ANNO 1968

il 'Sessantotto"

* Cosa scrivevano i giornali
* Come reagì lo Stato
* Le interviste dei protagonisti

* Fischia il vento !

 

I GIORNALI

PIU' ATTENTI I GESUITI  DI CIVILTA' CATTOLICA

"" Roma - L'editoriale del prossimo numero della Civiltà cattolica" intitolato "La protesta dei giovani", si occupa dei fatti accaduti da Berleley, a Pechino, da Madrid a Praga, da Parigi a Varsavia, da Berlino a Roma. " I problemi che i giovani pongono con tanta violenza . scrive la rivista dei gesuiti- sono problemi reali. Molte loro analisi ispirate al marxismo e, soprattutto, molte soluzioni da loro proposte sono impossibili o sbagliate, ma i problemi da loro sollevati sono i veri problemi del nostro tempo. Se noi, i "grandi", non ne sentiamo la crudezza e l'urgenza, o è perchè abbiamo perduto la sensibilità necessaria per avvertire una certa problematicità o è perchè ci siamo adagiati in un placido scetticismo, nella convinzione che non c'è nulla da cambiare, perchè le cose sono andate sempre così". L'editoriale definisce "egualmente sbagliati" due atteggiamenti da parte degli adulti: l'indulgenza ad "un giovanilismo falso e di maniera" e "un atteggiamento di chiusura e di fastidio"" (Ag. Ansa, 30 maggio, 1968, ore 20.00)

A PARIGI - "CHIEDIAMO IL DIRITTO DI PENSARE" - Con l'occupazione, e il successivo sgombero della Sorbona, cominciò nel Paese, e in particolare a Parigi, il MAGGIO FRANCESE. La lotta raggiunse il suo apice il 10 maggio, quando dopo una enorme manifestazione, in pieno clima rivoluzionario, salirono sulle barricate innalzate lungo i boulevard migliaia di giovani francesi che si scontrarono con la polizia. Il primo ministro Pompidou, travolto dagli avvenimenti, fu costretto a fare marcia indietro cedendo alle richieste degli studenti.

Le manifestazioni violente della settimana calda hanno raccolto la maggioranza degli studenti, non solo a Parigi ma anche in provincia, su richieste contingenti (riapertura della Sorbona, liberazione degli arrestati), ma rimane sospesa la soluzione o almeno la discussione di quelle richieste concernenti la riforma universitaria che sono state all'origine dei moti studenteschi.

Il punto di partenza della rivolta è stata l'università di Nanterre, un insieme di tristi edifici costruiti alla periferia di Parigi, lontani da ogni forma di vita intellettuale, senza che esistano nei pressi nè librerie, nè cinema: un luogo di alienazione, come è stato definito. A Nanterre i residenti della città universitaria si erano già ribellati nel novembre scorso ai regolamenti troppo autoritari. L'agitazione proseguì con uno sciopero degli studenti e con la nascita di un movimento genericamente di sinistra cui aderivano un migliaio di universitari. Gli "arrabbiati", il termine con cui si sono definiti, dicono di non avere leader, ma su di loro ha un ascendente e un'autorità indiscussi DANY COHN BENDIT, 23 anni, studente di sociologia.
A Nanterre il tema fondamentale delle discussioni è stato il Vietnam e la lotta contro l'imperialismo. L'università, dicono gli arrabbiati di Nanterre, prepara gli uomini a questa oppressione e a questo sfruttamento: gli studenti sono i futuri dirigenti, i futuri sfruttatori, i futuri cani da guardia della società borghese o i suoi parassiti. Gli studenti mettono oggi in discussione sia l'insegnamento che ricevono sia le strutture universitarie, rimaste praticamente invariate dal 1875. "Chiediamo il diritto di pensare" ha detto uno studente della Sorbona e ha aggiunto: "Pensare è pericoloso perchè significa contestare". (Panorama, 23 maggio 1968)

