ANNI 1081 - 1101

ENRICO IV IN ITALIA - ASSEDIO DI ROMA - MORTE GUISCARDO

SPEDIZIONE DI ENRICO IV IN ITALIA - L'ANTIRÈ ERMANNO - ASSEDIO DI ROMA - OSTINATA RESISTENZA DI GREGORIO - II GUISCARDO ENTRA A ROMA: SACCHEGGIO DELLA CITTÀ - MORTE DI GREGORIO - GIUDIZI SULL'OPERA SUA - IL GUISCARDO TORNA IN ORIENTE - SUA MORTE - FINE DEL CONTE RUGGERO IN SICILIA - GIUDIZIO SULL'OPERA SUA
---------------------------------------------------------------------------------------

SPEDIZIONE DI ENRICO IV IN ITALIA

Provveduto alla difesa del regno, investito della marca austriaca il duca di Boemia VRATISLAO e lasciata in Germania la maggior parte del suo esercito, alla testa di poche milizie che era certo d'ingrossare con i suoi partigiani della Lombardia, ENRICO IV scese sul finire del marzo del 1081 in Italia.
Le accoglienze che ricevette furono trionfali: Verona gli aprì le porte, Pavia, rimesso sul seggio l'arcivescovo TEDALDO, diede al sovrano la corona del regno italico; nella Toscana, dove soltanto Pisa gli era prima favorevole, Lucca insorse, cacciò l'arcivescovo ANSELMO e si dichiarò fedele al Re; Siena ne seguì l'esempio, ma Firenze, antitedesca e filo-papale, resistette per più d'un mese.
La contessa MATILDE, che alcuni mesi prima, marciando contro l'antipapa GUIBERTO, era stata battuta a Volta Mantovana, nuovamente sconfitta e messa al bando dell'impero, dovette percorrere gran parte dei suoi domini per risollevare la scossa fiducia dei suoi vassalli; ma gli sforzi dell'energica donna non erano tali da arrestare la marcia di Enrico, il quale, con l'esercito che di giorno in giorno s'ingrossava, il 20 maggio 1081 giunse in vista di Roma e si accampò nella spianata detta di Nerone.
Sperava che, al suo arrivo presso la città eterna, si sarebbero rinnovate le cerimonie solenni con cui i Romani da tempo accoglievano i sovrani e già Enrico IV pregustava la gioia di vedere l'orgoglioso Pontefice, umiliato ai suoi piedi, per poter cancellare l'onta di Canossa.
Speranza illusoria quella di Enrico. Nessuna processione, di sacerdoti salmodianti e di popolo gli andarono incontro levando inni o per acclamarlo; anzi le porte erano chiuse, le mura apprestate a difesa e i cittadini in armi risoluti a difendere la causa di GREGORIO VII che erano ormai convinti rappresentava il simbolo della causa della loro città.
Invano il re lanciò un proclama, in cui esprimeva la sua alta meraviglia per quell'accoglienza ostile, invano promise che avrebbe fatto cessare la discordia tra la Chiesa e lo Stato; Roma era e rimase a lui nemica, fedele al Pontefice che nemmeno per un istante aveva pensato, vacillando, d'inginocchiarsi davanti al sovrano tedesco e chiedergli pietà.

Due mesi rimase ENRICO IV inoperoso e a rodersi davanti a Roma, poi, nei mesi caldi, essendosi manifestata nel suo esercito una pestilenza prodotta dalla malaria, levò le tende e se ne tornò in Lombardia dove restò tutto l'autunno e l'inverno fino al successivo anno 1082. Tuttavia, ritirandosi nell'alta Italia, non aveva abbandonato il proposito di rendersi padrone di Roma e con forze maggiori aveva ormai stabilito di ritornarvi.

Intanto quella prima ritirata da Roma non favoriva la sua causa e incoraggiava i suoi avversari non solo d'Italia, ma di Germania. Infatti, i principi tedeschi a lui contrari, nei primi d'agosto, mentre lui saliva in Lombardia, elessero un nuovo antirè nella persona del conte ERMANNO di LUSSEMBURGO e questi, pochi giorni dopo, l'11 agosto, data battaglia ad Hochstàdt, in Baviera, a FEDERICO di SVEVIA, cui Enrico aveva durante la sua assenza affidata la difesa del regno, lo sconfisse con una cruenta battaglia..
Ottenuta questa vittoria, ERMANNO mosse contro Augusta e la cinse d'assedio. Pensava di aprirsi la via per l'Italia, sbaragliare le truppe di Enrico nella penisola e ricevere a Roma dal Pontefice la corona imperiale. Grandiosi e ambiziosi progetti, che l'accanita resistenza di Augusta fece però svanire, perché dovette levare l'assedio per correre in Sassonia e rinfrancare il popolo, già stanco e sfiduciato, e dovette accontentarsi di ricevere a Goslar, il 26 dicembre del 1081, la corona.

"Intanto Enrico in Lombardia si chiedeva come fare per accrescere in Italia il numero dei suoi partigiani, per poter con nuove forze rinnovare il tentativo su Roma. Di grande importanza era la conversione alla sua causa delle refrattarie città toscane soggette alla contessa Matilde. Non è ben certo, se ora o più tardi Enrico dichiarasse decaduta dai suoi domini la superba marchesa, sotto l'accusa di ribellione contro il suo legittimo sovrano. Certo è però, che fin da ora egli cominciò a perseguitarla sistematicamente, servendosi di ogni arma per abbattere il suo principato. Questa guerra tornò a profitto delle città toscane, le quali -con le lusinghe di Enrico- accrebbero e consolidarono la loro libertà municipale. Infatti, le concessioni che Enrico fece per accattivarsele, specialmente Lucca, Pisa e Siena, erano sì privilegi, ma rientravano nella strategia della sua guerra contro Matilde.

"I risultati che ottenne dimostrarono la sua efficacia. Da tutte le città della Toscana, eccetto Firenze, che rimase fedele a Matilde, accorsero uomini d'arme per iscriversi sotto le insegne di Enrico; che così in pochi mesi, riuscì ad allestire un secondo esercito per ripetere l'impresa di Roma (Bertolini)".

