1913-1914

SCIOPERI ED AGITAZIONI IN ITALIA
SETTIMANA ROSSA
SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - IL "PATTO GENTILONI"
ELEZIONI POLITICHE - ; DIMISSIONI DEL MINISTERO
IL GABINETTO SALANDRA - ALTRI SCIOPERI


LA "SETTIMANA ROSSA "

Da quando Giolitti iniziò la sua partita a scacchi con le grandi potenze, decidendo di invadere la Libia, prima che la Francia finisse per mettervi piede, all'inizio, la sua politica ne uscì rafforzata, ma alla fine dell'"avventura", pur con una guerra vittoriosa e una pace redditizia, l'onda del suo successo fu di breve durata.
Anzi finì per distruggere il "sistema giolittiano"

La mossa nell'estate del 1911, era stata abile, non solo perché forzata dalla crisi marocchina-francese, ma anche dettata da ragioni politiche interne: cioè per placare i nazionalisti e i clerico-moderati, e per andare incontro all'opinione pubblica dagli uni e dagli altri (e dal governo - ovvero i giornali giolittiani come La Stampa, Tribuna ecc.) ben orchestrata, fino al punto che si aggregarono pure alcuni socialisti come Bissolati e Bonomi, creando non pochi contrasti e scissioni nel loro partito.

I nazionalisti prima del 1908 erano poca cosa in Italia; il "nazionalismo italiano" era un movimento con alcuni nostalgici del "grande passato", e con molti insofferenti alle lotte sindacali, agli scioperi e al socialismo. Per questi ultimi motivi erano ben visti dalla classe media e piacevano particolarmente a molti industriali che guardavano all'ordine, al produttivismo, al profitto e alle colonie.
Quindi primo bersaglio dei nazionalisti era stato Giolitti, accusato di aver fatto troppe concessioni ai socialisti; ed erano, i nazionalisti in sintonia con i conservatori che accusavano lo statista piemontese di essere blando, sempre accomodante, e che agendo così stava consegnando lo Stato ai loro nemici.

In effetti Giolitti negli ultimi anni e durante la guerra in Libia, fece il giocoliere, ed era anche abile, ma non poteva farlo contemporaneamente con tutti. Quando faceva concessioni ai socialisti scontentava i cattolici. Se si alleava con i cattolici, perdeva i radicali. Se faceva il colonialista in Libia tradiva i socialisti. Se voleva intervenire sulla crescita economica doveva prima fare i conti con le casse vuote. Se i denari voleva cercarli presso i ricchi, subito veniva tacciato di fare del socialismo. Corteggiava i socialisti e i sindacati, e faceva accordi per mantenere legittimità allo Stato e alle sue istituzioni.

Corse ai ripari allargando il suffragio universale il 25 maggio 1912, convinto di allargare il consenso, ma non avendo lui un partito di massa (di destra moderata), e un partito liberale bene organizzato in tal senso, a guadagnarci (con il 70% degli analfabeti degli aventi diritto al voto) furono proprio i socialisti e soprattutto i cattolici che iniziarono ad essere indipendenti e a non più dare quell'appoggio che Giolitti andava cercando in mezzo a loro.

Infine ai temi fino allora predicati dai nazionalisti più in una forma letteraria che non politica, e che quindi sembravano non preoccupare nè a indebolire Giolitti, all'improvviso si aggiunsero i nuovi temi, quelli del 1908, e iniziarono a potenziarsi, quando non reagendo il Governo alla politica imperialista e colonialista delle sue due alleate, i nazionalisti aumentarono le loro file facendosi interprete di un sentimento di frustrazione condiviso da molti italiani; che l'Italia era l'unica tra le potenze europee a non acquisire colonie; che era l'unica rimasta indietro nell'industrializzazione; che milioni d'italiani per vivere erano costretti ad emigrare; che l'Italia come potenza era oscurata dalle sue due alleate della Triplice; e infine dopo aver provato a voler cercare spazi vitali come le altre, era stata sconfitta ad Adua nientemeno che dagli abissini; insomma i nazionalisti insistevano sulle colpe e sulla redenzione futura; e dato che gli italiani già non erano più quelli di Crispi e di Adua, i nazionalisti iniziarono ad ascoltarli.

