1935

L'AMBIGUO
CONVEGNO DI STRESA

Fu chiamato l'" Entente cordiale "
( ma di "cordiale" non lo era proprio - anzi....)

PREMESSA - Nella fitta rete degli avvenimenti, di cui è intessuta la storia delle relazioni internazionali, non pochi si è dato trovarne, dei quali gli uomini politici facevano gran conto nel calcolo dei loro interessi, ma che, a un occhio lontano, appaiono ormai senza rilievo sull'uniforme volgere del tempo; altri invece vengono in netto risalto, superando di gran lunga le aspettative che avevano potuto suscitare. Gli uomini sono soliti giudicare proiettando nel futuro questa situazione d'interessi che è legata, nei suoi sviluppi, ad un passato troppo vicino per essere da loro consapevolmente conosciuto.
Si diventa consapevole del passato, quando si arriva a riconoscerlo come tale nel presente, cogliendo i due termini nel distacco che li contrappone: tra l'uno e l'altro di essi vi è la zona incognita del presente che si fa passato, della cronaca che non è ancora divenuta storia.

PURTROPPO IL PRESENTE E' QUESTO 1935
ED E' L'INIZIO DELLA STORIA
DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


La Conferenza di Stresa avvenne l'11-14 aprile 1935. Fu un incontro, dei rappresentanti delle tre potenze già alleate nel primo conflitto mondiale (Francia, Gran Bretagna e Italia), sollecitato dai francesi, per discutere le ripetute violazioni, da parte della Germania hitleriana, dei divieti sul riarmo posti dalla pace di Versailles (1919), ultima delle quali la reintroduzione della leva obbligatoria, conseguente all'aperta denuncia di Hitler delle clausole militari del trattato (16 marzo 1935). Vi si costituì il "fronte di Stresa", fondato su una semplice dichiarazione d'intenti, con cui si condannò ogni contravvenzione all'ordine di Versailles che potesse mettere in pericolo la pace. Il fronte si spezzò pochi mesi dopo, con l'aggressione fascista all'Etiopia (ottobre 1935).


Il convegno di Stresa, che si tenne tra i Capi delle Potenze, non sembrava di certo destinato a segnare una data particolarmente significativa nella storia della politica europea.
Le cronache di quell'anno possono richiamare alla mente avvenimenti diplomatici celebrati con grande rilievo e dei quali è rimasta una traccia profonda negli sviluppi che ne seguirono.

La Società delle Nazioni affrontò per la prima volta la difficile prova di dare effetto al suo potere esecutivo, dopo che per quindici anni si era adattata al solo esercizio di quello consultivo; furono, inoltre, sottoscritti accordi politici di grande interesse per il gioco delle forze che reggevano l'equilibrio europeo : anche se nessuno di essi ha saputo mantenere le promesse che gli erano state affidate, nondimeno hanno tutti influito durevolmente sulla politica dei Paesi che erano i soggetti, o che si sentivano l'oggetto di questi impegni.

Agli accordi italo-francesi sottoscritti a Roma da Laval, fanno seguito i trattati di mutua assistenza conclusi dall' Unione delle Repubbliche sovietiche con la Francia e con la Cecoslovacchia : agli uni ed agli altri la Germania riesce a contrapporre l'accordo navale anglo-tedesco; le laboriose negoziazioni furono accompagnate o concluse con viaggi ministeriali da un capo all'altro dell'Europa.
Tutte queste conversazioni diplomatiche erano dominate da due temi, oltre che dagli sviluppi della vertenza italo-etiopica: dal tema del riarmo germanico, reso ormai manifesto per una formale dichiarazione del Governo del Reich; e da quello della sicurezza degli Stati minori dell' Europa orientale. Quest'ultimo tema veniva impostato su due diversi problemi: di garantire l'indipendenza della Cecoslovacchia e degli Stati baltici (la Polonia si considerava sufficientemente tutelata dai patti di non aggressione che le erano stati consentiti dall' URSS e dalla Germania), e un accordo danubiano avente ad oggetto l'integrità territoriale e l'indipendenza politica dei Paesi confinanti con l'Austria e dell'Austria stessa - anzi soprattutto di quest'ultima - che era aperta all'adesione della Francia, della Polonia e della Romania.

La conclusione di questo accordo era stata auspicata nei Protocolli sottoscritti da Laval a Roma: ma l'incerto atteggiamento, tenuto al riguardo dal Governo inglese, aveva resa indispensabile una precisazione. A questo scopo fu convenuto un incontro delle tre Potenze già alleate : il convegno ebbe luogo appunto a Stresa l' 11 al 14 aprile.

Il convegno rientrava, dunque, nel giro dei normali incontri diplomatici : non gli fu dedicata una lunga preparazione, e i suoi risultati apparvero compromessi prima ancora che Mac Donald e Flandin, con i loro ministri degli Esteri, si mettessero in viaggio verso il Lago Maggiore. L'infruttuoso esito del convegno fu presto palese: l'iniziativa per l'accordo danubiano decadde poco tempo dopo, e nessuno si curo di riesumarlo; sopravvenne poi l'incalzare degli altri avvenimenti a sbiadire il ricordo dell'ultimo convegno fra le tre Potenze già alleate. Un' iniziativa mancata, un insuccesso diplomatico di più: la cronaca non registrava altro di notevole; ma, per chi voglia ora riandare il corso degli avvenimenti, che si è poi concluso più tardi con una nuova conflagrazione europea, è facile riconoscere che, cinque anni prima, nel gioco delle forze che si muovevano sullo scacchiere continentale si era verificato un profondo cambiamento: come se vi fosse stata una frattura, che i sismografi dell'equilibrio europeo di allora non avevano saputo avvertire, ma che ha inciso durevolmente su tutti gli interessi che sono venuti poi a definirsi sulla rete intessuta dalla diplomazia europea.