La capitale della cristianità vide per la seconda volta davanti le sue mura l'esercito regio nel marzo del 1082. Ma anche questa volta le porte erano chiuse e i cittadini tutti pronti alla difesa. ENRICO IV lanciò un secondo proclama, manifestando sentimenti di riconciliazione; nulla però ottenne e, non potendo ritirarsi come aveva fatto l'anno precedente, senza causare un ulteriore gravissimo danno al suo prestigio, si sentì costretto a porre l'assedio alla città, mentre GUIBERTO metteva la sua sede a Tivoli, e da qui riprendeva le ostilità contro il Pontefice con l'aiuto dei baroni della campagna romana i quali avevano sposato la causa dell'antipapa.

ENRICO IV non rimase sempre a dirigere l'assedio di Roma: verso la fine del 1082 era salito in Lombardia per opporsi alla minacciata discesa di ERMANNO, il quale, sollecitato da Gregorio VII, si era diffusa la notizia che volesse passare le Alpi e marciare su Roma per togliervi l'assedio .
Non erano, infatti, del tutto false queste dicerie. L'antirè aveva effettivamente lasciato la Sassonia e si trovava nella Svevia. Arrestò però la sua marcia la notizia della morte di OTTONE di Nordheim, suo luogotenente, avvenuta l'11 gennaio del 1083, che lo costrinse a ritornare in Sassonia.
Più che nella resistenza del popolo romano, era nell'aiuto di Ermanno che erano riposte le speranze di Gregorio VII. Svanite queste e trovandosi ROBERTO il GUISCARDO in Puglia, intento a domare la rivolta, il Pontefice si trovava solo di fronte al suo formidabile nemico, che si era intanto stretto in alleanza con l'imperatore ALESSIO COMNENO dal quale aveva ricevuto cento quarantamila denari e la promessa di altri duecentomila.

Per dire il vero, Roberto non era rimasto sordo all'appello del Papa e, pur premendogli più della liberazione di Roma la repressione dei ribelli, aveva mandato al Pontefice trentamila soldi d'oro che erano valsi a far persistere il popolo romano nella resistenza. Ma Gregorio tornava a chiedere insistentemente che Roberto il Guiscardo salisse su a Roma a soccorrerlo di persona con un forte esercito e le sue richieste si diventarono più pressanti quando Enrico IV, con nuove forze, eliminata la minaccia di Ermanno, era ricomparso davanti a Roma.

Il re, infatti, dalla Lombardia, era tornato a Roma nell'inverno del 1082-83. Il suo ritorno servì a dare più vigore all'assedio che da qualche tempo languiva, e furono ripresi, dalla parte dei regi, alcuni assalti per la conquista della città. Tutti attacchi con nessun risultato, perché non solo furono respinti, ma i Romani più di una volta per rompere l'assedio fecero loro delle disperate sortite, anche se purtroppo con esito infelice.
Tuttavia gli sforzi di Enrico non erano stati del tutto inutili: stanchi erano i Romani per il lungo assedio, per i disagi e le fatiche e più ancora per la penuria delle vettovaglie. Li aveva fino allora sorretti la speranza degli aiuti del Guiscardo, ora anche questa veniva a cessare e con essa la fiducia e la resistenza, il coraggio e la vigilanza.

Se ne accorsero i nemici e non mancarono, com'era naturale, di trarne profitto. Esplorando, la notte del 2 giugno 1083, le mura della città Leonina, costatarono che in alcuni punti mancavano le sentinelle; scalarono allora le mura indifese, aprirono una breccia e così la città si trovò improvvisamente invasa. Al rumore delle armi accorsero i Romani, ma era ormai troppo tardi e il loro disperato valore non riuscì a scacciare il nemico.
Tutto però non era perduto. I regi erano soltanto padroni della città Leonina; Gregorio VII, chiuso in Castel Sant'Angelo, era più che mai risoluto a continuare 1a resistenza e questa avrebbe potuto effettuarsi se il popolo della città propria fosse rimasto fermo nel proposito di difendere il Pontefice e la libertà e contendere il passo agli invasori.

Invece ad un certo punto iniziò a tentennare e si mostrava disposto a venire ad un accordo; già premeva sul Papa, quando Gregorio, convocato un concilio il giorno di San Giovanni, sebbene pregato di rappacificarsi con Enrico, rinnovò la scomunica contro il re e i suoi partigiani. Ora il Pontefice aveva contro di sé non solo il sovrano tedesco e il suo esercito, ma la stessa cittadinanza romana che fino allora lo aveva strenuamente sostenuto; si trovava solo; eppure non si perse d'animo e con sbalorditiva costanza, nel suo ritiro dentro la mole Adriana, aspettò fiducioso gli eventi.
Alla nuova scomunica papale Enrico rispose insediando sul soglio di S. Pietro il 28 giugno 1083, vigilia della festa dei S.S. Apostoli, l'antipapa CLEMENTE III. Avrebbe potuto farsi incoronare, ma non lo fece, e questo fa pensare agli storici che lui a Roma non aveva perduto la speranza di riconciliarsi con Gregorio. Ma se Enrico sperò veramente a quello che era un legittimo desiderio, bisogna anche dire che non conosceva bene il carattere del suo avversario e non capiva quale fosse la via migliore da seguire, perché l'umiliazione di Canossa l'avrebbe potuta lavare con la caduta del Pontefice, mentre la riconciliazione gli avrebbe senza dubbio alienati gli animi dei Lombardi e dei Tedeschi ora contrari ad Ermanno, ed avrebbe ristabilito quella situazione che aveva dato luogo a così tante vicende.
Non siamo dunque sicuri se Enrico pensasse sul serio ad una futura riconciliazione con colui che non avrebbe a nessun costo rinunciato alla sua politica di riforme e di supremazia della Chiesa.
Forse per avere nelle mani il Pontefice iniziò trattative con i Romani; queste ebbero successo e condussero ad un accordo segreto. Con questo patto i Romani si obbligavano a persuadere Gregorio a desistere dalle ostilità e a incoronare imperatore Enrico; se scaduto il termine stabilito per piegare il Pontefice, questi si fosse ostinato nel rifiuto, gli avrebbero negata obbedienza ed avrebbero riconosciuto Clemente III.

