LA 2a GUERRA SERVILE, DEGLI ALLEATI ITALICI - LA CITTADINANZA

LA SECONDA GUERRA SERVILE IN CAMPANIA E IN SICILIA - SALVIO ED ATENIONE - IL TRIONFO DELLA DEMAGOGIA - SATURNINO E GLAUCIA - SESTO CONSOLATO DI MARIO - ASSASSINIO DI L. NONIO E C. MEMMIO - MORTE DI SATURNINO E GLAUCIA - M. LIVIO DRUSO- LA GUERRA DEGLI ALLEATI - CORFINIO CAPITALE D'ITALIA - STRAGE DI ASCOLI - GLI ITALICI CONQUISTANO LE COLONIE ROMANE - PAPIO MUTILO E POMPEDIO SILONE - BATTAGLIA DEL TOLENO - MARIO E SILLA NELLA GUERRA CONTRO GLI ALLEATI - LA CITTADINANZA ROMANA AGLI ITALICI FEDELI - POMPEO STRABONE SCONFIGGE GLI ALLEATI AD ASCOLI - MORTE DI PAPIO MUTILO E DI POMPEDIO SILONE- Q. METELLO IL PIO
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LA SECONDA GUERRA SERVILE

Nello stesso anno 104 a.C., quando CAIO MARIO, otteneva il suo secondo consolato, e si preparava per andare a ridurre all'obbedienza i Tettosagi ed alla frontiera della Provincia Narbonese allenava le sue truppe per le future battaglie contro i barbari, scoppiava in Italia la seconda guerra servile.

La scintilla partì dalla rivolta dall'Italia centrale: TITO VEZZIO, cavaliere campano, avendo ucciso i suoi creditori, armò i propri schiavi e, fortificatosi in una località facile ad esser difesa, riuscì a radunare circa tremila e cinquecento schiavi della Campania.
Contro di lui fu inviato il pretore QUINTO LICINIO LUCULLO al quale riuscì a corrompere uno degli uomini di Vezzio e di procurare a quest'ultimo la morte.
Ma se facile fu la repressione della rivolta degli schiavi in Campania, lunga e difficile fu la guerra che la repubblica dovette sostenere per domare gli insorti della Sicilia.
Aveva il re NICOMEDE di Bitinia protestato presso la repubblica perché i "pubblicani" reclutavano nel suo regno uomini liberi con promesse di lavoro e di guadagni in Italia, ma poi condotti nelle province, i malcapitati li vendevano come schiavi.

Questa protesta aveva provocato un decreto del Senato con il quale s'ingiungeva ai governatori di rimettere in libertà tutti coloro che nel modo suddetto erano stati ridotti in schiavitù.
PUBLIO LICINIO NERA, pretore della Sicilia, in ottemperanza all'ordine senatoriale restituì in pochissimo tempo la libertà a circa ottocento schiavi; ma poi, tormentato e intimorito dalle minacce dei padroni oppure comprato con l'oro da questi, interruppe bruscamente l'opera di giustizia che aveva così bene iniziata.
Questo fatto fu la causa della rivolta che doveva durare fino al 101 a.C. Molti schiavi che vivevano a Siracusa fuggirono nel bosco sacro agli dei Palici, altri d'altri paesi li raggiunsero dopo avere ucciso i loro padroni. Sull'isola si precipitò con le milizie per sottometterli il pretore LICINIO NERVA e, non potendo avere ragione della loro resistenza, ricorse al tradimento.
Si mise d'accordo con un certo C. TITINIO soprannominato "Gadeo", il quale, condannato a morte per certi suoi delitti, si era ridotto a vivere alla macchia. Con un manipolo di banditi TITINIO unitosi agli schiavi, carpita la loro fiducia, eletto perfino loro capo, introdusse nelle fortificazioni dei ribelli i soldati del pretore. Molti degli schiavi furono uccisi, altri trovarono la morte anziché lo scampo nella fuga, ed altri i più miti, ridotti al precedente stato.

Ma la rivolta domata a Siracusa, scoppiò poi più terribile in altri luoghi. Numerosi schiavi si radunarono e si fortificarono sul monte Capriano (oggi Rifesi, presso Bivona). Contro di loro NERVA mandò il solito TITINIO con alcune schiere alle quali furono aggiunti seicento soldati del presidio di Enna, ma nella battaglia che ne seguì questi ebbero la peggio: buona, parte rimase uccisa, i superstiti abbandonate le armi fuggirono.
Ovviamente aumentò, dopo questo successo, il numero e l'audacia dei ribelli, che elessero come loro capo un certo SALVIO, suonatore di piffero. Questi riuscì a raccogliere intorno a sé circa ventimila schiavi, organizzò una cavalleria numerosa, raccolse armi e bestiame, poi con il suo esercito marciò alla volta della città di Murganzia.
Sorgeva questa sulla sommità di un monte. SALVIO, lasciati alla base i bagagli sotto la custodia di pochi uomini, salì con il grosso dei suoi sulla cima e cinse d'assedio la città, in soccorso della quale corse NERVA con un esercito il cui numero si fa ascendere a centomila uomini.
NERVA ebbe prima facilmente ragione dell'esiguo numero di ribelli rimasti a custodire il campo, poi iniziò l'ascesa delle pendici del monte per prendere alle spalle gli assedianti; ma la strada irta com'era, per giungere alla sommità non era facile, e i ribelli favoriti dalla posizione dominante, assalirono con tale impeto i Romani da ricacciarli e sbaragliarli prima che raggiungessero la cima.

SALVIO però aveva ordinato di non uccidere chi abbandonava le armi. Questo spiega lo scarso numero dei soldati romani uccisi o fatti prigionieri; infatti, nell'attacco, solo seicento uomini di Nerva lasciarono la vita e quattromila furono catturati; ma le loro armi e i bagagli caddero tutti in potere dei ribelli. Questa vittoria clamorosa procacciò a SALVIO la fama di prode guerriero e di uomo clemente, aumentando così il numero dei suoi seguaci.

