MARIO E SILLA - LE STRAGI MARIANE - MORTE DI MARIO

MITRIDATE, RE DEL PONTO; SUE IMPRESE IN ASIA - ROMA INTERVIENE - ARCHELAO IN GRECIA - PUBLIO SULPICIO RUFO - LA GELOSIA FRA MARIO E SILLA - SILLA MARCIA SU ROMA - FUGA DI MARIO - II CONSOLE CORNELIO CINNA - MARIO E CINNA RICONQUISTANO ROMA - LE STRAGI MARIANE - LA MORTE DI MARIO
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MITRIDATE, RE DEL PONTO

Roma era appena uscita dalla "guerra sociale", che già in un'altra fu costretta ad entrarci per difendere i suoi domini d'Oriente da un ambizioso (non poco) e spietato MITRIDATE VI.

Suo padre, Mitridate V, lo aveva lasciato dodicenne quando, nel 120 a.C., era morto, e il figlio, malvisto dai fratelli più grandi e trascurato dalla madre, preferì o fu costretto ad allontanarsi e a vivere per sette anni nei boschi fra le più aspre lotte con le belve e le più dure fatiche.

Ritornato in patria 18 enne, nel 114, aveva trucidato la madre ed alcuni suoi fratelli e si era impadronito del regno. Di spirito bellicoso e ambiziosissimo aveva, in incognito, visitata buona parte dell'Asia ed aveva concepito il vasto disegno di conquistarla per diventarne il Re. Per raggiungere questo scopo -si era ripromesso- avrebbe usato qualsiasi mezzo, anche il delitto. Era, infatti, spregiudicato e di istinti malvagi. Secondo quello che di lui si narra, oltre la madre e i fratelli, aveva ucciso le sorelle che teneva come mogli, aveva messo in prigione sei dei suoi figli, aveva fatto trucidare le sue amanti, compresa una bellissima donna di Efeso che era la sua favorita, e, temendo di essere avvelenato, aveva abituato il suo organismo ai più potenti veleni.

Concepito il grande piano di come estendere i suoi domini, Mitridate aveva mosso guerra agli Sciti del Mar Nero, e si era procurato amicizie e parentele. A TIGRANE, re di Armenia, aveva dato in moglie la figlia Cleopatra; stretta alleanza con NICOMEDE II di Bitinia, aveva conquistato la Paflagonia, poi si era rivolto contro la Cappadocia facendo uccidere suo cognato il re Ariararte da un certo GORDIO e, nonostante i dissensi nati con Nicomede che era genero del morto re per averne sposata la figlia CLEONICE, aveva messo sul trono il figlio dell'ucciso che aveva lo stesso nome del padre ARIARARTE. Avendo questi voluto scuotere il giogo che il re del Ponto sotto forma di protezione gli aveva imposto, MITRIDATE lo aveva ucciso di sua mano e aveva messo sul trono della Cappadocia uno dei propri figli di appena otto anni.

Preoccupata dell'operato del re del Ponto, Roma, non potendo più rimanere spettatrice impassibile di tante usurpazioni, aveva inviato il propretore SILLA in Asia con l'incarico di liberare la Paflagonia e la Cappadocia.
SILLA aveva eseguito gli ordini della Repubblica e, liberata la Paflagonia, nel 92 a.C. aveva posto sul trono della Cappadocia ARIOBARZANE; ma, partito il propretore, dietro consiglio di Mitridate, TIGRANE di Armenia, mosse contro Ariobarzane, lo aveva scacciato dal regno e SOCRATE CRESTO, figlio di NICOMEDE II, aveva spodestato il fratello Nicomede III, successo al regno di Bitinia dopo la morte del padre.
Roma, rimasta fino allora dubbiosa sui sentimenti di Mitridate, per accertarsi della sua fedeltà, gli aveva mandato MARIO AQUILIO affinché invitasse il re ad unirsi con il pretore L. CASSIO che era stato incaricato di rimettere sul trono Ariobarzane e Nicomede; Mitridate però si era rifiutato ed aveva lasciato che i Romani con le loro sole forze si adoperassero per far ritornare lo scettro nelle mani degli spodestati.
Questo non era riuscito difficile a L. Cassio e Mario Aquilio. Quest'ultimo, notissimo per la sua avidità, aveva chiesto un compenso in denaro a Nicomede III e non avendo il re di Bitinia la somma richiesta, per procurarsela aveva, su consiglio di Aquilio, invaso il reame del Ponto (vedremo più avanti poi come fu spietatamente punita l'avidità di Aquilio)