La garanzia che i Romani avrebbero tenuto fede all'accordo erano il giuramento e venti ostaggi consegnati nelle mani del sovrano, il quale da parte sua s'impegnava a togliere l'assedio e allontanarsi con l'esercito e con l'antipapa.
Enrico, infatti, il l° luglio 1083, lasciato nella città Leonina un presidio di quattrocento cavalieri trincerati presso la basilica di S. Pietro, se ne tornò in Lombardia e rimandò Guiberto a Ravenna; ma, com'era da prevedersi, né il suo allontanamento né le pressioni di coloro che avevano stipulato l'accordo valsero a far piegare il Pontefice. Questi anzi, nel novembre dello stesso anno, convocò un nuovo concilio e, sebbene pregato dagli intervenuti di usare moderazione, scomunicò tutti coloro che impedivano agli ecclesiastici di recarsi a Roma a conferire con lui. La scomunica colpiva ancora un volta Enrico, il quale non soltanto aveva impedito a parecchi prelati di andare a Roma, ma ne aveva imprigionati alcuni, tra cui il cardinale Ottone, vescovo di Ostia.
Perduta ogni speranza di far cedere il Pontefice e irritato dalla nuova scomunica, Enrico IV scese per la quarta volta su Roma. Celebrò il Natale dell'83 in San Pietro e qui, quel giorno stesso ricevette un legato di ALESSIO COMNENO giunto a Roma a sollecitarlo affinché - secondo i patti stabiliti - muovesse nel Sud contro il Guiscardo, che, domati i ribelli in Puglia, si preparava a ripartire per la Dalmazia per riprendere la sua campagna di conquiste in Oriente. Il legato portava ad Enrico grosse somme di denaro e di queste si servì il re per corrompere il popolo romano.
Nèll'attesa che l'oro dell'Oriente producesse il suo effetto, Enrico partì per la Campania e si recò nella Puglia. Di questa spedizione nel Sud di Enrico solo il cronista tedesco EKKEARDO ne fa menzione e, perciò, parecchi storici moderni la mettono in dubbio o la negano del tutto. Se veramente avvenne, non cambiò la situazione nell'Italia meridionale anche perché -se vera- durò pochissimo, infatti non esistono invece dubbi che nel marzo del 1084 il re era nuovamente davanti a Roma e il 21 dello stesso mese per la porta di S. Giovanni, Enrico faceva il suo solenne ingresso nella città, accolto con festa dalla popolazione.
Primo suo pensiero fu quello di riunire a concilio tutti i vescovi fatti scendere dalla Lombardia e dalla Germania per giudicare Gregorio VII. Il concilio citò tre volte a comparire il Pontefice e, non essendosi presentato, lo depose dal soglio di S. Pietro e lo colpì di anatema.
Il 24 marzo 1084, CLEMENTE III fu solennemente consacrato e una settimana, dopo, l'ultimo giorno di marzo, il 31, dalle mani dell'antipapa, ENRICO IV e la regina Berta ricevettero con grande solennità la corona imperiale.
Dopo queste formalità non rimaneva ad Enrico che di espugnare le ultime fortezze che erano ancora in possesso di Gregorio: il Settizonio, dov'era il monumento dell'Imperatore Severo che sorgeva all'estremità meridionale del Palatino, il Campidoglio e Castel Sant'Angelo. Il Settizonio, che era difeso da RUSTICO, nipote del Papa, oppose dura resistenza (fra danni procurati dai tedeschi, furono infrante le stupende colonne) ma poi gli imperiali ne ebbero ragione. La stessa sorte toccò poco dopo al Campidoglio, poi venne la volta della Mole Adriana, dove era rinchiuso GREGORIO VII.

ENRICO IV aveva cinto di assedio il castello ed aveva ordinato che intorno ad fosse costruita una muraglia per isolare e affamare i difensori, quando gli giunse la notizia che Roberto il Guiscardo, alla testa di un poderoso esercito, marciava alla volta di Roma.
A questa notizia, data dall'abate DESIDERIO di Montecassino, l'imperatore non sentendosi tanto forte da sostener l'urto del Normanno e non volendo con un insuccesso compromettere i vantaggi che aveva conseguiti, decise di lasciare Roma. Convocato, pertanto, un parlamento di popolo, disse che, dovendo temporaneamente assentarsi, affidava ai Romani il compito di continuare l'assedio di Castel Sant'Angelo e di difendere la città, promettendo che presto sarebbe ritornato ed avrebbe premiato tutti gli atti di valore. Poi partì con il suo esercito e l'antipapa. Era il 21 maggio del 1084.

SACCHEGGIO DI ROMA "LIBERATA" - MORTE DI GREGORIO VII

ROBERTO il GUISCARDO era sul punto di partire per l'Oriente, dove l'esercito lasciato in Macedonia a Boemondo si era ribellato e disciolto, quando gli avvenimenti di Roma, comunicatigli dall'Abate di Digione e da altri cardinali, lo consigliarono a rimandare la spedizione in Grecia ad altri tempi e a correre subito in aiuto del Pontefice. Nel decidersi a questa cambiamento di programma, non solo manteneva un impegno che molto prima avrebbe dovuto assolvere, ma faceva il proprio interesse perché un trionfo di Enrico a Roma poteva costituire una gravissima minaccia per il Sud e quindi anche per lui.
Allestì nella Puglia, nella Calabria e nella Sicilia un esercito di trentamila fanti e seimila cavalieri, fra cui non pochi erano Musulmani inviatigli dalla Sicilia dal fratello Ruggero, e partì alla volta di Roma, sotto le cui mura giunse il 24 maggio 1084, tre giorni dopo la partenza di Enrico.

Roberto mise il campo davanti la porta S. Giovanni e all'alba del 28 maggio, essendogli state aperte per tradimento, come alcuni dissero, le porte Pinciana e Flaminia o, come altri scrivono, essendo riusciti alcuni dei suoi a scalare le mura. In ogni caso, penetrò con le sue numerose orde dentro Roma senza dar tempo ai Romani di difendersi.
Si rinnovarono allora nella città papale le scene selvagge dei Visigoti e dei Vandali: le schiere del Normanno percorsero la città saccheggiando case, templi, basiliche e monasteri, uccidendo barbaramente nelle vie o nelle abitazioni devastate uomini e donne, vecchi e fanciulli, oltraggiando, stuprando, bruciando, al grido di guerra "Guiscardo! Guiscardo!".

