IL PRIMO TRIUMVIRATO - PUBLIO CLODIO - CICERONE

POLITICA DI CESARE - ROGAZIONE DI METELLO NEPOTE - CATONE - PUBLIO CLODIO - I MISTERI DELLA BONA DEA - RIPUDIO DI POMPEA - II PROCESSO CONTRO CLODIO - CESARE PARTE PER LA SPAGNA - RITORNO E TRIONFO DI POMPEO - CONDIZIONI POLITICHE DI ROMA - LEGA TRA CESARE, CRASSO E POMPEO - IL PRIMO CONSOLATO DI CESARE - LA LOTTA PER LA LEGGE AGRARIA - LEGGI DI CESARE - IL TRIBUNATO DI PUBLIO CLODIO - ESILIO DI CICERONE - CATONE A CIPRO - POMPEO E IL SENATO - VIOLENZE DI CLODIO - ANNIO MILONE - RITORNO TRIONFALE DI CICERONE
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I MISTERI DELLA BONA DEA

Dopo il precedente capitolo, ritorniamo all'anno 61 a.C., quando POMPEO dall'Oriente si sta preparando -dopo quattro anni di assenza- a rientrare a Roma. Dove vive un altro uomo, sdegnato della vita politica romana, e proprio per questo si è fatto molti nemici. Vorrebbe agire, ma fino ad ora ha controllato la sua impazienza. Lui è GIULIO CESARE, che da qualche tempo, per agire, cerca un appoggio; e quello di POMPEO potrebbe rappresentare non solo un sostegno morale, ma anche un appoggio militare, perché Pompeo ha, infatti, un potente e fedele esercito!
Dunque, CESARE è pronto a trarre profitto dalle circostanze. Sfruttare abilmente le ambizioni di CRASSO, il nobile che aveva sconfitto Spartaco, e procurarsi l'amicizia di Pompeo.
Andiamo indietro di qualche mese, prima del rientro a Roma di Pompeo

La situazione in cui si é venuto a trovare GIULIO CESARE dopo la congiura di Catilina, è delicatissima. Ha molti nemici a Roma, fra cui i più influenti sono LUTAZIO CATULO, LUCULLO e CATONE.
GIULIO CESARE è ancora giovane, è appena alla fine degli anni trenta; da poco è stato eletto tribuno, è un oratore vigoroso, ed è stimato dal popolo per la sua proverbiale onestà e per la repubblicana fierezza.
Ma Cesare ha anche lui molte amicizie, fra le quali conta ora quella di CICERONE, e gode di grande popolarità. Cesare non si tiene in disparte nella vita politica; ma agisce molto prudentemente, osserva uomini e cose e si tiene pronto a trarre profitto dalle circostanze. Roma è piena d'intrighi; le passioni infuriano, il libertinaggio imperversa, il denaro domina sovrano, l'onestà è un mito. Gli uomini che si contendono il potere non hanno statura di dominatori e di loro Cesare non si preoccupa, ma c'è un uomo, lontano dal"Italia, che rappresenta un'incognita assillante per Cesare. Quest'uomo è POMPEO, il generale fortunato, il capo della democrazia, l'ambizioso guerriero che dispone di un forte esercito di fedelissimi veterani e di un enorme bottino e che ora, vinto Mitridate e ingranditi i domini romani d'Asia, si accinge al ritorno. Che farà Pompeo? È una domanda cui Cesare non sa dare una risposta; ma capisce però che non è prudente schierarsi contro di lui e che invece è ottima politica renderselo maggiormente amico.
Per raggiungere questo scopo, il giorno stesso in cui assume la carica di pretore, chiede ed ottiene che l'incarico di ricostruire il tempio di Giove Capitolino, distrutto nell'83 a.C., sia revocato a Catulo e affidato a Pompeo, consiglia Q. CECILIO METELLO NEPOTE, luogotenente di Pompeo nelle guerre contro i pirati e contro Mitridate ed ora tribuno, di proporre che Pompeo, sebbene assente, sia eletto console e poiché questa rogazione è respinta, Cesare lo induce a chiedere che Pompeo sia subito chiamato in Italia per ristabilire l'ordine a Roma.
Qui risalta in tutta la finezza l'accorgimento di Cesare. Apparentemente egli aiuta Pompeo a diventare arbitro della Repubblica e ne ritrarrà vantaggi se Pompeo riuscirà a conquistare e mantenere il potere, ma in sostanza gli rende un cattivo servizio perché una dittatura di Pompeo, non giustificata dagli avvenimenti, sarà fatalmente seguita da una reazione, dalla quale Cesare -in quel momento preciso- saprà trarre immensa utilità.
La proposta di METELLO è respinta, ma il tribuno la sottopone ai comizi e nel giorno della votazione si presenta all'assemblea con CESARE spalleggiato da una turba di servi armati.