Respinti i Romani, i ribelli continuarono l'assedio di Murganzia. In questa città a molti schiavi, i padroni avevano promesso la libertà se contribuivano ad aiutarli a respingere gli assedianti. E quelli si comportarono così valorosamente che i rivoltosi furono respinti; ma quando chiesero il premio ai padroni, questi per ordine di NERVIA, rifiutarono di mantenere la promessa. Gli schiavi, sdegnati, abbandonarono la città ed andarono ad accrescere l'esercito di ribelli di SALVIO.

Mentre i ribelli si affermavano nella Sicilia orientale scoppiava minacciosa la rivolta nella parte occidentale dell'isola.
Presso Segesta duecento schiavi, fuggiti dai loro padroni, elessero capo un certo ATENIONE, astrologo ed indovino, un uomo possente, fortissimo e di gran coraggio, il quale in meno di una settimana raccolse una schiera di mille uomini.
Il numero dei ribelli cresceva di giorno in giorno; e agli schiavi che sotto di lui accorrevano numerosi da ogni parte, Atenione dava le armi soltanto a coloro che sapevano maneggiarle: gli altri li mandava nei campi con l'ordine di non disertarli ma di lavorarli, che nella lotta, il cibo era importante quanto le armi.

Aumentando il numero, quando raccolse e riuscì ad allestire un esercito di oltre diecimila uomini, decise d'impadronirsi di Lilibeo (Marsala), ma presentando l'impresa delle grandi difficoltà, disse ai suoi che aveva letto negli astri che un grave disastro sarebbe caduto loro addosso se insistevano nell'assediare la città.

E fu davvero profeta. Era intento a ritirarsi di notte quando approdarono sulla costa molte navi romane cariche di soldati ausiliari al comando di GOMONE. Questi, accortosi dei ribelli, assalì la retroguardia e la fece a pezzi.
Allora ATENIONE si unì a SALVIO e insieme assalirono ed espugnarono Triocala (presso Caltabellotta). Ma le gelosie se c'erano a Roma, non mancavano nemmeno fra i ribelli; infatti, SALVIO geloso dei successi di ATENIONE, non sappiamo con quale pretesto e accusa, lo fece mettere in catene, poi si proclamò re con il nome di TRIFONE; elesse Triocala a capitale e sua residenza e la fece cingere di mura e di fossati.
La rivolta intanto si era estesa in tutta l'isola, a quel punto il Senato richiamò NERVA e inviò in Sicilia nel 103 a.C. il propretore LICINIO LUCULLO con un esercito di diciassettemila uomini.
Uniti al suo esercito i soldati che erano già nell'isola, LUCULLO marciò contro Triocala. SALVIO allora mise in libertà ATENIONE di cui conosceva il valore e la perizia nella strategia di guerra.
Voleva il primo chiudersi in città ed aspettarvi i Romani, ma l'astrologo consigliò di assalire le truppe del propretore in aperta campagna. Presa questa decisione, l'esercito ribelle, forte di quarantamila uomini, si mosse contro i Romani ed entrò in battaglia presso Scirtea.

La mischia fu furiosa e grandi prove di valore fornì ATENIONE. Ferito per ben due volte alle ginocchia continuò a combattere; ferito una terza volta, cadde al suolo e si salvò fingendosi morto. Ma i suoi, credendolo morto, abbandonarono la battaglia e fuggirono a serrarsi nuovamente nella fortificata Triocala, dove poi con il favore della notte si rifugiò il ferito ATENIONE.
L'avvilimento dei ribelli per la sconfitta patita a Scirtea era però piuttosto sentito, che se LUCULLO in quel momento avesse subito assalito Triocala gli sarebbe stato facile impadronirsene; invece lui indugiò nove giorni e questo tempo fu prezioso per gli schiavi, che, rianimatisi, riuscirono a consolidare la resistenza e anche con sortite a respingere il propretore infliggendogli gravi perdite.
Allora il Senato visti gli insuccessi, richiamò a Roma pure lui, e inviò in Sicilia nel 102 a.C., CAIO SERVILIO; ma questi -peggio del suo predecessore- condusse fiaccamente la guerra contro Atenione, il quale, essendo morto Salvio, aveva assunto il supremo comando e faceva continue e audaci scorrerie nell'isola spingendosi perfino a Messena (Messina).

La repubblica, nel successivo anno 101, si vide costretta ad inviare nell'isola il console MANIO AQUILIO, un prode guerriero che aveva combattuto alle dipendenze di Mario in qualità di luogotenente.
Ed infatti, AQUILIO finalmente riuscì con grande energia a domare la rivolta.
Ingaggiata la battaglia con i ribelli, inflisse loro una tremenda e decisiva sconfitta. Mentre era in corso la mischia con tutta la violenza, AQUILIO e ATENIONE, si trovarono uno di fronte all'altro e si misurarono con le armi, fornendo entrambi una gran prova di bravura e di coraggio. Ma ad un certo punto dopo un accanito combattimento, ferendosi a vicenda, la peggio toccò al capo degl'insorti; un colpo fatale raggiunse Atenione e rimase stecchito al suolo; Aquilio, sebbene gravemente ferito, continuò la lotta nella quale gli schiavi furono poi sbaragliati.

Diecimila ribelli superstiti si ritirarono nelle loro fortezze, si difesero a lungo disperatamente, ma nei ripetuti attacchi, uccisi uno dopo l'altro, rimasero soltanto in mille, guidati da un certo SATIRO, ma che ben presto circondati furono catturati poi spediti a Roma per alimentare di carne umana le fiere del circo.
Per non essere sbranati dagli artigli delle belve e fornire con il loro martirio un gradito spettacolo ai Romani i mille schiavi si uccisero l'un l'altro e SATIRO, rimasto ultimo, cadde, trafiggendosi, sui cadaveri dei compagni.
La seconda guerra servile finì insomma male, e finì così, con un suicidio-sacrificio collettivo.