Tutto il vasto tratto che si stende dal Campo Marzio al ponte Adriano fu preda delle fiamme e dei monumenti che ancora vi sorgevano da oltre un millennio non si salvarono che il mausoleo di Augusto e la colonna Antonina.
Un immane incendio divampò dal Colosseo al Laterano distruggendo antiche e nuove basiliche come in una fornace. Dopo tre giorni due terzi di Roma non esisteva più.

Un vero scempio, degno di pagani selvaggi e di belve inferocite, e non di cristiani, quali erano in gran parte i guerrieri di Roberto, e per giunta fedeli vassalli che volevano liberare il Pontefice. Quel tratto di Roma non risorse più dalle rovine, come se vi fosse passato un tornado e venti anni dopo, visitandolo, il vescovo IDELBERTO di TOURS riferiva che era "un deserto sparso di macerie".

Gregorio VII fu liberato da Castel Sant'Angelo e condotto in trionfo nel palazzo lateranense. Ma quale trionfo! Tutto intorno a lui era strage e desolazione portate dai "liberatori" e i lamenti dei moribondi, gli urli dei piccoli sgozzati e le grida delle donne violentate giungevano al suo orecchio come maledizioni del popolo, in mezzo al quale, sebbene vincitore, egli non sarebbe potuto più rimanere.
Né gli orrori erano finiti. L'antipapa CLEMENTE con le milizie lasciategli da Enrico si era rinforzato a Tivoli. Ci andò di persona Roberto il Guiscardo ad assediarlo, ma vedendo che avrebbe impiegato troppo tempo per ridurla in suo potere ed anche perché era desideroso di lasciare il Lazio e ricominciare l'impresa di Oriente, se ne allontanò, ma prima volle lasciare un segno del suo passaggio, tagliando gli alberi, bruciando le messi e distruggendo tutto quanto si trovava nel territorio di Tivoli.
Verso la fine di giugno se ne tornò a Roma e poco dopo partì alla volta dei suoi domini: lo seguì per un tratto Gregorio VII, cui non bastava l'animo di rimanere ora a Roma dopo tanti orrori dovuti alla sua ostinazione, lo seguivano vescovi e cardinali rimasti fedeli al Pontefice e, una lunga colonna di ostaggi oltre a trascinarsi un gran numero di prigionieri, nobili e plebei, le migliori uomini legati con funi, destinati ad esser venduti come schiavi nei mercati, o le donne a riempire i postriboli normanni, nella Puglia e in Calabria.

Lungo il percorso fece un breve soggiorno a Montecassino, poi il Papa giunse a Benevento, dove si fermò tutta la seconda metà di luglio, poi si recò a Salerno in cui fissò la sua dimora. Triste sorte di un grande Pontefice, il quale, dopo avere per tanti anni diretta la politica della Santa Sede, dopo avere umiliato l'impero e il sovrano e fatto trionfare la teocrazia, dopo essere stato l'arbitro dell'Europa occidentale e l'idolo del popolo romano, era costretto dalla sua stessa vittoria ad abbandonare la capitale del mondo cristiano in cui sorgeva il suo trono, a seguire le schiere dei Saraceni "liberatori", contro di cui altra volte aveva vagheggiato la guerra santa; e a vivere in esilio del pane del suo feroce vassallo che in precedenza la sua scomunica aveva colpito e che ora gli offriva ospitalità.

"Tuttavia, convinto della suprema giustizia del suo sistema, Gregorio VII non si lasciò sgomentare dall'insuccesso materiale; aumentò anzi il suo ardore per conseguire il trionfo finale. L'indomito, piegato ma non spezzato, inviò legati per tutto l'occidente a fare raccolta di danaro e di soldati della fede, a capo dei quali egli sognava di potere rientrare in Roma da trionfatore: meditava anche di convocare un sinodo in un luogo sicuro, dove amici e nemici potessero convenire senza pericoli; ma questi sforzi estremi non gli fruttarono che nuovi disinganni; i legati ritornarono con le tasche vuote e senza soldati, attestando con il loro insuccesso, che le nazioni cristiane erano stanche di questo sanguinoso litigio, e che ad un papa il quale aveva tenuto sempre in mano la spada di San Paolo, essi ne preferivano uno più cristiano, il quale governasse la Chiesa con il pastorale e con la croce" (Bertolini).

Nella successiva primavera (del 1085) GREGORIO VII il 18 maggio egli dichiarò ai suoi famigliari che gli rimaneva soltanto una settimana di vita. Richiesto quale successore egli designasse, rispose consigliando di sceglierlo fra i tre che lui stimava più fedeli alla sua politica e maggiormente capaci di sostenere il conflitto ingaggiato dalla Chiesa: DESIDERIO abate di Montecassino, OTTONE vescovo di Ostia, UGO arcivescovo di Lione.

Il 25 maggio - come aveva predetto - fu l'ultimo suo giorno di vita.
Era da solo nella chiesa di San Matteo, fu colto da malore, a carponi raggiunse l'altare, e lì lo trovarono i suoi accorsi soccorritori.
Li benedisse e assolse tutti gli scomunicati, "eccetto Enrico", l'antipapa e i principali capi della fazione avversa. Poi le sue ultime parole, che furono degne dell'uomo, che fin sull'orlo della tomba manteneva immutabile la sua fierezza:
"Ho amato la giustizia, ho odiato l'iniquità ed è per questo che muoio in esilio". (Dilexi justitiam, et odivi iniquitatem propterea morior in exilio).
Si vuole che un vescovo gli facesse osservare come le parole del salmista non si adattassero bene a lui che non moriva in esilio ma nella propria casa, perché come vicario di Cristo e degli Apostoli, egli era legittimo sovrano di tutti i popoli e vero signore di tutta la terra; ma il Pontefice non rispose: era già spirato.

