida, l'on. FALCI inviò un saluto alle due batterie siciliane e l'on. LAUSETTI espresse l'augurio che il generale Arimondi fosse scampato alla morte. Quindi continuò la discussione sulle comunicazioni del Governo.
GIOVANNI BOVIO osservò che, "dopo le guerre nazionali, non era più possibile nel soldato italiano il senso della conquista e che dall'infausta guerra d'Africa sarebbe derivata all'Italia miglior coscienza di sé e della sua missione", e aggiunse che "la salvezza del paese sta al di sopra dei partiti politici e perciò consiglio di ritirarsi in tempo da un'impresa che consuma uomini e sostanze" e concludeva col dire che, "quando in Africa non si è vinto e non si può vincere, non si può neppure rimanere".

L'on. PRINETTI, lodata la franchezza del Governo, pur ripetendo di essere stato contrario a qualunque espansione della nostra colonia, sostenne che "l'Italia aveva nel Mediterraneo la base della sua forza e il limite della sua espansione" e concluse affermando che "la nostra posizione di grande potenza in Europa esige che non si continui un'avventura così infelice e che i vincoli contratti in Eritrea e gl'impegni che ne derivavano costituiscono una grande debolezza per tutta la nostra politica europea, le impediscano la duttilità e la pieghevolezza necessaria e ci conducono ad amicizie e inimicizie forzate".

L'on. FERRI, dopo aver parlato contro la politica di conquista ed avere affermato che, dopo l'eroico contegno degli ufficiali, era salvo l'onore della bandiera, disse che "nella miseria e nelle tristi condizioni economiche d'Italia stava il disonore del paese. Il partito socialista reclamava il ritiro immediato delle truppe dall'Africa e, l'accertamento di tutte le responsabilità del Governo."

Dopo Ferri parlarono gli onorevoli De NICOLI e FILÌ-ASTOLFONE; quindi la Camera deliberò di chiudere la discussione sulle comunicazioni del Governo. Prima che si chiudesse la seduta fu letta una mozione, firmata dagli onorevoli MOCENNI, SAPORITO, MECOCCI, SQUITTI, SANTINI, SCOTTI, MATTEINI, TEALDI, DE GIORGIO, VALLE e AGUGLIA, che chiedeva si distribuissero ai deputati i documenti che costituivano la corrispondenza tra Baratieri e il passato ministro della Guerra.
Con un'altra mozione s'inviava "un ringraziamento alla Camera dei Comuni d'Inghilterra ed all'assemblea nazionale rumena per le recenti solenni dimostrazioni d'amicizia e di simpatia verso l'Italia".

Il 19 marzo cominciò alla Camera la discussione del disegno di legge per le spese di guerra nell'Eritrea. Presero la parola l'on. COLAJANNI che sostenne la responsabilità dei fatti d'Africa del passato Gabinetto; l'on. FRANCHETTI, il quale espresse il parere che causa dei disastri africani fossero i criteri parlamentari con cui si era fatta la guerra e l'ignoranza profonda e costante delle condizioni della nostra colonia; l'on. IMBRIANI, il quale dichiarò che la presa di Cassala aveva creato una condizione strana e pericolosa e affermò che "il ministero passato non aveva avuto affatto conoscenza di ciò che rappresentava per un popolo la tradizione e la storia", e concludeva che "la necessità di conoscere il vero era ormai sentita dal paese che voleva un tribunale per giudicare i responsabili"; e l'on. Di SAN GIULIANO che disse di accettare i due concetti fondamentali delle dichiarazioni governative: "non abbandonare l'Africa e non farvi politica d'espansione, e sostenne la costituzione del Tigrè sotto un capo indigeno ma che non fosse Mangascià, la necessità d'impedire che l'Abissinia si mettesse sotto il protettorato di un'altra potenza e l'inutilità del possesso di Cassala; infine concluse esprimendo la speranza che "l'Italia trarrebbe ammaestramento dalle dure lezioni dell'esperienza".

La discussione continuò il 20 marzo. Parlarono il De MARINIS che sostenne la rinuncia a qualsiasi impresa africana e il richiamo delle truppe concedendo al Governo i mezzi puramente necessari per l'attuazione di questo programma; mentre l'on. SONNINO, invitò l'assemblea a votare concorde i fondi per la prosecuzione della guerra.
Dopo alcune dichiarazioni del Tittoni e del ministro del Tesoro, cominciò lo svolgimento degli ordini del giorno TECCHIO, CALVI, TARONI, POZZI, SPIRITO, BARZILAI; quindi parlarono FERDINANDO MARTINI e l'on. MURATORI, che continuò il suo discorso nella seduta del 21 marzo, difendendo il Gabinetto Crispi dall'accusa d'impreparazione. Seguirono gli onorevoli IPPOLITO LUZZATTI, BORSARELLI, TOZZI, PANDOLFI, MUSSI, CAVALLOTTI, FORTIS, FANI, PANTANO e CANZI che svolsero i loro ordini del giorno. Dopo che il ministero della Guerra ebbe dichiarato che la preoccupazione dell'onor militare non doveva influire sulle decisioni del Governo e della Camera intorno all'Africa, il presidente del Consiglio parlò dei rapporti italo-inglesi, delle trattative di pace con Menelick e del protettorato sull'Etiopia e pregò i vari proponenti degli ordini del giorno di volerli ritirare. Soltanto SONNINO e De MARINIS li mantennero, ma i loro ordini non furono approvati. Approvato fu invece il disegno di legge, che riscosse 214 voti favorevoli e 57 contrari alla Camera e, il 25 marzo, 109 favorevoli e 6 contrari al Senato.