Il convegno di Stresa indica il momento critico segnato da questa frattura: a Stresa è stata constatata l'impossibilità di ricostruire una qualunque coincidenza di interessi tra le Potenze già alleate della grande guerra; Stresa è il punto di partenza verso la realizzazione di un nuovo equilibrio continentale; a Stresa sono state definitivamente segnate le sorti della vecchia Europa.

Le tre Potenze, convenute a Stresa, incominciavano ad essere seriamente preoccupate degli impulsi di nuova vita, che già inducevano il revisionismo tedesco verso la politica più risoluta del « fatto compiuto » ma le preoccupazioni comuni determinavano atteggiamenti diversi negli ambienti responsabili delle tre capitali. A Roma non si nutrivano prevenzioni antitedesche, e tanto meno antinaziste, ma il problema dell'indipendenza politica e dell'integrità territoriale della vicina Repubblica austriaca era sempre in primo piano sullo schermo politico della capitale italiana; il Governo francese, pur riconoscendosi interessato ad impedire la realizzazione dell'Anschluss, tuttavia era portato a riassorbire questo problema nell'altro, assai più vasto e complesso, della sécurité collettive generale contro il pericolo della révanche germanica; a Londra, infine, il Governo di S. Maestà cercava di impostare il problema del Terzo Reich nei termini della sua tradizionale politica della balance o power : di modo che le stesse reazioni, che quel problema veniva suscitando nel Continente, erano risolte come elementi del più vasto quadro dell'equilibrio europeo.

Londra, Parigi e Roma consideravano lo stesso problema sotto tre diversi punti di vista, l'uno più ampio dell'altro: ma non era soltanto una differenza quantitativa dei fattori assunti nell'àmbito di quelle visuali, bensì una profonda differenza qualitativa degli interessi che animavano la politica dei tre Paesi.

Per incominciare: la stessa posizione dell'Italia non era poi così semplice, come potrebbe sembrare dal breve cenno che sopra se ne è dato. Non si vuol certo qui accreditare la fama, che sembra essere così corrente all'estero, del «machiavellismo» dei circoli responsabili romani : ma non si vede per quale motivo, in questo mondo di lupi - più o meno truccati da agnelli - qual è quello delle relazioni internazionali, dove la politica italiana doveva continuare ad apparirvi ammantata di candido vello.

L'Italia aveva sì interesse (un interesse suo proprio, ed un interesse europeo) a difendere l'integrità e l'indipendenza dell'Austria, ma cercava insieme di trarre degli altri vantaggi da questa sua posizione - diciamo così - privilegiata. In altri termini, anche per l'Italia il problema austriaco rientrava nel gioco di altri problemi più vasti, più impegnativi per la sua politica.

Anzitutto, in che senso quella posizione dell' Italia poteva considerarsi «privilegiata»? tanto più che, almeno all'apparenza, risultava piuttosto sacrificata dall'ingrato compito di sorvegliare ogni ripresa della politica germanica verso gli antichi feudi dell' Impero tedesco. Il paradosso è di facile risoluzione, e lo aveva ben risolto la politica italiana dal momento che aveva inalberato lo stendardo del revisionismo.
A Versailles prima, ed a Ginevra poi, la Francia aveva tentato, consenziente l'Inghilterra, di costruire un sistema di sicurezza per l'Europa orientale, capace di prescindere, nella sua funzione antitedesca, da ogni contributo italiano: anzi doveva esso stesso arricchire i suoi compiti con degli atteggiamenti decisamente antitaliani. In queste condizioni, se la politica italiana non voleva riconoscersi condannata ad una immobilità di cui si sentiva quanto mai insofferente, doveva in un primo momento reagire risolutamente contro quei malevoli atteggiamenti e, quindi, cercare di rendersi indispensabile per la sicurezza dell' Europa centro-danubiana.

Quelle reazioni trovarono del resto facile terreno nella polemica, tutt'altro che sopita, contro la Jugoslavia: ma anche l'episodio di Corfù rientrava nelle linee di questa politica intesa piuttosto ad esasperare, che non a sopire certi motivi di dissidio; la Conferenza di Stresa ed i successivi Protocolli di Roma italo-austro-magiari rappresentano la seconda fase di questa politica; nella quale l'Italia voleva dimostrare l'importanza del contributo che essa poteva dare alla ricostruzione economica, ed anche alla difesa politica e militare di questo delicato e sempre più delicato settore europeo. In tale fase, che può dirsi costruttiva, si placano i vecchi rancori e si trovano nuove basi per stabilirvi delle migliori relazioni con i vicini dell'altra sponda adriatica.

La via, che l' Italia perseguiva con questa sua politica, non era scevra di pericoli: appunto per ciò nessuno poteva pretendere che il Governo di Roma andasse in cerca di motivi di preoccupazioni non indifferenti - che esso stesso veniva suscitando con la sua politica revisionistica - del tutto gratuitamente, senza speranza, o meglio desiderio di ricompensa. No davvero: il Governo di Roma si riprometteva di riacquistare, e di fatto, nel gioco della politica europea, quella posizione che solo formalmente aveva potuto tenere al tavolo della pace dopo una guerra che pur era riuscita vittoriosa per il decisivo contributo delle sue armi.
Questo era, infatti, il significato più profondo della politica italiana revisionistica: la quale si è venuta alimentando con questa o quella rivendicazione particolare, a seconda che consigliasse l'opportunità del momento. Lo stesso Patto a Quattro doveva essere considerato come uno degli atti più significativi di questa politica, concepita su di un piano più vasto del solo settore danubiano: ma la situazione europea non era ancora sufficientemente matura per poter consentire all'Italia un simile successo. Al riguardo può dirsi che fu, forse, intempestivo credere di aver già potuto giungere a tanto.