Le proteste di MITRIDATE al Senato romano, erano state inutili. Per non perdere il regno, aveva preso le armi e, lieto di aver trovato un pretesto per mettere in atto il suo disegno di conquiste, aveva dichiarato guerra alla Repubblica ed alla Bitinia.
I suoi successi erano stati rapidi e notevoli. Respinto Nicomede, era penetrato nella bitinia e, dopo una vittoria ottenuta all'Annianto, si era impadronito di quel regno; sconfitto poi sul Meandro il pretore Cassio, Mitridate, per mezzo del suo esercito forte di duecentocinquantamila fanti e quarantamila cavalli, si era in poco tempo impadronito di tutta l'Asia Minore, accolto ovunque dal favore delle popolazioni alle quali il malgoverno dei pretori e l'ingordigia dei "pubblicani" avevano reso odioso il nome di Roma.

Politico accorto, Mitridate non aveva voluto dai suoi nuovi sudditi i tributi arretrati e, fatta capitale del vasto impero Efeso, aveva ordinato di uccidere tutti i Romani e gli Italici residenti nei suoi territori. Quasi centomila persone erano perite con quest'ordine. L'avaro e avido d'oro, AQUILIO, che dopo la sconfitta sul Meandro era fuggito a Mitilene, riconsegnato a Mitridate, era stato dietro suo ordine, prima legato ad un palo con un malfattore, poi trasportato sopra un asino ad Efeso e qui ucciso in un modo singolare: fu costretto ad ingoiare dell'oro fuso in punizione della sua ingordigia.

Diffusasi la notizia delle vittorie del re del Ponto, la Grecia e le isole dell'Egeo, Rodi eccettuata, le quali mordevano il freno, lo avevano salutato liberatore e MITRIDATE, nel cui animo con i successi crescevano gli appetiti e l'ambizione, aveva mandato con una flotta potente ARCHELAO ad occupare le coste dell'Egeo, il figlio contro il governatore romano C. SENZIO e il filosofo ARISTIONE a sollevare Atene. Ed Atene, imitata dall'Acaia e dalla Beozia, era insorta e, nominato Aristione comandante delle milizie cittadine, aveva trucidato tutti i Romani che risiedevano entro le sue mura.
Re di un piccolo stato, MITRIDATE era in pochissimo tempo riuscito a strappare tante terre alla più potente nazione del mondo, aiutato dalla fortuna e dalla sua audacia. Divenuto padrone di un vastissimo regno, ora lui sognava di attirare a sé le popolazioni del Mar Nero, marciare con un esercito poderoso verso occidente e scendere dalle Alpi su Roma traducendo in realtà il grandioso piano ideato da Annibale negli anni del suo esilio.

MARIO E SILLA

Nell'anno 88 a.C. erano consoli QUINTO POMPEO RUFO e LUCIO CORNELIO SILLA. A quest'ultimo il Senato diede il governo della guerra contro Mitridate, suscitando l'invidia di Mario.
Il vincitore dei Cimbri, che durante la guerra sociale era stato tenuto in poco conto dal Senato, il quale non sapeva perdonargli il passato democratico e l'alleanza con Saturnino e Glaucia, sebbene canuto per gli anni (69) aveva ancora brama di gloria e sete di comando. Con l'inferno nell'anima egli vedeva crescere gli onori di cui era colmato SILLA, quel Silla cui tanto merito gli era attribuito per le guerre contro Giugurta, i Cimbri e gli Italici; e poiché i suoi avversari giustificavano la scelta di Silla ricordandogli la sua vecchiaia, l'eroe, ogni giorno in Campo Marzio ostentava la sua forza e la sua agilità prodigandosi in esercizi ginnici.
Volendo ad ogni costo strappare al giovane ed odiato rivale l'onore di dirigere la guerra mitridatica, Mario si servì dell'opera di un uomo con una tristissima fama. Era questi PUBLIO SULPICIO RUFO, notissimo a Roma, come valente oratore, ma anche per la sua avidità e per i suoi debiti che, al dir di Plutarco, ammontavano a tre milioni di dramme.