Ebbe la sepoltura nel duomo di Salerno, dove nel 1557 gli fu eretto un magnifico mausoleo. Nel 1584, per opera del papa bolognese Boncompagni (Gregorio XIII) fu santificato, e un altro Papa, Paolo V Farnese, nel 1607 ordinò che il 25 maggio, che ricorda la morte del grande Pontefice, fosse consacrato a lui. Tale consacrazione, limitata alla diocesi salernitana, fu da Benedetto XIII nel 1728 estesa a tutto il mondo cristiano.

La figura e l'opera di GREGORIO VII sono state, nel corso dei secoli, variamente giudicate, oggetto di altissima lode e di severissimo biasimo, l'una e l'altro sovente esagerati o ingiusti. Certo l'opera del grande Pontefice non presenta nulla di nuovo come concezione, perché già altri prima di lui avevano tentato le vie dove lui procedette, e sogno di molti uomini e di molti anni erano la riforma ecclesiastica e la supremazia politica del Papato sui principati della terra; ma Gregorio VII ebbe il merito di unire strettamente tutte le vecchie questioni, presentarle come i vari aspetti di uno stesso problema e cercarne complessivamente la soluzione e il trionfo; e nessuno mostrò tanta tenacia, tanta risolutezza, tanta audacia e tanta fierezza quante ne mise in opera lui nel tradurre in atto la sua politica.

"Quali che siano stati gl'intenti che guidarono l'opera d'Ildebrando - scrive il Lanzani- e quali ne siano stati gli effetti, non si può negare che nella storia della civiltà europea una tale opera segni il principio di un'epoca importantissima, poiché, con essa trovarono principalmente, dirò così, il proprio posto, i fondamentali elementi della vita occidentale, fino allora fra di loro troppo confusi e indistinti; ed ebbe un campo determinato quel conflitto di due ordini differenti d'idee e d'istituzioni, dal quale, come risultante di due forze contrarie, doveva prodursi il movimento progressivo dei popoli.
"Se l'umana grandezza -osserva il Raumer- si sviluppa quasi solo nella lotta e nella resistenza, se soltanto con un laborioso esercizio possono le forze liberamente esplicarsi, possiamo a buon diritto sostenere, essere stata la grave lotta della spirituale e secolare autorità ciò che all'uman genere dischiuse un campo della più salutare autorità.
Senza disconoscere i molti e grandi mali, che da quella lotta sono poi sopraggiunti, possiamo però domandarci se allora, senza una reciproca resistenza, non sarebbero venuti i due poteri (come presso i califfi arabi) in una sola mano, e pertanto in un modo ancor più orribile non avrebbero invaso la società tirannide ed una universale corruzione".

Nelle condizioni in cui si trovava l'occidente nel secolo undecimo, l'assoluta supremazia della politica potestà, rappresentata dall'impero, poteva essere un impedimento al libero e pieno sviluppo della civiltà europea, non meno dell'attuazione del "dictatus papae", tentata un secolo e mezzo dopo da INNOCENZO III.
Se CARLO MAGNO rappresenta il primo momento, in cui il mondo barbarico si ricompone politicamente, GREGORIO VII segna il principio del suo morale rinnovamento: il quale non ha certamente un'importanza minore del primo, né dinanzi allo storico, né dinanzi al filosofo.
"L'opporre che la riforma della società ecclesiastica, condizione del rinnovamento morale e sociale dell'occidente, avrebbe dovuto effettuarsi in un ordine tutto religioso, senza nessuna transizione fra le istituzioni cattoliche e gli ordinamenti feudali, torna giusto dinanzi ad una morale astratta, ma non ha storicamente alcun valore. Il sistema di Ildebrando non era una pura astrazione filosofica, era destinato a "riformare" la società, non a "creare" una società; si riferiva non solo ai bisogni religiosi e morali, ma ancora ad interessi materiali; per tradursi in atto, doveva prendere la società quale essa gli si presentava, far propri i suoi elementi, vivere della sua vita.

Tutte le più grandi idee, che di età in età si sono l'una alle altre passate la fiaccola della civiltà, non sono mai entrate nell'ordine dei fatti, se non dopo essersi adattate alle condizioni sociali, che le idee dovevano riformare; anzi, si può affermare che queste idee sono esse stesse un prodotto di tali condizioni, le quali pertanto contengono in sé medesime le ragioni, i mezzi e le forme del loro rinnovamento. Lo stesso cristianesimo aveva potuto imporsi all'antica società ed alle nuove, appunto perché soddisfaceva ad un bisogno di quella, perché completava l'esistenza di queste.
"Anche la riforma di Gregorio VII soddisfaceva ad un sentimento, ad un bisogno generale: e se parve che egli morisse non avendo nulla compiuto il suo grandioso programma, non estirpata la simonia, non abolite le investiture, e lasciando la Santa Sede in balia di un antipapa, i suoi successori non fecero che seguire, più o meno direttamente, la via da lui tracciata; tutto ciò che nella sua opera vi era di necessario per la civiltà, non mancò allo scopo nel decorso dei tempi; tutto il medio evo visse dei suoi concetti. Se poi Ildebrando, per disciplinare il sacerdozio, purificare la Chiesa o rinfrancare l'autorità, ricorse ad un'inumana istituzione, non se ne incolpò tanto quell'anima energica ed austera, quanto la corrottissima società, i "mali estremi" della quale parvero a lui richiedere "estremi rimedi".

