ANNO 1979

 

riceviamo 2 testimonianze

L’ASSASSINIO DI GUIDO ROSSA

La vicenda coinvolse due miei amici, Guido Rossa e Franco Berardi, morti entrambi tragicamente, il primo assassinato dalle BR e l’altro suicida impiccandosi in carcere. La vissi da testimone, con grande partecipazione. Rossa lavorava nel mio medesimo reparto, l‘officina di manutenzione di cui eravamo entrambi delegati nel Consiglio di Fabbrica, lui in rappresentanza degli operai, io dei ‘colletti bianchi ’. Con Berardi invece era nata una simpatia ai tempi dell’autunno caldo del ’69 quando affittammo le pecore da un pastore sardo sulle alture genovesi di Crevari, e portammo il gregge depositandolo al pascolo davanti alla direzione generale dell’Italsider, metafora simbolica per gli impiegati della sede che non partecipavano agli scioperi. Berardi qualche anno dopo fece un viaggio turistico in Turchia con la famiglia. Viaggiando sull’Orient Espress avevano corso una brutta avventura restando per ore in balia di una banda di rapinatori e stupratori.

Ho detto amici ma il sostantivo non è esatto. Non avevano comuni rapporti personali privati ma quelli tra compagni di lavoro e di sindacato. Amavamo conversare di politica, pur senza coincidenze di pensiero (io, del PSI sostenevo Craxi. Loro, lo detestavano. Benché iscritti entrambi al PCI, avevano posizioni diverse, berlingueriano Rossa, estremista filo-cinese Berardi. In altre parole Rossa era favorevole al ‘compromesso storico’ con la DC, Berardi decisamente contrario. Lo considerava una integrazione del partito nel ‘sistema capitalistico’ e ci metteva entrambi sullo stesso piano ‘revisionista’, che per lui voleva dire ancora tradimento della ortodossia marxista-leninista a cui egli restava fedele. Sosteneva che il mitra e non le chiacchiere facevano la rivoluzione. In fabbrica diceva tanto apertamente queste cose che le ritenevano una specie di folklore parolaio estremista innocuo, quindi tollerato. Credo che fosse proprio così fino ad un certo momento. Ma qualcuno (mai scoperto) che militava clandestinamente ascoltando quelle convinzioni teoriche che lo portavano a giustificare le azioni terroristiche delle BR che stavano seminando sangue nel paese, lo invischiò nel fiancheggiamento. E Berardi ci cadde senza rendersi neppure conto del passo che aveva compiuto.

Rossa, ligio alla linea, descriveva le BR (non so quanto intimamente) come fascisti camuffati con lo slogan (apparso anche scritto a caratteri cubitali con la calce sui muri dell’Ansaldo in via Pacinotti): ‘Brigate Rosse eguale Brigate Nere’.

Verso la fine del 1978, un mattino, passai dal consiglio di fabbrica per informarmi delle ultime novità sindacali. Noi delegati dei reparti ci intrattenevamo con gli ‘esentati’ (i distaccati a tempo pieno, tre per organizzazione) per scambiarci commenti ed informazioni. Quel mattino, proprio mentre stavamo li, sopraggiunse un uomo trafelato ed eccitato che disse agli astanti mostrando un volantino: "Ho visto uno che gira la fabbrica in bicicletta seminando questi volantini delle Brigate Rosse". Uno dei segretari gli prese la copia del ciclostilato che teneva in mano.

Il dattiloscritto, intestato con la stella sghemba a cinque punte inserita nel cerchio e la sigla laterale BR, era una prolissa pappardella di due pagine incitante gli operai ad "attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo nazionale nel suo cuore: la fabbrica”. E “sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo a partire dalla fabbrica il partito comunista combattente e gli organismi rivoluzionari di massa".

"Bisogna prenderlo!" disse secco e per dargli la caccia formò delle piccole squadre che si diressero in varie direzioni. Chi verso i laminatoi, il parco rottami; la cokeria e l’altoforno… Non mi unii a nessun gruppo, affatto entusiasmato da quello zelo.

Il propagatore venne presto sorpreso e ‘catturato’: Nel petto, sotto la camicia, aveva ancora la parte residua dei volantini. Era proprio Franco Berardi, l’estremista noto che stava in prima linea nei cortei sindacali. Colui che teorizzava da epigono comunista prima maniera la rivoluzione, ma essendo padre di famiglia (due figli) nessuno credeva si sarebbe mai compromesso col terrorismo. D’altronde estremismi anarcoidi impenitenti erano frequenti nel movimento operaio, assai vulnerabile alla demagogia.