RUFO era tribuno della plebe. Accordatosi con Mario, che gli aveva promesso il pagamento dei debiti con le prede d'Asia se gli avesse fatto ottenere il governo della guerra, cominciò a creare fastidi agli ottimati presentando delle leggi con le quali proponeva che i liberti e gli Italici cui era stata concessa la cittadinanza fossero distribuiti in tutte le trentacinque tribù, che fossero richiamati tutti coloro che in forza della legge Varia erano stati mandati in esilio e che fossero espulsi dalla Curia tutti quei Senatori con più di duemila denari di debiti.
SILLA acquartierato al campo di Nola, informato dei disegni di legge del tribuno, corse a Roma e per impedire la votazione insieme con il collega intimò le "feriae imperativae"; ma il popolo, sobillato da Rufo, si levò a tumulto, fu ucciso il genero di Silla, che era figlio dell'altro console, e, se è vero quel che scrive Plutarco, Silla medesimo riuscì a salvarsi rifugiandosi nella casa di Mario che lo costrinse a togliere subito le "feriae".
Fu così che si poté procedere alla votazione delle "leggi Sulpicie".
Il tribuno, essendo Silla tornato all'assedio di Nola, terminato il quale doveva recarsi contro Mitridate, fece emanare dal popolo un decreto con il quale si toglieva a CORNELIO SILLA il governo della guerra mitridatica e si affidava a MARIO con il titolo di proconsole; e perché il decreto avesse pronta esecuzione furono inviati a Nola due tribuni militari con l'incarico di prendere in consegna l'esercito che constava di trentacinquemila uomini.

SILLA però non era uomo da lasciarsi togliere impunemente il comando e patire un'angheria simile. Radunati i soldati l'informò dell'offesa ricevuta dal popolo, disse loro che anche l'esercito era stato offeso da quelli che lo avevano voluto privare del legittimo capo, prospettò il danno che a loro cagionava il decreto poiché Mario avrebbe diviso con i suoi partigiani la gloria e il bottino; e fu così eloquente che le truppe, le quali amavano moltissimo il proprio capitano, accolsero a sassate i malcapitati tribuni inviati a prendere in consegna l'esercito, e ad un segnale di Silla marciarono su Roma.
Durante il cammino si unirono all'esercito sillano le legioni del console POMPEO RUFO e Roma fu sgomenta all'annunzio che i due eserciti consolari si avvicinavano. Questo a Roma non era mai accaduto, salvo la breve impresa di Coriolano nel 491 anno di Roma (ma fra poco diventerà una prassi dei potenti generali, quella di marciare sulla propria capitale).

Fu inviata dal Senato l'intimazione di arrestarsi, ma SILLA rispose e protestò di voler liberare la città dai demagoghi e dai turbolenti; tornarono i senatori a intimargli di non procedere oltre le cinque miglia dalla città e SILLA rispose ironicamente che avrebbe obbedito se lo avesse potuto fare, e intanto continuò ad avanzare e, giunto sotto le mura di Roma, occupò le porte Collina ed Esquilina. Era l'anno 87 a.C.

L'esempio di Coriolano dopo tanti anni aveva un imitatore.
Nel momento del pericolo MARIO e SULPICIO chiamarono alle armi i cittadini, ma i Senatori e i cavalieri non risposero all'appello; tuttavia riuscì al vincitore di Giugurta di riunire un certo numero di armati, che, dislocati nel perimetro interno delle mura, accolsero a sassate i legionari di SILLA, che a quel punto ordinò l'assalto alla città e i soldati, appiccato il fuoco ad alcune case di un quartiere, riuscirono a penetrare in Roma.
Il combattimento diventò violento sull'Esquilino e sulle prime i soldati di Silla furono respinti ma, avendo una schiera, preso alle spalle i difensori, questi furono costretti a sgombrare la posizione che tanto valorosamente avevano fino allora difesa.
Roma era in potere dell'esercito consolare e MARIO e SULPICIO a stento riuscirono a salvarsi con la fuga.
Padrone della città, CORNELIO SILLA dà corso a repressioni sanguinose del partito democratico e degli Italici ribelli e ad ampie prescrizioni per eliminare gli avversari: tra i pochi che osano tenergli testa, si distingue un giovane 18enne: GAIO GIULIO CESARE.
SILLA fece condannare a morte dal Senato tutti i capi della democrazia, primi fra tutti i due contumaci MARIO e SULPICIO.
Quest'ultimo si era rifugiato a Laurento. Un suo schiavo, nella speranza di ottenere come premio la libertà, uccise il padrone. La libertà gli fu concessa, ma il traditore non la godette perché, per ordine di Silla, sotto l'accusa d'infedeltà al proprio padrone fu precipitato dalla Rupe Tarpea.