" Per quanto in quest'uomo straordinario nulla vi fosse di mediocre, né la pietà né l'odio, né l'entusiasmo né la dialettica, nonostante quel certo che di assoluto e di tirannico che vi era nelle sue convinzioni (per questo lo stesso S. Damiano lo chiamava il suo "Santo Satanno e ostile amico e flagello Assur"), nonostante la durezza con la quale perseguì i suoi oppositori, nonostante le sanguinose guerre con cui la sua politica agitò per tanti anni la Germania e l'Italia, Gregorio VII non si presenta dinanzi al giudizio della posterità con quel carattere freddo, insensibile, che contraddistingue i campioni della teocrazia; la storia non gli può rinfacciare nessuno di quegli atti, onde dopo di lui la porpora papale si trovò contaminata di sangue.
"Dalle sue lettere traspira qualche cosa che è superiore ai suoi tempi e che lo rende simpatico insieme e da ammirare. Noi lo troviamo sempre dove c'è un debole da difendere, un'ingiustizia da impedire o da riparare. In quegli stessi superbi decreti, nei quali furono notificati ai grandi della terra i voleri inappellabili della sacra corte romana, era pure raccomandata la protezione delle vedove, degli orfani, degli schiavi. Fu in pieno concilio che, contro una feroce e generale consuetudine di quei tempi, fu ordinato da Gregorio, sotto pena di scomunica, di rispettare la persona e gli averi dei naufraghi.
Tutt'altro che duce intollerante della propria casta, Gregorio VII portò a comparire davanti a giudici laici i vescovi accusati di dilapidazioni nell'ordine temporale: onde nello stesso sinodo di Worms, fu proprio incolpato di circondarsi di uno sciame di laici.
"Il nome di Gregorio VII, canonizzato dalla Chiesa, fu fino ai nostri giorni oggetto di declamazioni di ogni natura, ora portato alle stelle, ora vilipeso, secondo le passioni dei partiti; la storia non lo può collocare se non nel numero dei grandi; in tutto il medio evo non troviamo certamente un uomo eguale per potenza di genio, per vastità di concetti, per sincerità d'intenti, per perseveranza di propositi, per eroismo di sacrificio".

Guglielmo Apulo, l'estensore delle "Gesta di Roberto il Guiscardo", dirà di lui che "vitaque doctrina non discordare solebat", che è stato cioè coerente a se stesso, senza discordanza tra vita e ideali. E' la più difficile realizzazione umana. Ed anche il migliore elogio funebre che un uomo giusto possa avere.

Gregorio dopo essere vissuto con intelligenza pari solo al coraggio, precorsi i tempi, rotti gli argini, andato controcorrente; dopo aver lottato, essere stato ingiuriato, umiliato, sconfitto ma non piegato, amareggiato muore ma ha inizio la lunga storia travagliata, ma fondamentalmente positiva: la civiltà occidentale compie un sostanziale salto qualitativo. Le forze che Gregorio ha messo in moto sono inarrestabili, anche se travolgeranno nella loro corsa la stessa umanità che le ha prodotte.


FINE DI ROBERTO IL GUISCARDO E DEL
CONTE RUGGERO DI SICILIA

ROBERTO il GUISCARDO dopo le "prodezze" a Roma, e avere lasciato lungo la strada il Pontefice (a Montecassino), e si era precipitò nuovamente in Puglia. Il suo assillante pensiero era di tornare in Grecia, rinnovare le conquiste perdute, poi giungere a Costantinopoli vittorioso e cingervi la corona imperiale; lo assillava così tanto quest'ambiziosa idea, che, fatti in poco tempo i preparativi per la spedizione, già alla fine del settembre del 1084 salpò da Brindisi.
Lo accompagnavano i figli BOEMONDO, già ritornato in Italia, RUGGERO, ROBERTO e GUIDO e molti suoi conti miranti alla gran conquista che il loro sovrano faceva sperare fantasticando. Sbarcato ad Aulona, vi rimase qualche tempo a causa dei venti contrari; rioccupata Butrinto, vi lasciò i figli e una parte delle sue truppe, poi rivolse le prore verso il porto di Corfù dove erano -unite nella difensiva- ancorate le navi veneziane e bizantine.

Queste per ben due volte respinsero l'attacco normanno, ma al terzo dopo un'accesa battaglia, -poi si disse- per il tradimento del veneziano PIETRO CONTARINI, la flotta di Venezia, comandata dal figlio del Doge DOMENICO SELVO, fu sconfitta.
I Bizantini, venuto meno il coraggio, si ritirarono lasciando soli i Veneziani, i quali tuttavia combatterono accanitamente e la vittoria sarebbe certamente venuta se il gran numero dei combattenti, che assommavano a circa tredicimila, per il loro accorrere sul lato delle galere minacciate d'abbordaggio non avesse impedito il movimento delle navi.
Sette navigli furono colati a picco, altri caddero in potere dei Normanni; dei combattenti veneziani parte scampò, tremila perirono nelle acque o nella battaglia, e duemilacinquecento furono fatti prigionieri.
La vittoria normanna procurò un gravissimo senso di sgomento a Costantinopoli; mentre a Venezia i nemici del doge Contarini, approfittando dell'impressione suscitata dalla cocente sconfitta, gli scagliarono il popolo contro e, depostolo, lo sostituirono con VITALE FALIERI.

I rigori del sopraggiunto inverno (1084-1085) impedirono altre azioni navali e Roberto il Guiscardo, raccolta la flotta nel porto di Butrinto, vi trascorse i primi mesi del 1085, durante i quali l'esercito normanno fu decimato da una terribile pestilenza, che in quel tempo, con la carestia, infieriva in Italia e fuori, poi all'inizio della primavera, ripreso il combattimento, si aggiunse una sconfitta che le navi veneziane, venute alla riscossa, inflissero all'armata normanna tra Butrinto e Corfù, dove poco mancò che Sigelgaite sua moglie, e il figlio Ruggero con il figlio Guido non rimanessero prigionieri.

Giungeva intanto in giugno al Normanno la notizia della morte di Gregorio VII. Passò poco più di un mese quando anche il Guiscardo scomparirà dalla scena italiana
Discordi sono le notizie circa la fine del grande guerriero normanno, avvenuta il 17 luglio del 1085 a Cefalonia, dove, il figlio Ruggero e Sigelgaite si erano già recati. Forse perì colpito da quella stessa epidemia che in tre mesi gli aveva annientato circa diecimila soldati, ma i cronisti, non appagandosi di una fine non molto acconcia a un grande condottiero, diedero vita, prestandovi fede, a fatti che altri ritengono solo leggenda, anzi leggende.