Lo portarono come un prigioniero nel CdF. Egli non era affatto spaventato, non cogliendo perfettamente la situazione in cui si era cacciato. Si sentiva personaggio del caravanserraglio ‘fabbrica’ inviso ai piccoli ‘apparatnicki’ intolleranti al dissenso ma amato dagli operai perché era pur sempre una frangia della ‘classe operaia’ (e diceva cose che molti operai pensavano).

Per me, e lo dissi subito, non dovevamo drammatizzare l’episodio. Vidi in lui il classico ‘compagno che sbaglia ’: “Ha fatto una baggianata, diamogli una lavata di testa, un solenne ammonimento, e finiamola lì”.

Invece, interpretando pedissequamente le direttive di ‘fermezza’ del partito, i delegati comunisti, Rossa in testa, chiesero di seguire una rigorosa procedura di denuncia, dimostrando platealmente all’opinione pubblica che la ‘classe operaia’ era senza compromessi contro l’eversione e la lotta armata. E Berardi divenne la vittima sacrificale di tale assunto politico innescando una scia di sangue che alla fine coinvolse sei vite. La sua, di Rossa e dei quattro suoi assassini della colonna Walter Alasia.

Convocato immediatamente il consiglio di fabbrica doveva prendere sulla questione una posizione ‘unitaria’ ufficiale. Ma questo non fu possibile. Nella animata discussione erano contrapposti i delegati comunisti che voleva l'immediata denuncia ai carabinieri e tutti gli altri (socialisti Fiom, cislini e uillini) che erano per spegnere l'episodio. Arrighi il delegato Cisl aveva le mie medesime posizioni: "Franco lo conosciamo, è un esaltato, messo in mezzo da qualcuno più furbo di lui. Va recuperato non rovinato". La discussione si accanì senza possibilità di conciliazione. Purtroppo il segretario comunista della sezione di fabbrica, Occhi, politicamente più avvertito e moderato, era in ferie (quando tornò mi disse che, con lui presente, le cose avrebbero avuto un'altra piega). Mancando il suo apporto prevalse la rigida linea dei delegati comunisti compatti dietro Rossa. Alla fine non venne assunta nessuna decisione perché nessuno dei due gruppi accettò la linea dell’altro e neppure giunsero ad un compromesso.

Ebbi con Rossa un estremo tentativo di persuasione consigliandolo a quattro occhi: "Non essere così intransigente, pensa alle possibili conseguenze della tua linea. Considera e privilegia il rapporto di amicizia". Mi rispose secco: "La posta in gioco è troppo importante." Insistei: “Ma possiamo denunciarlo in caso si renda recidivo. I volantini delle BR non comportano alcun pericolo di proselitismo tra gli operai, sono una accozzaglia allucinante di cazzate, quale presa vuoi abbiano nella fabbrica?" Si indispose: "O non capisci o fai finta di non capire" gridò infuriato "Non è una marachella da perdonare o no. E’ un atto politico che va rintuzzato. Chiaro?" A questo punto tutti lasciammo che le cose seguissero il loro corso e ognuno si assumesse le proprie responsabilità conseguenti alla scelta fatte. La parte contraria alla denuncia si disinteressò del procedere successivo degli avvenimenti, mentre Guido Rossa ed i suoi compagni andarono dal capo della vigilanza interna a informarlo della loro volontà. Questi fece come Ponzio Pilato. Avvertito della delicatezza dichiarò che per lui la pratica era irricevibile: “Dovete andare al comando dei CC, non da me”. Cosa che fecero seduta stante.

Al comando dei carabinieri, finita la battitura del verbale, l'ufficiale, porgendo il documento chiese ai presenti di firmare in calce. Gli operai non aspettavano la richiesta; credevano bastasse la formalità dell’esposto, non di sottoscriverlo personalmente. Il Tenente spiegò che non era possibile: "Occorrono le firme dei dichiaranti; la dicitura ‘un gruppo di delegati del CdF italsider’ non ha personalità giuridica". Allora scattarono i ripensamenti, tutti tirarono il culino indietro chiedendo a Rossa di soprassedere alla denuncia. Comportamento che a Guido parve di viltà. E generosamente, impulsivamente, appose da solo la firma al documento. Quale solitario, unico nome e cognome apposto alla denuncia, firmò così la sua condanna a morte.