Mario invece riuscì a scampare.
Romanzesche sono le avventure della sua fuga. Raggiunta Ostia, salì sopra una navicella e fece vela per l'Africa, ma colto da una furiosa tempesta, dovette approdare a Terracina. Spie e soldati erano stati sguinzagliati da per tutto per acciuffare il fuggiasco e fu un vero prodigio dei suoi dei se il vecchio guerriero riuscì, dopo molti pericoli e numerose vicende, sfuggire agli inseguitori e giungere alla capanna di un boscaiolo, il quale, impietosito, lo nascose in un fosso presso una palude. Ma quel nascondiglio non presentava nessuna sicurezza a Mario. Il bosco era battuto dai servi di un tal GEMINIO, di Terracina, nemico giurato dell'eroe, che un giorno, udito uno scalpitare di cavalli, si buttò nelle acque della palude e si sarebbe salvato a nuoto se non fosse stato scoperto dai segugi del suo nemico.

Tratto fuori dello stagno, l'infelice Mario con una fune al collo fu trascinato fino alla città di Minturno, e qui, nell'attesa che giungessero ordini da Roma, fu chiuso in casa d'una certa FANNIA. Giunto dal Senato l'ordine di metterlo a morte, non si trovò nessuno a Minturno che aveva coraggio di uccidere un così illustre uomo. Solo un cimbro si offrì di fare da carnefice. Penetrato il barbaro di notte nella stanza in cui Mario dormiva, aveva già alzato il ferro e stava per colpirlo, quando il vecchio guerriero, improvvisamente svegliatosi e visto l'assassino in atto di vibrare il colpo, fissandolo negli occhi, fieramente, gli disse: .
"Sciagurato ! Oserai tu dunque uccidere Mario?"
Atterrito dalla voce e dallo sguardo dell'eroe, il Cimbro gettò via il ferro e si allontanò. Gli abitanti di Minturno allora decisero di lasciar libero Mario e lo accompagnarono con doni fino alla riva. Rimessosi in mare, il fuggiasco, essendo rimasto privo d'acqua, fu costretto ad approdare in Sicilia. Perseguitato anche là, fece ancora vela e appreso che il figlio si trovava alla corte di JEMPSALE in Numidia, diresse la prua verso l'Africa.
Approdò nel golfo di Tunisi, dove un giorno sorgeva Cartagine; ma non finirono lì le sue vicende. Avuta notizia dello sbarco del fuggiasco, il pretore romano del luogo gli intimò per mezzo di un suo ufficiale di partire immediatamente dalla provincia.
All'ufficiale andato a comunicargli l'ordine si narra che il guerriero rispose: "Dirai a colui che ti ha mandato di aver visto Mario seduto sulle rovine di Cartagine".
Il vincitore di Giugurta non ebbe il tempo di recarsi alla corte numidica.
Qui Jempsale, tradendo l'ospitalità, stava per consegnare il figlio di Mario nelle mani dei nemici del padre. Chi lo salvò fu un'amante del re, la quale, accesa d'amore per il giovane romano, lo aiutò a fuggire.
Raggiunto il padre sulla costa d'Africa, si mise con lui sopra un piccolo naviglio e fecero rotta per l'isola di Cercina.

LE STRAGI MARIANE

Mentre Mario cercava per terra e per mare un rifugio, SILLA a Roma faceva abrogare le leggi Sulpicie ed abbatteva la democrazia.
Anche nelle elezioni consolari per il l'anno 87 a.C. Silla avrebbe voluto esercitare la sua prepotente autorità, ma fidandosi nella riforma delle centurie che favoriva l'aristocrazia lasciò che le elezioni procedessero regolarmente. Grande però fu la sua stizza quando, accanto a CNEO OTTAVIO, candidato degli ottimati, riuscì eletto al consolato L. CORNELIO CINNA, amico di Mario.
Silla si oppose, poi obbligò Cinna a giurargli di non far nulla contro di lui durante la sua assenza e partì per l'Asia in guerra contro Midridate.
Cinna però non mantenne il giuramento ed appena colui che glie l'aveva imposto lasciò l'Italia propose che fosse rimessa in vigore la "legge Sulpicia" sulla cittadinanza degli Italici e di richiamare dall'esilio coloro che erano stati proscritti da Silla.
Giunto il giorno della votazione alcuni tribuni, che parteggiavano per gli ottimati, posero il veto e CINNA stava per ricorrere alla violenza quando l'altro console OTTAVIO si presentò nel foro alla testa di una numerosa schiera di sillani e sbaragliò sanguinosamente gli avversari costringendo il collega a darsi alla fuga.