La pronta risposta italiana agli avvenimenti viennesi, che portarono alla scomparsa di Dolfuss ( era stato ucciso il 26 luglio 1934 da un putsch di nazisti che giunsero ad un soffio dalla conquista del potere)
mettendo fin da allora in serio pericolo l'esistenza della Repubblica austriaca, diede la prova dell'indispensabile contributo che l'azione italiana poteva recare alla causa comune.
A questo scopo, l'Italia si trovava veramente in una posizione privilegiata, perché né la Francia, né l'Inghilterra avevano la possibilità di portare un'azione tempestiva nel cuore dell'Europa medio-orientale, mentre - degli altri vicini dell'Austria - né la Jugoslavia, né la Cecoslovacchia erano certo in condizioni di dare un aiuto efficace.

L'Italia aveva, dunque, dimostrato di essere la sola capace di assolvere il difficile compito, ma tutto ora faceva credere che non avrebbe più potuto da sola respingere un ulteriore tentativo in forze, nè in Austria e forse neppure al suo Brennero.

Il Governo italiano non aveva alcun interesse a celare quella sua legittima preoccupazione, che lo autorizzava a pretendere che anche le altre parti interessate si associassero a lui in una più vasta azione preventiva.
Se fosse riuscito in questo intento, esso avrebbe potuto sommare a suo attivo un duplice risultato: un valido rafforzamento della difesa dell'indipendenza austriaca ed un'importante affermazione del suo prestigio di grande Potenza nel concerto europeo.

Questa affermazione - non si può dimenticarlo - avrebbe potuto riuscirgli subito di grande vantaggio agevolandogli anche una soddisfacente risoluzione della questione abissina, che incominciava ad impostarsi proprio allora.
Alla diplomazia italiana non fu possibile raggiungere i due obiettivi, nonostante la sua azione avesse esordito favorevolmente: a Ginevra infatti, un mese e mezzo dopo i fatti di Vienna, una nuova dichiarazione veniva emessa dalle tre Potenze già alleate in favore del mantenimento dell'integrità e dell'indipendenza austriaca; inoltre, nei Protocolli italo-francesi sottoscritti da Laval a Roma nel gennaio del 1935, veniva raccomandata la conclusione di uno specifico accordo, per la sicurezza dell'Europa centro-danubiana. Ma fu appunto questo progetto, che invece avrebbe dovuto coronare l'opera della diplomazia, a fare naufragio nelle ostili acque del Lago Maggiore a Stresa.

Più sopra si è parlato di « causa comune », volendo così indicare l'interesse dell'Italia, della Francia e dell'Inghilterra ad impedire la realizzazione dell'Anschluss: questa espressione può non sembrare la più felice per chi voglia accordarla con i risultati - negativi - del convegno di Stresa.
In realtà, questo interesse c'era indiscutibilmente per tutti e tre i Paesi, ma la politica francese e quella inglese erano condotte lungo due direttrici diverse, se non addirittura contrarie a quelle che l'Italia perseguiva con tanta tenacia, avendo di mira - come sopra si è detto -interessi che esorbitavano dalla sola questione austriaca.

Preme, ora, approfondire i motivi di questo contrasto, ma non allo scopo di mettere sotto accusa delle responsabilità per imbastire un processo sulle colpe che possono aver portato a quel fallimento: perché a tali processi provvede la Storia stessa punendo coloro che, per questa sua condanna, sono riconosciuti responsabili.

La nostra indagine non vuol, dunque, essere fatta per mettere nel buio i fatti di questo momento: ma piuttosto, nel mettere in luce la responsabilità della Francia e dell'Inghilterra per il fallimento delle conversazioni di Stresa, quindi è nostro intento dare risalto alle ragioni del distacco, sempre più risoluto fino a diventare definitivo, che ha distolto la politica italiana da quelle posizioni favorevoli alla collaborazione, che essa aveva cercato di mantenere nonostante il suo revisionismo, anzi proprio attraverso il suo revisionismo.

E’ questo, per l'appunto, ciò che più preme di mettere in rilievo, per poi intendere come altri interessi abbiano potuto prendere luce e finire per affermarsi nella politica estera italiana: l'aperta ribellione contro Ginevra per la campagna etiopica, l'intervento poi appena coperto nel conflitto spagnolo, la successiva politica dell'Asse, fino alla guerra al fianco della Germania sono gli sviluppi che la politica italiana ha tratto dalla constatazione - che è poi divenuta definitiva - dell'impossibilità di accordare le aspirazioni della stessa politica italiana agli interessi franco-inglesi e, soprattutto, di raggiungere un qualunque risultato costruttivo in collaborazione con essi.

I tempi incominciavano già a farsi maturi per una nuova Europa e l'Italia non poteva lasciarsi attardare in altre vane logomachie diplomatiche.

Un anno prima che si tenesse il convegno di Stresa, nel febbraio 1934, l'Italia, la Francia e l'Inghilterra avevano fatto una prima dichiarazione comune a favore dell'indipendenza austriaca: di lì a sette mesi, dopo che per il pronto intervento italiano era stato sventato a Vienna il colpo di stato nazista, e aver mobilitato l'esercito al Brennero, questa dichiarazione veniva - come si è detto - solennemente rinnovata.
Nel frattempo, l'Italia era inoltre venuta stabilendo, con i Protocolli sottoscritti a Roma il 17 marzo dello stesso anno, delle strette relazioni economiche con l'Austria e l'Ungheria, tentando da sola - e a sue spese - un primo saggio di ricostruzione economica dell'Europa danubiana.

Ciò detto, dovrebbe apparire evidente che la raccomandazione - espressa nell'« accordo di massima circa l'Europa centro-danubiana », che faceva parte dei Protocolli italo-francesi del 7 gennaio 1935 -, diretta agli Stati maggiormente interessati per la conclusione di un accordo di non ingerenza negli affari interni rispettivi, stava a rappresentare un'adesione in partecipazione al programma economico-politico che il Governo di Roma veniva intessendo sagacemente per acquistare alla sua politica dei sicuri punti di appoggio in un settore particolarmente delicato, ma ricco di importanti sviluppi.