La seduta è tumultuosa. CATONE, seduto tra Cesare e Metello, prima che la discussione inizi oppone il suo veto. METELLO vuole che il suo disegno sia letto e ordina a uno scriba di darne lettura; ma Catone glielo impedisce e, poiché si accinge Metello stesso a leggerlo, gli strappa di mano le tavolette.
Allora il tumulto scoppia violento; volano sassi e luccicano spade nel foro; CATONE è circondato e assalito dai servi di Cesare e di Metello e a stento il console MURENA gli salva la vita coprendolo prima con la toga e conducendolo poi nel tempio di Castore.
Essendo gli animi eccitatissimi, il Senato affida mandato ai consoli che salvaguardino l'ordine con severe misure eccezionali e i consoli sospendono METELLO e CESARE dalla carica che ricoprono invitandoli all'esilio.
METELLO obbedisce e sdegnato lascia Roma e si reca da Pompeo, mentre CESARE rimane in carica, poi, per non esser costretto ad ubbidire, abbandona lui stesso la pretura con una studiata mossa. Infatti, la stima di cui gode è così tanta, che il popolo gli manifesta una grande e chiassosa dimostrazione di simpatia e il Senato, temendo disordini da quel romoreggiare, lo rimette nella carica.
CESARE sa di poter contare sul favore del popolo, pur tuttavia continua nella sua politica di accorgimenti, evita di prendere, quando può, degli atteggiamenti decisi, di urtare la suscettibilità dei potenti e di mettersi in rotta con i ricchi. Anche quando la pace della sua casa e l'onore della sua famiglia sono compromessi, egli non esita a sacrificar l'una e l'altro all'altare della politica pur di non crearsi inimicizie che possono intralciargli la via. Così, fedele al programma che si è imposto, non inveisce contro CLODIO, causa di un grave scandalo che lo colpisce negli affetti familiari, ma gli si finge amico e più tardi se ne serve per i suoi fini.
PUBLIO CLODIO PULCRO è un giovane patrizio di depravati costumi, che si dice abbia avuti impuri contatti carnali con le quattro sue sorelle, è amico di Cicerone che ha sostenuto al tempo della congiura di Catilina ed è stato tra quelli che volevano trucidare Cesare quando questi nella Curia difendeva i cinque congiurati.
CLODIO è giovane senza scrupoli, pieno di debiti, spasimante impenitente e innamorato di POMPEA, che è la moglie di Cesare. Sono i primi giorni del dicembre e le vestali e le matrone romane sono riunite nella casa di Cesare dove con Pompea sacrificano alla Bona Dea, genio tutelare della fecondità muliebre, con cerimonie oscene alle quali nessun uomo può assistere.
CLODIO, bramando forse d'essere presente alla celebrazione di quei misteri religiosi spinti, o desiderando di trovarsi con Pompea, si traveste da suonatrice d'arpa e riesce a penetrare non conosciuto nella casa di Cesare. Ma la fortuna che da principio favorisce l'audacia del giovane libertino ad un tratto l'abbandona. Una schiava di Cesare di nome Aura s'insospettisce alla vista di questa donna dall'incedere poco femminile e le rivolge la parola; Clodio, costretto a rispondere, rivela con la voce il suo sesso. La schiava dà l'allarme e le matrone e le vestali, sospese le sacre cerimonie, accorrono e sdegnate scacciano l'audace profanatore dei misteri.
Lo scandalo è ben presto conosciuto da tutta la città; i pontefici massimi ordinano di rinnovare i misteri alla Bona Dea e Clodio è denunciato ai magistrati.
CESARE che ha tutto l'interesse di soffocare lo scandalo e nel medesimo tempo di tutelare il suo onore e a non urtarsi con Clodio, saputo il fatto, ripudia Pompea, ma davanti ai giudici sostiene l'innocenza della moglie e del giovane e poiché i magistrati non sanno spiegarsi quelle dichiarazioni dopo il ripudio, Cesare dichiara di avere ripudiata Pompea non perché abbia creduto alla sua colpa, ma perché sulla propria moglie non devo cadere neppure l'ombra del sospetto.
Malgrado questa singolare dichiarazione, il processo continua. Molti cittadini depongono contro Clodio, rivangando le turpitudini del suo passato. Clodio si difende affermando che il giorno in cui si sacrificava alla Bona Dea lui era assente da Roma e chiama come testimonio Cicerone. Il famoso oratore si presenta ai giudici. Vorrebbe salvare l'amico di un tempo, ma la moglie, gelosa di una sorella di Clodio, gli ha imposto di dire la verità e Cicerone, per amore della pace domestica, afferma di aver visto il giovane a Roma il giorno stesso dei sacrifici.
A CLODIO non resta che una sola via di salvezza: corrompere i giudici. CRASSO, il creso romano, presta il denaro e dei cinquantasei giudici trentuno, sono comprati con l'oro, votano in favore dell'accusato che é assolto.
CESARE, rovinato economicamente, lasciando la pretura, ottiene dal Senato il governo della Spagna Ulteriore; ma i suoi numerosi creditori si oppongono alla sua partenza.
Come di Clodio, così di Cesare il salvatore è Crasso. Il ricchissimo patrizio ha buon naso e sa che il governo di una provincia di solito compie il miracolo di saldare ogni debito. Si fa perciò mallevadore di Cesare per l'enorme somma di ottocentocinquanta talenti pari a cinque milioni di lire, facendo un ottimo affare finanziario e guadagnandosi l'animo di un uomo che sa destinato ad un potente avvenire. Ne del resto potrà più abbandonarlo dopo aver puntato su di lui questa cifra enorme.
E, infatti, dal giorno della sua partenza per la Spagna ha inizio la fortuna di Cesare.