ITALIA "STUDENTI, OPERAI UNITI NELLA LOTTA" - Il movimento iniziato alla fine del '67 dilagò poi nella primavera del '68 in quasi tutte le sedi universitarie italiane. La rivendicazione di singoli obiettivi lasciò presto il posto ad una critica complessiva dell'istituzione universitaria e della società.
Ecco un volantino degli studenti di Torino.
" Operai! L'autoritarismo e la discriminazione nelle scuole, lo sfruttamento nelle fabbriche, la divisione in classi della società hanno una sola radice: il sistema capitalista. La polizia, quando caccia gli studenti dalle scuole e quando viene davanti alle fabbriche  per danneggiare gli scioperi, fa sempre la stessa cosa: difende gli interessi dei padroni.
I padroni conservano il potere non solo comandando nelle fabbriche e sfruttando gli operai; conservano il potere anche attraverso una scuola in cui solo i ricchi possono andare avanti a prendersi i titoli di studio con cui diventeranno dirigenti. I figli di operai e dei contadini devono lavorare, non hanno soldi per i libri e per le ripetizioni, al massimo vengono inseriti negli istituti tecnici, e resteranno dei sottomessi. Inoltre la scuola è fatta in modo da insegnare la logica egoistica dello sfruttamento, dividendo gli studenti e mettendoli gli uni contro gli altri, così come il padrone fa con gli operai quando premia i crumiri. Questa scuola è una scuola di classe perchè ci possono andare solo i ricchi e perchè insegna una mentalità di classe.

Gli studenti lottano: per una scuola aperta a tutti; per uno studio fondato sull'esperienza sociale e sul lavoro collettivo. Ma la scuola resterà di classe finchè la società resterà fondata sullo sfruttamento e sulle classi. Gli studenti si sono accorti che è contro il sistema capitalistico che devono lottare.

Per questo gli studenti si rivolgono oggi agli operai, che dal sistema capitalista sono più sfruttati, e che quindi hanno l'interesse a rovesciarlo. La lotta degli studenti e degli operai è unica: discutiamo insieme su questi problemi e organizziamoci assieme per essere più forti nella lotta e per ottenere ciò che vogliamo.

AMERICA - "DOBBIAMO LEVARE ALTA LA VOCE" - Già nel 1965 era nato un movimento di studenti. Ecco come ne descrisse Winberg la nascita. -
"Nella nostra società gli studenti non sono nè bambini nè adulti. E' chiaro che non sono soltanto bambini, ma per essere adulti nella nostra società si deve non andare più a scuola e mantenersi da sè. Non si capisce perchè vivere su di un contributo di ricerca o una borsa di studio non debba essere considerato un mantenersi da sè. In seguito a ciò. gli studenti sono più o meno esclusi dalla società e, in numero sempre crescente, non hanno alcun desiderio di enTrare a farne parte. Dalla loro posizione sociale periferica sono in grado di mantenere vivi i valori umani, valori che essi sanno che saranno distorti e distrutti nel momento in cui si entra nel mondo pratico e pieno di compromessi degli adulti. E' il loro stato sociale marginale che ha permesso agli studenti di diventare attivi nel movimento per i diritti civili e di creare il Free Speech Movement. Con il loro idealismo, si trovano a dover fare i conti con un mondo che è un caos completo, che, ai loro occhi, è stato fatto così dalle generazioni precedenti.

Cominciano come liberal, parlano della società, la criticano, vanno a sentire le conferenza, offrono denaro; ma ogni anno, in misura sempre maggiore, un numero sempre crescente di studenti si accorge di non potersi fermare qui. Essi affermano se stessi, decidono che anche se non sanno come salvare il mondo, anche se non possiedono alcuna formula magica, devono levare alta la voce perchè tutti la sentono. Diventano attivisti e nasce una nuova generazione, una generazione di "radical".

IN GERMANIA - MARCUSE E L'OPPOSIZIONE STUDENTESCA - Voi sapete che io considero l'opposizione
studentesca uno degli elementi decisivi del mondo attuale; non una forza immediatamente rivoluzionaria, come mi è stato ripetutamente contestato, ma un fattore tra quelli che potrebbero un giorno più facilmente trasformarsi in una forza rivoluzionaria. Una delle più importanti esigenze della strategia di questi anni è quindi l'instaurazione di rapporti tra le opposizioni studentesche nei vari Paesi. Non esiste alcun collegamento tra l'opposizione studentesca statunitense e l'opposizione studentesca tedesca, anzi non esiste neppure una efficace organizzazione centrale nell'opposizione studentesca degli Stati Uniti. Noi dobbiamo lavorare alla creazione di questi rapporti. In America l'opposizione studentesca fa parte di una opposizione più vasta che viene generalmente definita col termine di New Left. Devo quindi incominciare indicando, se non altro a grandi linee, le differenze essenziali tra la nuova sinistra e le vecchie sinistre.