E costituirono la chiave di volta di tutto l'interventismo anche nella successiva guerra mondiale. Essi approdarono alla tesi dell'intervento a fianco dell'Intesa, dopo aver sostenuto in un primo tempo l'allineamento con gli Imperi centrali, palesando - come del resto altri settori dello schieramento politico - una chiara volontà di partecipare alla guerra non tanto per obbiettivi precisi, quanto per uscire dalla crisi nella quale la società italiana si dibatteva...Ecco perché nell'interventismo confluirono come in un crogiuolo uomini e tendenze politiche di provenienza così diversa, e perché in esso si realizzarono tante conversioni, altrimenti difficilmente spiegabili". (Ernesto Ragionieri "Storia d'Italia ", Einaudi editore)

Nei giorni roventi che precedettero l'intervento dell'Italia in guerra (in quella mondiale del 1915), l'attacco contro Giolitti e la maggioranza neutralista del Paese si fece sempre più serrato, più aggressivo, più protervo e violento, è una sobillazione alla rivolta, alla distruzione delle istituzioni della ancora giovane democrazia italiana. Nell'edizione del 15 maggio 1915 "L'Idea Nazionale" (un quotidiano romano portavoce degli interessi che puntavano al protezionismo industriale e al nazionalismo economico, contrapponendosi al sistema liberistico) spara un violento articolo di fondo, titolando "Il Parlamento contro l'Italia".
Eccone uno stralcio: "II Parlamento è Giolitti; Giolitti è il Parlamento: il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia Italia, la vecchia Italia che ignora la nuova, la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e nell'avvenire... L'ignora appunto perché è il Parlamento. Parlamento, cioè la falsificazione della nazione... L'urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani; e in faccia al mondo che aspetta proclamerà la volontà della sua vita, la moralità della sua vita, la bellezza augusta della sua vita immortale".

Prima della Guerra mondiale, gli scioperi in ogni parte d'Italia, l'annessione austriaca, quella francese in Marocco, l'accomodante politica estera e le astute manovre di Giolitti in quella interna con le controversie risolte male o non risolte affatto, furono i validi motivi per appoggiare i nazionalisti con tutti i mezzi l' "avventura" libica concepita da Giolitti. Dopo aver reso malleabile l'opinione pubblica a favore della guerra in Libia, energicamente appoggiandola (e si gloriarono di aver forzato Giolitti a fare questa guerra), quando arrivò il successo e l'ubriacatura della vittoria l'uno e l'altra fornirono forza ai nazionalisti che si presero così il merito della guerra vittoriosa, e li resero popolari. L'Italia aveva lavato l'onta di Adua e finalmente l'Italia aveva la sua colonia.

Non trascuriamo poi l'appoggio dato ai nazionalisti dai finanzieri e dai grandi industriali, che in Libia avevano già fatto importanti investimenti. E fra questi, il Banco di Roma, che oltre a finanziare alcuni giornali cattolici, tra cui il "Corriere d'Italia, che appoggiò la guerra, la stessa banca non dimentichiamo era vicina al Vaticano, la dirigeva il presidente ERNESTO PACELLI (zio del futuro papa Pio XII) e come vicepresidente c'era ROMOLO TITTONI (fratello di Tommaso Tittoni ministro degli esteri 1903-1909).