IL GENERALE BALDISSERA IN ERITREA
ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA - RITIRATA DEGLI ABISSINI

OPERAZIONI CONTRO I DERVISCI - COMBATTIMENTI DI GULUSIT, DI SABDERAT, DI MONTE MOCRAM E DI TUCRUF - RITIRATA DEI DERVISCI OPERAZIONI PER LA LIBERAZIONE DI ADIGRAT - SGOMBRO DI ADIGRAT E DELL'AGAMÈ

Quando il generale BALDISSERA giunse in Eritrea - a sostituire come abbiamo detto in precedenza- la situazione della colonia appariva abbastanza grave; infatti, l'Agamè era in piena rivolta, il forte di Adigrat era assediato dalla bande di ras Sebath e di Agos Tafari (prima queste erano con gli italiani, poi quando il 13 febbraio Menelik con i suoi 100.000 uomini, aveva sferrato l'attacco, queste bande passarono dalla sua parte e non solo abbandonarono gli italiani ma vi si gettarono contro), i dervisci, imbaldanziti dallo scacco delle armi italiane, minacciavano Cassala e il Negus accennava ad avanzare con l'esercito su Gura per invadere la colonia.
Il 5 marzo BALDISSERA sbarcato il giorno prima a Massaua, tolse il comando a BARATIERI, si trasferì all'Asmara e diede disposizioni per raccogliere le truppe del corpo d'operazione sparse in tutta la colonia, organizzare i rinforzi e apprestare la difesa. Disponeva di circa 13.000 italiani, 4000 indigeni e 14 cannoni e stavano per giungere i primi battaglioni della divisione Heusch; tuttavia ritenne opportuno di far giungere dall'Italia altre truppe e chiese d'urgenza l'invio di altri sei battaglioni e di altre 6 batterie da montagna.
Una delle prime disposizioni date dal nuovo governatore per parare la minaccia del Negus di invadere la colonia fu quella di concentrare all'Asmara le forze disponibili, fra cui il presidio di Cassala; ma questa città era già stata investita dai dervisci. Contemporaneamente, allo scopo di guadagnar tempo, mandò al campo di MENELIK il maggiore SALSA per negoziare la pace ed ottenere la liberazione dei prigionieri e il seppellimento dei morti di Adua.

L'8 marzo BALDISSERA decise di sgombrare l'Acchelè Guzai e di organizzare la difesa sulla linea Asmara-Ghinda-Baresa. Pertanto lasciò come truppe di copertura i presidii di Saganeiti, Chenafenà, Adi Ugri e Adi Qua-là; mandò 4 dei 5 battaglioni di Adì Caiè a Sabarguma e uno e uno a Decamerè; dislocò 6 dei 12 battaglioni concentrati all'Asmara a Schichet e 6 a Auxià, mise la divisione Heusch tra Ghinda e Baresa e pose in stato di difesa le piazze di Massaua e Asmara e i forti di Archicò e Saati.

Verso la metà di marzo BALDISSERA apprese che ras MAKONNEN, che con i suoi 20.000 uomini si trovava nell'Entisciò, si era congiunto a Menelik a Faras Mai. Evidentemente il Negus, impressionato dalle enormi perdite subite a Adua, impossibilitato ad avanzare rapidamente su Asmara e indotto dalle posizioni occupate dagli Italiani, dal loro numero sempre crescente, dalla penuria dei viveri, dal diffondersi delle epidemie nel suo esercito e dall'approssimarsi della stagione delle piogge, rinunciava all'offensiva. E così era.
Infatti, il 20 marzo iniziava la ritirata verso il sud e lasciava nel Tigrè soltanto gli armati di ras Mangascià, ras Alula, ras Sebath ed AoTos Tafari.
Ritiratosi il Negus, il generale Baldissera poté pensare a liberare Cassala, difesa dal II battaglione Indigeni, da una sezione d'artiglieria da montagna e da distaccamenti di artiglieri, genio e sussistenza, in complesso 20 ufficiali, 82 soldati italiani e 1225 ascari, sotto il comando del maggiore HIDALGO, che il 22 febbraio si erano scontrati, in un'azione di avamposti, con i dervisci a Gulusit e il 16 marzo avevano ricevuto da Agordat una carovana di rifornimenti di 500 cammelli scortata da 450 indigeni e da un plotone di cavalleria agli ordini del capitano Speck.

La decisione del generale Baldissera di liberare Cassala veniva in buon punto, perché i dervisci avevano occupato Tucruf, il monte Mocram e la Cadmia e il 18, in gran numero, avevano attaccato per la seconda volta Sabderat da cui però, dopo cinque assalti, la guarnigione italiana li aveva respinti.
Di portare aiuto a Cassala fu incaricato il colonnello STEVANI, ai cui ordini fu messa una colonna composta dei battaglioni III (cap. ZOLI), VI (cap. VIGNOLA), VII (cap. De BERNARDIS) e VIII (maggiore AMADASI) e di una sezione indigena d'artiglieria da montagna (ten. RACINA): in tutto circa 2500 uomini.