Noi, quando si seppe, fummo coscienti immediatamente di quel pericolo. Egli se ne rese conto nelle settimane successive. Ma non lo volle mai ammettere. Con lui ebbi una concitata discussione alla mensa aziendale sotto gli occhi delle maestranze. Credendo di fargli del bene gli dissi che “… mi stupisco tu resti in vista come nulla fosse, che tu continui questa assurda normalità: Ma ti rendi conto che ormai sei un obiettivo? Possibile che neppure il tuo partito lo avverta e ti protegga mandandoti in qualche posto meno agibile?” Egli prese male le mie parole. Le colse come una intimidazione, quasi fosse anche io un portavoce dei suoi nemici. Certo il senso di una sconfessione al suo operato c’era, ma esso era dovuto alla sua tutela non di certo per ‘avviso di morte’ come li per li lo interpretò facendolo molto arrabbiare.

Dopo quella sfuriata non ci salutammo ne’ parlammo più. Quando ci incontravamo però, muti ci guardavamo diritto negli occhi. Da essi notai il cambiamento: agli inizi erano fieri. Alteri come il portamento intrepido di alpinista lo aveva abituato a guardare le cime delle montagne da conquistare, minimamente spaventato dalle reiterate minacce che avevano cominciato ad assillarlo. Poi di giorno in giorno il suo sguardo si addolcì ed in esso coglievo una luce di rammarico affettuoso nei miei confronti. Orgogliosamente continuò a non rivolgermi la parola, ma lo sguardo mi parlava chiaro che si sentiva solo e abbandonato.

Passarono mesi terribili per ambedue perché anche io vivevo assai male in fabbrica. Con la mia sincerità, la discussione in mensa era ‘passata’ come un atto di fiancheggiamento alle BR, ero divenuto reietto. Il linciaggio orale a cui venni sottoposto mi proiettò addosso il biasimo degli operai costringendomi a non frequentare più neppure il CdF. Dovevo, come l’ipocrisia generale della fabbrica, encomiare il gesto ‘esemplare’ punto e basta. In quel periodo ebbi persino il dubbio di essere controllato dalla polizia su segnalazione degli stessi compagni. Avevo raccontato per filo e per segno la cosa nella radio libera Monte Gazzo di Sestri Ponente ed avuto sul tema un dibattito in diretta con Paolo Perugino in cui, secondo me, la posizione comunista era uscita piuttosto male. Intanto Rossa riceveva nella cassetta delle lettere foglietti con epiteti di 'delatore' 'infame'. E telefonate che gli annunciavano imminente la punizione.

Il mattino della grigia alba dell’24 gennaio 1979 l'imboscata. Guido uscì da casa per recarsi sul lavoro. Dovendo timbrare il cartellino alle sette, partì tre quarti d'ora in anticipo per essere in portineria, cambiarsi gli abiti nello spogliatoio, dare uno sguardo ai titoli de L’Unità, prima di iniziare il lavoro come ogni mattino. Aprì la portiera della vettura, sedette al volante e avviò inutilmente il motore. Il 'commando' BR apparve bruscamente ai vetri. Quello che successe non ha testimoni vivi per essere raccontato. Probabilmente prima degli spari volarono reciproche offese. Si dice che le intenzioni erano di ‘gambizzarlo’ e basta. Forse proprio per agevolare questa eventualità Rossa le distese sulle poltroncine anteriori (la posizione post morten nella vettura lo vede con la testa reclinata sul volante ed il corpo disteso, non in posizione di guida). Ma Dura impietosamente lo fulminò scomparendo insieme agli altri. Eclissandosi facilmente avendo il ‘covo’ vicino nello stesso quartiere.

Quel mattino arrivando in officina notai capannelli di operai fermi in mezzo al reparto. Avevano incrociato le braccia, sciopero spontaneo, di protesta, commossi e rabbiosi.

Immediatamente intuii il grave accadimento. Ma per togliermi ogni dubbio me lo confermò un tanghero di nome Vagge che in malo modo, col dito puntato sotto il naso e la bava alla bocca, mi gridò: "Sei contento? L'hanno ammazzato! Cacciati in ufficio, non ti far vedere in giro!" come del crimine io ne avessi una qualche colpa! Davanti all’energumeno fuori di testa non alitai verbo per non incorrere nelle sue fanatiche intemperanze. Ma in cuore mio pensai: "Il partito della fermezza operaia voleva il martire, l'ha avuto!"

Nei giorni successivi i delegati che si erano recati al Comando dei Carabinieri senza poi firmare l’atto di denuncia sparirono dalla circolazione. Di loro chi raggiunse parenti lontani, chi andò a lavorare in una cooperative emiliana. Il comandante della vigilanza, avendo scansato la responsabilità di affrontare personalmente il problema, cadde in disgrazia e divenne il capro espiatorio di quell’evento.