Quest'ultimo fatto cosa significava? Che nell'opinione dei cattolici (palese o no, con interessi o no, e con il pretesto di farne una guerra santa contro i turchi) nello spingere l'Italia all'avventura libica, c'era uno smaccato appoggio al movimento nazionalista. E se Giolitti fino il giorno dell'inizio della guerra per la sua politica cercava l'appoggio dei cattolici moderati, e quasi vi era riuscito, dopo, alla fine della guerra i cattolici moderati, avendo mostrato il loro patriottismo ed entrando così a far parte dell'unità nazionale (anche se questo connubio non ricevette mai la benedizione della Chiesa) diventarono i migliori alleati dei nazionalisti. E pur dissociandosi da loro (chiamandoli guerrafondai, imperialisti senza scrupoli, tracotanti) le affinità più di vedute che non ideologiche, alle elezioni successive (del 26 ottobre 1913) fece nascere un alleanza che procurò ad entrambi vantaggi; i nazionalisti per la prima volta entrarono in Parlamento conquistando sei seggi, e i cattolici iniziarono a creare un partito di massa entrando con autorevolezza e con una certa indipendenza nell'arena politica (ma il successo maggiore fu -come commentò l'Osservatore Romano -"di aver impedito l'elezione a oltre 100 candidati, che sarebbero andati ad ingrossare la schiera, già sensibilmente aumentata, dei partiti sovversivi" E fra questi i socialisti (che poco prima stavano invece per entrare nel governo a braccetto di un più morbido Giolitti).

La guerra libica aveva smorzato i bollori socialisti; loro si erano opposti alla guerra per principio, ma i tentativi fatti per mettersi contro la guerra, contro Giolitti, contro i nazionalisti, contro i cattolici, non solo li isolò agli occhi dell'opinione pubblica (diventata all'improvviso tutta nazionalista), ma isolò perfino alcuni suoi deputati che così fornirono spazio dentro il partito a quelli dell'ala "rivoluzionaria" che iniziarono a conquistare l'appoggio anche dei sindacati socialisti moderati.

Dopo la pace di Losanna, i socialisti tornarono a ridestarsi provocando agitazioni e scioperi. Scioperarono i marmisti del Carrarese nell'inverno e nell'estate del 1913; scioperarono nel maggio gli operai automobilisti di Milano e dall'aprile al giugno quelli di Torino; nel maggio e nel giugno scioperarono gli edili a Modena e a più riprese, nella primavera e nell'estate, e in varie città i metallurgici. Uno sciopero generale promosso dai sindacalisti, si ebbe nell'agosto a Milano; scioperi agrari tumultuosi si ebbero nell'Imolese e nel Ferrarese; di fattorini telegrafici a Milano, degli avvocati e procuratori in diverse città, e infine, per tacere altri meno importanti, uno sciopero dei lavoratori del mare.

Tutte queste agitazioni non causarono grande ripercussione nella vita parlamentare, dominata quasi completamente da Giolitti, il cui gabinetto non attraversò alcuna crisi. Subì solo qualche mutamento con il ritiro di LEONARDI-CATTOLICA che, nel luglio del 1913, fu sostituito da MILLO, e con la morte del CALISSANO, cui nel settembre successe il COLOSIMO.
Il 29 settembre fu sciolta la Camera e furono convocati i comizi per le elezioni del 26 ottobre - 2 novembre 1913.

IL PATTO GENTILONI

Queste elezioni (con la riforma elettorale che portava da 3.329.147 a 8.672.249 gli aventi diritto al voto; anche se votarono poi solo 5.100.615 elettori) furono precedute dal famoso "patto Gentiloni". Curia e Governo (Giolitti) si accordarono. La prima aveva interesse che la Camera non seguisse una politica anticlericale; il secondo desiderava assicurare ai candidati ministeriali l'appoggio dei cattolici.