Queste truppe, partite da Agordat il 15, il 19 e il 21 marzo, giunsero a Sabderat il 28, il 29 e il 31. Nel pomeriggio del 1° aprile, lasciati a Sabderat 300 uomini di Milizia Mobile con il capitano Heusch, il colonnello Stevani mosse con il III, VII ed VIII battaglione, con la sezione d'artiglieria e con la 3° compagnia Bramanti del II e, girato a nord di monte Mocram, entrò a Cassala due ore dopo la mezzanotte.
Mezz'ora dopo il V1, battaglione, giungendo alle falde meridionali di monte Mocram, era attaccato dai dervisci. Questi, di fronte all'efficace resistenza degli italiani e minacciati dalla pronta sortita dal forte di Cassala degli altri battaglioni, si ritirarono lasciando sul campo numerosi morti e feriti.
Nel pomeriggio del giorno 2 aprile, una carovana di circa 2.000 persone, costituita delle famiglie degli ascari, fu fatta uscire da Cassala e avviata, sotto la scorta di due compagnie, verso Sabderat ed oltre.
La mattina del 3 aprile, i cinque battaglioni italiani, quattro pezzi di montagna e un plotone di cavalleria, uscirono dal forte e, formati in quadrato, marciarono contro i trinceramenti nemici di Tucruf, che furono assaliti poco dopo le ore 8; ma non fu possibile far sloggiare il nemico fortemente trincerato e, dopo mezz'ora circa di violentissimo combattimento, furono costretti a ripiegare abbastanza ordinatamente, respingendo pure alcuni tentativi d'inseguimento. L'azione Tucruf costò agli italiani 4 ufficiali morti e 7 feriti, 157 ascari morti e 344 feriti; gli ufficiali morti furono i tenenti UMBERTO PARTINI, AUGUSTO BENETTI, GIUSEPPE STELLA e GAETANO di SALVIO.

Dato lo sfinimento delle truppe, il colonnello Stevani non rinnovò l'attacco com'era intenzionato fare.
Il giorno dopo, da BALDISSERA, gli giunse l'ordine di sgombrare Cassala e di ripiegare su Agordat. Si cominciò il 6 aprile con il mandare indietro una carovana di feriti leggeri; poi non potendo trasportare tutte munizioni che erano nel forte, invece di distruggerle, le usarono in abbondanza per cannoneggiare il campo nemico di Tucruf.
Questo massiccio bombardamento fece credere ai dervisci in un prossimo secondo attacco italiano e li persuase a ritirarsi; ripiegamento che avvenne nel corso della notte del 7.

Nei giorni successivi il colonnello STEVANI distrusse i campi nemici di Tucruf e Gulusit. Lo sgombro impartito da Baldissera , dopo la ritirata dei dervisci, non fu più, per ordine del ministero, effettuato. A Cassala rimasero di presidio il III e VI battaglione; altre truppe della colonna Stevani furono scaglionate tra Cassala e Cheren.

Liberata, Cassala, il generale BALDISSERA rivolse il pensiero al forte di Adigrat. Disponeva di forze imponenti: 40 battaglioni italiani, 7 indigeni, 10 batterie da montagna (60 pezzi), 7 compagnie del genio; in complesso 1300 ufficiali, 41.550 soldati e 10.250 quadrupedi. Circa 15.000 uomini di tali forze erano raggruppati in due divisioni. La 1a, al comando del generale Del MAYNO, comprendeva la 1a brigata di fanteria (gen. BISESTI), la 2a brigata di fanteria (gen. BARBIERI), la 1a brigata di artiglieria, il V Battaglione Indigeni, 2 compagnie del genio ed una sezione di sanità; la 2a al comando del generale HEUSCH, comprendeva la 3a brigata di fanteria (gen. GAZZURELLI), la 5a brigata di fanteria (gen. MAZZA), la 2a brigata di artiglieria, il 1° battaglione Indigeni, 3 compagnie del genio ed una sezione di sanità.

Nella prima decade di aprile la Prima divisione avanzò su Mai-Serau, e la II su Adi Caiè, dove le truppe rimasero per tutto il resto del mese. Il 28 aprile le bande dell'Hamasien e dell'Acchelè Guzai furono mandate, per un'azione dimostrativa, verso Coatit e Debra Damo; contemporaneamente il colonnello PAGANINI con il VI e VII battaglione bersaglieri, con un battaglione di fanteria, una sezione di artiglieria e le bande del Seraè, fu mandato con lo stesso scopo verso Adua. Le dimostrazioni ottenero l'effetto di richiamare verso Debra Damo ras SEBATH e il Degiac AGOS TAFARÌ, che stavano presso Adigrat, e verso Adua ras ALULA, che si trovava vicino Bizet.
L'avanzata verso Adigrat del corpo d'operazione fu iniziata il 30 aprile: la Ia divisione si trasferì ad Adi Caiè e la II a Senafè; il l° maggio la Iª si portò a Senafè, la IIª ad Efesit ed Adi Ceffà; il 2 maggio l'intero corpo avanzò su Barachit: nel pomeriggio di quel giorno, il V battaglione Indigeni, recatosi in avamposti sul ciglione di Guna Guna fu assalito dalle truppe dei due capi ribelli dell'Agamè, ma le respinse e le inseguì.
Il 3 maggio continuò l'avanzata del corpo, che alle ore 11 raggiunse la piana di Gullabà, ammassandosi con la Iª divisione a destra e la IIª a sinistra della strada che conduce a Mai Maret e alle ore 16 si accampò lungo il Mai Musreb, provocando lo sgombro di Dongollo, occupato dalle genti di ras Sebath e Agos Tafarì.
Il 4 maggio, tutto il corpo (eccetto la colonna Stevani - I, II e V Indigeni. III bersaglieri e una batteria mandata per proteggere la marcia sul fianco est dei monti Dongollo e Focadà) giunse e s'accampò nella conca di Adigrat, fra Legat e Chereber, stabilendo le comunicazioni col forte.
La avanzata italiana su Adigrat, preceduta dalle operazioni contro i Dervisci, produsse grande impressione sugli Abissini, che continuando la campagna sarebbe stata utile, anzi bisognava sfruttare; ma il Governo, interpellato dal generale Baldissera, ordinò di sgombrare Adigrat e l'Agamè.