Secondo alcuni Roberto morì per aver bevuto l'acqua di alcune fonti che l'imperatore ALESSIO COMNENO aveva fatto avvelenare (i sintomi di pestilenza con un avvelenamento qui quasi concorderebbero), secondo altri fu Sigelgaite che uccise il marito. Il motivo che avrebbe spinto la donna a disfarsi del duca anche questo è diversamente riferito e del romanzesco racconto hanno due versioni. Colpito dalla pestilenza - così narrano alcuni - Boemondo, figlio di primo letto del Guiscardo, era andato a Salerno per farsi curare dai valenti medici di quella città. Sigelgaite, la quale temeva che, morto il marito, Boemondo disputasse a Ruggero, primogenito delle seconde nozze, la successione al ducato, fece dai medici somministrare al figliastro, per sbarazzarsene, alcune bevande velenose. Scoperta la congiura, Boemondo scrisse al padre che periva vittima dell'odio della matrigna. Ricevuta la lettera, il Guiscardo chiese alla moglie se il figlio vivesse ancora o fosse morto e, avendo quella risposto d'ignorarlo, brandito con la destra un pugnale e stesa la sinistra sul Vangelo, giurò cupamente di ucciderla se Boemondo fosse perito del male che lo consumava. Atterrita dalla minaccia, Sigelgaite ordinò subito ai medici salernitani di salvare con un antidoto Boemondo, che difatti guarì, ma temendo che l'ordine suo non giungesse a tempo, per evitare la punizione avvelenò Roberto e, bruciate le navi, fuggì con alcuni longobardi a lei devoti.
Questa versione, la possiamo immaginare, fu senza dubbio suggerita dall'odio dei Normanni contro gli antichi dominatori di Salerno, cui Sigelgaite, essendo sorella di Gisulfo, apparteneva o dalle lotte che più tardi (infatti) scoppiarono tra Boemondo e Ruggero.

L'altra versione è certamente uno di quei romanzi che i cronisti medioevali si compiacevano di abbellire le loro narrazioni. Secondo quest'altra versione, Sigelgaite, sedotta dall'amore dell'Imperatore Alessio Comneno e vinta dalla promessa che aveva ricevuto che l'avrebbe sposata e fatta imperatrice, pregustando già il trono (senza attendere la dubbia impresa del marito) uccise il Guiscardo; andata poi a chiedere il premio del suo delitto, fu invece dall'imperatore d'Oriente condannata al rogo come uxoricida.

Roberto era la mente che aveva voluta la spedizione in Oriente ed era l'unico uomo che avesse saputo, nonostante la strage prodotta dalla pestilenza, mantener salda fra i suoi guerrieri la fiducia nella vittoria finale. Morto lui, mancò improvvisamente questa fiducia: l'assedio di Cefalonia fu abbandonato, fu lasciato pure il grande bottino conquistato e fu presa precipitosamente la via del ritorno in Italia. Durante la navigazione sfasciatasi la nave che portava il corpo del conquistatore, a stento si riuscì a ripescare la salma del Guiscardo. Il cuore e le viscere furono poi tumulati ad Otranto, il corpo, imbalsamato, trovò invece sepoltura nella Chiesa della Santa Trinità di Venosa accanto alle tomba dei fratelli.

Roberto il Guiscardo lasciava un solo fratello: RUGGERO, conte di Sicilia, e quattro figli maschi, il maggior dei quali, BOEMONDO, nato dalla prima moglie Alverada. Di questi tre ultimi, il maggiore, di nome RUGGERO, era già stato riconosciuto duca dall'esercito. Ma Boemondo, che affermava di aver maggior diritto alla successione paterna, mosse guerra al fratellastro. Dopo alcuni mesi di lotta, la contesa fu composta per opera dello zio conte di Sicilia (maggio del 1086): il ducato di Puglia rimase al giovane Ruggero, Boemondo ottenne alcune città fra le quali Taranto, Otranto e Gallipoli.
Quasi a compensarlo della mediazione il giovane duca Ruggero cedette allo zio dello stesso nome quella parte di Calabria che il Guiscardo aveva sempre tenuto per sé.
Essendosi nel 1091 i Cosentini ribellati al duca di Puglia, vi si precipitò Ruggero di Sicilia con le sue milizie, fra cui vi erano parecchie migliaia di Saraceni, e riuscì a sottomettere la città all'obbedienza del nipote, aggiungendogli in dono metà Palermo.
Né questo fu l'ultimo e valido aiuto prestato dallo zio al giovane duca: lo soccorse con successo nella ribellione del conte GUGLIELMO di GRANTISMENIL, genero del Guiscardo (1094), nella ribellione di Amalfi del 1096 e nel riacquisto di Capua, che aveva cacciato Riccardo II successo a Giordano (1098).

Al colmo della sua potenza (erano passati 16 anni dalla morte del Guiscardo), RUGGERO di Sicilia fu colto dalla morte il 22 giugno del 1101 e fu sepolto nel duomo di Mileto da lui stesso fondato.
Ruggero ebbe tre mogli: la famosa GIUDITTA, figlia del conte d' Evrieux, EREMBERGA, figlia del conte di Moriton, e ADELAIDE di Monferrato.

Dalla prima ebbe MATILDE che sposò nel 1080 a Raimondo conte di Tolosa e di Provenza; dalla seconda gli nacquero GOFFREDO e MALGERIO (Giordano, che morì dopo la conquista di Malta, era figlio naturale), e diverse figlie: Flandria, che andò sposa ad Ugo di Jersey, Giuditta al conte di Conversano, Busilla moglie di Coloman re d' Ungheria, Costanza maritata a Corrado figlio di Enrico IV, ed Emma che fu chiesta dal re Filippo I di Francia e poi sposò il conte Fiberto di Clermont.
Dalla terza moglie ebbe due maschi, SIMONE e RUGGERO che alla morte del padre contavano il primo otto anni, e dieci il secondo.

"Fortissimo braccio, - scrive di Ruggero il La Lumia - intrepido cuore, dritto e sagace ingegno: approfittò delle condizioni esistenti, piegandole ad un alto concetto, senza follemente aspirare a distruggerle con inutile prova: fondatore di uno stato, seppe imprimervi, con sembianze speciali ed insolite, una fermezza e un vigore che mancava in quell'epoca a monarchie secolari; molto maggiore al suo compatriota e contemporaneo Guglielmo che soggiogò l'Inghilterra, lui seppe con mezzi più piccoli, con modi più benigni e più giusti, conseguire il suo fine; figura che grandeggia egualmente sia davanti alla leggenda come ugualmente davanti alla storia".