"Un personaggio cattolico, il conte GENTILONI, - scrive il Gori - ricevette direttamente dal Pontefice, incarico discrezionale amplissimo di passare al vaglio i candidati e di far dare i voti cattolici a quanti di loro fornivano garanzie di non votare leggi antireligiose".
Era insomma un'iniziativa per contrastare un'avanzata delle sinistre alle elezioni, soprattutto dopo l'introduzione del suffragio universale maschile faceva presagire.
Dinanzi e quel plenipotenziario di nuova specie fu una sfilata interminabile, una ridda vorticosa di candidati (508), anche radicali, socialisti e massoni. Il gentiluomo plenipotenziario, compitissimo con tutti, addolcì, signorilmente benigno, anche i rifiuti, pochi, del resto e non definitivi. Egli infatti, regolandosi sulle informazioni dei vescovi, esortava i buoni a perseverare; e ai reprobi domandava soltanto una promessa scritta che non ricadrebbero; e la formula di quella promessa variava secondo la condizione e la malleabilità del peccatore. Ai riluttanti d'impegnarsi per iscritto, Gentiloni faceva vedere, per incoraggiarli, una cassetta piena di lettere, con autografi incredibili per chi li leggeva. E l'incoraggiamento valeva".

Il patto Gentiloni produsse i risultati che la Curia e Governo si ripromettevano: sostenere lo Stato liberale. Circa due terzi della Camera furono composti da deputati legati a Gentiloni (in modo poco opportuno) si vantò di averne fatti eleggere 228 -che voleva dire liberali eletti con i voti dei cattolici - il "Messaggero" ne pubblicò gli elenchi, provocando imbarazzanti smentite da parte di molti di loro).
I deputati cattolici salirono a 26, i radicali a 73; mentre i repubblicani e i riformisti non videro di molto mutato il loro numero.
Il 27 si riaprì il Parlamento e il giorno dopo fu eletto presidente della Camera l'on. MARCORA, segno evidente che la maggioranza della nuova assemblea era sì giolittiana (304) ma poco solida, e con tanti liberali delle varie tendenza.

Inoltre dalla maggioranza, il 7 marzo 1914, per il rifiuto di votare alcune spese di guerra, si staccò il gruppo radicale, il che portò alle dimissioni dei ministri e sottosegretari radicali SACCHI, CREDARO, PAVIA, e VICINI.
Giolitti non volle nemmeno un voto di fiducia. Tre giorni dopo si dimise e con lui tutto tutto il ministero.
Il 12 marzo, il re incaricò a costituire il nuovo governo a SONNINO, che però rifiutò, incapace com'era di formare un ministero con la più che sicura opposizione di tutti i giolittiani.
Giolitti dovette compiacersi di queste difficoltà; ancora una volta rimase in disparte, ma fu lui a suggerire al Re il nuovo premier: il conservatore di destra ANTONIO SALANDRA.

Il sovrano lo incaricò a formare il nuovo governo, e Salandra con l'aiuto di Giolitti, lo costituì il 21 marzo, prendendo per sé la presidenza del Consiglio e l'Interno, lasciando agli Esteri il Di SAN GIULIANO
I zanardelliani erano presenti con FERDINANDO MARTINI alle Colonie, AUGUSTO CIUFFELLI ai lavori pubblici, LUIGI RAVA alle finanze.
Del centro destra LUIGI DANI alla giustizia; GIULIO RUDINI' al tesoro; EDOARDO DANEO all'istruzione; VINCENZO RICCIO alle poste e telegrafi; GIANNETTO CAVASOLA all'agricoltura; alla marina resta ENRICO MILO, alla guerra il generale DOMENICO GRANDI dopo il rifiuto del generale PORRO, per aver messo come condizioni la richiesta di 600 milioni in quattro anni per rafforzare l'esercito e che Salandra negò ritenendo eccessiva la richiesta)

Il nuovo ministero fu accolto abbastanza bene alla Camera, che il 5 aprile con 303 voti favorevoli, 122 contrari e 9 astenuti, gli accordò la fiducia. Tuttavia erano tempi critici per un gabinetto pur abbastanza saldo come quello capitanato da Salandra; si trovò dentro nella bufera di due momenti molto difficili per l'Italia: prima gli scioperi e finiti questi, subito dopo una guerra da affrontare si o no.