BALDISSERA, prima di ritirarsi, pensò di trarre profitto dalla situazione per farsi restituire i prigionieri da ras Mangascià, da ras Sebath e da Agos Tafarì e punire questi ultimi due (i due che al momento critico per gli italiani erano improvvisamente passati nelle file avversarie).
Contro ras SEBATH fu mandato, il 7 maggio, il colonnello STEVANI con tre battaglioni indigeni, uno di bersaglieri e una batteria, che lo fece sloggiare da Devra Matzò, lo inseguì uccidendogli alcuni armati, catturandogli molto bestiame e gl'incendiò quattro villaggi; contro AGOS TAFARÌ e DEBRA DAMO andò il 9 maggio lo stesso STEVANI con la sua colonna rinforzata dalle bande del tenente SAPELLI e sostenuta dalla brigata Mazza. Allora i ribelli restituirono i pochi prigionieri che avevano.

Dopo lunghe trattative, il giorno 18, ras MANGASCIÀ restituì i prigionieri italiani rimasti nel Tigrè (6 ufficiali e 90 soldati); pochi altri furono restituiti alcuni giorni dopo. Lo stesso giorno18 il presidio di Adigrat abbandonò il forte, che l'indomani, per ordine di Mangascià, fu distrutto; quindi il corpo d'operazione iniziò il ripiegamento portandosi, tra il 15 e il 22 maggio, vicino il confine, tra Barachit e Senafè.

SEPPELLIMENTO DEI MORTI DI ADUA
LA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI: COMITATI DI SOCCORSO
LA DURA LETTERA DI CRISPI

Da Barachit, in seguito a trattative tra il generale BALDISSERA e ras MANGASCIÀ, il 27 maggio, partirono, sotto il comando del tenente colonnello FRANCESCO ARIMONDI, fratello del generale caduto, due compagnie del genio con medici e frati cappuccini dirette al campo di Adua per seppellire i morti. La colonna, compiuto il suo pietoso ufficio, rientrò il 7 giugno ad Adi Qualà.

Mentre in Eritrea ci si impegnava per la liberazione di Cassala e di Adigrat, Menelik si ritirava verso lo Scioa, portandosi dietro circa 1500 prigionieri, che durante la lunghissima marcia furono afflitti da inenarrabili sofferenze e lasciarono non pochi compagni, caduti lungo la via. La sorte di questi prigionieri commosse la nazione, dando luogo a manifestazioni pietose, ma non certo virili, e alla formazione di comitati, destinati a soccorrere i prigionieri. Fra questi comitati uno ve ne fu di dame romane presieduto dalla Contessa di SANTAFIORA, che fece appello alla carità pubblica affinché con offerte di danaro, viveri, medicine e indumenti lenisse le sofferenze dei prigionieri.

Ma ben altro occorreva. Occorrevano dimostrazioni di forza e propositi di rivincita anziché sentimentalismi demagogici e opere di pietà di dubbio esito. Anche allora FRANCESCO CRISPI levò la sua voce ammonitrice, scrivendo alla contessa ERSILIA CAETANI-LOVATELLI, che faceva parte del comitato romano:
"Quando l'Italia era spezzata in sette Stati, e i barbari esercitavano la tratta anche sulle nostre spiagge, i nostri padri, costretti dalla loro impotenza, costituirono una società per la redenzione degli schiavi. Oggi siamo una nazione di 32 milioni e ben altro è il metodo da seguire per esplicare i nostri doveri e farci rispettare. I nostri fratelli, fatti prigionieri ad Abba Garima, aspettano ansiosi l'esercito liberatore, e le donne italiane, come nel 1848 e nel 1860, dovrebbero ispirare il coraggio di organizzare la vittoria. La pietà è santa, ma nell'animo abissino oggi sarebbe interpretata paura e debolezza .... Consigli alle gentili sue compagne di mutare lo scopo del Comitato. Rialzino a più alti propositi i cuori dei nostri concittadini e rompano questa nube paurosa, che con poca prudenza tentano di addensare sul popolo alcuni falsi apostoli di libertà".

Ma neppure questa volta la voce del grande statista fu ascoltata. L'incarico di portare i soccorsi fu affidato al sacerdote polacco WERSOWITZ-REY, il quale partì da Napoli per Gibuti il 20 maggio, ma, colto da una insolazione, morì presso questa località il 2 luglio. La spedizione di soccorso fu allora guidata dal prete francese CARLO OUDIN che riuscì a giungere allo Scioa e compiere la sua missione.
Anche il Pontefice s'interessò dei prigionieri e inviò al Negus Monsignor CIRILLO MACARIO, vicario patriarcale dei Copti della chiesa di Alessandria, il quale giunse ad Addis-Abeba l'11 agosto con una lettera di LEONE XIII, ma Menelick, pur promettendo di alleviare le condizioni dei prigionieri, consigliato dall'ingegnere LLG, non volle cedere gli ostaggi così preziosi per le "sue" trattative di pace.

