ANNO 1968 

"io c'ero"

"L'ASSEMBLEA"
del '68

di Pier Luigi Baglioni

Partimmo alle due di notte per fare una capatina a Trento. Più che seguire una lezione dovevamo, dietro lauta mancia al bidello, far mettere i timbri di presenza necessari ai futuri esami. Cenammo nel tardo pomeriggio, una dormita di riposo fino all'una della notte; poi sulla mia 'cinquecento' Fiat color pisello dal tettuccio apribile facemmo rotta verso il nord alternandoci alla guida, io e Giamba, collega di lavoro in fabbrica e consocio di studio universitario.

Due circostanze concomitanti ci avevano indotto a riprendere gli studi all'età di trentacinque anni, dopo quindici dal diploma di perito industriale, quando lavoravamo in acciaieria già da otto: la nascita della prima facoltà di sociologia presso l'Università di Trento (voluta incautamente da Flaminio Piccoli), e la nuova legge sull'accesso senza esame ai corsi dei diplomati. Per noi periti industriali, discriminati dal classista liceo, specialmente questo fu il grande stimolo. Alla fine degli anni '60 la sociologia era di moda nel mondo intellettuale, sindacale e politico di sinistra. Siccome noi eravamo delegati in rappresentanza dei tecnici e degli impiegati, i così detti 'colletti bianchi' del neonato Consiglio di Fabbrica sorto sulle ceneri delle Commissioni Interne; pensammo che la laurea poteva dare all'impegno volontario forma professionale. In altre parole fare i dirigenti di mestiere perché operare nel grande calderone del processo produttivo non ci piaceva proprio punto. Per di più, la nostra carriera era compromessa dalla nostra attività (oggi invece ci avrebbe agevolato).

Viaggiammo tenendoci svegli con la conversazione. Il momento storico offriva molti argomenti: la classe operaia abbioccata, il testimone delle lotte nelle mani della gioventù studentesca. Parevano loro, adesso, a cambiare il mondo, costruire la nuova società. Io e Giamba divenimmo nuovamente studenti per non mancare all'appuntamento. Ed esserci da laureati. Ma questa ambizione di protagonismo storico forse fu solo un pretesto. In verità ci allettava la laurea, come ho detto, per gli sviluppi dirigenziali nel sindacato e toglierci dalla merda dello stabilimento. Cumandà è megghio chi fottiri dicono i siciliani.

A Trento ci rifocillammo nel bar della piazza (tre caffè in unica tazza con una bella macchia di latte). Ci rinfrescammo il volto all'università, nel bagno dell'aula magna, accingendoci al supplizio della lezione. C'era agitazione tra i ragazzi: 'facoltà occupata; assemblea permanente' diceva il passaparola. In poco tempo l'aula si riempì di gente, di striscioni, di bandiere rosse, di gruppi che vociavano o distribuivano una assortita varietà di volantini ciclostilati. Sopra il banco, dirimpetto agli scranni, si accomodarono tre capi studenteschi e tre professori schierati dalla loro parte. "Siete poliziotti?" ci chiesero alcuni ragazzotti raggelandoci: "Il servizio d'ordine ce lo facciamo da noi: andatevene!". Giamba, più fulmineo di me nei riflessi, ribatté schifato: "Che ci abbiamo la faccia da sbirri? Se siamo fuori corso è perché siamo studenti lavoratori. Veniamo dalla fabbrica." "Bene compagni; allora andate".

In effetti erano tutti molto più giovani di noi. E poi io e Giamba vestivamo in maniera completamente sballata rispetto all'ambiente saturo di eskimi e kefiar. A Genova credevamo di essere controcorrente sostituendo i 'jeans' al posto dei pantaloni del completo; evidentemente qui non bastava. Di giacche tre bottoni e doppiopetto come le nostre non ce ne era neppure una. Anche i tre professori sul palco avevano maglioni e foulard come gli esistenzialisti del Cafè de Flore'. Con noncuranza ci togliemmo la cravatta riponendola in tasca, sbottonammo la camicia mostrando il petto villoso. "Ci prendono per magnaccia" scherzò Giamba che oltre ai riflessi era più spiritoso di me. In verità non ci prendevano per nulla. Eravamo inesistenti. Nel loro gergo: "Nessuno ci cagava".