In primo luogo questa nuova sinistra non è, ad eccezione di alcuni piccoli gruppi, marxista o socialista in senso ortodosso, ma è invece caratterizzata da una profonda diffidenza nei confronti di tutte le ideologie e anche di quella socialista, dalla quale si sente in qualche modo tradita e delusa. Inoltre non si basa affatto sulla classe lavoratrice come classe rivoluzionaria; anzi la sua composizione sociale non è neppure chiaramente definibile e consiste di intellettuali, di gruppi appartenenti al movimento dei diritti civili e di giovani: soprattutto di elementi radicali della gioventù che al primo sguardo non si direbbero neppure una forza politica, come i cosiddetti hippies. Fatto molto interessante, questo movimento non conta tra i suoi portavoce alcuna personalità politica, ma piuttosto poeti e scrittori. Ricordo qui soltanto Allen Ginsberg, che esercita una grande influenza sulla nuova sinistra americana.

Contro che cosa è diretta questa opposizione? La domanda deve essere presa molto sul serio, perchè si tratta di una opposizione contro una società democratica e ben funzionante che, almeno normalmente, non si basa sul terrore. Inoltre, questa opposizione lotta contro la maggioranza della popolazione, inclusa la classe operaia (su questo negli Stati Uniti non abbiamo alcun dubbio), contro tutta la cosiddetta "way of life" del sistema, contro la onnipresente pressione di questo (che con la sua repressiva e distruttiva produttività degrada, in modo sempre più disumano, ogni cosa a merce, facendo della compravendita lo svago e il contenuto della vita), e infine contro il terrore che regna di fuori della metropoli.

Questa opposizione entro il sistema in quanto tale è stata scatenata in un primo momento dal movimento per i diritti civili e in seguito dalla guerra del Vietnam. Seguendo il movimento per i diritti civili, molti studenti si sono trasferiti dal Nord al Sud del Paese per  aiutare i negri a iscriversi nelle liste elettorali e hanno potuto così scorgere per la prima volta la faccia che questo libero e democratico sistema presenta laggiù, scoprire il comportamento degli sceriffi, constatare come l'assassinio e il linciaggio dei negri rimangono impuniti anche quando i colpevoli sono noti.

Da questa esperienza traumatica è uscita l'attivazione politica di studenti e intellettuali in tutti gli Stati Uniti. Questa opposizione è stata poi rafforzata dalla guerra nel Vietnam. Agli studenti la guerra del Vietnam ha svelato per la prima volta la natura della società esistente: la necessità ad essa connaturata della espansione e dell'aggressione e la brutalità della lotta concorrenziale in campo internazionale."

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Dalle scuole parte la contestazione degli studenti
contro una vecchia cultura....

ITALIA - ANNI DI CAMBIAMENTI, 
CONTRADDIZIONI E VIOLENZA


Gli anni '60 furono caratterizzati da profonde trasformazioni della società italiana: si passò, infatti, da una società prettamente agricola ad una fortemente industrializzata.

Dal punto di vista sociologico si assistette alla diffusione di nuovi stili di vita, a nuovi usi ed a nuovi costumi molti dei quali di origine anglosassone.

La vita delle famiglie italiane ebbe numerose innovazioni e compì una svolta migliorando di molto lo standard di vita medio. Purtroppo, in moltissimi casi, questi discorsi valgono soltanto per le realtà centro-settentrionali, il Sud Italia continuò a vivere in maniera più arretrata ed, anzi, vi fu un peggioramento delle condizioni complessive di vita della popolazione che conobbe una nuova migrazione come all'inizio del secolo; questa volta non si andava in America, ma, semplicemente, nel Nord Italia, ma, spesso, si era ugualmente stranieri.

In campo politico, dopo l'involuzione autoritaria del 1959 (governo Tambroni), si assistette ad un progressivo avvicinamento del Partito Socialista all'area di governo.
Prima, con i governi presieduti da Amintore Fanfani, vi fu solo l'astensione o l'appoggio esterno all'esecutivo da parte del PSI, poi, sotto la guida di Aldo Moro, vi fu la partecipazione diretta di esponenti socialisti ai governi della Repubblica.
Era nato il centro-sinistra.
Purtroppo gli ambiziosi progetti riformatori furono stroncati dal tentato golpe del 1964 ed il centro-sinistra si limitò semplicemente all'ordinaria amministrazione, non dando risposte a problemi politici, economici e sociali che furono alla base della contestazione del 1968.