IL TRIONFO DELLA DEMAGOGIA

Ma mentre infuriava in Sicilia la seconda guerra servile, non taceva in Roma la lotta delle fazioni, che non era inferiore a quella servile, anche se condotta con altre armi.
Ma se i nobili e ricchi continuavano a battersi per il trionfo dell'oligarchia, nemmeno il partito del popolo non era più animato da sani principi, né aveva più sani ideali, per il cui conseguimento, prima TIBERIO poi CAIO GRACCO avevano fatto sacrificio della propria vita.
Privo di guide disinteressate e sicure il popolo era divenuto cieco strumento di uomini malvagi che pensavano solo all'interesse personale; della plebe che erano capaci di strumentalizzare molto bene (e lo abbiamo visto con CAIO Gracco) si servivano per acquistare le più alte cariche e con queste il potere.
La demagogia trionfava e fra quelli che guidavano le sorti del popolo, due uomini primeggiavano; per l'ingenuo e ignorante popolo che a loro due dava il suo voto, erano poi proprio quelli che agivano per la loro rovina.

Erano questi L. APPULEJO SATURNINO e SERVILIO GLAUCIA.
Saturnino apparteneva a nobile famiglia ed aveva iniziato la sua carriera politica parteggiando per l'oligarchia. Uomo ambiziosissimo, era arrivato molto giovane alla carica di questore e a quella di provveditore dei pubblici magazzini di grano di Ostia; sostituito in quest'ufficio per ordine del Senato da M. EMILIO SCAURO, Saturnino si era (abilmente) messo nelle file del partito democratico e nel 103 era riuscito a farsi eleggere tribuno della plebe.

Per nuocere al partito contrario aveva nello stesso anno presentato e fatta approvare dai comizi, una legge contro coloro che in qualsiasi modo offendevano la maestà del popolo romano, legge che per la prima volta era stata applicata a danno di SERVILIO CEPIONE (per la disfatta ignobile nella provincia Narbonese, che abbiamo già narrata nel precedente riassunto).
Il tribuno L. NORBANO lo aveva citato in giudizio, accusandolo di avere sottratto al tempio di Tolosa i tesori; aveva sollevato il popolo contro due tribuni che erano sorti in difesa dell'accusato e li aveva fatti cacciare a sassate. CEPIONE, radiato dal senato, condannato alla pena capitale, era poi riuscito a salvarsi fuggendo da Roma.
Nell'intento di entrare nelle grazie di Mario, SATURNINO, nell'anno del suo primo tribunato, aveva proposto che per legge (lex Appuleya de coloniis deducendis) si assegnassero cento jugeri di terreno in Africa a ciascun soldato che aveva combattuto contro Giugurta, e per meglio ingraziarsi la stima del grande capitano (che però odiava) ne aveva strenuamente sostenuta la candidatura al terzo consolato.
Il suo collega SERVILIO GLAUCIA era stato tribuno della plebe per la prima volta nel 112 ed aveva iniziato la lotta contro il Senato rendendo più rigide le leggi "de repetundis" con la concessione della cittadinanza a quei latini che accusando di concussione un senatore, portavano le prove.
Ambizioso e spregiudicato come pochi, Glaucia si era messo d'accordo con Saturnino e insieme con lui si era dato ad una vita di turpi ricatti nei confronti dei loro stessi colleghi di alto censo, servendosi dell'ascendente che avevano saputo acquistarsi sul popolo e non rifuggendo da qualsiasi violenza.

Fra le altre cose, a scopo di sfruttamento politico, aveva indotto un certo M. EQUIZIO, liberto, a spacciarsi figlio di Tiberio Gracco, e poiché Metello Numidico, che allora esercitava la censura, non aveva voluto iscrivere il liberto simulatore nella lista dei cittadini, Glaucia e Saturnino avevano sollevato il popolo contro il censore obbligandolo a cercar riparo nel Campidoglio.
Quando Mario ritornò a Roma carico di gloria per le vittorie riportate sui Cimbri e sui Teutoni il partito del popolo era in balia di Saturnino e di Glaucia.

Non era cessato l'odio del grande capitano contro i grandi, né la sua ambizione era stata soddisfatta dal magnifico trionfo. Anche se console cinque volte, MARIO era stato costretto a passare tutti e cinque gli anni del suo consolato nelle province, guerreggiando contro nemici esterni, e non aveva potuto, a Roma, com'era suo desiderio, fiaccare le prepotenze e umiliare la corruzione, la viltà e la cupidigia dei grandi. Mario non poteva certo rassegnarsi, dopo tanti onori, a rientrare nel silenzio della vita privata. Se aveva il valore non aveva l'animo degli antichi dittatori romani che dopo le guerre vittoriose tornavano nella quiete dei loro campi; il demone della politica lo aveva invaso, né voleva lasciare la sua vittima.
Il vincitore di Aquae Sextiae e dei Campi Raudii chiese per la sesta volta il consolato, e il Senato che negli anni della guerra contro i barbari - per utile necessità- non si era opposto all'elezione dell'illustre condottiero, cessato il pericolo, gli contrappose come candidato CECILIO METELLO il Numidico, che così si prese la rivincita quando il suo sottoposto in Africa, non solo gli aveva sottratto il consolato, ma si era visto pure sostituito al comando dell'esercito nella guerra contro Giugurta.

MARIO, combattuto dall'oligarchia, cercò degli alleati nel partito popolare e li trovò in SATURNINO e GLAUCIA, dei quali il primo aspirava ad esser per la seconda volta tribuno, il secondo pretore. I tre riuscirono eletti, ma Saturnino per ottenere il tribunato dovette ricorrere alla violenza. Essendo stato eletto dai comizi un certo L. NONIO candidato dei patrizi, Saturnino lo fece assassinare e il giorno dopo, riunita l'assemblea, si fece proclamare tribuno (100 a.C.).