Mentre il Palmeri così di entrambi ne parla nella sua "Somma della storia di Sicilia":
"Ruggero era bellissimo, di gran taglia, destro nel maneggiare le armi; ed a ciò univa estrema forza, non minor coraggio, eloquenza, sagacità, maturità di consiglio, modi piacevoli. Due guerrieri della stessa nazione intrapresero e condussero fino in fondo e nello stesso tempo la conquista di due isole poste agli estremi d'Europa; GUGLIELMO dell'Inghilterra, RUGGERO della Sicilia, ed entrambi si distinsero per il valore, qualità allora comune a tutti di quella nazione. Certo fornì prova Guglielmo di altissimo intendimento nel comporre un governo tutto nuovo; ma non possiamo tacere di essere stato un crudelissimo oppressore dei suoi nuovi sudditi, che lui spogliò dei loro beni, per saziare la cupidigia degli avventurieri normanni. Intraprese e realizzò il reo disegno di spegnere tutte le famiglie opulente di quel regno; Guglielmo volle abolite le leggi, le consuetudini e perfino la lingua di quel popolo; ammise per la prima volta in quel regno un legato pontificio, di cui però se ne servì come uno strumento per cacciare dalle loro sedi tutti i precedenti prelati per poi appropriarsi dei loro beni. Le sue oppressioni furono la causa di frequenti rivolte, ed ogni rivolta faceva seguire le più crudeli oppressioni; tali che la Francia, la Scozia e l'Irlanda furono piene di profughi inglesi, chi accecato, chi con le mani mozze, chi i piedi, e non di meno tutti gli altri resi miserabili.

"Il conquistatore della Sicilia al contrario, lungi dall'intraprendere a sottoporre i Siciliani ad un nuovo governo, pare che abbia avuto il disegno fin dall'inizio di non far loro nemmeno avvertire il cambiamento. Tranne quelle terre, che per diritto di guerre vennero in suo potere, e delle quali compensò i suoi capitani e con donazioni le chiese, Ruggero non molestò mai gli antichi possessori. Mentre il conquistatore dell'Inghilterra, per far perdere al popolo vinto perfino l'uso della lingua natale, istituì in ogni luogo scuole di lingua francese e volle che questa sola lingua si parlasse nelle corti di giustizia nei parlamenti, nelle cattedre, nel pergamo, il conquistatore siciliano ritenne che era più duro imporre ai popoli e molestare le private abitudini, che non gli interessi; e per questo motivo, tutto ciò, che doveva essere portato a notizia del popolo, lui volle che fosse scritto nelle lingue che si parlavano più comunemente in Sicilia".

Quanto afferma Palemeri, qualcosa di vero c'è: mentre il conquistatore dell'Inghilterra ammetteva nel suo regno un legato pontificio a dominare le credenze, Ruggero seppe chiudere l'ingresso in Sicilia a chiunque voleva giungervi con tali intendimenti.
Ma ciò che mette il conte Ruggero al di sopra, non solo di re Guglielmo, ma di tutti i principi dell'età sua, è la sua imparziale condotta verso tutti i suoi sudditi, quale che fosse stata la loro religione; Ruggero pur zelante della religione cristiana, legato alla chiesa latina, non molestò mai i Greci ed i Musulmani, che in gran numero erano in Sicilia; anzi di quest'ultimi formò un corpo della sua milizia ("arcieri saraceni") che teneva sempre presso di sé come guardia della sua persona. Ed a tale sua bontà si deve principalmente ascriversi, se in Sicilia durante il suo governo non ci fu mai una ribellione; il suo ministro delle finanze era un Musulmano; gran parte degli uffici pubblici, e nella stessa corte, erano diretti da Arabi; lettori di scritture maomettane, evangeliche o ebree, vecchi e nuovi nobili, alti gradi militari saraceni, bizantini o normanni si incontravano al suo palazzo senza alcun risentimento o rancori, ma solo per cooperare tutti insieme. I burocrati, i capi militari, avevano nomi latini, arabi, greci.
Grida di muezzin dai minareti chiamavano i propri fedeli islamici alla preghiera, mentre vicino le campane di una chiesa o di un monastero chiamavano i loro fedeli cristiani.
E oltre le religioni, erano rispettate le costumanze di ogni razza.
Non era raro vedere in uno stesso rione abitare arabi, siculi, latini, bizantini, normanni, e nello stesso rione prosperare commercianti lombardi, ebrei, genovesi, amalfitani.

Non così in Inghilterra sempre agitata dagli sforzi degli Inglesi di scuotere il giogo del nuovo governo rendendo la vita di Guglielmo sempre agitata e precaria. E se Guglielmo si vantava di essere il creatore del diritto pubblico d'Inghilterra, le tante sue creazioni furono poi la causa principale di tante ostilità che agitarono il suo regno e ne prepararono altre ben più gravi nei regni successivi.
Ruggero, invece conservando tutto quello che trovò in Sicilia, rese accettabile, per non dire caro ai popoli, il nuovo governo e spianò la strada alle riforme (e a quella irripetibile civiltà) che poi crearono i suoi successori.
Guglielmo morì detestato da tutti i suoi sudditi, Ruggero di Sicilia fu accompagnato al sepolcro dal compianto: dei Siciliani, dei Greci, dei Saraceni, degli Ebrei, dei Longobardi e dei Normanni.

Infine un ultima cosa: per capire perché il periodo dei normanni in Sicilia fu chiamato, il "Secolo d'oro". Perché i Normanni amarono la Sicilia, e gli fecero vivere una singolare pace interna; in ogni settore si avvalse dell'esperienza congiunta di tutti i popoli, l'arte e la cultura conobbe una fioritura eccezionale, e splendeva Palermo per bellezza e benessere come nessun'altra città dell'Europa continentale.
E risplende ancora di quelle bellezze; ad elencarle non serve, le bellezze di Palermo non si descrivono, si devono "solo vedere", respirando contemporaneamente "la sua aria".

FINE

Ora torniamo indietro di qualche anno ripartendo dalla morte di Gregorio VII e l'eredità che lasciava al suo successore papa Vittore III; poi la morte di Enrico IV, e l'ascesa al soglio di Urbano II il Papa, che con Pietro l'Eremita, bandì la Prima Crociata, al grido "Dio lo vuole!".
è il periodo dall'anno1085 al 1106 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI