ANNO 1106 - 1125

ENRICO V-IL PAPATO - CONCORDATO DI WORMS - MORTE ENRICO V

ENRICO V E PASQUALE II - I CONCILII DI GUASTALLA, DI TROYES E DI ROMA E LA QUESTIONE DELLE INVESTITURE ECCLESIASTICHE - DIETA DI RATISBONA - PRIMA SPEDIZIONE DI ENRICO V IN ITALIA - IL PATTO DI SUTRI - INGRESSO DI ENRICO A ROMA - TUMULTI ROMANI CONTRO I TEDESCHI - PRIGIONIA DI PASQUALE II - CORONAZIONE IMPERIALE DI ENRICO V - RISCOSSA DEI GREGORIANI - CONCILIO LATERANENSE DEL MARZO 1112 ED ANNULLAMENTO DEL PRIVILEGIO DI PASQUALE II - CONCILIO DI VIENNE - PASQUALE II NELL' ITALIA MERIDIONALE - MORTE DELLA CONTESSA MATILDE - L'EREDITÀ DELLA CONTESSA - SECONDA SPEDIZIONE DI ENRICO IN ITALIA - MORTE DI PASQUALE II - ELEZIONE DI GELASIO II - ENRICO A ROMA - FUGA DI GELASIO - ELEZIONE DELL'ANTIPAPA GREGORIO VIII - FUGA IN FRANCIA E MORTE DI GELASIO II - CALLISTO II - CONCILIO DI RHEIMS - TRIONFO DI CALLISTO E FINE DI GREGORIO - IL CONCORDATO DI WORMS - FINE DI CALLISTO II ED ELEZIONE DI ONORIO II - MORTE DI ENRICO V
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DA ENRICO IV AD ENRICO V

Salito sul trono nel modo che abbiamo narrato nel precedente capitolo, ENRICO V conseguì quello che suo padre invano si era sforzato di ottenere: la pacificazione della Germania, da tutti invocata. Ma questa non fu conseguita senza rappresaglie rivolte sui partigiani di Enrico IV; infatti, Colonia fu costretta a pagare una forte somma; il duca di Lorena, che aveva impedito alle milizie del giovane re ribelle di passare la Mosella, fu imprigionato e privato dei beni che furono ceduti ad altri; e il conte di Fiandra con le armi fu ridotto anche lui all'obbedienza.
Verso il Papa - dovendo il proprio successo al partito ecclesiastico - si mostrò all'inizio obbediente e fedele; ma questo era un contegno fittizio di Enrico V che non poteva avere lunga durata. Il giovane sovrano, forse più del padre, voleva che l'impero non fosse asservito alla Chiesa, e, rafforzatosi sul trono, si tolse la maschera dal viso e mostrò chiaramente quali erano le sue intenzioni.

L'occasione per rivelarle gliele porse lo stesso Pontefice: nell'ottobre del 1146, trovandosi in Lombardia, PASQUALE II convocò a Guastalla, che apparteneva alla contessa Matilde, un concilio in cui confermò il divieto gregoriano delle investiture ecclesiastiche, minacciando di scomunicare i laici che le avessero conferite e gli ecclesiastici che le avevano ricevute.
Al concilio intervenne, con altri vescovi tedeschi, l'arcivescovo BRUNONE di Treviri, il quale recò al Pontefice una lettera del sovrano in cui questi assicurava la sua filiale devozione alla Chiesa e al suo Capo, e pregava Pasquale affinché si recasse ad Augusta per comporre un dissidio sorto tra il re e i grandi vassalli.
Il Papa si mostrò lieto dell'invito, che rappresentava una conferma palese della supremazia della Santa Sede, e promise di andare nel novembre in Germania, ma, quando seppe che i vescovi e i principi tedeschi avevano ostilmente accolto il divieto delle investiture, rinunciò al viaggio ad Augusta, volse i suoi passi verso la Francia e da qui, mando lui un invito a ENRICO V per partecipare ad un concilio che avrebbe convocato a Troyes.
Il sovrano non ci andò, ma inviò, in qualità di suoi legati, il duca GUELFO e l'arcivescovo BRUNONE, i quali, recatisi da Pasquale a Chàlons, sulla Marna, gli esposero il pensiero del sovrano sulla questione delle investiture; pensiero che contrastava con la politica del Papa e con il divieto appena riconfermato a Guastalla. Enrico, infatti, aveva inviato i suoi legati a esporre e a sostenere che la corona si riservava il diritto di designare i vescovi da eleggersi, d'investirli con l'anello e il pastorale e di farsi prestare l'omaggio e il giuramento feudale.