Ottenuta la carica, Saturnino richiamò in vigore la "legge frumentaria" di Tiberio Gracco allo scopo di ingraziarsi maggiormente il favore del popolo, inoltre, consigliato forse da Mario che voleva favorire i suoi veterani, propose la distribuzione delle terre della Gallia Cisalpina, sottratte ai Cimbri e dichiarate agro pubblico, a cittadini romani e soci italici e, infine, che i senatori s' impegnassero con giuramento di dare esecuzione alla legge entro cinque giorni dall'approvazione sotto pena della multa di venti talenti.

La rogazione di Saturnino trovò fierissima opposizione nel popolo romano, che non voleva che gli italici entrassero a far parte nella distribuzione dell'agro, ed insieme al popolo trovò pure la protesta dei senatori. Quest'ultimi, approfittando abilmente del tumulto che era sorto e di alcuni tuoni annunciatori di un improvviso temporale, volevano che l'assemblea si sciogliesse e la discussione rimandata.
Ma SATURNINO tenne duro e, abituato alle violenze, provocò una sassaiola dei suoi partigiani. La legge fu approvata e i senatori sebbene riluttanti giurarono. Solo METELLO il Numidico si rifiutò e dovette prendere la via dell'esilio.
Ma questo sistema delle violenze non poteva durare a lungo; lo stesso Mario ne era nauseato; lui per la dirittura del suo carattere non avrebbe certamente fatto lega con Saturnino e Glaucia se avesse sospettato che erano degli ipocriti furfanti. D'altra parte fra il vincitore dei Cimbri e gli assassini di L. Nonio non esisteva identità di vedute e di intenti, i due demagoghi miravano soltanto a soddisfare la propria ambizione e a questo solo scopo avevano sposata la causa democratica; MARIO invece voleva schiacciare l'aristocrazia e risollevare le sorti del popolo (ma questo il popolo, ignorante com'era, facile ai pomposi discorsi, non capiva. Come non aveva capito Tiberio e Caio Gracco).

Ben presto si accorsero Saturnino e Glaucia che Mario non li avrebbe per l'avvenire seguiti nella via che si erano tracciata e decisero non solo di agire senza di lui, ma contro di lui.
Stabilirono pertanto che SATURNINO avrebbe domandato il tribunato per la terza volta e GLAUCIA il consolato. Per meglio riuscire i due demagoghi indussero M. EQUIZIO, il preteso figlio di Tiberio, a chiedere il tribunato e il popolo, in cui era sempre viva la memoria del primo Gracco, nelle elezioni tribunizie del 99 a.C., permisero con i propri voti di far eleggere EQUIZIO e SATURNINO.

Non andarono altrettanto bene le cose nelle elezioni consolari dell'anno 100 a.C.. I grandi erano scesi nella lotta con il proposito di contrastare fieramente l'elezione di SERVILIO GLAUCIA e di far trionfare i propri candidati: M. ANTONIO, oratore illustre e vincitore dei pirati della Cilicia, e C. MEMMIO che dal partito popolare democratico era passato all'aristocratico.
A loro volta APPULEJO SATURNINO e GLAUCIA, erano risoluti ad ottenere la vittoria a qualunque costo e poiché per raggiungere lo scopo, come altre volte avevano fatto ricorrere alla violenza era il mezzo più utile, si erano recati ai comizi con una banda di partigiani armati.
Le elezioni ebbero un inizio calmo e regolare. Tutto faceva prevedere il trionfo dei candidati della nobiltà. M. ANTONIO aveva già riportato la maggioranza dei voti e C. MEMMIO era sul punto di riuscire eletto essendo rimasto vincitore nel primo scrutinio, quando ad un preciso segnale, la banda di Saturnino e Glaucia irruppe nell'assemblea e, al cospetto del popolo sgomento da tanta audacia, trucidò a pugnalate il povero MEMMIO.
Ma l'assassinio di Memmio non poteva questa volta rimanere impunito come quello di Nonio.
Mario, avendo il Senato decretato che i due ribaldi, responsabili del delitto, fossero assicurati alla giustizia, armò il popolo e, seguito dai Cavalieri e dai Senatori, assalì il Campidoglio dove con i loro partigiani Saturnino e Glaucia si erano trincerati.
Ma la loro resistenza durò poco; molti dei ribelli si arresero a discrezione e i due demagoghi, vista persa ogni speranza, si rifugiarono nel tempio di Giove. Il luogo per esser sacro non poteva essere violato e allora gli assalitori per costringere Saturnino e Glaucia a capitolare tagliarono l'acquedotto.
I due assediati allora implorarono la salvezza da Mario e questi generosamente riuscì a sottrarli ad una fine orrenda facendo chiudere i suoi due antichi compagni nella Curia Ostilia.
Qui però rimasero ben poco perché i cittadini, furiosi, presero d'assalto la Curia, riuscirono a salire sul tetto e, scoperchiatolo, lanciarono contro i prigionieri una pioggia di tegole uccidendoli con la lapidazione.
La morte di Saturnino e Glaucia segnò l'inizio della riscossa dei grandi, che cominciarono con il richiamare dall'esilio METELLO. Si oppose al ritorno del Numidico il tribuno della plebe PUBLIO DECIO, ma, uscito di carica, citato in giudizio, fu da alcuni violenti, ucciso prima ancora di essere processato o condannato.
Tre tribuni nell'arco di pochi anni erano caduti vittime delle violenze e prima di loro, i due Gracchi e Fulvio Flacco avevano perso la vita nelle competizioni politiche.