Questa adesione era, poi, tanto più significativa in quanto che era stata segnata da Laval sotto la partita del « dare », in corrispettivo della ricca partita dell'«avere» che Mussolini gli aveva consentito, con una generosa transazione nel regolamento di tutte le questioni relative all'applicazione dell'art. 13 del Trattato di Londra.
L'altra voce, che risultava sulla partita francese del « dare », era rappresentata - come è noto - dagli « accordi circa gli interessi economici coloniali » che, con una forma molto velata, dovevano assicurare all'Italia mano libera nella sistemazione dei rapporti con il Governo abissino.
Nell'idea del Governo italiano questi due impegni erano da considerarsi strettamente legati tra di loro, nel senso che l'osservanza degli obblighi connessi al primo avrebbe dovuto facilitare la precisazione di tutti gli obblighi, che dovevano essere riconnessi al secondo -sollevando i veli che li celavano-, e quindi impegnare la Francia alla loro osservanza.

Con il nuovo « accordo di massima circa l'Europa centro-danubiana », la collaborazione italo-francese passava, da una posizione di semplici dichiarazioni di principio - quali erano state quelle tripartite del febbraio e del settembre dell'anno precedente-, ad una fase di consultazione su di un programma, che veniva annunziato con precisazioni molto impegnative, e certo non comuni alla normale riservatezza diplomatica. A nessuno può sfuggire l'elemento attivo che in tale modo veniva ad inserirsi - o meglio, avrebbe dovuto inserirsi - nella collaborazione italo-francese.

Il Governo italiano poteva credere di avere, così, percorso già un lungo tratto del cammino che si era proposto per giungere ad una ricostruzione dell'equilibrio europeo su basi più ampie del solito binomio franco-inglese. D'altra parte il Governo francese si era lasciato indurre a questo riconoscimento dell'importante posizione tenuta dall'Italia nella sicurezza dell'Europa centro-orientale, perché, sempre più impressionato dei nuovi fermenti che pulsavano nelle turgide vene del Terzo Reich, aveva incominciato a perdere fiducia nei complessi sistemi di sicurezza collettiva, che per anni avevano affaticato la sua diplomazia, nei reiterati tentativi di sedare le continue smanie degli Stati minori per accordare i loro discordanti interessi.

La Francia, allora, era legata da accordi bilaterali, diversamente impegnativi, con la Polonia, con la Cecoslovacchia, con la Jugoslavia e con la Romania: e da questo insieme di accordi aveva poi tentato di trarre un unico concerto; senonché, e proprio nel momento in cui la crescente minaccia tedesca veniva a impegnare questa sua opera al di là delle semplici esercitazioni diplomatiche, la Polonia decideva di provvedere da sola alla propria sicurezza, stringendo accordi diretti con i suoi due incomodi vicini.
Il colpo era grave perché la Polonia era stata destinata a costituire come il piedistallo di tutto questo sistema della sécurité collettive orientale; un po' sfiduciata, e sempre più preoccupata, la Francia tentava allora di riassestare il pericolante edificio inserendovi due chiavi murali, una ad occidente e l'altra ad oriente di esso : un accordo con l'Italia che avrebbe potuto rinsaldare l'Europa centro-danubiana, ed un altro con la Russia per cementare più a nord il settore centro-orientale.

Per coloro, cui piace interpretare la storia come se avesse a trattarsi di una divertente caccia agli errori, si potrebbe dire che questo è stato l'errore della Francia: aver voluto considerare questi due accordi con grandi Potenze niente più di due chiavi murali inserite in una costruzione già caduta. In realtà, negli intenti del Governo francese, nulla era, e doveva essere mutato nella sostanza della sua politica : la base restava quella di prima, e cioè un accordo generale, e generico, con l'Inghilterra, ed un sistema organizzato di Potenze minori a oriente della Germania, con in più il rafforzamento di una certa cooperazione con l'Italia e con la Russia.

All'accordo con l'Inghilterra la Francia non voleva, meglio non poteva rinunziare, quale che ne fosse il prezzo; l'accordo con l'Inghilterra significava - così la pensavano a Parigi - la puntuale esecuzione degli impegni di Locarno, che costituivano la prima garanzia della sicurezza francese, ma ai quali la stessa Inghilterra era in fondo - e neppure tanto in fondo - non meno interessata della Francia; quanto poi alla clientela delle Potenze minori dell'Europa centro-orientale e danubiana, anche se non rendeva alla Francia che una minima parte di ciò che le costava, tuttavia doveva mantenere un certo prestigio - così almeno credevano a Parigi - alla sua politica continentale. Ma il fatto è che le clientele non servono più neppure al prestigio, dal momento che i clienti divengono più utili al padrone di quanto questi non possa essere ad essi.

D'altra parte, a Parigi si faceva il conto che un accordo pieno e sicuro con l'Italia o con la Russia, o con tutte e due, avrebbe condotto inevitabilmente ad una spartizione di zone d'influenza in un settore che la Francia considerava ancora riservato ai suoi interessi inoltre - si temeva a Parigi - che quell'accordo avrebbe potuto finire per mettere la Francia un po' in balia dei suoi nuovi piuttosto irrequieti amici.
Se alla fine del 1934 la Francia versava in questa situazione problematica, è piuttosto superficiale attribuire oggi degli errori alla sua politica per i risultati negativi a cui essa è giunta; bisognerebbe dimostrare che se il Governo francese avesse agito diversamente avrebbe potuto sfuggire a quel dilemma: ma il pallido fiore del « se » non riesce a prendere vita sul terreno della Storia, arido di ogni illusione. Non vi è dubbio che se il Governo francese fosse stato più consapevole delle gravi difficoltà che avrebbe poi dovuto fronteggiare, avrebbe potuto dare alla Francia altri più sicuri mezzi di difesa: ma cause ben più profonde, della trascuratezza di alcuni governanti, hanno poi condotto il popolo francese alla débacle del 1940.