Poi morirono gli altri protagonisti della vicenda. Franco Berardi si impiccò in carcere. La colonna di Dura, intercettata dentro l’appartamento dalla Digos, venne sterminata nel covo durante l’irruzione.

& Pier Luigi Baglioni

 

 

ma dopo questa testimonianza riceviamo anche quest'altra:

Omicidio Walter Rossi - 30 settembre 1977

UN'ORA DOPO che l'estremista di sinistra è stato ucciso, la polizia interviene e ferma diciassette giovani che stazionano davanti alla sezione Balduina del Msi. Di fronte alle perplessità dei giovani (i fatti sono accaduti da un'ora, l'assassino o gli assassini sono probabilmente ben lontani e non certo lì ad attendere l'arrivo della polizia), i dirigenti del commissariato Falvella e Improta spiegano che si tratta solo di una testimonianza. Così i ragazzi, tra cui cinque minorenni, vengono portati al commissariato.
Lì, senza la garanzia di un avvocato (eppure la legge lo prevede), vengono interrogati e sottoposti al guanto di paraffina per verificare se abbiano sparato nelle ore precedenti e quindi se abbiano tracce di antimonio e bario sulle mani.
GLI INTEROGATORI: non portano ovviamente a nulla: i giovani sono giunti nei pressi della sezione Balduina dopo i fatti.
LA PROVA DEL GUANTO DI PARAFFINA: porta ad identificare solo sulle mani di una persona tracce "equivoche" che, alla luce di una successiva e approfondita perizia condotta dal Cnr con tecnologie nucleari, risultano essere residui di zolfo dovuti all'accensione di fiammiferi.
GLI ESAMI TESTIMONIALI: escludono la presenza di quei giovani durante gli incidenti: alcuni testi, tra i quali l'attore Fiorenzo Fiorentini, hanno avuto modo di seguire tutto il succedersi degli eventi da una terrazza ai piani bassi di uno stabile posizionato proprio di fronte al punto in cui è caduto Walter Rossi e non riconoscono, nel confronto all'americana, nessuno dei giovani.
Cinque dei diciassette giovani poi accusati di concorso in omicidio al momento dei fatti si trovavano in piazza del Popolo, ad una distanza di alcuni chilometri dal luogo dell'omicidio.
UNA MULTA: elevata da un vigile all'auto sulla quale i cinque si trovavano, fa fede sull'orario. Ma i magistrati ipotizzano che l'orologio del vigile sia impreciso.
LA PERIZIA BALISTICA: accerterà che il proiettile è entrato dalla nuca ed è uscito dalla fronte, dal basso verso l'alto, ad una distanza approssimativa di cinque metri.
I testimoni affermano concordemente invece con certezza che i due gruppi che si fronteggiavano poco prima dell'omicidio si trovavano ad una distanza di trenta metri o più, che non sono mai venuti a contatto e che il gruppo dei giovani missini si trovava in posizione più elevata, nella parte alta della strada viale Medaglie d'Oro che, da belsito scende verso piazzale degli Eroi.
Va da sè che NESSUNO che si fosse trovato nel gruppo DEI GIOVANI MISSINI può aver ucciso Walter Rossi.
L'ALTRA IPOTESI MAI VAGLIATA: E' invece molto probabile che il giovane extraparlamentare di sinistra sia stato ucciso, per errore, dai suoi stessi compagni: il proiettile è entrato dalla nuca, ad una distanza di cinque metri, dal basso verso l'alto. Quindi è probabilmente partito dallo stesso gruppo nel quale si trovava Walter Rossi che stava salendo lungo viale delle Medaglie d'Oro in direzione della sezione Balduina del Msi per proseguire il volantinaggio davanti alla sede missina.
LE TESTIMONIANZE dei compagni che parteciparono a quel volantinaggio (si trovano facilmente su Internet) ricordano che si decise volontariamente di andare a volantinare proprio lungo viale Medaglie d'Oro nei pressi della sezione Balduina. Ricordano lo stupore delle persone che si incontravano lungo la strada ed ai quali si offrivano i volantini. Persone che coglievano in quel volantinaggio i prodromi di una provocazione, il tentativo di cercare uno scontro fisico con la parte opposta. In questo contesto non è da escludere che alcuni compagni partirono verso viale Medaglie d'Oro con i volantini nelle mani ed una pistola in tasca. E' una ipotesi, alla ricerca di una verità. Ma un'ipotesi suffragata dalle perizie balistiche che fanno partire il colpo mortale a Walter Rossi proprio dall'interno del gruppo dei suoi stessi compagni: distanza, direzione e angolazione sono quelle.

Silvio Leoni

FINE

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