L'imperio della legge è tramontato. CECILIO METELLO ritorna a Roma e vi è accolto dai nobili con il trionfo di un vincitore. CAIO MARIO, ottenuti pieni poteri dal Senato, ristabilisce l'ordine, ma poi scaduto il suo mandato, caduto in disgrazia dei suoi antichi amici del partito democratico ed essendo tenuto in sospetto dagli oligarchici, abbandona dopo sei anni di consolato la vita pubblica, e se ne va in Asia. I nobili hanno vinto; ma la repubblica più che nelle loro mani è in potere della violenza. Inizia nella città un nuovo periodo di reazione oligarchica e di persecuzioni contro la fazione democratica.
La dominatrice del mondo continuerà ad esser preda delle violenze che causeranno la fine delle libertà repubblicane.
La guerra civile -lo abbiamo visto nei precedenti riassunti- era già stata dichiarata da qualche tempo, ma era stata solo rimandata lo scoppio.
L'incendio si sarebbe sviluppato più rapidamente se non fossero intervenute le guerre contro Giugurta, i Teutoni e i Cimbri a rallentarne il corso; un'altra guerra, dolorosa e ingloriosa insieme, sopirà per pochi anni gli odi e le lotte intestine; ma queste torneranno ad ardere più furiose e plebe e nobiltà saranno inesorabilmente travolte dalla loro stessa brama di potere alla comparsa di uomini che non per dare nelle mani d'un partito l'imperio ma per metterlo nelle proprie, brandiranno le armi.
I sostenitori di questi -che altri chiamano tiranni- sostengono che l'autorità assoluta (assolutista, dittatoriale, totalitaria) per rimettere ordine il paese, è il male necessario. E' che questo male nei prossimi duemila anni, il problema dell'ordine non lo risolveranno mai, e la stessa violenza repressiva - che è l'arma più usata dagli assolutisti- spesse volte travolgerà loro stessi.

M. LIVIO DRUSO

Negli anni che seguirono alla morte di SATURNINO e GLAUCIA la città non fu, è vero, funestata da altre violenze e godette di un po' di calma. Ma questa era quella calma, con l'aria piena di elettricità, che di solito precede le tempeste. Perduravano i rancori tra il popolo e la nobiltà, e a questi risentimenti era tornata ad aggiungersi la vecchia rivalità tra il Senato e i Cavalieri, sopitasi durante la lotta contro i due demagoghi, quando comparve sulla scena della vita politica un uomo che cerca di salvare la repubblica conciliando gli interessi in contrasto e rappacificando i ceti.
Si chiama M. LIVIO DRUSO. Discende da famiglia patrizia ed è figlio di quel Druso che si adoperò in favore dell'aristocrazia per far perdere la popolarità a CAIO GRACCO.
LIVIO DRUSO è giovane ed audace, non ha brama di comando, condanna l'ambizione dei nobili e la venalità dei plebei e sogna per la patria un avvenire con tutti i cittadini di Roma sani, operosi e in concorso fra loro per farla diventare ancora più grande.
Il suo ingegno, la sua fierezza, la sua nascita gli fanno ottenere il tribunato e lui si mette subito all'opera con tutto l'impegno per eliminare le cause di dissidio tra i vari ceti della cittadinanza.
Causa di contrasto tra i Senatori e i Cavalieri, è innanzitutto il governo della giustizia. CAIO GRACCO, nel suo primo tribunato, con la legge giudiziaria, questo governo lo aveva diviso fra i due ceti; e nel secondo tribunato lo aveva affidato esclusivamente ai Cavalieri. Nel 106 il console SERVILIO CEPIONE aveva rimesso i tribunali nelle mani dei Senatori, ma a questi li aveva muovamente sottratti SERVILIO GLAUCIA.

LIVIO DRUSO nel 91 a.C., propone che sia rimessa in vita la legge giudiziaria di Gracco nella sua prima forma, che cioè il governo della giustizia sia diviso fra trecento Senatori e trecento Cavalieri e per compensare questi ultimi propone inoltre che trecento Cavalieri accedano al Senato. Per impedire poi che la demagogia torni ad impadronirsi delle redini della repubblica, chiede che i processi contro i cittadini sospetti di corruzione devono essere affidati ad una apposta commissione, e allo scopo di rendere bene accetta al popolo la legge giudiziaria, propone una legge "frumentaria", di cui non conosciamo il tenore, e una "agraria" con la quale si stabilisce di mandare colonie nella Campania e nella Sicilia.
LIVIO DRUSO però non raggiunge lo scopo che si è prefisso; non l'accordo ma la supremazia dei tre ceti, ognuna gelosa dell'altra, vuole che il tribuno non si guadagni con la sua opera il favore del popolo e dei cavalieri; in più si aliena le simpatie del Senato, il quale, fa applicare la legge "Cecilia-Didia" che proibisce di riunire in una sola legge due materie ("de duabus rebus una lege non coniungendis"); e così, con questo cavillo, dichiara nulle le leggi di Livio Druso. Sono così salvi gli interessi dei Cavalieri (i ricchi commercianti) e quelli dei nobili (latifondisti).

Fallito il tentativo di comporre i dissidi, che mantengono in agitazione la vita di Roma, il tribuno cerca di giovare alla repubblica facendosi campione della causa degli alleati italici, i quali ormai da due secoli concorrono con il loro valore e con il proprio sacrificio alla grandezza di Roma e giustamente si credono perciò meritevoli dei medesimi diritti politici dei cittadini Romani.
M. LIVIO DRUSO propone che sia concessa agli Italici la cittadinanza romana; e di colpo si guadagna le simpatie di tutti gli alleati della penisola, che, lieti di aver trovato un così illustre patrocinatore, giurano di sostenerlo e difenderlo con i propri beni e se necessario anche con il proprio sangue.

Ma le gelosie di questa simpatia sono in agguato, e il ferro di un sicario assassino tronca improvvisamente una vita dedicata al bene di Roma e d'Italia. Un giorno, mentre il tribuno tornava dal foro accompagnato da un gruppo di suoi sostenitori, una mano ignota lo colpisce con una pugnalata alle spalle e lo distende morto ai piedi della statua del padre.