Il '68 va inserito in un discorso planetario poiché tale fenomeno interesso tutti i principali paesi del mondo, avendo alla propria base le medesime istanze di emancipazione e di miglioramento delle condizioni generali di vita. Comunque la si pensi i cambiamenti e le conquiste di quegli anni hanno cambiato in meglio il Paese ed il mondo intero.
Alla base delle lotte e dei movimenti sessantottini vi erano essenzialmente i seguenti punti tematici:

- svecchiamento della cultura (modernizzazione del "sistema");

- superamento di antichi pregiudizi, soprattutto in campo 
sessuale (libertà di scelta da parte dell'individuo);

- emancipazione delle donne e delle minoranze;

- miglioramento della scuola e dell'università;

- miglioramento delle condizioni di vita degli operai e dei lavoratori in generale;

- caratterizzazione "di sinistra" di tali movimenti, di una sinistra 
"nuova" che spesso si scontrò o semplicemente "non si incontrò" con la tradizionale sinistra marxista e "proletaria" di scuola socialista e comunista che accusava (come P. P. Pasolini) i "movimenti" del '68 di essere, in realtà, semplicemente dei radicali borghesi individualisti;

- tutti gli eventi del '68 videro a ogni latitudini e a ogni longitudine la sconfitta sul piano e sul terreno politico dei "movimenti" che, come sostenuto da Alberoni, si istituzionalizzarono (cioè si posero il problema della "politica" e del "governo" in maniera tradizionale) troppo tardi, quando ormai erano nella fase finale, avendo perduto ogni forza propulsiva.

In Italia non si ebbe un'unità tra studenti (che furono la colonna vertebrale del '68) e gli operai. Lo stesso Pci fu "tiepido" verso i "movimenti". Da frange estreme del movimento studentesco presero vita, nei successivi anni '70, alcuni degli eventi terroristici (come le famigerate Brigate Rosse) che hanno sconvolto per oltre un decennio la nostra storia repubblicana e democratica.
La partecipazione giovanile e studentesca alla vita politica nel 1968 e poi quella operaia nell' "autunno caldo" del 1969 avvennero in un clima che andava surriscaldandosi di anno in anno.
Dopo che i lavoratori della grandi fabbriche del nord Italia avevano raggiunto un accordo unitario tra tutti e tre i sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) vi fu un periodo di lotta e di rivendicazioni salariali e per un significativo miglioramento delle condizioni di vita. Il 5 febbraio vi fu il primo grande sciopero unitario dei pensionati che rivendicavano un aumento del loro trattamento pensionistico. A distanza di pochi mesi tutte le categorie lavorative erano in lotta: lotta unitaria con fini ben precisi. L'11 settembre vi fu un imponente sciopero generale dei metalmeccanici che rivendicano il contratto unico nazionale.
Le tute blu sono solo l'avanguardia di una più ampia ondata di sciopero. Seguono a ruota chimici, alimentaristi, commessi, impiegati ed edili.

È l'autunno caldo, al termine del quale l'Istat censirà 7.507.000 scioperanti 
con ben oltre 300 milioni di ore di sciopero e di lotta. 
Lotta che porterà ad un accordo collettivo con la Confindustria che accetta quasi in toto la piattaforma proposta dai sindacati (accordi del 21-22 dicembre)
Lotta solidale anche con le altre parti del Paese, anche con quel Sud in cui mafia e violenza non mancavano di farse sentire. Dopo che la criminalità aveva fatto deragliare un treno locale in Calabria, la Freccia del Sud, migliaia di metalmeccanici delle fabbriche di Milano, Torino e delle altre realtà del Triangolo Industriale, scioperarono per protesta sfilarono per le strade di Reggio Calabria. Si trattava di anziani operai settentrionali e di tanti di quei ormai non più giovani che nel decennio precedente si erano trasferiti al Nord in cerca di lavoro nelle grandi fabbriche settentrionali. Andarono a Reggio Calabria a proprie spese, guidati unitariamente dai leader delle tre confederazioni metalmeccaniche Trentin (Cgil), Carniti (Cisl) e Benvenuto (Uil).

Qualcosa stava cambiando, ma ben presto l'Italia sarebbe entrata in una spirale di grande violenza, il terrorismo, con i suoi morti e le sue paure era alle porte.
Proprio in quel 1969 segnato da una ritrovata unità della classe operai italiana e da una maggiore incisività delle sue richieste, l'Italia visse la propria prima grande tragedie. 
Gruppi neofascisti misero una bomba in Piazza Fontana a Milano: è la prima grande strage di cui, tuttora, non si sa ancora tutto, ma l'Italia perde la propria verginità ed entra in un tunnel.
Sempre nel 1969 era stata approvata la legge sul divorzio che gli italiani confermeranno con un referendum apposito nel 1974.