Il Governo francese non intendeva, dunque, dare un'eccessiva importanza a questo accordo con l'Italia, e neppure a quello che poi seguirà con la Russia: anche se alla loro realizzazione la diplomazia francese si era adoperata fin dagli ultimi mesi del 1934; comunque, la conclusione degli accordi di Roma fu salutata in Francia con un senso di soddisfazione, che dava quasi l'impressione di voler investire problemi più vasti di quelli che erano stati delibati nei Protocolli : come se questi avessero da rappresentare l'inizio di una più stretta collaborazione.

Gli avvenimenti, che seguirono subito dopo, stanno però a dimostrare la superficialità di questi sentimenti; la soddisfazione, di cui si davano manifestazioni, stava in ciò: che era stata portata un'altra pietra all'edificio della garanzia antigermanica.

Naturalmente, affinché la stabilità dell'edificio non ne riuscisse compromessa anziché rafforzata, sarebbe stato necessario armonizzare, equilibrare il nuovo apporto al resto della costruzione. Prima di ogni altra cosa, occorreva perciò ottenere l'approvazione del Governo di Londra a questa improvvisa riuscita dell'amicizia franco-italiana; ma dire ciò è dire poco: o meglio, è vedere soltanto l'aspetto superficiale della missione diplomatica tentata - diciamo subito, senza successo - da Flandin e da Laval a Londra un mese dopo la loro visita a Roma.
Più che di ottenere l'approvazione inglese, si trattava di fare accettare alla diplomazia britannica il fatto compiuto di un riaccostamento italo-francese: per dirla in termini di palmare evidenza, occorreva farle « incassare » questo colpo.

Non è esatto dire che l'« intesa cordiale » tra Londra e Parigi ha subito un considerevole raffreddamento: anche se le polemiche ed i bisticci tra i francesi e gli inglesi sono incominciate subito, allo stesso tavolo della pace. Gli è che, se per « intesa cordiale » s'intende una precisa posizione d'interessi franco-inglesi, favorevole alla conservazione di un certo equilibrio europeo - e non soltanto continentale, perché direttamente investito sul ben più vasto complesso degli interessi coloniali -, questa posizione si è trovata rafforzata, non certo incrinata, o comunque indebolita. Ciò che può esser venuto meno, nei rapporti tra Londra e Parigi, è il loro atteggiarsi cordiale : ma, per chi miri al vero, questo elemento della cordialità era del tutto estrinseco all'intesa franco-inglese, nonostante il suo tradizionale appellativo.

Infatti, la Francia aveva saputo adattarsi a questa intesa, e dal suo adattamento ne aveva tratto non pochi benefici; quanto all'Inghilterra, se ne era servita per la difesa dei suoi interessi continentali ed imperiali con un duplice effetto : e nei suoi diretti confronti con la stessa Francia, e nei confronti con la Germania.

Né vi poteva, perciò, essere un'effettiva cordialità in un'intesa, che non aveva alcuna base tradizionale, e che era stata fondata su di un freddo calcolo politico di interessi, valutati in un certo quadro di forze: ciò non toglie, tuttavia, che la vittoria comune abbia potuto rafforzare questo tale fondamento.
E' pur vero che l'indebolirsi della potenza germanica nel dopoguerra aveva sollevato l'Impero inglese da immediate preoccupazioni in questo senso; tuttavia restava sostanzialmente intatta quella complessa posizione di interessi che, come si è detto, costituiva la base dell'
"entente cordiale".
E lo si è visto allorché, al momento opportuno, l'alleanza franco-inglese si è riaffermata con una spontaneità, che sta appunto a dimostrare come essa non fosse mai venuta meno. In conclusione, ciò che qui si vuol rilevare è che l'intesa tra Londra e Parigi non è mai stata «
cordiale », ma che tuttavia è sempre rimasta, per tutti questi ultimi venti anni, alla base dei rapporti tra le due Potenze; le contraddizioni che taluno crede di poter rilevare nella storia diplomatica dei due Paesi, sono dovute ad un equivoco : quello di considerare la cosiddetta entente cordiale, come un'intesa «cordiale».

Premesso questo chiarimento, riuscirà più facile rendersi conto dell'atteggiamento tenuto dall'Inghilterra di fronte a quella presa di posizione franco-italiana, espressa nei Protocolli di Roma. La diplomazia inglese si era preoccupata di impedire che la Francia si valesse dello spauracchio della revanche tedesca per affermare una sua egemonia continentale, capace di renderle una certa indipendenza da quella base di interessi comuni su cui era stata fondata l'entente cordiale. Non già che il popolo inglese avesse aperto, nel dopoguerra, il suo cuore ad una viva simpatia verso la Germania; il popolo inglese non ha mai nascosto una certa stima per quello tedesco, né si può dire abbia mai determinatamente voluto l'annientamento della Germania: tuttavia non può parlarsi di simpatia, perché da quel sentimento di stima germogliavano piuttosto motivi di preoccupazione che non di affetto.

In ogni modo, la balance of power voleva che queste eventuali preoccupazioni non venissero mai a velare le altre, ben più attuali, destate dalla possibilità di un'egemonia continentale francese; magari realizzata con la cooperazione dell'Italia sul terreno -degli affetti latini. All'Inghilterra premeva, soprattutto, di difendere l'intesa cordiale in quella sua duplice posizione che si è detto.

I progetti, che venivano affacciandosi per rinforzare la sicurezza dell'Europa centro-orientale, erano seguiti a Londra non senza un certo sospetto. Il Governo inglese non aveva alcuna intenzione di assumere nuovi impegni sul continente ma, nel contempo, non gradiva affatto che delle grandi Potenze potessero riuscire a stabilire nuove intese, dirette a irrigidire il sistema della politica continentale a tutto loro vantaggio.

Se la sicurezza del Continente richiedeva effettivamente la conclusione di nuovi accordi, il Governo di Londra desiderava che, nell'interno di ogni accordo, venissero ristabiliti tutti i termini dell'equilibrio continentale: in modo che l'Inghilterra potesse restarne fuori senza essere esposta a nessun rischio. (era comodo!!).
La dichiarazione italo-francese, sottoscritta da Laval a Roma, rientrava formalmente nelle linee tracciate dagli interessi della politica britannica, ma il carattere stesso dell'iniziativa, sorta così in una improvvisa rifioritura dell'amicizia franco-italiana, riusciva piuttosto di sospetto per il Governo di Sua Maerstà Britannica, preoccupato che Italia e Francia mantenessero i vantaggi dell'iniziativa e magari li sviluppassero su di un piano ancora più vasto.

Non per niente la Francia si era messa a trescare anche con la Russia (ma nel corso del famoso patto Germania-Russia - Ribbentrop-Molotov - entrambe Francia e Inghilterra erano nelle anticamere del Cremlino, per fare pure loro un patto una all'insaputa dell'altra), tirando in ballo un'altra grande Potenza della quale non era facile intendere le segrete intenzioni; quanto all'Italia, i suoi disegni erano manifesti, ed appunto per questo molto preoccupanti; il Governo di Roma voleva rafforzare la sua posizione in Europa per avere poi mano libera in Africa orientale.

No, tutto questo non poteva riuscire gradito al Governo di S. M.; la visita di Flandin e di Laval a Londra mirava appunto a dissipare quei sospetti, le ombre di queste preoccupazioni. Non è dato sapere quali spiegazioni i due ministri di Francia abbiano cercato di dare per convincere i loro colleghi inglesi, ma già la dichiarazione comune pubblicata a Londra il 3 febbraio sta a dimostrarci a sufficienza l'esito negativo della loro missione.

La dichiarazione franco-inglese del 3 febbraio è un caratteristico documento di quella diplomazia democratica abilissima nel mettere in secca ogni iniziativa un po' troppo risoluta e speranzosa di novità.
È di qualche interesse richiamare l'attenzione su questo documento perché rappresenta l'inizio di quella breve, ma acuta crisi, che trovò il suo punto culminante a Stresa e che dovrà risolversi in una rottura - divenuta poi definitiva - tra le tre Potenze già alleate.

Il Governo fascista ha un suo programma, che vuole realizzare ad ogni costo, prima che altre nubi si siano venute ad addensare sull'Europa: e non vorrà lasciarsi prendere nella rete di quella diplomazia. I rappresentanti dei due Governi d'Inghilterra e di Francia riuniti a Londra non sconfessano l'accordo di Roma, anzi l'Inghilterra si offre di partecipare alle consultazioni provocate da eventuali minaccie contro l'indipendenza austriaca - e questa doveva poter apparire una grande vittoria del Governo italiano -; ma, mentre nell'accordo di Roma la Germania era messa al pari di tutte le altre Potenze interessate alla situazione centro-danubiana, nella dichiarazione di Londra vien fatto un esplicito richiamo ad un « regolamento generale, ottenuto attraverso i negoziati tra la Germania e le grandi Potenze », collegando l'accordo danubiano con quello orientale ed annegando poi il tutto nella proposta di risolvere insieme lo spinosissimo problema del disarmo e del ritorno della Germania nella Società delle Nazioni.
Non era trascorso un mese, e che cosa rimaneva degli accordi di Roma?

La posizione del Governo inglese poteva anche apparire formalmente inattaccabile: se proprio volevano farsi degli accordi per la sicurezza orientale, si doveva incominciare col presupporre la buona fede di tutti e con ciascuno invitato a prestare la sua collaborazione a pari condizioni con gli altri.
Anzi, di fronte a questo irreprensibile atteggiamento britannico, la Francia e l'Italia ci facevano un po' la figura di voler pescare nel torbido: la Francia anche perché indispettita del revirement polacco, e l'Italia perché desiderosa di servirsi della questione austriaca per altri fini (Africa!); per quanto, a dire il vero, anche l'Inghilterra aveva cercato di trarre il suo vantaggio dalla situazione, proponendo - e la proposta era diretta soprattutto alla Germania - una specie di Locarno aerea per preservare l'Isola dai pericolosi sviluppi della nuova arma del cielo. (erano ormai convinti che non bastava più per la loro isola la potenza navale)=.

Comunque, se il 3 febbraio l'atteggiamento assunto dal Governo britannico poteva anche apparire irreprensibile, è certo che, due mesi dopo, a Stresa, la sua posizione era divenuta palesemente insostenibile, perché la sua mala fede era rimasta scoperta per l'insuccesso del viaggio a Berlino del capo del Foreign Office.
Il 25 febbraio viene dato l'annuncio ufficiale che il ministro degli Esteri inglese, sir John Simon, si recherà quanto prima a Berlino per trattare direttamente con il Governo del Reich i problemi della sicurezza continentale, prospettati nella dichiarazione franco-inglese pubblicata a Londra tre settimane prima.
La dichiarazione era stata comunicata, per via diplomatica, oltre che al Governo di Roma, anche a quello di Berlino, che nella sua risposta aveva avanzato l'invito ad « entrare in diretto scambio di idee » con quello di Londra. Solo "idee"!!??.
Infatti la nota diplomatica tedesca era piuttosto generica su tutti i punti elencati nella dichiarazione franco-inglese, salvo sulle proposte del patto aereo.

Il Governo germanico non si era lasciato sfuggire l'occasione di lusingare gli interessi particolari inglesi, per potere fronteggiare meglio la situazione sugli altri problemi della sicurezza continentale che avrebbero dovuto venire in discussione. La mossa tedesca era molto abile ed aveva saputo cogliere nel segno: e lo dimostrò subito la pronta adesione inglese, resa manifesta alla Camera dei Comuni proprio il giorno che si trovavano ad essere a Londra il Cancelliere federale austriaco ed il suo ministro degli Esteri, partiti da Vienna in visita di pellegrinaggio alle due capitali dell'
entente cordiale.