LA GUERRA DEGLI ALLEATI

La morte di LIVIO DRUSO, dovuta senza alcun dubbio alla sua ultima proposta di legge, inasprì gli Italici, i quali, avendo visto fallire tutte le loro speranze -e lo avevano promesso- si decisero, brandirono le armi e iniziarono quella sanguinosa guerra che costò la vita a trecentomila italiani e che, chiamata da alcuni storici "guerra italica", da altri "guerra marsica" e da altri ancora "guerra sociale", doveva durare ben quattro anni.

Non tutti i popoli d'Italia presero parte all'insurrezione; i Galli, gli Etruschi, gli Umbri e i Latini si mantennero fedeli a Roma, ma i rimanenti popoli della penisola, Marsi, Peligni, Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani, Sanniti, Apuli, Campani e Bruzi, inalberarono il vessillo della rivolta.
Poiché Roma non voleva accogliere nel suo seno come suoi cittadini gli alleati, questi si proposero di staccarsi dalla superba città e di formare uno stato a parte.
A capitale della nuova repubblica fu scelta Corfinio, città dei Peligni, situata sulle rive del fiume Pescara, quindi nelle regioni abitate dai Marsi, dai Marrucini, dai Vestini e dai Sanniti, e le fu posto il nome di Italia o Vitelia.

Nella nuova capitale, antagonista di Roma, fu costruito un grandissimo foro ed una Curia per i senatori che raggiunsero il numero di cinquecento e furono scelti fra le persone più ragguardevoli delle popolazioni alleate. Il Senato nominò dodici pretori e creò due consoli nelle persone del sannita C. PAPIO MUTILO e del marso QUINTO POMPEDIO SILONE, amico del morto Druso ed anima della rivoluzione. Fu anche coniata una moneta nuova con impresso un toro che schiaccia una lupa.
Roma di fronte al gravissimo pericolo che la minacciava corse sollecitamente ai ripari. Cessarono, gli odi di parte, si rafforzarono le mura, e temendo un assedio della città, si fece venire dalle province e specialmente dalla Sicilia grandissima quantità di vettovaglie, si chiamarono alle armi i cittadini, ed alle legioni romane furono aggiunte altre legioni composte di soldati della Gallia, della Grecia, della Numidia e dell'Asia. Il governo della guerra fu affidato ai consoli dell'anno 90 a.C., LUCIO GIULIO CESARE e PUBLIO RUTILIO LUPO, che furono assistiti da CAIO MARIO e CORNELIO SILLA.

Il primo conflitto scoppiò ad Ascoli nello stesso anno 90; i locali erano in procinto di ribellarsi. A sorvegliare le mosse dei ribelli, i preparativi segreti e le loro intenzioni, era stato mandato nel Piceno QUINTO SERVILIO. Avendo questi saputo che gli Ascolani stavano per inviare a Corfinio un certo numero di uomini, come tutti gli altri alleati avevano fatto, Servilio insieme con il suo luogotenente FRONTEJO, si recò ad Ascoli
Qui, trovato il popolo riunito in un teatro, parlò con molta severità alla folla minacciando in nome di Roma delle esemplari punizioni.
Il discorso molto inopportuno del proconsole, anziché incutere timore negli animi degli Ascolani suscitò lo sdegno del popolo che, corse a brandire le armi, si scagliò contro Servilio e Frotejo e li uccise entrambi. Né loro due furono le prime vittime della guerra perché la medesima sorte subirono tutti i Romani stabiliti in quella città, ne fecero strage.
Il conflitto di Ascoli fu il segnale non più di una lotta ma una vera dichiarazione di guerra, e in pochissimo tempo i pretori italici, che nel frattempo si trovavano nelle varie regioni per fare preparativi di guerra, furono in grado di iniziare le ostilità alla testa di eserciti che ascendevano alla forza complessiva di centomila uomini.
All'annunzio che le ostilità erano scoppiate, Roma ebbe due partiti; chi si commosse e chi imprecò contro coloro che erano stati la causa della rivolta; il tribuno QUINTO VARIO propose la nomina di una commissione per ricercare i responsabili e punirli.
Gli alleati ribelli cercarono di evitare la guerra e inviarono ambasciatori a Roma a chiedere per l'ultima volta che fossero accordati a loro i diritti di cittadinanza, ma il Senato rifiutò di dare udienza ai messi e così quella guerra che, di fatto, era stata già dichiarata ad Ascoli, divenne ufficiale.

Data la vastità del teatro delle operazioni, la repubblica divise in due parti il territorio degli insorti. Al console RUTILIO LUPO diede il compito di ridurre all'obbedienza i Piceni, i Vestini, i Peligni, i Sabini e i Marsi, a LUCIO GIULIO CESARE affidò l'incarico di combattere i Sanniti, i Campani e gli altri popoli dell'Italia meridionale. A fronteggiare il primo fu scelto dagli alleati ribelli, il marso POMPEDIO SILONE, a tener testa al secondo il sannita PAPIO MUTILO.
Le prime a trovarsi esposte alle offese degli insorti furono le colonie romane, specialmente Esernia; questa era la più importante perché dominava la via che conduceva dalla Campania nel Sannio.
La colonia fu assalita da un corpo dell'esercito ribelle capitanato da P. VEZIO SCATONE, e contro di lui si affrettò a muovere LUCIO GIULIO CESARE; ma la sorte favorì le armi degli insorti e presso Esernia i Romani subirono una grave sconfitta.
La colonia di Esernia continuò a difendersi accanitamente e solo sul finire del 90, rimasta priva di viveri e senza speranza di soccorsi, fu costretta a capitolare.
Alla resa di Esernia seguì quella delle altre colonie e così Venafro, Nola, Salerno, Stabia, Ercolano, Pompei e Literno caddero in potere degli insorti. Eguale sorte toccò a Grumento, Venosa e Canusio prese dalle truppe di GIUDACILIO e di LAMPONIO che operavano nell'Apulia e nella Lucania.