L'inizio del terrorismo farà si che per gli Italiani diventino familiari bollettini informativi e Tg in si racconti di scontri quotidiani tra polizia e studenti e poi, negli anni '70-'80, di rapimenti, omicidi e persone da parte delle Brigate Rosse.
Continuano anche attentati che faranno centinai di morti: Piazza Fontana, Piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus e galleria del Vermi a San benedetto val di Sambro (Bo).
Il terrorismo e la violenza caratterizzano, insieme con la crisi economica, questi anni di crisi. 
La crisi fu così grave che le menti politiche più avvedute ipotizzarono che solo con un governo di unità democratica Nazionale si sarebbe potuto salvare l'Italia dal baratro in cui stava precipitando.
Il leader democristiano Aldo Moro, statista di fine intelletto, il leader repubblicano Ugo La Malfa e quello socialista Francesco De Martino dimostrarono grande interesse per le proposte del segretario comunista Enrico Berlinguer per un governo di unità nazionale, frutto di un "compromesso di portata storica" come disse lo stesso leader del Pci, in grado di coinvolgere anche i comunisti nel governo del Paese al fianco dei laici, dei socialisti e della Dc.
Moro si fece interprete di questa linea e, sfidando la maggioranza del suo partito e una grande diffidenza di ampi nazionali e internazionali, portò il Pci nella maggioranza di governo. 

Dopo le elezioni della primavera del 1976 che avevano visto un sostanziale pareggio tra Dc e Pci, si formò un governo monocolore democristiano guidato dal de Giulio Andreotti che godeva dell'astensione di socialisti, laici e del Pci. Per la prima volta dal 1947 i deputati e i senatori del Pci non votavano contro un governo italiano.
Il passo successivo sarebbe stato l'entrata a pieno titolo del Pci nel governo, ma mentre l'on. Moro stava lavorando a questo obiettivo fu rapito e ucciso dalle Br. L'Italia non fu più la stessa e sembrò che la situazione dovesse precipitare.
Ma nel giro di pochi anni il fenomeno terroristico entrò in crisi: dissociazioni, pentimenti e azioni meritorie della magistratura e delle forze dell'ordine segnarono la crisi del terrorismo brigatista ed un lento ritorno alla normalità anche nelle formule i governo, il Pci non entrò mai nel governo del Paese come, invece, aveva auspicato il compianto on. Moro, il cui sacrificio corrispose con l'entrata in crisi del movimento terrorista e brigatista. 

Luca Molinari

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'68 - COME REAGI' LO STATO (1)
LA VECCHIA TECNICA: 
ATTENDERE PERCHÉ NULLA CAMBI

INTERVISTE

1988 - Intervista al professor Deotto,
rettore dell’Università Statale di Milano durante gli anni più violenti e difficili

“LO STATO ITALIANO ERA PRATICAMENTE ASSENTE”

Il professor Romolo Deotto (scomparso nel 1992) è stato rettore dell'Università Statale di Milano dal 1969 al 1972, negli anni difficili. Dopo la laurea in medicina e chirurgia inizia la carriera come assistente del professor Rondoni nel 1934. Cattedra di microbiologia a Sassari dal 1949 al 1956, poi a Milano dal 1956 al 1981. Negli stessi anni dirige anche l'Istituto di microbiologia della Facoltà di medicina. Questa intervista è stata concessa al mensile “Historia” nel marzo del 1988.

Professor Deotto, lei è stato rettore dell'Università Statale di Milano dal 1969 al 1972. Anni di fuoco. Qual era la situazione al momento della sua nomina?

“Nel novembre del 1969, quando sono stato eletto, molto era già cambiato dalle iniziali motivazioni che erano alla base dell'agitazione studentesca. Non che all'inizio mancassero i motivi per uno scrollone all'organizzazione universitaria. La fine della guerra aveva trovato l'università di Milano annichilita, come le altre, nelle diverse componenti: carenze di strutture, di attrezzature, di personale docente; c'era urgenza di una riforma che ricreasse l'università come centro di studio e di ricerche, ma gli appelli sempre più pressanti delle autorità accademiche a livello ministeriale erano praticamente inascoltati, il Parlamento era sordo ai nostri problemi, i progetti di riforma erano impelagati nei bizantinismi dei politici e nelle velleità dei tecnici, le amministrazioni universitarie erano abbandonate a dibattersi con gli enormi problemi economici di gestione...”

In queste condizioni come ha retto il corpo docente, come ha fronteggiato le necessità della ricerca e dell'insegnamento?

«Quanto è stato realizzato di buono in quei tempi è stato dovuto certamente allo spirito di sacrificio e all'intraprendenza di singoli professori, i quali erano, sono e saranno sempre diversi fra loro per intelligenza, cultura, carattere, patrimonio morale».

Secondo lei il Sessantotto è stato un giusto “redde rationem"?

«Che in queste condizioni dovesse prima o poi scoppiare un Sessantotto era prevedibile e in un certo senso auspicabile. La situazione mi ricordava un motto del Quinto Reggimento Alpini: "Niente da fare, tutto da rifare". Quello che effettivamente accadde nel Sessantotto lo possiamo rileggere in parte nella stampa quotidiana dell'epoca ma lo ritroviamo straordinariamente identico in una memoria dei primi anni dell'Ottocento relativa a quanto accadde all'università di Torino sotto l'influenza della Rivoluzione francese: l'occupazione degli istituti, con grave compromissione della didattica e della ricerca, la richiesta di un miglioramento della didattica (richiesta sacrosanta ma non realizzabile con le strutture e il personale insegnante a disposizione), l'istituzione dei gruppi di studio, realizzati in diversi casi con risultati positivi ma limitati sempre a problema nella sua globalità. Queste le direttive generali dell'agitazione studentesca del '68. 

Diversa l'evoluzione dal '69 al '72’73. La massa degli studenti si divise fra quelli che volevano un miglioramento della didattica e coloro che politicizzarono fortemente il Movimento. E questi ultimi prevalsero con la violenza: picchetti all'ingresso della Statale per impedire l'ingresso di studenti di diversa ideologia, etichettati come fascisti, e per ispezionare e perquisire chiunque entrasse, docenti compresi; guerra alla meritocrazia; esami di gruppo e il "27" assicurato; frequenti gli atti di intolleranza nella sede universitaria con relative invasioni, interruzioni delle sedute del Senato Accademico e del consiglio di amministrazione. «La situazione venne ulteriormente aggravata dalla cosiddetta "legge Codignola", che, aprendo la facoltà a studenti italiani e stranieri in possesso di un qualunque titolo di studio medio-superiore, fece crescere vertiginosamente le immatricolazioni anche di stranieri che non avrebbero avuto accesso, con il loro titolo di studio, in nessuna università del mondo».

Quale fu, in questa situazione, la risposta del Palazzo sia a Roma sia a Milano?

«Scrupolosamente silente il ministero della Pubblica Istruzione di fronte alle ripetute denunce del rettore, silente la Procura della Repubblica di fronte alle denunce inoltrate, silenti le autorità cittadine per ragioni politiche, forse pensando che fosse meglio che le baraonde studentesche avvenissero nel chiuso dell'università piuttosto che nelle strade milanesi. Unica proposta delle autorità municipali: trasferire direttamente agli studenti il sussidio che il Comune aveva fino ad allora versato all'amministrazione universitaria. Unica proposta delle autorità governative: costituire all'interno della sede universitaria un posto di polizia, proposta rifiutata dal rettore».

Come reagì il corpo docente in questa fase?

«Nella stragrande maggioranza e senza distinzione di credo politico ha svolto il proprio incarico con dignità e senso del dovere, pur fra disagi psicologici e materiali. Qualche pavido, qualche ‘uomo-guida’ in buona fede, qualche furbo. Riassumendo: molta onestà, qualche caso di onestà ‘compensata’ (il termine viene dal linguaggio medico: con la definizione "cuore compensato", ad esempio, s'intende un cuore che regge soltanto se non viene sottoposto a sforzi)».

Che cosa pensa di tutta questa vicenda, vissuta in prima persona?

«Non ritengo corretto esprimere un mio giudizio che enuclei la vicenda, indubbiamente importante, dagli avvenimenti quotidiani di questa nostra Repubblica. E allora non mi resta che concludere mestamente ‘chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato’. Perché non ne facciamo l'inno nazionale?». 


'68 - COME REAGI'  LO STATO (2)

e la classe dirigente di fronte al fenomeno? 
Risponde un autore che ha scritto due libri sul "problema ‘68"

LA VECCHIA TECNICA:
ATTENDERE
PERCHÉ NULLA CAMBI

Intervista a MICHELE BRAMBILLA, giornalista del "Corriere della Sera", autore
di due libri riferiti a quegli anni, "L’eskimo in redazione" e "Dieci anni di illusioni".


Perché il Sessantotto italiano durò dieci anni mentre altrove si concluse in pochi mesi?

«Perché in Italia c'è la cattiva abitudine a non affrontare i problemi. Di fronte alle rivendicazioni - degli studenti prima e degli operai dopo - le istituzioni non diedero risposte, limitandosi, come sempre, ad aspettare che il fermento si esaurisse da sé. Questa tendenza, purtroppo, c'è ancora. Quando iniziò Tangentopoli, i giornalisti, e in generale l'opinione pubblica, pensavano si trattasse di qualcosa di molto più incisivo della solita inchiesta sulla corruzione. I politici invece - sia a Roma che a Milano - consideravano l'azione del pool "Mani pulite" come un fenomeno provvisorio, ed erano convinti che Di Pietro sarebbe finito a dirigere il traffico a Gallarate. Nel '68 la classe politica commise lo stesso errore: lasciò che le cose decantassero, e rinviò ogni decisione sia sull'organizzazione degli studi sia sulle modifiche salariali. La situazione, come sappiamo, non decantò, ma si incattivì e degenerò. In Francia, De Gaulle ascoltò da subito studenti e operai, concedendo loro quanto possibile; poi, dinanzi a richieste eccessive e a metodi violenti, rispose con un gesto risoluto. Con ciò non voglio dire che mi sarebbe piaciuto vedere i carri armati nelle piazze d'Italia. Dico solo che se la classe politica avesse saputo dire i sì e i no al momento opportuno, le cose sarebbero andate diversamente».

La contestazione si è manifestata in diversi Paesi, connotata però da un comune denominatore: la critica ai valori di una società bigotta e ingessata.

«La società occidentale. Il '68 - è importante dirlo - è sorto nella parte più ricca e democratica del pianeta. Non si trattava certo della società migliore che si potesse immaginare, ma di sicuro non era la peggiore, considerando che si contendeva il campo con l'Urss da un lato e con le dittature latino-americane dall'altro. Il '68, quindi, si è affermato in quei luoghi dove c'era benessere. Ma a un certo punto la generazione che di quel benessere si è nutrita sin dall'infanzia ne ha scoperto l'incompletezza. Generalizzando, possiamo dire che il modello sociale di quei tempi - l'"american way of life", cioè la villetta, la moglie, il bel lavoro, la macchina - non rispondeva adeguatamente alla domanda di senso che i giovani avevano dentro. Così si è diffusa un'insoddisfazione generale».

In seguito, gli avvenimenti hanno avuto sviluppi differenti. Negli Usa la protesta ha imboccato la via del pacifismo, in Europa si è abbracciato il marxismo-leninismo. Perché?

«Perché negli Usa il pacifismo era legato a un fatto contingente: il Vietnam. C'erano uomini che andavano in guerra, e le famiglie si sfaldavano: le madri vedevano partire mariti e figli, le fidanzate perdevano i fidanzati... insomma, esisteva un motivo concreto per mettersi contro la guerra. Inoltre negli States, per ragioni culturali, Marx non ha mai fatto proseliti. Nell'Europa occidentale, invece, il marxismo aveva le sue origini. Ecco che, quando è scoppiata questa rivolta, ci si è illusi di poter rispondere alla domanda di senso che i ragazzi avevano dentro con l'ideologia, ed è venuto fuori il pasticcio che sappiamo. Tant' è vero che, in seguito, sono nati migliaia di movimenti di estrema sinistra, ben lontani, però, dall'ortodossia sovietica o dello stesso Pci».

Come si comportò la stampa di fronte al Movimento?

«Dapprima con sufficienza. C'è stato un indubbio ritardo - da parte della stampa cosiddetta borghese - nel capire cosa stesse accadendo. I giovani venivano chiamati con disprezzo "capelloni", il giornalismo era legato a vecchi schemi, lo Stato aveva sempre ragione, le istituzioni erano sacre, Polizia e Carabinieri dicevano sempre la verità... di fronte a una generazione che rifiutava in toto questo mondo lo scontro divenne inevitabile. Poi è subentrata la faziosità: quando si è visto da che parte tirava il vento, tutti lo hanno seguito. E' il solito discorso delconformismo: la stampa fu tutta fascista durante il ventennio, tutta antifascista tre giorni dopo il 25 aprile e così via. Di fronte alla prima protesta tutta l'informazione fu "reazionaria"; poi, quando diventò di moda essere sessantottini, anche i giornali borghesi si misero l'eskimo».

Massimo Fini, ricordando la figura mitica di Che Guevara, parla di una generazione che covava «incoffessabili pulsioni di guerra e violenza». Come è stato possibile passare dai "fiori nei cannoni" alle spranghe e ai cubetti di porfido?

«La ragione di questo passaggio sta nel fatto che il pacifismo dei primi tempi era strumentale, diretto a senso unico contro l'occidente. Mai si ebbe una protesta contro quello che accadeva nei regimi comunisti. Io non ho mai creduto al pacifismo di costoro. Guardiamo i fatti: quella generazione ha scatenato una rivolta violenta; come si può pensare che da un albero pacifista nascano frutti violenti non lo so. Ha ragione Fini. La dimensione generale del fenomeno è stata di rottura, e in molti si sono accodati senza sapere di cosa si trattasse. Era tutt'altro che una rivolta pacifista».