Il Negus aveva motivato il suo rifiuto al Pontefice con il preteso contegno ostile del Governo italiano; ma in verità il contegno dell'Italia era tutt'altro che ostile e ne faceva fede il ritiro da Adigrat e il rimpatrio, subito dopo iniziato, delle truppe.
E prima ancora che monsignor MACARIO giungesse alla capitale etiopica, il Governo italiano, per trattare della pace e la liberazione dei prigionieri, aveva mandato in Abissinia il maggiore CESARE NERAZZINI.
Nerazzini, partito da Napoli il 3 giugno, dovette dal 23 giugno al 23 agosto rimanere fermo a Zeila ad aspettare che gli pervenisse la licenza del Negus di recarsi nello Scioa, e non riuscì a giungere ad Addis-Abeba che il 6 ottobre.

IL TRATTATO DI PACE DI ADDIS ABEBA

Ma, pochi giorni dopo, e precisamente il 26 ottobre, NERAZZINI riuscì a concludere felicemente le trattative stipulando con MENELICK il seguente trattato:

Art. I. - Lo stato di guerra tra l'Italia e l'Etiopia è definitivamente cessato. In conseguenza, vi sarà pace ed amicizia perpetua non solo tra Sua Maestà il Re d'Italia e Sua Maestà il Re d'Etiopia, ma anche tra i loro successori e sudditi. Art. 11. - Il trattato concluso ad Uccialli il 2 maggio 1889 è e resta definitivamente annullato.
Art. III. - L'Italia riconosce l'indipendenza assoluta, e senza riserva, dell'impero abissino come Stato sovrano e libero.
Art. IV. - Le due potenze contraenti, non essendosi accordate sulla questione dei confini, e desiderose tuttavia di concludere subito la pace e di assicurarne così i benefizi ai loro paesi, hanno deciso che, nello spazio di un anno, a datare da oggi, alcuni delegati di fiducia di Sua Maestà il Re d'Italia e di Sua Maestà l'Imperatore abissino stabiliranno amichevolmente le frontiere definitive. Fino a quando non saranno fissate, le due parti contraenti convengono di osservare lo "status quo ante", impegnandosi rigorosamente da una parte e dall'altra a rispettare il confine provvisorio Mareb-Belesà-Muna.
Art. V. - Fino al giorno in cui non siano stati, di comune accordo, fissati i confini definitivi, il Governo italiano si obbliga di non cedere alcun territorio ad altra Potenza. Nel caso volesse spontaneamente abbandonare una parte di territorio, questa passerebbe sotto la dominazione dell'Abissinia.
Art. VI. - Allo scopo di favorire i rapporti commerciali e industriali fra l'Italia e l'Etiopia, potranno esser conclusi accordi ulteriori tra i due Governi.
Art. VII. - Il presente trattato sarà portato a conoscenza delle altre Potenze dai due Governi contraenti.
Art. VIII. - Il presente trattato dovrà essere ratificato dal Governo italiano nello spazio di tre mesi a datare da questo giorno.
Art. IX. - Il presente trattato di pace, concluso oggi, sarà scritto in amarico ed in francese, con i due testi assolutamente conformi, e fatto in due esemplari, firmati dalle due parti, di cui uno resterà nella mani di Sua Maestà il Re d'Italia e l'altro nelle mani di Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia. Essendo ben di accordo sui termini di questo trattato, Sua Maestà Menelick II Imperatore d'Etiopia, in suo nome, e Sua Eccellenza il maggiore, dottore Nerazzini, in nome del Re d'Italia, hanno approvato e sigillato".

Nello stesso giorno fu dagli stessi stipulata la seguente convenzione relativa ai prigionieri:

Art. I. - Come conseguenza del trattato di pace tra il Regno d'Italia e l'Impero d' Etiopia firmato oggi, i prigionieri di guerra italiani, trattenuti in Abissinia, sono dichiarati liberi, Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia si obbliga di riunirli nel più breve tempo possibile e di consegnarli nell'Harrar al plenipotenziario italiano, appena il trattato di pace sarà stato ratificato.
Art. II. - Per facilitare il rimpatrio di questi prigionieri di guerra e assicurare loro tutte le cure necessarie, Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia autorizza una sezione della Croce Rossa italiana a venire fino a Gildessa.
Art. III. - Il plenipotenziario di Sua Maestà il Re d'Italia, avendo spontaneamente riconosciuto che i prigionieri sono stati oggetto delle maggiori cure da parte di Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia, constata che il loro mantenimento ha cagionato spese considerevoli, e che, per questo fatto, il Governo italiano è debitore verso Sua Maestà di somme corrispondenti a tali spese. Sua Maestà l'Imperatore d' Etiopia dichiara di rimettersi all'equità del Governo italiano per il risarcimento di questi sacrifici".

Il 16 novembre del 1896 Umberto I, con un telegramma controfirmato dal presidente del Consiglio e dai ministri degli Esteri e della Guerra, annunciò al Negus la ratifica del "Trattato di Addis-Abeba" e subito iniziò il rimpatrio dei prigionieri, gli ultimi dei quali riuscirono a ritornare nella primavera del 1897.
Con la pace di Addis-Abeba, alcuni italiani sostennero che...
"la nostra vergogna fu completa. Più che gli Abissini in Africa avevano vinto i nostri demagoghi in Italia, tutti coloro che avevano predicato contro la politica di espansione, che avevano reclamato il ritiro delle truppe dall'Eritrea, che avevano chiamato sciagurata e maledetta l'impresa africana, che si erano con insano sentimentalismo preoccupati della sorte di un migliaio di prigionieri ed avevano trascurata quella della nazione".