PAPIO MUTILO, sapendo che con i Romani militava un fortissimo corpo di Numidi, fece condurre nel campo il figlio di Giugurta, di nome OGINTO, il quale riuscì a far passare agli insorti un gran numero di suoi connazionali, e Giulio Cesare per evitare ulteriori diserzioni fu costretto ad allontanarsi e mettere gli accampamenti presso Teano.

Non meno lieti furono gli inizi della guerra per i Romani nella parte settentrionale. MARIO aveva consigliato RUTILIO LUPO di non tentare una battaglia campale con il nemico; ma il console, volendo portare soccorso ad Ascoli minacciata dalle truppe di Pompeo Strabone, passò il fiume Toleno (affluente del Velino) e marciò contro i Marsi con l'esercito diviso in due parti.

La battaglia avvenne l'11 giugno del 90 a.C. e si risolse in una tragica sconfitta per le armi romane. Prime ad essere attaccate e sbaragliate furono le due legioni del luogotenente PERPENNA; poi il grosso dell'esercito cadde in un'insidia, perse nella battaglia ottomila uomini e lo stesso console.
MARIO che era a valle, venne a sapere della sconfitta di RUTILIO alla vista di numerosissimi cadaveri galleggianti nel fiume. Non potendo portare soccorso all'esercito battuto, condusse le sue truppe contro il campo nemico che era rimasto indifeso e se ne impadronì.
Al posto di Rutilio il Senato nominò MARIO e CEPIONE con uguale autorità; ma quest'ultimo non tenne a lungo il comando. Impaziente di condurre a termine la guerra, assalì gli accampamenti di POMPEDIO SILONE e, al pari del defunto console, commise anche lui l'errore e cadde in un'imboscata tesagli dal nemico, che fece una strage di Romani uccidendo lo stesso CEPIONE.
Il comando, passò allora tutto nelle mani di MARIO, e con lui le sorti delle armi romane si risollevarono. Lui non aveva la fretta di Rutilio e di Cepione e aspettava, com'era suo costume, l'occasione propizia per misurarsi con i ribelli.
Di lui si narra che, avendolo POMPEDIO SILONE provocato a battaglia con il ricordargli di scendere in campo per confermare con i fatti la fama di gran capitano che aveva, rispondesse di provarsi lui, che tale si riteneva, di costringerlo a combattere contro la sua volontà.

Quando però lo ritenne opportuno, e che era giunta l'occasione che cercava, Mario assalì energicamente i nemici, li sconfisse ed uccise ERIO ASINIO, capo dei Marrucini. Né questa fu la sola disfatta che Mario inflisse ai ribelli. Poco tempo dopo, assalì i Marsi, ruppe le file, che poi inseguiti lui da una parte SILLA dall'altra, subirono durante la disastrosa fuga più di seimila morti.

Le vittorie di MARIO furono poi seguite da altri importanti successi degli eserciti romani nella Campania e nel Piceno. Nella Campania, trovandosi Acerria assediata da Papio Mutilo, CAIO GIULIO CESARE iniziò la battaglia contro gli insorti e, risolutamente affrontati di fronte con le fanterie e di fianco con la cavalleria, li sgominò meritandosi il titolo di "imperator".
Per la prima volta si sente dare quest'appellativo dentro l'esercito romano.

Nel Piceno, POMPEO STRABONE, assediato a Fermo, assalì improvvisamente le truppe nemiche comandate da T. LAFRANIO e, soccorso da SERVIO SULPICIO reduce vittorioso dal paese dei Peligni, sconfisse prima ribelli con una strage, poi uccise il loro stesso capo.
Ma le vittorie dei Romani non erano state fin qui decisive. Il nemico era ancora forte e l'insurrezione minacciava di estendersi nell'Umbria, nell'Etruria e nella Cisalpina. Bisognava colpire subito il centro, il cuore che animava la rivolta.

LA CITTADINANZA ROMANA AGLI ITALICI

Allo scopo di evitare che i paesi rimasti fedeli avrebbero fatto causa comune con gli insorti, sul finire sempre dell'anno 90 a.C. il console CAIO GIULIO CESARE propose una singolare legge (e che se votata prima avrebbe evitato tante stragi) che fu subito approvata; "si concedeva la cittadinanza romana" a tutti quegli alleati italici che non avevano brandito le armi contro Roma e poco tempo dopo, dietro proposta dei tribuni M. PLAUZIO SILVANO e C. PAPIRIO CARBONE, la cittadinanza fu estesa a tutti quegli stranieri domiciliati in città italiane che ne facessero domanda entro sessanta giorni dall'approvazione della legge. ("Legge Plauzia-Pairia").
Ma allo scopo di impedire che i vecchi cittadini romani fossero sopraffatti dal grande numero dei nuovi, nei comizi, gli Italici e gli stranieri furono iscritti nelle ultime otto tribù.
Nella Gallia Transpadana, proposta dal console Cn. POMPEO STRABONE, nel 89 a.C. fu concesso alle città il diritto latino. Non solo fu causa della risoluzione della spinosa questione sociale, allontanando il pericolo in cui Roma si trovava, ma fece anche comporre il dissidio tra Senatori e Cavalieri per mezzo di una legge presentata dal tribuno M. PLAUZIO con la quale si stabilì che ogni tribù scegliesse quindici giudici senza distinzione di ceto.