Che fossimo in distonia, pesci fuori d'acqua, si palesò con forza durante l'assemblea. Per noi attivisti sindacali le assemblee erano pane quotidiano. Quali delegati ne scoppiavamo minimo un paio la settimana. Però col nostro decorso rituale, da recita a libretto non a soggetto come la loro. In fabbrica partiva la 'relazione introduttiva', seguivano gli interventi, un big esterno faceva le conclusioni. Chiuso, tutti fuori dal teatro aziendale, fine delle ore di licenza retribuita; di nuovo a lavorare. Il segretario illustrava le 'conquiste' passate, la futura 'piattaforma', il calendario della lotta e l'immancabile esortazione a 'battere la resistenza del padrone'. Ogni punto già deciso ma fintamente rimesso all'assemblea, che d'altronde immancabilmente ratificava. 

Pareva l'animazione di un dipinto sovietico del realismo socialista più che la consultazione operaia italiana. Si partiva dalla 'realtà di fabbrica' per attaccare 'la linea economica del governo'. Variavano solo i nomi dei presidenti del consiglio e dei loro ministri: Fanfani, Rumor; Carli, Colombo… Terminato il segretario provinciale, interveniva la 'base', sette, otto, delegati affetti di protagonismo cronico e fanatismo politico. Gli stessi che non perdevano ogni occasione di salire sul palco a ribadire quanto 'giustamente aveva detto il compagno relatore' e aggiungere di loro qualche frase fatta, slogan ripetuto. Se la relazione veniva offerta alla massa con un certo mestiere propagandistico, i discorsi dei delegati erano pietosi nella forma e nella sostanza. Manovali semi analfabeti di ritorno se non comperavano L'Unità ogni giorno polemizzavano con gli economisti della Confindustria; attaccavano il governatore della Banca d'Italia, il ministro del Tesoro e quello delle Finanze. Avevano la ricetta in tasca per ogni problema, mentre alla controparte o al governo sempre mancava 'la volontà politica'. "Il sindacato eleva l'operaio a classe dirigente" mi rispose un Culo di Pietra quando gli obiettai che quelle assemblee erano la saga della demagogia.

A Trento il casino era tale che non tenevo le fila di quanto stava succedendo. "Ci acchiappi qualcosa?" chiesi a Giamba. "Non c'è nulla da capire" rispose lui: "Qui ognuno va per suo conto. Strategie diverse, accomunano il medesimo obiettivo: abbattere la società capitalista, quella che rimpingua le loro famiglie. Chi la vuole distruggere portando al potere la fantasia, chi le risate; chi vuole i fiori, chi le bastonate o le P38." "Tutto questo che c'entra con l'Università?" "Nulla. Ma è l'ambiente di aggregazione, come per noi la fabbrica. Alla tua domanda risponderebbero: usiamo una sovrastruttura del capitalismo per il dominio sulla classe operaia, trasformandola nel fine opposto." "Vuoi dire che a loro non interessa l'elevazione personale, ma la trasformazione della società?" "Proprio, tanto loro sanno comunque di essere classe dirigente in qualsiasi assetto." "E che comandi il capitalismo o il comunismo gli operai lo prenderanno sempre in culo". Con la chiave di Giamba
i discorsi che prima mi apparivano ermetici e caotici, ebbero chiara lettura.