L'onta di Adua poteva facilmente essere lavata, ma dal meschino governo e dai pigmei della Camera di allora non si volle eliminarla. Si ordinò il rimpatrio delle truppe prima che fosse conclusa la pace, non si volle - ed era agevole - conquistare l'Agamè e il Tigrè, fu imposto a BALDISSERA di ritirarsi dietro la linea Mareb-Belesà-Muna; ed infine si concluse una pace che diede il colpo di grazia al prestigio di grande potenza perché l'Italia dovette rinunziare al protettorato sull'Abissinia, impegnarsi a cedere la colonia nel caso di un abbandono dell'Eritrea e pagare sotto il nome di spese per il mantenimento dei prigionieri un' indennità di guerra al nemico.

Con questa vergogna il Gabinetto Di Rudini segnò la fine del grandioso sogno di un impero etiopico, che dopo Adua poteva diventare realtà, ma che per viltà di governanti tramontò per sempre.
Simili problemi la civilissima e democratica Inghilterra non se li pose; così la Germania, la Russia e così la Francia

LA POLITICA AFRICANA DISCUSSA ALLA CAMERA
L'ECCIDIO DI LAFOLE'
UCCISIONE DEGLI ESPLORATORI VITTORIO BOTTEGO E MAURIZIO SACCHI
LA CAMERA APPROVA LA POLITICA COLONIALE DI RACCOGLIMENTO
FERDINANDO MARTINI GOVERNATORE CIVILE DELL'ERITREA
ABBANDONO DI CASSALA

Nella seduta del 30 novembre ci fu alla Camera lo svolgimento d'interpellanze sull'Eritrea. L'on. DAL VERME difese la condotta del Governo e in particolar modo del ministro della Guerra; tentò di dimostrare che non per pusillanimità si era ordinato lo sgombro dell'Agamè ma per la difficoltà del rifornimento dei viveri e che essendo impossibile la guerra a fondo con l'Abissinia, non rimaneva che concluder la pace; propose la cessione parziale del territorio dell'Eritrea, dietro adeguato compenso, e concluse affermando non essere in questione l'onore della bandiera, che anzi non era mai stato così alto come dopo le lotte strenuamente sostenute da Dogali a Cassala, nella buona e nell'avversa fortuna.

L'on. AGNINI sostenne che l'Italia non aveva regioni commerciali e morali di rimanere in Eritrea e consigliò, anche a nome di altri deputati, di abbandonare la colonia. L'on. Di SAN GIULIANO disse che, "dopo la guerra, l'Eritrea aveva perduto molto del suo valore economico, ma niente del suo valore politico". Credeva anzi che questo fosse aumentato, trattandosi di posizione in cui "si poteva esercitare una azione efficace pro o contro determinate potenze; di posizione fra le più importanti del teatro mondiale per l'egemonia tra la razza slava e quella anglosassone, di una posizione che si connetteva alla situazione dell'Inghilterra in Egitto ed al vasto disegno coloniale della Francia".

La discussione continuò nella seduta del l° dicembre. L'on. IMBRIANI disse ancora una volta di esser favorevole all'abbandono assoluto della colonia, dichiarò di approvar pienamente il Governo che aveva sottoscritto la pace con l'Abissinia, disapprovò l'ordine del ministero della Guerra a Baldissera di mantenere l'occupazione di Cassala e concluse dicendo che "l'Italia in Africa aveva rinnegato il suo diritto pubblico ed era andata ad offendere il diritto altrui, profondendo centinaia di milioni e il suo miglior sangue, ma sul campo di battaglia l'onore era rimasto integro e più alto di prima, perché i soldati avevano dimostrato quale fosse la loro ubbidienza al dovere".

DI RUDINI, rispondendo ai precedenti oratori, spiegò le ragioni della conservazione di Cassala e del ritiro da Adigrat, rivolse un caldo elogio al maggiore Nerazzini per lo svolgimento e la conclusione dei negoziati con Menelick, affermò che con il trattato l'Italia si vedeva riconosciuto il diritto di sovranità su due nuove province d'Africa, l'Acchelò Guzai e il Seraè, parlò delle difficoltà di trasformare l'Eritrea da colonia militare in colonia puramente civile e commerciale, e concluse:
"Grandi amarezze ha dato all'animo mio questa politica africana, grandi amarezze ha dato al popolo italiano, il quale ha trovato la sconfitta, là dove cercava la vittoria e la gloria .... Non ci lasciamo traviare da miraggi che si trovano nel deserto ! Non lasciamo che il nostro pensiero si allontani da questa Madre-patria, che dobbiamo rendere grande, forte e potente! Ma di questo siate persuasi, o Signori, che questa patria non sarà grande, che l'Italia non sarà davvero una grande potenza, ed una potenza di prim'ordine, fintanto che sarà impigliata in imprese coloniali, sproporzionate alla condizione nostra ed ai nostri interessi".

L'on. IMBRUNI presentò, anche a nome di altri, la seguente mozione: "La Camera, riconoscendo esiziale per gl'interessi morali e materiali del paese il mantenimento della Colonia Eritrea, ne delibera il totale abbandono". Ma il giorno dopo la Camera respinse la mozione con 184 voti contrari, 26 favorevoli e 53 astenuti.