Il Pontefice non poteva, naturalmente, acconsentire alle richieste del re, il che avrebbe significato una rinuncia ad uno dei capisaldi della politica gregoriana. Al suo rifiuto, i legati partirono, minacciando di risolvere la questione non in terra straniera, ma a Roma con le armi.
PASQUALE II, dal canto suo, nel concilio di Troyes confermò il divieto delle investiture, limitando però la pena soltanto a chi le avesse ricevute; poi bandì un altro concilio per risolvere la spinosa questione.
Questo concilio avvenne a Roma nel Laterano, il 7 marzo del 1110, e in questa riunione solenne i decreti emanati prima a Guastalla e poi ancora a Troyes ebbero piena riconferma.
Il dissidio, pertanto, non era composto, anzi diveniva gravissimo, perché, infatti, Enrico, beffandosi dei divieti papali, continuava a conferire investiture, e tutto faceva presentire che per risolvere la controversia, poiché le due parti si ostinavano nei loro punti di vista, era necessario ricorrere alla forza.

La forza delle armi, allora, era palesemente nelle mani del re, la cui situazione politica, dopo le spedizioni contro l'Ungheria, la Polonia e la Boemia, avvenute nel 1108, nel 1109 e nel 1110, e il fidanzamento con Matilde, figlia del re Enrico I d'Inghilterra, era divenuta solidissima.
Per rispondere alle respinte decisioni del concilio lateranense, Enrico V convocò i principi della Germania a Ratisbona e comunicò a loro il proposito di scendere in Italia per ristabilirvi la dominazione tedesca e ricevere a Roma la corona imperiale.
Comunicato il suo progetto bellico, il sovrano lo tradusse in pratica, sicuro di non trovare ostacoli nella penisola, da cui aveva ricevuto notizie positive, che lo informavano della debolezza del Pontefice. Coloro che avrebbero potuto, in Italia, ostacolare i suoi disegni erano i Normanni, le città lombarde e la contessa Matilde; ma i primi erano troppo lontani; le città lombarde, sebbene risorte a libertà si trovavano in discordia tra loro e si straziavano a vicenda in guerre locali che, nel maggio del 1111, causarono la distruzione di Lodi da parte dei Milanesi; e la fiera contessa, per eliminarla, essendo forte, occorreva uno spiegamento di milizie piuttosto numerose.

Quelle che Enrico V allestì per la spedizione e che poi condusse in Italia, attraverso la Savoia, ascendevano a circa trentatremila uomini. Oltre ad un consistente contingente del duca BRETISLAO di Boemia che valicò le Alpi dal Brennero. L'unica resistenza, il sovrano la incontrò a Novara, che gli chiuse in faccia le porte e pagò cara la sua audacia, poiché Enrico, dopo averla assediata, presa e occupata, per punizione ne rase al suolo perfino le mura.

Giunto nella pianura di Roncaglia, il re germanico vi si accampò per passare in rassegna le sue milizie ma anche per ricevervi l'omaggio dei timorati vassalli. Del resto le forze del sovrano e la sorte toccata a Novara persuasero le città lombarde, all'infuori di Milano e Pavia, a fare atto di sottomissione; ed anche l'orgogliosa contessa Matilde gli rese omaggio, limitandosi solo a pregare il re di non costringerla a fornire milizie contro Roma.

Dalla Lombardia Enrico V passò in Toscana, dove ai suoi occhi si offrì lo stesso spettacolo che aveva trovato oltre il Po. Anche qui le città erano in lotta tra loro, Pisa con Lucca, e Arezzo una fiera contesa infuriava tra il clero e il popolo per la sede del vescovado che il primo voleva trasferire fuori della città.
Enrico, nella qualità di legittimo sovrano, non poteva restar neutrale; intervenne e, naturalmente, la sua condotta fu guidata non dalla giustizia, ma dal suo interesse politico, il quale lo consigliava di prender le parti della potente Pisa che poteva giovargli moltissimo nella spedizione, e le parti del clero aretino, che gli premeva farsi amico mentre pendeva il dissidio con Roma.
Da Arezzo il re mandò legati a Roma con una lettera indirizzata al popolo, nella quale affermava che scendeva a Roma per ricevere dalla Chiesa ciò che gli spettava e concedere all'uno e all'altra quello cui essi avevano diritto.
I Romani gli risposero assicurandolo della loro obbedienza mentre il Pontefice lo invitò a mandargli legati per risolvere la questione delle investiture, dopo di che, al suo arrivo lo avrebbe incoronato imperatore.