Nella confusione generale gli oratori si alternavano strappandosi il microfono dalle mani, litigando dal palco alla platea. Stufo di quella confusione mi disinteressai al dibattito. Guardandomi intorno mi divertivo a dare il punteggio alle ragazze. Immaginare come trombavano le più belle, quale ficona o fichetta potevano avere. Poi mi colse l'impulso irrefrenabile di 'portare la voce della fabbrica'. Alzai il dito per intervenire, ma rifiutavano vederlo o mi annichilivano con lo sguardo: "Cosa vuoi parlare tu che non sai un cazzo, imbecillotto piovuto da chissà dove!" pareva dicessero. Incurante, ormai preso da raptus oratorio, nonostante Giamba mi trattenesse sfilandomi la giacca di dosso (e fu un bene) mi avventai sul palco; strappai anche io il microfono mentre passava a mezz'aria, ed esordii: "Compagni e studenti…" (la congiunzione 'e' fece subito un brutto effetto). L'ambiente estraneo e ostile mi rese emozionato come le prime volte che parlavo in pubblico. Avevo la gola secca, la saliva non lubrificava più la lingua, un tremito alla narice vibrava il naso come un diapason. Anche la voce era artefatta, non cavernosa e suadente come nei discorsi in fabbrica. Però la mia esposizione fu chiarissima e creò un gelido silenzio. Durante il mio dire fu come se qualcuno avesse premuto il tasto 'pause' durante il 'play' d'una video cassetta. Prima gli oratori suscitavano partecipazione, acclamazioni o fischi, plausi o contestazioni a scena aperta. Con me nulla; silenzio assoluto. Poi appena riguadagnai la sedia scomparendo nuovamente nella massa il baccano ricominciò come nulla fosse successo.

"Cosa ti aspettavi?" disse Giamba nei commenti del ritorno: "Parevi uno della gironda in mezzo ai giacobini di Robespierre. Se non dicevi che venivi dalla fabbrica, che per loro è un luogo mitico tanto non ci metteranno mai il piede dentro, ti avrebbero linciato". La verità fu che non volessero capire: "Ragazzi" dissi ostentatamente dopo il gelo seguito al 'compagni e studenti': "Voi vivete a Trento, fate finta di studiare facendo in realtà la bella vita a spese di papà. Per voi è facile giocare alla rivoluzione. Fare casino tra una trombata e l'altra con le compagne femministe che non sono lesbiche. Avete l'avvenire assicurato, potete blaterare su quello dell'umanità, tanto da grandi non vi manca la certezza di un posto nell'azienda paterna, nella burocrazia apicale dello stato, o nel centro studi del sindacato. Chi nasce nella merda come me la laurea è il pezzo di carta per elevare la sua posizione. E chi lavora e studia non si può permettere di perdere gli anni come
voi. Ogni volta che vengo a Trento passando la notte in macchina, spendendo un mucchio si soldi in benzina; non posso sciupare il viaggio per ascoltare le vostre stronzate".

Aggiunsi anche qualcosa di politica sul riformismo contrapposto alla rivoluzione: "Fanatismo e tetragono idealismo sono inconcludenti e pericolosi. La violenza fisica o verbale non ha alcuno sbocco. Vince chi persuade, chi conquistare il consenso alle proprie idee. Un processo lungo, duro e difficile, ma che edifica dalle radici la società più giusta a cui tutti aneliamo."

"Che mi abbiano snobbato i ragazzi" dissi a Giamba: "me ne fotto. Al loro posto farei come loro: ammucchiarsi, fare i cortei, contestare… è più divertente che studiare. Cosa non sopportavo erano quei quattro macachi di professori giovanilisti che ridevano sprezzanti del mio intervento. Loro non sono ragazzi, dovrebbero avere giudizio. Come possono avallare quella fiera di cazzate?" "Anche loro si divertono" mi rispose Giamba: "Fare i capipopolo percependo lo stipendio come se lavorassero li appaga di più che il grigio insegnamento professorale, cattedrattico come dicono loro.. E poi, hai notato quante belle fichette ci sono nel movimento? Standoci dentro ne beccano qualcuna, altrimenti si debbono contentare delle loro mogli rancide. Il privato è politico, caro mio e tira più un pelo di fica che una coppia di cavalli normanni! ".

Fu l'ultima escursione a Trento. Rinunciai alla laurea per non perdere altro tempo e soldi. In verità, forse, mi tarpò le ali l'invidia del bel vivere sessantottino a me precluso in virtù del mio poco censo. Occhio non vede cuore non duole, come dice l'adagio.


 fine

di Pier Luigi Baglioni

PREMIO BIENNALE NAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA
"COMUNE DI RIVANAZZANO" IV EDIZIONE 1998
Biblioteca Civica via Indipendenza 14 - 27.055 Rivanazzano
A Pier Luigi Baglioni per il racconto - L'assemblea del '68-
è stato assegnato il Primo Premio della Sezione Narrativa

FINE

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