Il 3 dicembre l'Agenzia Stefani comunicava la triste notizia che a Lafolè, a 20 chilometri da Mogadiscio, una spedizione composta dei comandanti MAFFEI della Staffetta e MONGIARDINO del Volturno, del geometra QUIRIGHETTI, degli ufficiali di marina SMURAGLIA, BATALDI, DE CRISTOFORO, SANFELICE, GUZZOLINI, BARONI E GASPARINI, del macchinista OLIVIERI, del fuochista ROLFO, del domestico CARAMELLA, del timoniere VIANELLO e dei marinai GREGANTE e BONASERA, guidata dall'illustre esploratore ANTONIO CECCHI e scortata da 70 ascari, era stata nelle prime ore del mattino del 26 novembre attaccata da un'orda di Somali. Dopo accanita resistenza, 14 dei 17 italiani erano stati uccisi; si erano salvati solamente VIANELLO, BONASERA e GREGANTE; degli ascari 18 erano caduti e 17 erano rimasti feriti.
Quel giorno stesso sull'eccidio della "spedizione Cecchi" presentarono alla Camera, interrogazioni gli onorevoli RUBINI, DONATI, DI SAN GIULIANO, MACOLA e CANZI.
VISCONTI-VENOSTA, ministro degli Esteri, rispose che dalle notizie avute risultava che una punizione era già stata inflitta ai colpevoli e che il Governo aveva dato istruzioni e avrebbe preso tutti i provvedimenti perché tale punizione fosse veramente esemplare.
Di RUDINÌ non si lasciò sfuggire l'occasione per dichiarare che, quando l'Italia, si era accinta ad occupare la costa del Benadir, lui aveva alzato la voce in senso di diffidenza, per rammentare che non era stato troppo favorevole alla spedizione Bóttego e per dire che il Governo intendeva limitare la sua azione in Somalia alla difesa e protezione dei nostri stabilimenti sulla costa.

Alcuni mesi dopo e ne dava notizia il maggiore Nerazzini, il 23 aprile del 1897, altre vittime cadevano. Erano il capitano VITTORIO BÓTTEGO e il dottor MAURIZIO SACCHI, capo, il primo, di una spedizione di cui facevano parte il sottotenente di fanteria CARIO CITERNI e il sottotenente di Vascello LAMBERTO VANNUTELLI. La spedizione, partita da Brava il 12 ottobre del 1895, era giunta a Lugh il 18 novembre, vi aveva fondato una stazione commerciale sotto la direzione del capitano UGO FERRANDI e n'era ripartita il 27; aveva quindi esplorato con successo i bacini del Dana e dell'Omo; ma, nella via del ritorno, Sacchi era stato trucidato presso il Lago Margherita; gli altri erano stati assaliti dagli Abissini presso la frontiera etiopica e, dopo eroica resistenza BÓTTEGO era rimasto ucciso, e CITERNI e il VANNUTELLI erano stati catturati.

Verso la metà del maggio 1897 la Camera iniziò a discutere sulla politica africana. Sostennero l'abbandono della Colonia gli onorevoli DE MARINI, IMBRIANI, DEL BALZO, MARAZZI, BADALONI, COSTA, BERENINI, SICHEL, NOFRI, RAMPOLDI, SANI, DE CRISTOFORIS, PODESTÀ, GARAVETTO, COLLI, PALA, TASSI, R. LUZZATTO, MUSSI, PAVIA, PANTANO, TRAVELLI, PENNATO, RAVAGLI, POZZI, SCALINI, ZABBA, BISEARETTI, CREMONESI, LOCHIS, CAVALLOTTI, O. CAETANI, CURIONI, SORMANI, ARNABOLDI e OTTAVI; l'on. ANGELO VALLE sostenne che...
"si doveva rimanere dove si era e propose la formazione di un esercito coloniale".
Favorevole al mantenimento della colonia, fu anche il Di SAN GIULIANO. Questi, fra l'altro, disse, che...
"l'importanza politica della nostra posizione a Massaua e sull'altipiano non riguarda solo l'influenza nostra nel Mar Rosso. Dall'altipiano si può anche direttamente ed indirettamente esercitare influenza sulle sorti dell'Egitto, su quelle dell'hinterland dell'Africa settentrionale, sul grande conflitto coloniale anglofrancese, e sul grande conflitto mondiale anglo-russo. Non è esagerato dire che sull'altipiano etiopico si difende la Tripolitania. E se noi non vediamo l'intima connessione della nostra posizione sull'altipiano con la tutela dei nostri interessi nel Mediterraneo, ben la vedono quelle potenze estere, le quali, avendo appunto nel Mediterraneo interessi opposti ai nostri, si sono servite del braccio di Menelick per cacciarci da quelle posizioni che sarebbero sempre più cresciute d'importanza, perché sempre più sarebbe cresciuta d'intensità la gara, per l'espansione coloniale fra tutte le potenze civili del mondo".

L'on. CHIMIRRI affermò che la Colonia Eritrea aveva un valore politico di altissimo ordine. Gli onorevoli DAL VERME, SONNINO, NASI, GIUSSO, CASALE, FRANCHETTI, MARTINI e GRIPPO proposero di sospendere ogni deliberazione sull'ordinamento della Colonia fino a quanto non fossero state adempiute tutte le condizioni del trattato di pace di Addis Abeba, anche perché era inopportuno parlare di abbandono o no della colonia quando il Maggiore Nerazzini trattava col Negus per la delimitazione dei confini.
Altri deputati si dissero favorevoli ad una "politica di raccoglimento".

DI RUDINÌ dichiarò che nell'anno decorso aveva cercato di ricondurre le cose nello stato in cui si trovavano dopo Coatit e Senafè. Per di più l'ultimo trattato permetteva di occupare tutto il paese fino al Mareb. Unica cosa mutata era la rinuncia al trattato di Uccialli, alla pretesa di esercitare il protettorato sull'Abissinia. Quanto agli intendimenti del Ministero, avvertì come il passato avesse dato non pochi ammonimenti e fatto dileguare non poche illusioni: per esempio l'occupazione di Cassala si era dimostrata solo un onere per il bilancio, e i fatti avevano provato essere un'illusione la speranza che sotto la protezione delle nostre armi potesse darsi sviluppo nell'Eritrea ad una colonia di popolamento. Dopo avere accennato alle grandi spese che l'occupazione militare della colonia richiedeva, il presidente del Consiglio concluse che "conviene formare una situazione di cose, la quale ci permette di ridurre ai minimi termini la nostra occupazione militare limitandola possibilmente alla sola Massaua; che non bisogna cedere, né in tutto né in parte, i territori sui quali si esercita la nostra sovranità", ordinando però il paese "sotto capi indigeni di nostra scelta", e infine che era "necessario far cessare il più presto l'occupazione di Cassala".

Il 22 maggio la Camera non approvò con 222 voti sfavorevoli, 140 favorevoli e 3 astenuti la mozione De Marinis-Imbruni-Pozzi sull'abbandono della Colonia, rigettò parimenti con 320 voti contrari e 58 favorevoli l'ordine del giorno MARTINI, appoggiato dal Sonnino e così concepito:
"La Camera, alfine di dare alla Colonia Eritrea l'assetto che meglio convenga alla dignità e agli interessi del paese, sospende ogni deliberazione e si riserva di riprendere la discussione intorno all'ordinamento della Colonia quando; adempiute le condizioni del trattato del 26 ottobre 1896, essa abbia tutti gli elementi necessari ad un giudizio definitivo"; infine fu approvato con 242 voti contro 94 e 20 astenuti l'ordine del giorno GALLO-RUBINI con cui la Camera prendeva atto delle dichiarazioni del Governo e ne approvava la "politica coloniale di raccoglimento".

Mentre a Roma si discuteva sulla politica africana, il Maggiore NERAZZINI svolgeva trattative con il Negus per delimitare i confini tra l'Eritrea e l'Abissinia. Ma l'accordo, per allora, non fu possibile; si riuscì soltanto, il 27 giugno del 1897, a stipulare un trattato con cui si accordava ai sudditi dei due Stati ampia facoltà di entrare, uscire e commerciare nei territori dell'altro.
Sulla fine dell'anno si mandò alla Scioa, come residente diplomatico; il capitano CICCODICOLA, che il 10 luglio del 1900 firmò ad Addis Abeba una convenzione che fissava: come confine la linea Tomat-Todluc-Mareb-Belesa-Muna.

Il 30 novembre dello stesso anno 1897 era stato nominato governatore civile dell'Eritrea (quindi cessa il governatorato militare) FERDINANDO MARTINI che tenne l'ufficio per dieci anni riorganizzando la colonia solidamente sotto l'aspetto politico, economico, amministrativo e giudiziario. Martini era un giornalista scrittore e deputato appartenente alla sinistra di Zanardelli.

L'anno si chiuse con un accordo italo-inglese, l'abbandono di Cassala. II 18-25 dicembre del 1897 fu sottoscritta dal colonnello CARLO SAMMINIATELLI e da CARLO PARSONS PASCIÀ una convenzione con cui Cassala era ceduta al Kedivè d'Egitto; un uomo di comodo che pur nominato kedivè (una specie di re governatore) politicamente ed economicamente l'Egitto era un Paese vassallo di una potenza straniera; Paese dal Sultano svenduto solo per ricavarne interessi personali.
Cominciò cosi il rigido dominio britannico, ma cominciarono pure dopo pochi anni, le gravi sommosse dei nazionalisti per ottenere la totale indipendenza dell'Egitto

LA CONVENZIONE
"Il corpo della piazza di Cassala con tutti i suoi fabbricati, fortilizi e dipendenze e gl'immobili demaniali unitamente a quella parte dell'armamento, di mobili, materiali, munizioni da guerra e da bocca, che sono distintamente inventariati negli allegati annessi al presente atto di cessione, passano da oggi, 25 dicembre 1897, alle ore 12, in piena ed effettiva proprietà di S. A. il Kedive d'Egitto, mediante pagamento da stabilirsi fra i due Governi".

In un atto addizionale fu stabilito:
I. Ai militari indigeni, che si trovano al servizio del Governo italiano, è fatta facoltà di passare fino alla data della presente convenzione al servizio del Governo egiziano. Coloro che aderiranno a tale passaggio saranno disarmati, congedati dal Governo italiano e arruolati dal nuovo Governo al cui servizio essi passano.
II. - I militari che passano al soldo del Governo egiziano acquistano il diritto che a loro siano conservati gli assegni che percepivano dal Governo italiano, e ciò fino al termine della ferma in corso".

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E così dal Governo di RUDINI, fu "venduta" all'Inghilterra una città che tanto sangue e tanto eroismo erano costati all'Italia e che rappresentava per la colonia italiana una piazza di primissimo ordine, sotto l'aspetto commerciale e militare.
Le ragioni avanzate furono che la città lontana dalla base italiana di Massaua in Eritrea esigeva spese che il governo non intendeva più sostenere.

Ma non furono solo queste le "brillanti idee" della politica estera italiana -e così di quella interna- guidata da RUDINÌ.
Quella estera, europea, il "vecchiaccio" Crispi, dall'alto dei suoi 80 anni, l'attaccava e la chiamava, "sventura internazionale".

Noi qui proprio della politica estera ed interna del Rudinì
ci occuperemo nel prossimo capitolo…

…periodo dal 1896 al 1898 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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