IL PRIMO TRIUMVIRATO

Mentre questi fatti si svolgono a Roma, Pompeo lascia l'Asia diretto in Italia. Giunto a Brindisi verso la fine del 62, per meglio mascherare le sue brame di potere licenzia l'esercito e se ne ritorna a Roma come semplice cittadino.
Il popolo, saputo il suo arrivo, gli va incontro e lo conduce in città con grandi manifestazioni di gioia e Pompeo si lusinga di aver la cittadinanza dalla sua parte, ma ben presto si accorge che a Roma, durante la sua lunga assenza (4 anni), molte cose sono avvenute che gli hanno tolto gran parte del favore di cui godeva.
Il Senato non è più quello che lui ha lasciato. La vittoria su Catilina e il consolato di Cicerone (nel '63 a.C.) lo hanno rialzato in potenza; e gli uomini più in vista ora non sono animati per lui da sentimenti amichevoli. CICERONE, che non ha ricevuto gli elogi desiderati per l'opera svolta durante il suo consolato, non mantiene con POMPEO i cordiali rapporti di una volta; CATONE, che sospetta gli ambiziosi suoi progetti, gli è avverso; LUCULLO, che è stato da lui spodestato dalla direzione della guerra mitridatica, lo odia a morte; il ripudio di MUCIA gli ha reso nemico il cognato Metello Celere; e CESARE, che è uno dei pochi sui quali ancora Pompeo potrebbe contare, è ora lontano.

L'opera che Pompeo ha recentemente compiuta in Oriente, rischia di sfasciarsi, se il popolo e il Senato non sanzionano i provvedimenti che lui ha preso in Asia e se ai soldati i quali, sebbene licenziati, rappresentano la sua forza, non saprà o non potrà fare ottenere una distribuzione di terre.
POMPEO cerca di riguadagnare il terreno perduto. Gli è necessario che al consolato sia assunto almeno uno dei suoi amici e nelle elezioni impiega un'ingente somma per fare eleggere L. AFRANIO, già suo luogotenente in Asia.
AFRANIO è eletto console e Pompeo chiede ed ottiene il trionfo che è celebrato il 29 e il 30 settembre del 61 a.C. con una pompa che solo quello di Emilio Paolo può eguagliare.
Tavole su cui sono scritti i nomi dei paesi asiatici indicano ai Romani che si assiepano al passaggio del corteo magnifico, le conquiste di Pompeo; ingenti. sono le somme e ricchissimi gli oggetti che il popolo, ammirato, vede sfilare davanti a sé: ventimila talenti, pari a oltre centoquindici milioni di lire, un gigantesco busto in oro di Mitridate, la dattilioteca del re del Ponto, vasi d'oro e d'argento, numerosissime pietre preziose, trentatrè corone di perle, tre statue d'oro raffiguranti Marte, Apollo e Minerva, un bozzetto d'oro rappresentante una montagna adorna di frutti, di cervi, di leoni e di tralci di vite. Numerosi e illustri sono i prigionieri che precedono il conquistatore: i capi dei pirati,
ARISTOBULO re dei Giudei, la sorella di Mitridate con cinque figli, la moglie del re d'Armenia, il figlio di Tigrane con la sposa e la figlia Viene infine, seguito da fanti, da cavalieri e dalle insegne delle legioni, sopra un carro tempestato di pietre preziose, POMPEO, trionfatore per la terza volta.

Dopo il trionfo e con l'appoggio del console AFRANIO, Pompeo propone che siano ratificati i provvedimenti presi in Asia; ma LUCULLO solleva delle difficoltà e il Senato, lieto di contrastare l'opera di Pompeo, rimanda ad altro tempo l'esame dei provvedimenti stessi. Allora Pompeo domanda che i suoi soldati, entrino in possesso di appezzamenti di terre, ma il Senato si mostra ostile. Pompeo si ostina, e fa presentare dal Tribuno L. FLAVIO la sua domanda. Il tribuno presenta il successivo anno (60 a.C.) una proposta di legge con cui chiede che le terre, prima comprate in forza della legge Sempronia e poi vendute, siano ricomperate e distribuite fra i veterani; che l'agro pubblico di Volterra e di Arezzo sia ripartito fra i cittadini poveri e che per l'applicazione della legge siano impiegate le rendite di cinque anni delle province d'Asia.
CICERONE sostiene la rogazione Flavia, ma l'eloquenza del celebre oratore è vana di fronte all'autorità del console METELLO CELERE (collega console di Afranio) che con un pretesto fa sospendere i comizi.