Nel terzo anno di guerra le operazioni contro i ribelli furono condotte con maggiore energia dai consoli dell'anno 89 a.C., POMPEO STRABONE e FURIO CATONE.
STRABONE impedì che VEZIO SCATONE passasse dal Piceno nell'Umbria e nell'Etruria, e lo costrinse ad accettare battaglia presso Ascoli.
Fu la battaglia più sanguinosa e più grande di tutta la guerra. Il console aveva al suo comando settantacinquemila uomini, di sessantamila soldati disponevano invece i nemici comandati da VEZIO e da GIUDACILIO. Prima di entrare in contatto con le armi, si tentò dall'una e dall'altra, parte di raggiungere un accordo, ma non vi si riuscì nonostante una vecchia amicizia che legava il console a Scatone.
Gli insorti dopo un accanito combattimento furono sconfitti e VEZIO, essendo stato fatto prigioniero, si fece uccidere da uno schiavo che poi si tolse la vitaidò pure lui. GIUDACILIO con i pochi superstiti si chiuse ad Ascoli e fece prodigi di valore tentando più volte, ma invano, con disperate sortite di rompere il cerchio dell'assedio. Perduta infine la speranza di salvare la città, stremata dalla fame, riempì il tempio delle cose più preziose e, fatto appiccare il fuoco, si buttò tra le fiamme. Ascoli capitolò e fu messa a sacco dai vincitori che in breve tempo vinsero definitivamente tutto il Piceno.

Non meno felicemente per i Romani si svolsero le operazioni guerresche nell'Apulia sotto la direzione del pretore CAIO COSCONIO. Questi sull'Aufido mise in rotta un esercito sannitico comandato da MARIO EGNAZIO precipitatosi in aiuto degli Apuli, ne uccise il comandante e costrinse i pochi superstiti a riparare a Canusio, dove poi li assediò.
Peggio invece andarono le cose in un primo tempo nella regione dei Marsi, dove il compito di domare i ribelli era stato affidato a FURIO CATONE. In una battaglia presso il lago Fucino, i Romani furono sconfitti dai ribelli e il console perdette la vita.

A rialzar la sorte dei Romani in questa regione, misero tutto il loro impegno i luogotenenti QUINTO METELLO e CAIO CINNA, che alla fine ebbero ragione dei Marsi e li ridussero all'obbedienza.
Anche i Peligni e i Vestini furono sgominati e nel 88 la capitale dell'Italia ribelle, Corfinio, investita dall'esercito di POMPEO STRABONE, fu costretta alla resa e occupata.
La guerra dopo Corfinio, si ridusse nella Campania e nel Sannio.
Prima ad esser domata fu la Campania e il merito fu tutto del pretore CORNELIO SILLA, il quale, penetratovi con un forte esercito, sconfisse le truppe di L. CLUENZIO e ne uccise il capo; poi si spinse nel Sannio, assalì alle spalle l'esercito di PAPIO MUTILO che cercava di arginare l'avanzata del pretore ma da questi fu sgominato completamente. Papio, ferito a morte, fu trasportato ad Esernia, che dopo la caduta anche Boviano, rimase l'ultimo centro della fiera resistenza dei ribelli Sanniti.

Dei capi degli alleati italici restava in vita soltanto POMPEDIO SILONE;
lui tentò di riacciuffare la fortuna che aveva vicino nel primo anno della guerra, e con le truppe superstiti di tante accanite battaglie, con i cittadini e con gli schiavi, mise su un esercito di circa cinquantamila uomini. Era l'ultimo disperato sforzo della rivoluzione. Silone si rivolse contro la capitale del Sannio già occupata dai Romani, Boviano, e riuscì pure ad impadronirsene, poi marciò verso l'Apulia.
Ma la fortuna che per un attimo si era mostrata favorevole agli ostinati ribelli volse a loro le spalle a Venosa. Il pretore Q. METELLO PIO, figlio del "Numidico" (poi console nell'80 a.C.), lo aspettava al varco. La battaglia fu tremenda e gl'Italici fecero anche prodigi di valore, nondimeno furono terribilmente sconfitti e lo stesso POMPEDIO SILONE fini eroicamente la sua vita.
La guerra poteva considerarsi finita. Qualche nucleo di ribelli resistette ancora per qualche tempo nella Lucania e nella Campania, poi anche Nola fu presa e ritornò la tranquillità su tutti i teatri delle ribellioni.

Trecentomila Italiani erano caduti in quattro anni di lotte sanguinose, ma non erano caduti invano. La superba Roma aveva già piegato il capo e concesso - come si è detto - la cittadinanza agli Italici.
Quest'atto, purtroppo tardivo, di saggia politica, aveva salvato Roma, ma non salvò le libertà repubblicane. Queste non potevano vivere che in un organismo non corrotto, mentre il corpo della gloriosa repubblica era invece quello di un malato, destinato a subire ancora gli strazi delle intestine discordie e a ritrovare infine il vigore per l'inflessibile volontà di un padrone.

Paradossalmente con quella che alcuni storici hanno chiamato "guerra italica", con delle regioni che volevano staccarsi da Roma, alla fine di questa, concessa finalmente la cittadinanza, si assiste al rapido dissolvimento delle autonomie, anche culturali, delle popolazioni etrusche e di molte regioni piccole, medie e grandi, della penisola che d'ora in avanti chiameremo italiche; cadono in disuso le lingue o in alcune i dialetti locali, sostituiti dal latino, che solo da questo momento comincia ad assumere il carattere di lingua italiana (o meglio panitaliana) e, ben presto, con le recenti e poi con le nuove conquiste fuori la penisola, anche di lingua internazionale, all'inizio pari al greco, ma ben presto messo in disparte.
In quel grande mare dove si parlava il Punico (fenicio- che scompare del tutto), l'Etrusco e il Greco, chiamato Mediterraneo, diventa ora un "lago romano" dove si parla più soltanto una sola lingua: il latino.

Ma a Roma non basta né il mare, né le sue coste. Sta guardando da qualche tempo oltre le Alpi, e per difendere i suoi primi domini d'Oriente, appena uscita dalla "guerra sociale", sta iniziando una nuova guerra in Asia.
Guerre e conquiste, che gli ambiziosi condottieri con le loro vittorie, ottengono non solo come in passato la gloria militare con i trionfi, ma fra di loro, già ipotecano la guida politica della Repubblica, per farla diventare un proprio Impero.

Come vedremo dai successivi fatti, queste guerre e questi antagonismi (con due protagonisti: MARIO e SILLA) iniziano con il prossimo riassunto…

…è il periodo che va dall'anno 88 al 78 a.C. > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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