Il Senato proscrisse CINNA e, dichiaratolo decaduto dal consolato, senza neppure consultare i comizi elesse in sua vece da un "suffectus": L. CORNELIO MERULA.
Intanto CINNA percorreva il Lazio e la Campania dicendosi vittima del Senato per non aver voluto favorire la causa degli Italici e ottenute in poco tempo le simpatie degli alleati raccoglieva uomini e denari per tentare la riscossa. Recatosi poi nei pressi di Nola, riuscì a trarre dalla sua parte l'esercito di Silla lasciato in Campania sotto il comando del propretore APPIO CLAUDIO e, radunate - secondo quel che scrive Appiano - trenta legioni, marciò verso Roma. Per via si aggiunse a lui MARIO, che da Cercina, conosciuti gli avvenimenti, era giunto prontamente in Italia e sbarcato a Telamone si era dato a radunare gente. Mario, che conduceva all'amico circa seimila uomini, fu nominato proconsole e destinato a bloccare Roma dalla parte del mare.
CINNA con i luogotenenti Sertorio e Carbone, andò verso la città e fece accampare le sue truppe di fronte al Gianicolo e sulla riva sinistra del Tevere.

Il Senato prima ancora dell'arrivo di Cinna, aveva richiamato a Roma gli eserciti di POMPEO STRABONE e di METELLO PIO che si trovavano uno nel Sannio, e l'altro nel Piceno. Ma Metello, data la minacciosa situazione del Sannio, non ritenne opportuno togliere le sue truppe da quella regione e tornò solo a Roma; POMPEO vi giunse con l'esercito e si accampò fuori la porta Collina.
Ma la presenza di Strabone non intimorì Cinna e i suoi compagni, anzi la condotta di lui fiacca ed equivoca fece precipitare gli avvenimenti. Al primo assalto dell'esercito di Cinna moltissimi soldati di Pompeo passarono nel campo opposto e si dovette al contegno energico del giovane Pompeo, figlio di Strabone, se tutto l'esercito non disertò.
Non passò molto che Strabone, colpito dalla pestilenza, che era scoppiata in Roma, o da un fulmine, come altri affermano, morì e il suo esercito fu condotto sul monte Albano affinché non facesse causa comune con gli avversari; METELLO PIO, lasciata la città, si rifugiò in Liguria e Roma rimase alla mercé di Cinna.
Allora il Senato mandò ambasciatori per trattare la resa, ma CINNA volle prima che fosse restituito al consolato e che MERULA fosse deposto, poi senza promettere, come il Senato aveva chiesto, clemenza ai partigiani di Silla, entrò a Roma alla testa delle sue legioni.
Mario non entrò, esclamando con ironia: "Entrare in Roma non è permesso a me povero proscritto !".
All'inizio del 86 a.C. fu immediatamente convocata l'assemblea per togliere il bando al vincitore dei Cimbri; ma questi non aspettò la fine della votazione e mise piede in Roma per riempirla delle sue vendette.