L'azione arbitraria del console irrita il tribuno che lo fa tradurre in carcere, dove Metello convoca il Senato e poiché i senatori non possono entrare nella prigione dalla porta che è custodita da Flavio, vi penetrano da una breccia appositamente praticata in un muro.
Stanno a questo punto le cose quando dalla Spagna torna GIULIO CESARE; torna con molto denaro e con il titolo d'"imperator"; il primo gli sarà più che sufficiente per pagare i creditori, il secondo gli è stato dato dalle legioni e confermato dal Senato per le sue vittorie contro i Lusitani; torna in fretta senza neppure aspettare l'arrivo del suo successore perché vuole essere a Roma prima della convocazione dei comizi consolari e presentarsi candidato per l'anno 59 a.C.
A lui gli appartiene per diritto il trionfo e rimane perciò fuori della città aspettando che il Senato gli notifichi il giorno della cerimonia, ma l'attesa si prolunga e le elezioni si avvicinano e CESARE, trovandosi fuori Roma, non può porre la sua candidatura in ossequio alle leggi.
CESARE chiede che sia dispensato dalla formalità di vestire la toga bianca e il Senato si riunisce per decidere, ma CATONE impedisce all'assemblea di pronunciarsi parlando contro la petizione di Cesare fino al tramonto, e Cesare a quel punto rinuncia al trionfo e, deposte le armi e le insegne, entra in città, accolto con vivissima simpatia dal popolo che al munifico edile di un tempo e al campione intelligente della democrazia riconosce ora altri meriti, quello delle vittorie ispaniche e quello della modestia.
Cesare si rende esatto conto delle condizioni politiche della città e si accorge che questo è il momento di agire per raggiungere i suoi scopi. La schiera dei suoi nemici ha perso i capi più temibili: Catulo è morto all'inizio dell'anno e Lucullo, stanco della politica, si è ritirato in campagna a godersi le immense ricchezze. Rimangono, è vero, Cicerone e Catone, ma il primo è un astro oramai tramontato e il secondo, pur godendo grande stima, non ha tale tempra da nuocergli un gran che.
Invece vi sono a Roma due uomini con cui egli è in eccellenti rapporti: CRASSO e POMPEO, il primo enormemente ricco, il secondo famoso per le sue imprese militari. Politicamente Crasso non è un tipo di uomo di cui si possa temere la rivalità bramando egli più l'aumento e l'impiego delle sue ricchezze che gli onori; POMPEO invece è molto ambizioso e può costituire un serio pericolo; ma ora lui è terribilmente avversato dagli ottimati e non gode la piena fiducia del popolo che comincia a sospettare di lui ed avendo perciò bisogno di aiuto non può essere per il momento un rivale di chi lo toglierà dall'imbarazzo.

CESARE pensa che l'oro dell'uno e la fama dell'altro potrebbero essergli d'immenso aiuto nella via in cui sta per mettersi. Egli non può offrire agli altri due che la sua popolarità e il suo genio; ma non di quello che può offrire egli si preoccupa, bensì di ciò che Crasso e Pompeo possono dargli, perché nella sua mente questi due sono destinati a fargli da sgabello per salire in alto e ad essere abbattuti dopo che l'avranno aiutato a impadronirsi del potere e a sbaragliare l'oligarchia.
Una sola difficoltà ostacola la lega che Cesare vagheggia e ritiene necessaria ai suoi scopi: il rancore che contro Pompeo nutre Crasso, il quale non ha dimenticato che l'ambizioso generale ha tolto a lui la gloria della vittoria nella guerra contro gli schiavi, ma Cesare è un tale uomo da superare difficoltà ben più grandi e si mette subito all'opera, e riesce a far sparire gli odi convincendo i due amici che, se divisi, si indeboliranno a vicenda in una lotta sterile, mentre se uniti formeranno una forza irresistibile, che darà loro il primato.
La Repubblica è così grande che dentro ci sarà posto abbastanza per le ambizioni di tre uomini e che non sarà una piccola cosa la parte di potere che a ciascuno di loro tre toccherà.

Ed ecco, per opera di Cesare, sorgere segretamente la lega che passerà alla storia col nome di "primo triumvirato". Ha programmi e scopi ben definiti; capeggiare la democrazia per fiaccare definitivamente la potenza degli ottimati; colpire poi la democrazia vittoriosa togliendole la repubblicana libertà e instaurare un triarcato assoluto.
Dal giorno in cui si costituisce la lega fra i tre uomini, nella libera terra di Roma si depone il seme da cui germoglierà la pianta gigantesca dell'impero.