Neppure l'improvviso colpo di scena del riarmo tedesco -- seguito tempestivamente alla breve polemica suscitata dalla pubblicazione di un libro bianco britannico, che accusava la Germania di aver provocato la ripresa di una corsa agli armamenti -- valse a distrarre gli inglesi dal loro proposito di entrare in negoziati diretti col Reich: anzi decisero di allargare i compiti di questa missione con una visita a Mosca ed a Varsavia del Lord del Sigillo privato, Eden, che avrebbe accompagnato Simon a Berlino.

Vi fu un breve rinvio, richiesto da un'indisposizione diplomatica del Cancelliere tedesco, che diede modo di dimostrare il vivo interessamento che gli inglesi attribuivano a questo « diretto scambio di idee » col Governo germanico, di cui temevano un aggiornamento sine die. La bomba del riarmo tedesco aveva provocato una viva emozione negli ambienti diplomatici europei: a Berlino veniva subito consegnata una formale protesta dello stesso Governo britannico, una del Governo italiano ed un'altra di quello francese, che anzi faceva appello alla Società delle Nazioni.

In un'atmosfera così turbata, l'insistenza degli inglesi a non voler perdere quest'occasione per un incontro diretto coi tedeschi non poteva non riuscire motivo di certe apprensioni per l'Italia e per la Francia, le quali, naturalmente - ed in specie la prima -, non erano rimaste troppo convinte delle candide intenzioni che l'Inghilterra aveva rivelato durante le conversazioni franco-inglesi, tenute a Londra il mese prima.

Allo scopo di dare a questa manovra inglese verso la Germania il carattere, la parvenza almeno di una manifestazione di perfetta unità d'intenti e d'interessi tra le tre Potenze già alleate, fu deciso che durante il viaggio per Berlino il ministro degli Esteri d'Inghilterra si sarebbe incontrato a Parigi con i suoi due colleghi d'Italia e di Francia (per l'Italia andò il sottosegretario Suvich). Contemporaneamente all'annuncio di questo incontro lungo la via di Berlino, venne data notizia che, nel mese successivo, avrebbe avuto luogo una conferenza Mussolini-Laval-Simon per prendere in esame i risultati delle visite esplorative dei due ministri inglesi e dare, quindi, presumibilmente, sostanza alle comunicazioni espresse nelle due dichiarazioni fatte a Roma ed a Londra.

Già la stessa situazione di fatto, in cui venne a trovar luce l'idea del convegno di Stresa, non era la più favorevole, in quell'atmosfera di diffidenza e di sospetti, per un proficuo lavoro diplomatico; ma, in seguito, nonostante l'insuccesso della missione di Simon, le condizioni si faranno sempre più difficili, addirittura proibitive.
Ed è di grande interesse rilevare subito come, nel frattempo, gli inglesi vengano ad acquistare coscienza della sostanziale importanza di questo convegno (tanto che lo stesso Primo Ministro Mac Donald viene indotto ad incontrarsi, insieme al suo collega francese, col Capo del Governo italiano), proprio mentre, appunto per questo, si adoperano in tutti i modi per minimizzarne i risultati politici.

Le conversazioni berlinesi dei due ministri inglesi riuscirono una vera delusione per il Governo britannico: non fu possibile neppure velare il loro insuccesso, apertamente riconosciuto nello spirito del comunicato conclusivo e nella lettera stessa delle brevi dichiarazioni rese da Simon alla Camera dei Comuni subito dopo il suo ritorno dal Continente.
La rude franchezza del Governo hitleriano non aveva lasciato campo a speranze o ad equivoci: a riguardo dei problemi che erano stati elencati nel comunicato di Londra del 3 febbraio, non c'era la possibilità di stabilire neppure una minima base d'intesa tra le quattro Potenze che due anni prima si erano incontrate, per un momento, intorno al tavolo su cui era stato sottoscritto il Patto a Quattro.

Il colpo accusato dagli inglesi era tanto più grave, in quanto veniva a togliere le stesse premesse sulle quali avevano impostato, in occasione della visita a Londra di Flandin e di Laval, il loro atteggiamento piuttosto riservato nei confronti della dichiarazione franco-italiana inserita nei Protocolli di Roma.

Ed è in questo momento che la diplomazia britannica fa appello alla risorsa della sua tradizionale disinvoltura per sfuggire alle conclusioni di quelle premesse, che essa stessa aveva voluto assumere.
Il Governo si rende conto della difficile situazione in cui verrà a ritrovarsi sir John Simon a Stresa per continuare a sostenere le riserve della politica inglese con le sue mani vuote di ogni possibilità di collocazione diretta con la Germania, e decide di rinfrancare la sua posizione affiancandogli Mac Donald. Nel contempo incarica il Ministro degli Esteri di riaffermare in Parlamento l'insuccesso della sua missione berlinese, ma per concludere che l'Inghilterra intende riservarsi in ogni caso la sua piena libertà d'azione.

Questa preventiva risoluta presa di posizione priva il convegno di Stresa, nonostante la presenza dei tre Capi di Governo, di ogni possibilità conclusiva.

Il convegno protrarrà per tre giorni le sue discussioni. La storia ignora ancora i termini esatti di così prolungate conversazioni: ma questa lacuna non ha importanza, perché gli avvenimenti che seguono sono sufficienti a fare luce sulle conclusioni a cui giunse ciascuno dei tre Governi rappresentati. Collegialmente fu convenuto di fare apparire come se tutto procedesse normalmente, anche se si rendeva manifesta la necessità di ritardare gli sviluppi diplomatici verso gli accordi per la sicurezza dell'Europa orientale e danubiana, allo scopo di approfondirne la preparazione; ma poi ciascuno dei tre Governi tirò delle conclusioni anche per proprio conto, che certo non coincidevano con quelle degli altri : e su di esse prese ad impostare e quindi a dare sviluppo alla sua politica nei mesi seguenti.