Non tutti, però, si accodarono. C'erano anche ragazzi per i quali la vita di tutti giorni era costituita dalla motocicletta, dalle prime cotte, dallo studio. Fu una "maggioranza silenziosa" ante litteram?
«No, fu una maggioranza inerte. Come sempre, i piloti della storia sono i piccoli gruppi. La Bastiglia fu presa da una piccola parte della popolazione di Parigi, così come la Resistenza fu opera- secondo i dati dell'Associazione Nazionale Partigiani Italiani - di circa 170mila persone. La maggior parte sta sempre dietro le finestre a guardare».

Questa minoranza attiva fu davvero spontanea o fu pilotata?
«All'inizio fu spontanea. Non ho mai creduto ai grandi complotti a tavolino. Intendiamoci, i complotti ci sono. Però pensare che qualcuno, a un certo punto, abbia deciso di far scoppiare simultaneamente una rivolta ovunque - nello stesso periodo e nello stesso anno - mi sembra un insulto all'intelligenza. Poco dopo, il timone della protesta fu preso dalla sinistra. E subentrò una grande ipocrisia, che fu cieca - per esempio - davanti ai carri armati sovietici a Praga».

Procedendo per sommi capi, si può dire che quella fu una protesta giusta nei contenuti ma sbagliata nei metodi?
«E' difficile dire esattamente quali fossero i contenuti, perché c'era molta confusione. Io posso condividere l'insoddisfazione legata a molti aspetti della società di quel tempo. Si contestava la Chiesa, l'esercito, il partito. Tutto ciò può essere comprensibile. Ciò che non condivido è l'idea di sostituire la società ingessata con una priva di quasiasi regola. Questo era quel che si voleva, e questo - accanto ad altri fattori - ha spalancato le porte alla droga. La quale - è storicamente provato - è stata introdotta in Europa dall'oriente ai tempi delle Crociate. Solo che non è mai attecchita perché il modo di pensare, nel Medioevo, aborriva l'idea di procurarsi dolore. Nel '68 si affermò invece l'idea della liberazione da ogni tabù e - grazie anche a fior di libri che lo sostenevano - ci si convinse che la droga fosse uno strumento di liberazione personale. Questa mentalità ha favorito la diffusione della tossicodipendenza. Certo, i narcos e gli spacciatori non sono sessantottini, ma hanno trovato terreno fertile. Se sono riusciti a guadagnare in quel modo, è merito di quella mentalità. Questo è stato uno dei risultati tragici del '68. Poi ci fu l'ideale della coppia aperta, per reagire a una certa ipocrisia della vita matrimoniale. Ciò ha condotto a una società dove la famiglia è relegata in secondo piano. Sono utopie non condivisibili, che vanno contro la natura dell'organizzazione umana. E alla fine dei conti, chi idealizzava la copiia aperta dava di matto per la gelosia non appena la sua ragazza andava con un altro. Insomma, per reagire a cose sbagliate hanno proposto modelli ancora peggiori».

Mettiamo a confronto questi due pareri sul '68. Vittorio Foa: «Una risposta ad opera di una minoranza di giovani che è riuscita a diventare un'avanguardia e a spostare vecchi modi di pensare». Franco Battiato: «Una buffonata, puzza di semplice incazzatura». E Battiato non è certo di destra. Chi ha ragione?
«C'è del vero in entrambi. Istintivamente darei ragione a Battiato, anche in virtù di quel che ho vissuto in prima persona frequentando le scuole superiori al centro di quegli anni, dal '72 al '77. Ma Foa ha ragione quando parla di cambiamenti. Il '68 ha perso politicamente, ma ha inciso nei costumi, talvolta anche positivamente. Mi riferisco alla critica alle istituzioni: da allora si smise di prendere come verità rivelata tuttociò che proveniva da esse. Fu un merito anche l'aver ridicolizzato certi formalismi nei rapporti tra le persone. Tuttavia - a mio avviso - il risultato complessivo non è soddisfacente. Non mi pare che da quelle istanze sia sorto un mondo migliore rispetto a quello di prima. Il mondo odierno è ancora più capitalista e consumista di quello che si combattè. In più, sono stati spazzati certi valori, quali una certa parsimonia, un certo senso del rigore che privilegiava aspetti più trascendenti e meno materiali. C'è una citazione dal Vangelo che dice: ‘La bontà dell'albero si vede dai frutti’. E i frutti che raccogliamo oggi non sono migliori di quelli di prima».

di IGOR PRINCIPE

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di Storia in Network

FINE

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