IL PRIMO CONSOLATO DI CESARE

Nelle elezioni consolari di quell'anno (59 a.C.), CESARE è sicuro della riuscita; ma lui vuole una vittoria completa, vuole per collega uno della sua parte e tale che possa essergli ligio in ogni atto.
Scende pertanto nella lotta con L. Lucceio suo amico, uomo ricchissimo e privo di eccessive ambizioni. Ma la candidatura di quest'ultimo è duramente osteggiata dagli ottimati, i quali gli oppongono M. CALPURNIO BIBULO, già edile e pretore insieme con CESARE, e per assicurarne l'elezione spendono molto denaro, inducendo il severo Catone a fare altrettanto per riuscire a competere.

CESARE e BIBULO risultano eletti e non appena i nuovi consoli entrano in carica, inizia accanita la lotta del primo contro gli ottimati.
Uno dei patti del triumvirato contempla l'assegno delle terre ai veterani di Pompeo; uno dei mezzi con cui Cesare può accrescere la propria autorità presso il popolo è la distribuzione dell'agro pubblico ai cittadini bisognosi.
CESARE che non ha dimenticato lo scacco subito dalla rogazione ispirata a Servilio Rullo, e che deve mantenere i patti stabiliti con Pompeo, presenta un disegno di legge agraria. Chiede che ai veterani di Pompeo ed ai cittadini poveri sia ripartita la parte libera dell'agro pubblico e che se questa non è sufficiente si comprino terre con le rendite delle province asiatiche; chiede inoltre che i terreni distribuiti siano inalienabili per un ventennio e che la legge sia eseguita da una commissione di venti membri da cui sia escluso il rogante.
Cesare sottopone il suo disegno di legge al Senato, ma l'ostilità che esso incontra è grandissima.
Contro la rogazione parla CATONE, adottando il metodo che altra volta gli è riuscito, impedendo cioè con un lungo discorso che l'assemblea prenda una decisione. Cesare però non tollera ostruzionismi di sorta e, indignato, ordina che il suo ostinato oppositore sia messo in prigione. Questo provvedimento commuove il Senato; molti senatori solidali si alzano e seguono Catone che, obbedendo, sta per uscire dalla Curia, e a Cesare, che cerca di trattenerli, M. PETREIO dice sdegnosamente che preferisce stare con Catone nel carcere che non con Cesare nella Curia.
Cesare libera Catone e decide di portare la legge davanti ai comizi. BIBULO, pubblicamente interpellato dal collega, risponde che durante il suo consolato non vuole novità, ma CRASSO afferma che appoggia la rogazione e Pompeo assicura, che se gli avversari per impedire che la legge sia votata impugneranno la spada lui imbraccerà lo scudo.
Oramai gli animi sono così tesi che senza dubbio si ricorrerà alla violenza per fare approvare la legge agraria. Bibulo fa un ultimo tentativo mettendo di mezzo la religione. Avverte il collega, che nel giorno dei comizi lui guarderà il cielo, richiamando Cesare ad una disposizione che proibisce di discutere su pubblici affari quando Giove tuona o manda pioggia o un magistrato dichiara di guardare se piove o balena.
Ma è il secolo del naturalismo di Lucrezio e la religione non fa più presa sugli animi.
I comizi sono riuniti e il foro è pieno di veterani di Pompeo e di clienti dei triumviri armati.
Si prevede una giornata tempestosa. Ed ecco che appare BIBULO insieme con tre tribuni della plebe che parteggiano per il Senato. Il console, dalla scalinata del tempio di Castore e Polluce arringa la folla parlando contro la rogazione di Cesare, ma è interrotto dalle grida dei partigiani dei triumviri e, poiché il console vuol continuare, una turba di faziosi l'assale e lo precipita dalla scala. Grondante sangue, a stento può Bibulo ripararsi dalla furia degli avversari nel tempio di Giove Statore.
Non intimorito dalla sorte toccata al console, CATONE sale per ben due volte alla tribuna dei rostri per parlare al popolo, ma tutte e due le volte, è strappato dalla ringhiera.

Sedato il tumulto, si procede alla votazione ed è approvata la legge, che alcuni mesi dopo sarà integrata da un'altra che stabilirà la ripartizione dell'agro campano fra i cittadini poveri che siano padri di tre o più figli.
Il giorno dopo Bibulo chiede al Senato che sia abrogata la legge adducendo il pretesto che è stata votata senza gli auspici religiosi, ma il Senato, reso prudente dal contegno risoluto del popolo, respinge la richiesta e giura di osservare la legge. Solo CATONE si rifiuta e dichiara di preferire l'esilio, ma CICERONE lo scongiura di non partire, dicendogli che se lui può fare a meno di Roma, Roma non può fare a meno di lui; lo pregano insistentemente gli amici e sono tali e tante le preghiere che il fiero patrizio alla fine cede e giura anche lui, sebbene a malincuore, osservanza alla legge.