A Stresa non fu rivelata alcuna frattura; tutti avevano però avvertito dei sinistri scricchiolii e, poiché non erano riusciti affatto graditi, fu preoccupazione di tutti far dimenticare quello che c'era stato, ciò che si era detto, i contrasti inconfessati di cui ciascuno si era reso conto. Si chiusero gli occhi e si distolse la mente per timore di dover constatare che si erano prodotte delle pericolose incrinature.

Gli inglesi tornarono a Londra abbastanza soddisfatti di essersi saputi trarre d'impaccio da una situazione piuttosto difficile senza provocare alcuna tragedia diplomatica. Le acque apparivano di nuovo calme: le preoccupazioni suscitate dai Protocolli di Roma sembravano quasi dissipate all'orizzonte. Tutto poteva proseguire come se nulla fosse successo; la politica inglese guadagnava tempo e, come tutti coloro che si sentono sicuri delle proprie riserve, insieme col tempo sperava di poter guadagnare anche il resto.

Pur non avendo nulla concluso, ed appunto per non aver concluso nulla, la diplomazia britannica si considerava contenta del suo lavoro. Il bilancio di questi tre mesi, d'intensi attività per la diplomazia inglese, veniva concluso in questi termini:
Anzitutto la minaccia di una cooperazione franco-italiana era da considerarsi per ora sventata: la Francia era stata chiaramente avvertite dei pericolo di una politica di contrappeso anglo-germanico, e questo poteva bastare a richiamarla all'ordine; quanto all,'Italia i suoi tentativi per far convergere l'attenzione dei suoi ex-alleati sull'Europa centro-danubiana, al fine di distrarla da ciò che stava preparando in Africa orientale, erano considerati come falliti; se, poi, la Germania non aveva accettato di prestare la sua cooperazione alla sicurezza dell'Europa centroorientale, questo valeva certamente a dispensare l'Inghilterra dal dover assumere, almeno per il momento, dei nuovi impegni continentali.
Mentre restava il fatto positivo che i tedeschi avevano dimostrato di tenere nel debito conto le attenzioni manifestate a loro riguardo dagli inglesi.

Come si è detto più sopra, i colori un po' pallidi della ritrovata amicizia latina non erano i soli di cui disponesse allora la politica francese sulla sua tavolozza: vi occhieggiavano già le chiazze vermiglie del patto con la Russia che era in gestazione; non solo ma i colori inglesi, anche se un po' smorti, mantenevano sempre il tono dominante. Se a Laval non era riuscito di impastare i colori italiani con quelli inglesi in una bella tinta antitedesca, la politica francese non mostrava di soffrirne un eccessivo disappunto: l'attività della sua diplomazia era già rivolta verso la nuova politica di equilibrio che poteva essere impostata sul patto di mutua assistenza con la Russia.

La manovra inglese verso la Germania era valsa, d'altra parte, a mettere in rilievo certi atteggiamenti della politica hitleriana che avevano messo in allarme gli ambienti responsabili parigini che, già preoccupati per il riarmo tedesco, incominciavano a rammaricarsi che il Governo fascista potesse servirsi dei Protocolli di Roma come di una cambiale rilasciatagli in bianco, da scontarsi nientedimeno che sulla banca degli interessi imperiali inglesi in Africa orientale.

L' Italia era stata la vera protagonista del muto dramma di Stresa - rimasto muto pur nel corso di così lunghi conversari -: era stata la vera protagonista anche se, dalla conclusione dell'accordo italo-francese del gennaio, si era poi sempre mantenuta in secondo piano.
L'Italia ha assistito alla rapida rovina dei Protocolli romani senza assumere atteggiamenti di risentita protesta né contro la Francia, né contro l'Inghilterra: le proteste non potevano servire che a rendere il gioco ancor più difficile, e l'Italia aveva deciso di continuare nella partita.
L'incontro di Stresa avrebbe potuto ristabilire le sorti di una politica che appariva -gravemente compromessa: in un primo momento l'Italia deve aver creduto - prevedendo l'esito negative del viaggio di Simon a Berlino - di poterci ancora riuscire; ma poi - di fronte alle concilianti reazioni inglesi -, anche prima che Mac Donald decidesse di varcare la Manica e le Alpi per sostenere il suo ministro degli Esteri, essa aveva già compreso che ogni tentativo era destinato a fallire.

Da questo momento il Governo di Roma decide di accettare il gioco che gli altri gli vogliono imporre, riservandosi di mettere in tavola, a tempo opportuno, una alla volta tutte le carte che ancora tiene in serbo.
Se gli inglesi vogliono guadagnare tempo, se ai francesi non dispiace frattanto potersi occupare dei loro affari nell'Europa orientale, anche l'Italia ha bisogno di guadagnare ancora qualche mese prima di assumere una posizione definitivamente risoluta. Per quel momento il gioco degli altri poteva anche essere il suo, purché non finiva col lasciarsi prendere la mano. Questo era il pericolo più grave, contro i risoluti propositi.

E i propositi li sappiamo. Voleva essere libero di fare una guerra in Africa.

QUINDI RITORNIAMO ALL'INIZIO DEL 1935
NON PRIMA DI AVER ACCENNATO ALLE SANZIONI
ALL'INDIGNAZIONE DI MUSSOLINI
E AI DISCORSI FATTI ALLE DONNE PER DONARE L'ORO ALLA PATRIA > > >

POI RITORNEREMO AI FATTI D'AFRICA
DOVE GIA' A FEBBRAIO
MUSSOLINI HA INVIATO 35.000 UOMINI

PER FAR COSA, NON LO SA ANCORA MA INTANTO >>>>>

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