Per cinque giorni e per cinque notti infuriò la strage. Si uccideva nelle vie, si sgozzava nelle case, si scannava nei templi, senza processo o con una larva di processo che finiva sempre con una condanna. Mario era divenuto una belva assetata di sangue umano. Nel sangue, in meno di una settimana, affogava la gloria conquistata in tante battaglie e il vecchio ormai settantenne si copriva. d'ignominia.
SILLA fu dichiarato nemico della patria, i suoi parenti ed amici a Roma furono uccisi o banditi, i cittadini più autorevoli caddero vittime della vendetta più spietata.
Il console CNEO OTTAVIO anziché fuggire aspettò impassibile, seduto sulla sedia curule rivestito delle insegne consolari; i carnefici, per la prima volta, tagliarono e appesero ai rostri la testa di un console. Altra testa mozzata fu quella di MARCO ANTONIO che fu portata a Mario mentre era seduto a mensa e l'accolse con grandissima gioia come se si trattasse di una portata.
Caddero sotto il ferro che non perdonava Lucio Giulio Cesare e il fratello Cajo, Lucio Crasso e Quinto Lutazio Catulo che insieme, con Mario aveva combattuto ai Campi Raudii e con lui aveva avuto il trionfo. Gli amici intercedevano per lui, ma, ebbro di vendetta, il vecchio rispondeva inesorabilmente sempre: "Deve morire !".
MERULA, non volle aspettare che gli sgherri dei vincitori lo trucidassero, si uccise svenandosi; ANCARIO, gettandosi ai piedi di Mario presso un altare del Campidoglio, implorò misericordia, ma per tutta risposta il feroce nemico diede l'ordine di scannarlo.

Quando Roma rosseggiò sinistramente delle stragi mariane si acquietò l'ira delle belve e fu ordinato che gli eccidi terminassero, ma gli Etruschi raccolti da Mario continuarono a fare scorrere il sangue e Sertorio fu costretto a circondarli con una schiera di Galli e massacrarli. Mario aveva arruolati molti schiavi e questi chiedevano ad alta voce di esser pagati, ed ottennero l'unico pagamento che in quei giorni Mario a piene mani sapeva dare: furono tutti adunati nel foro poi ad un segnale ferocemente trucidati.
Quando la sete di vendetta fu estinta MARIO e CINNA si fecero eleggere consoli. Era questo il settimo consolato del vecchio guerriero di Arpino. Ma non ebbe il tempo di goderlo.

LA MORTE DI MARIO

Nasceva intanto l'anno 86 e spuntavano nell'orizzonte della vita di MARIO i rimorsi più terribili. Colpito dalla febbre, il vecchio mostro fu per una settimana in preda a delirio e, maledetto da tutti, morì settantenne il 15 gennaio di quello stesso anno.
I suoi sostenitori vollero fargli splendidi funerali e per renderli più solenni, il feroce CAIO FIMBRIA, che era stato uno dei più attivi e crudeli esecutori delle stragi, propose che sulla tomba del console fosse sacrificata una vittima umana!
Fu scelto per l'orrenda immolazione il pontefice massimo QUINTO MUZIO SCEVOLA e il suo sangue arrossò le barbare esequie; l'infelice da un maldestro improvvisato boia, fu solo gravemente ferito, e soffrendo nell'attesa della morte fu perfino rimproverato da Fimbria accusandolo di non essersi lasciato scannare bene.

Morto Mario, CINNA diede nello stesso anno 86, il consolato a L. VALERIO FLACCO e lo spedì (con il feroce Caio Fimbria, citato sopra) in Oriente con l'incarico di condurre la guerra contro Mitridate e di togliere il comando a SILLA, indicato a Roma dai seguaci del defunto Mario quale nemico pubblico (ma Flacco, giunto poi in Oriente invece di assalire Silla, si dedicherà alle operazioni militari contro il re del Ponto entrando (!?) poi in Asia Minore - come vedremo più avanti).
Rimasto a Roma, CINNA vi governò incontrastato per ben quattro anni, fornendo prova della sua incapacità. Non fece mai riunire i comizi, designò ed elesse i suoi colleghi senza neppure interpellare il popolo; pur essendo di parte democratica nulla seppe fare per il bene del popolo, verso il quale spesso agì da tiranno; non seppe formarsi una salda piattaforma politica e costituire accanto a sé un partito, né, infine, fu capace di abbattere completamente il partito avversario perché molti nemici gli sfuggirono di mano come L. METELLO che riuscì a riparare in Africa.
L'esercito che poteva e doveva sostenerlo nel momento del pericolo non fu curato e la sua indisciplina doveva essergli fatale.
Per tutti questi motivi, non doveva riuscire difficile a SILLA, di ritorno dall'Asia Minore, di sgominare in Italia e a Roma in particolare, i seguaci e successori di CINNA e i "Mariani".


SILLA al suo ritorno in Italia fece questo e ben altro.
Lo leggeremo nel prossimo riassunto

...il periodo dall'anno 86 al 78 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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