Il paese nella prima metà dell'anno 1914 fu in preda alle agitazioni: il 20 marzo la Federazione degli armatori ordinava la serrata, disarmando tutti i piroscafi; il 23 scoppiava uno sciopero generale a Palermo; il 17 aprile a Cerignola aveva luogo uno scontro, con morti e feriti, tra contadini scioperanti e liberi lavoratori; il 18 iniziava in tutta Italia lo sciopero generale degli operai delle manifatture dei Tabacchi; nei primi di maggio avvenivano dimostrazioni studentesche in ogni città in seguito a incidenti accaduti a Trieste tra Slavi e Italiani malgrado le millantate cordialità italo-austriache affermate negli ultimi di marzo nell'incontro di Venezia tra VITTORIO EMANUELE III e GUGLIELMO II e il 14 aprile nel convegno di Abbazia tra Di SAN GIULIANO e il BERCHTOLD.

Né queste erano le sole agitazioni. I ferrovieri volevano miglioramenti e minacciavano lo sciopero, ad evitare il quale, nominata da regio decreto una Commissione di 26 membri, tra cui quattro ferrovieri, detta Parlamentino ferroviario, si metteva a studiare i provvedimenti presentati poi dal ministro CIUFFELLI; il 1° giugno scoppiava lo sciopero generale a Catania per solidarietà con gli zolfatori che chiedevano al Governo abbuoni sul trasporto degli zolfi, e contemporaneamente si scioperava a Porto Empedocle per protestare contro gli stessi abbuoni ritenuti dannosi al commercio di questa città, i cui scioperanti devastavano la stazione ferroviaria e gli uffici del Consorzio zolfifero e incendiavano una grande quantità di zolfo.

Il 7 giugno (Festa dello Statuto) ad Ancona ebbe luogo un violento conflitto tra la forza pubblica e una colonna di anarchici e repubblicani reduci da un comizio antimilitarista che in precedenza era stato vietato. Nei violenti scontri ci furono diciassette carabinieri feriti; ma furono i tre dimostranti morti che provocarono un'ondata di protesta su tutta Italia.
La Camera del Lavoro di Ancona proclamò lo sciopero generale, che, per ordine della Confederazione del Lavoro di Milano, fu esteso a tutta Italia. Il 9 giugno, il Sindacato ferrovieri di Ancona proclamò lo sciopero generale ferroviario e quel giorno stesso, i funerali dei morti del giorno 7 fornirono occasione a disordini molto più gravi, a saccheggi di negozi di armi e a conflitti con la forza pubblica.

Il 10 e l'11 la situazione si aggravò. Fu costituito ad Ancona una specie di Governo provvisorio composto di sindacalisti, repubblicani ed anarchici, che si mise in contatto con altri governi simili istituiti nel resto delle Marche e nelle Romagne, dove furono troncate le comunicazioni, cacciate le autorità governative, proclamata la repubblica con relativo innalzamento nelle piazze di alberi della libertà, la rivolta assume un carattere insurrezionale.
In Romagna, il movimento guidato da BENITO MUSSOLINI, dall'anarchico ENRICO MALATESTA, e dall'allora repubblicano PIETRO NENNI, assume carattere insurrezionale.

Uno sbarco di marinai delle regie navi ad Ancona non valse a ripristinare l'ordine per la fiacchezza delle stesse ciurme e le Marche e le Romagne rimasero in balìa dei rivoltosi, che sfogarono il loro furore contro gli edifici pubblici, i ponti, le stazioni, le chiese, le linee telegrafiche, le strade ferrate, e in balìa dei Governi provvisori che ordinarono requisizioni ed espropriazioni. Non mancarono sanguinose violenze, come quella di cui fu vittima il commissario di pubblica sicurezza Minigio, che fu catturato, straziato e ucciso a Ravenna.

Mentre questi fatti avvenivano, si svolgevano lungo la costa adriatica le manovre combinate di terra e di mare. L'11 giugno, uno dei generali che prendevano parte alle manovre, l' AGLIARDI, noto per il valore dimostrato nelle guerre d'Africa, mentre in carrozza, insieme con i suoi ufficiali, se ne veniva da Ravenna per Cesenatico, fu fermato dai rivoltosi e, non potendo difendersi perché le sciabole erano legate in fascio a cassetta, fu fatto prigioniero con i suoi e condotto in un caffè dove rimase sotto buona guardia per qualche tempo finché il Governo provvisorio, temendo le conseguenze di un tale arresto, non lo rimise in libertà.