Dopo questa vittoria Cesare è l'arbitro della Repubblica; Bibulo, ritiratosi in casa sua, non prende più parte agli affari dello stato e i Romani dicono motteggiando che i consoli della Repubblica sono GIULIO & CESARE.
Cesare ora può governare a suo piacere senza il concorso del Senato. Gli basta il popolo e il popolo, non sapendo che volontariamente si è creato un padrone da cui non potrà più liberarsi, approva volta per volta tutte le proposte di Cesare.
Molte sono le leggi che Cesare presenta all'approvazione dei comizi: con la "lex Judia de rege Alexandriae" fa riconoscere sovrano d'Egitto ed alleato di Roma TOLOMEO AULETE; con la "lex Judia de publicanis asianis" fa dare agli appaltatori delle rendite d'Asia un terzo della somma dovuta allo stato, amicandosi il ceto dei cavalieri al quale i "pubblicani" appartengono; con la "ex Julia de actis Cnei Pompei" fa sanzionare i provvedimenti presi da Pompeo nell'Asia; con la "lex Julia de pecuniis repetundis" fa decretare che un proconsole non può tenere il governo di una provincia più di un biennio e un propretore più di un anno.
Nonostante le precise disposizioni di quest'ultima legge, CESARE fa proporre dal tribuno P. VATINIO che gli sia affidato per l'anno seguente il governo della Gallia Cisalpina e dell'Illiria con tre legioni per la durata di cinque anni.
Il popolo, come il solito, approva la legge e il Senato di sua iniziativa, non si sa bene perché, aggiunge il governo della Provincia Narbonese con una legione.
Lo stesso Vatinio, per consiglio di Cesare, propone che siano inviati a Como cinquemila coloni latini.
Avvicinandosi la fine del suo consolato dell'anno 58 a.C., CESARE pensa di rendere duratura la sua opera e la sua autorità proponendo a CRASSO e a POMPEO che nelle elezioni consolari e nelle tribunizie si facciano risultare persone di loro fiducia.
Siccome PUBLIO CLODIO aspira al tribunato, ma non può coprire una carica che spetta ai plebei essendo patrizio, Cesare escogita uno stratagemma, lo fa adottare dalla famiglia del plebeo P. FONTEIO, indi appoggia la candidatura dell'uomo che è stato l'amante di Pompea e lo fa uscire eletto.
Consoli per l'anno 58 a.C. sono AULO GABINIO, amico di Pompeo e CALPURNIO PISONE, suocero di Cesare. E Catone amaramente esclama: "Eccoti, o Repubblica, divenuta mezzana di matrimoni. Doni di nozze saranno i consolati e il governo delle province!".

Catone non esagera. Non è quello di Cesare con la figlia di Pisone il solo matrimonio politico: GIULIA, la bella e giovane figlia di Cesare, ha sposato POMPEO.

ESILIO E RITORNO DI CICERONE

Alla fine del 57 a.C. Cesare esce dalla città e rimane alle porte di Roma un paio di mesi in attesa di partire per la Gallia.
Nel nuovo anno consolare campeggia la figura di PUBLIO CLODIO, che inizia il suo tribunato secondo le istruzioni ricevute dai triumviri. Clodio è un fedele esecutore degli ordini di Cesare, ma è anche un ambizioso e mentre impiega la sua attività a servizio del triumvirato si prepara astutamente il terreno per raggiungere un'elevata posizione politica.
Mirando ad acquistare il favore della turba forense, fa approvare una sua legge framentaria che stabilisce distribuzioni gratuite di grano al popolo; per evitare i soliti ostruzionismi dei magistrati vieta a questi con una legge "de jure et tempore legum rogandarum" di osservare il cielo e prender gli auspici per i giorni destinati ai comizi e, allo scopo di assicurarsi l'ingresso nel Senato, con la legge "de censoria nozione" vieta ai censori di escludere dal Senato chi è stato rivestito di una magistratura e chi non è stato condannato con unanimità di voti. Dopo aver fatto approvare dalle tribù queste leggi, CLODIO rivolge la sua opera contro i suoi nemici personali e contro gli uomini che più duramente avversano il triumvirato.
Due illustri personaggi sono presi specialmente di mira: CICERONE e CATONE; il primo (lo abbiamo visto) ha deposto contro Clodio nel processo per lo scandalo durante i misteri della Bona Dea; il secondo è troppo fastidioso per la sua severità e la sua eloquenza, messe a servizio dell'oligarchia.
Nel febbraio del 56 Clodio presenta un disegno di legge ("de capite civis romani") in cui propone che sia condannato all'esilio quel magistrato che applichi la pena capitale contro un cittadino romano senza l'approvazione del popolo.
La legge ha effetto retroattivo ed è facile capire che è rivolta contro CICERONE.
Il grande oratore è assalito da un forte sgomento; il coraggio civile che sempre lo ha sostenuto ora gli viene a mancare di fronte ad una legge fatta apposta per colpirlo. Egli si veste a lutto, si mostra al popolo, prega gli amici, i cavalieri, i senatori, i consoli. Ma i consoli sono troppo legati a Clodio il quale a Gabinio ha fatto ottenere il governo della Siria e a Pisone quello della Macedonia. I senatori e i cavalieri, in verità, si interessano di lui, ma niente riescono ad ottenere. Solo CESARE e POMPEO possono aiutarlo, ma al primo è inutile rivolgersi perché in un'assemblea tenutasi alle porte della città ha
biasimato l'uccisione dei compagni di Catilina e non poteva non biasimarla lui che aveva proposto una più mite condanna; Cicerone ricorre dunque al secondo, ma POMPEO non si fa trovare in casa e ciò significa chiaramente che non vuole o non può interessarsi dell'avvocato di Arpino.
Allora Cicerone segue il consiglio di Catone che lo esorta ad allontanarsi dalla città e, messa sul Campidoglio una statua di Minerva, se ne va in volontario esilio.
Appresa la partenza del suo nemico, CLODIO propone un'altra legge, conseguenza logica della prima, con la quale condanna CICERONE a vivere lontano da Roma almeno quattrocento miglia e alla pena capitale chiunque lo ospiti a distanza minore dei limiti stabiliti. Cicerone si reca così a Tessalonica
Ma questo non è tutto. Clodio prima occupa, poi fa incendiare la sua casa sul Palatino e sul terreno dove sorgeva fa erigere un tempio alla libertà; i beni dell'oratore sono confiscati e messi all'incanto, ma sebbene con un prezzo di vendita bassissimo, nessuno - e questo è titolo di lode per i Romani - li vuole comperare.

Ora è la volta di CATONE. Nello stesso febbraio, CLODIO fa approvare una legge con la quale chiede che l'isola di Cipro sia dichiarata proprietà della Repubblica e sia sottratta a Tolomeo fratello del re d'Egitto, in virtù di un testamento, con il quale il re Alessandro lasciava l'isola in eredità a Roma.
Approvata la legge e deliberata l'occupazione di Cipro, si affida l'impresa a Catone che in ossequio alle leggi, pur non desiderando allontanarsi da Roma, ubbidisce e parte.
La vittoria di CLODIO è completa. Ubriacato dai facili successi e spinto dall'ambizione e dall'audacia a tentar nuove cose, ora che CESARE è lontano cerca di mettere a proprio profitto la situazione cui è pervenuto con l'appoggio del triunvirato.
CLODIO non vuole più essere una creatura dei triumviri e, poiché uno è in Gallia e dei due rimasti a Roma, solo Pompeo è il più pericoloso, contro questo rivolge la sua attività,
Per recare infamia a Pompeo libera dalla prigionia TIGRANE, figlio del re d'Armenia, e lo aiuta a fuggire, e siccome il pretore L. Flavio che l'aveva in custodia insegue il fuggiasco, Clodio gli manda contro sulla via Appia una banda armata che obbliga il pretore a tornare indietro.
Iniziata così la lotta contro Pompeo, Clodio la continua con grande vivacità tentando perfino di fare uccidere da uno schiavo il triumviro; il quale costretto a difendersi dagli attacchi del prepotente tribuno si accosta al partito degli ottimati, pur rimanendo fedele ai due compagni.
Effetto di questo riavvicinamento sono le pratiche fatte da Pompeo per il richiamo di Cicerone e i risultati delle elezioni consolare. Le prime non hanno esito felice. L. NINNIO con otto tribuni presentano una rogazione al Senato proponendo la revoca della condanna di Cicerone; ma sia l'una sia l'altra volta Clodio oppone il suo veto.
Le elezioni però alle magistrature per l'anno dopo (57 a.C.) riescono favorevoli al Senato e a Pompeo: infatti, sono eletti consoli P. CORNELIO LENTULO SPINTERO del partito degli ottimati e Q. CECILIO METELLO NEPOTE, sostenitore di Pompeo; ottengono la pretura amici dei senatori, eccetto APPIO CLAUDIO fratello di Clodio; lo stesso dicasi dei nuovi tribuni tra i quali è eletto T. ANNIO MILONE, creatura del Senato e uomo violento e senza scrupoli.
Al principio del 56 il nuovo console Cornelio Lentulo chiede al Senato che Cicerone sia richiamato dall'esilio ma un tribuno amico di Clodio si oppone. Un tribuno della parte degli ottimati di nome Q. FABRIZIO fa sua la proposta del console e decide di sottoporla al giudizio delle tribù nell'assemblea del 25 gennaio. Per meglio appoggiare, la sua rogazione e per resistere alle violenze degli avversari, si reca al foro con una schiera di gente armata, ma CLODIO e CLAUDIO vi hanno piazzato una banda più numerosa e nel conflitto che segue i primi hanno la peggio.

Questa lotta è solo il preludio d'altre violenze. CLODIO appicca l'incendio al tempio delle Ninfe per distruggere gli atti censori; accusato da Milone di violenza, con la violenza si sottrae al giudizio e provoca con il suo contegno la reazione di Milone, il quale, per non lasciarsi sopraffare, assolda una numerosa banda di faziosi con cui dichiara di voler proteggere il Senato, dalle prepotenze del suo nemico.
Il Senato allora convoca i comizi per il 4 agosto 56 a.C. e invita a parteciparvi tutti i cittadini romani che risiedono nella penisola e per proteggerli dalle violenze comminano pene severissime contro i disturbatori dell'ordine pubblico.
Questi energici provvedimenti fanno sì che l'assemblea si svolga senza incidenti e con un concorso enorme di cittadini che si pronunciano all'unanimità per il ritorno di Cicerone.

Da diciotto mesi il celebre oratore si trova lontano dalla patria. Partito da Brindisi nell'aprile dell'anno prima ha cercato rifugio in Sicilia e, non avendolo ottenuto; si è recato prima a Tessalonica poi a Durazzo. Sono stati mesi dolorosissimi per l'illustre uomo, che ha sofferto molto per la lontananza da Roma, dalla sposa, dai figli, dal fratello esposti alle ingiurie dei nemici.
"Cicerone - scrive Plutarco - passava la maggior parte del tempo nel più grande dolore, quasi nella disperazione, intento a guardare verso l'Italia come potrebbe fare un amante infelice". Quando gli giunge la notizia della decisione del Senato, sicuro del voto favorevole dei comizi, senza perdere tempo, lascia la terra straniera e fa vela verso l'Italia. A Brindisi, dove sbarca il 5 agosto, con la figlia Tullia, recatasi ad incontrarlo, trova una grande accoglienza ed apprende che un milione ed ottocentomila cittadini hanno votato per il suo ritorno. È questo il giorno più felice dell'esule. Accompagnato da una numerosissima scorta, prende il cammino per Roma. Nelle città dove passa le popolazioni festanti l'acclamano; il suo è un viaggio trionfale.

Il 4 settembre CICERONE fa il suo ingresso a Roma per la porta Capena. Al suo passaggio fitte ali di popolo plaudono freneticamente; le scalinate dei templi sono gremite di gente che saluta e urla la sua gioia nel rivedere l'illustre patriota; il foro è tutto un oceano di teste. È così enorme la calca che i littori debbono aprire il passo all'oratore fino al Campidoglio dove ad aspettarlo sono magistrati, senatori e cavalieri.
Il 5 e il 6 settembre CICERONE davanti al Senato e al popolo pronuncia due magnifiche orazioni "post reditum"; poi con un'orazione "de domo sua ad pontifices" chiede che gli sia restituita l'area dove sorgeva la sua casa e subito ottiene più di quel che domanda perché il Senato decreta che la casa gli sia ricostruita a spese della Repubblica e gli sono concessi settecentocinquantamila sesterzi in risarcimento dei danni patiti.

Più tardi CLODIO cercherà di amareggiare il ritorno del suo acerrimo nemico, molestando gli operai intenti a ricostruire la casa di Cicerone, facendolo insultare ed aggredire nelle vie di Roma dai suoi sgherri, insinuando che i mali della città attribuiti dagli aruspici all'ira divina sono causati dalla profanazione del tempio della Libertà; più tardi CICERONE inveirà contro Clodio nell'orazione "De haruspicum responsis", nella difesa di Sestio ("pro Sextio"), nell'orazione contro il clodiano Vatinio ("in Vatinium testem") e sfogherà tutta la sua acredine contro Clodia, sorella del suo nemico e amante del poeta Catullo, nella concitata orazione "pro M. Coelio".

Ora però il gran CICERONE non vive che del suo trionfo, non ricorda che le accoglienze della patria, non sogna che nuovi allori, desidera solo essere utile al suo paese e forse, soddisfatto e convinto, ripete in segreto le parole pronunciate circa tre lustri prima
"cedano le armi alla toga e gli allori della guerra si genuflettano davanti ai. trofei dell'eloquenza".

Cicerone è dunque grato a Pompeo, e ora lo sostiene, perché il triumvirato con Pompeo stesso, sta entrando in crisi. Il ricco CRASSO, si era tenuto e si tiene ancora in disparte dal potere, ma ha ottimi rapporti con CLODIO, che come abbiamo visto, sta facendo di tutto per screditare e abbattere POMPEO.

Tutto questo mentre il terzo triumviro, GIULIO CESARE, nella Gallia, sta cogliendo successi a ripetizione, sta preparando con il suo devoto esercito, la sua fortuna.
Gli è quindi utile la crisi dei due suoi colleghi, gli è utile Clodio che li sta mettendo contro, e gli sono utili diversi senatori e cavalieri, che iniziano ad avere molte simpatie per l'eroe della Gallia.

Passiamo dunque al prossimo capitolo, che é pieno di eventi politici
e siamo alla vigilia della GUERRA CIVILE

…il periodo dall'anno 57 al 49 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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