Lo sciopero generale proclamato dalla Confederazione del Lavoro provocò, specie a Torino, a Firenze, a Napoli e a Roma, saccheggi, violenze, conflitti con barricate, morti e feriti, e reazioni da parte dei nazionalisti e liberali che a Bologna, a Brescia, a Milano, a Verona, a Firenze, a Roma e a Palermo guidarono cortei gridando contro lo sciopero. Questo avrebbe dovuto aver termine la notte del 10, ma durò tutto l'11 a Parma, a Milano, e a Firenze e tutto il 12, a Napoli. Lo sciopero ferroviario, sebbene parziale, durò a Piacenza e a Bologna oltre il 13, con saccheggi, incendi di stazioni, guasti ai binari e ai ponti.

LA "SETTIMANA ROSSA"

Finalmente, più per esaurimento che per repressione governativa (tuttavia furono impiegati 100.000 soldati per far fronte alle agitazioni) gli scioperi e le insurrezioni di quella, che poi prese il nome di "Settimana rossa", finirono, e gli stati d'assedio proclamati ad Ancona e a Ravenna furono revocati.
Il Governo, che pur non aveva mostrato molta energia, ebbe fedele la Camera, o meglio la maggioranza che due mesi prima gli aveva accordato il voto di fiducia e che lo sostenne validamente nella discussione sui provvedimenti finanziari contro l'ostilità e l'ostruzionismo accanito dei socialisti e dei repubblicani.

"Settimana Rossa" "Sotto questo nome un po' troppo impegnativo - scrive Giuliano Procacci in "Storia degli italiani", Laterza editore - si è soliti designare un moto di piazza che, con tutti i caratteri dell'improvvisazione e della spontaneità, sconvolse per una settimana il Paese ed ebbe per epicentro la Romagna e le Marche, una zona in cui l'opposizione anarchica, socialista e repubblicana aveva profonde radici. Fu una rivoluzione provinciale, guidata da duci provinciali - i romagnoli Benito Mussolini (allora ricoluzionario), Pietro Nenni (allora repubblicano) e l'anarchico Errico Malatesta - animata da passioni provinciali e municipali, quasi una versione proletaria e popolaresca dei moti che nel 1830-31 si erano avuti nelle stesse regioni contro il governo pontificio. I grossi centri industriali e operai del Paese, chiamati a scendere in sciopero generale per solidarietà con gli insorti di Ancona e delle Romagne, risposero solo in parte all'appello del partito socialista e della Confederazione generale del lavoro.
"Se la "settimana rossa" non era una rivoluzione, e per certi episodi essa era stata addirittura una caricatura della medesima, ciò non impedì che essa apparisse un minaccioso sintomo rivoluzionario a quei conservatori che della rivoluzione avevano una visione altrettanto approssimativa quanto quella di molti rivoluzionari del momento. Tale era SALANDRA, che fece inviare nelle Romagne 100.000 uomini e tale era anche il re, che rimase fortemente impressionato dai pronunciamenti repubblicani cui la "settimana rossa" aveva dato luogo". Deciso no ai guerrafondai dunque. La maggioranza del Paese si rende conto che gli ardori interventisti sono espressione esclusiva degli interessi della grande borghesia imprenditoriale nazionale e internazionale.   Si cerca dunque di rimediare, di ragionare e il Paese sembrò tornare a un'apparente normalità".

Erano passati appena 14 giorni dai gravi fatti accaduti nelle piazze d'Italia, quando in quelle di tutte le città d'Europa
piombò la notizia che andò a sconvolgere il vecchio continente
per cinque anni, in una infernale "Olimpiade della morte".

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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