ENRICO V iniziò a muoversi verso Roma e per dar tempo alle trattative di svolgersi mise il campo a Sutri, a due giorni dalla città papale. Qui s'incontrarono il re e i legati, pontifici che recavano le proposte di PASQUALE II; proposte sbalorditive, troppo belle in teoria, ma irrealizzabili. Proponeva il Papa, che il re rinunciasse alle investiture e la Chiesa avrebbe restituito alla corona tutti i feudi e benefici regi ottenuti fin dai tempi di Carlomagno, specificando le città, i ducati, i comitati, le zecche, le gabelle, le avvocazie, le milizie, le corti e i castelli.

Le proposte parvero ad Enrico, e infatti lo erano, vantaggiose per l'impero, il quale in cambio della rinuncia alle investiture faceva acquisti importantissimi. Ma si sarebbe il clero rassegnato a vivere esclusivamente delle decime e dei doni dei fedeli?
Il re non si curò di farsi una simile domanda o, se la fece, non volle darsi una risposta. A lui conveniva accettare la proposta, che gli apriva la via dell'incoronazione e gli risparmiava di fare uso delle armi per ottenerla. Se poi i patti, alla prova, si fossero mostrati irrealizzabili, lui non ci avrebbe perso nulla. Quindi accettò.

Le trattative furono portate a termine, nella prima settimana del febbraio del 1111; il 9, fu giurato l'accordo, furono scambiati gli ostaggi e si stabilì per il 12 dello stesso mese di febbraio, lo scambio delle pergamene contenenti le due rinunce.
Il giorno prima dell'incontro e dello scambio, l'11 febbraio, Enrico V si mosse da Sutri e andò ad accamparsi nei pressi di Roma, alle pendici del Monte Mario, dove dalla città gli andarono incontro gli ufficiali civili e militari, le milizie con le insegne, il popolo con fiori e palme, le corporazioni, gli ordini religiosi, il clero, che cantava inni in lode del sovrano e cento monache che portavano lampade e ceri accesi.
Dal Monte Mario il corteo si mosse verso la città; lungo il cammino, gli ufficiali gettavano pugni di monete alla plebe che cantava: "San Pietro elesse Enrico re!"; altri inni li cantavano le scuole dei Greci e pure gli Ebrei i loro salmi.

Il sovrano entrò a cavallo nella città Leonina, accompagnato da uno smagliante stuolo di principi tedeschi e qui, secondo l'uso, giurò di rispettare i privilegi di Roma. Però anziché in latino, la formula del giuramento fu pronunciata in lingua tedesca e già questo fece diffidare i Romani delle intenzioni del sovrano, il quale, non fidandosi a sua volta della cittadinanza, volle che i dintorni della basilica di S. Pietro fossero occupate dalle sue milizie germaniche.

Non sapendo come opporsi a questa richiesta, il Pontefice acconsentì. Poi si mise ad aspettarlo sulla gradinata di San Pietro, circondato dai suoi cardinali. ENRICO V, giunto al cospetto del Capo della Chiesa, piegò il ginocchio davanti al Pontefice e gli baciò un piede in atto di riverenza e ossequio; PASQUALE II gli porse le braccia aperte e il viso ed entrambi si abbracciarono e baciarono più volte.
"Chi poteva allora pensare, - scrive il Bertolini - che una cerimonia cominciata con così tante dimostrazioni di affetto, sarebbe finita con un atto d'immane violenza? Ma già la presenza di tutti quei soldati nel tempio era un segno tutt'altro che rassicurante, e la stessa causa che si doveva dibattere di timori ne procuravano a ragione anche altri.
Già la dichiarazione fatta da Enrico, nell'atto di entrare nel tempio, che lui confermava alla Chiesa quello che i suoi predecessori le avevano concesso, era un'avvisaglia del conflitto che doveva inevitabilmente scoppiare: per la ragione che conteneva un'implicita disapprovazione della rinuncia delle regalie, che il Papa stava per intimare ai dignitari della Chiesa.

"Quell'intimazione era però un atto altamente cristiano: e se il Nazareno fosse stato presente, non avrebbe potuto che approvarla e lodarla. L'Atto, infatti, diceva che le dignità temporali tenute dai vescovi e dagli abati erano contrarie ai canoni evangelici, come contraria era pure la prestazione del servizio militare da parte del clero. Di modo che il papa comandò ai vescovi e ai prelati, sotto pena di scomunica, di restituire al re Enrico le regalie che loro erano venuti in possesso.
L'effetto prodotto da quest'intimazione non sorprese nessuno. Infatti, se in teoria il disegno di fondare l'indipendenza della Chiesa sull'abbandono di ogni potestà terrena doveva parere un atto magnifico, come era nella logica, in pratica esso compariva impraticabile oltre che utopistico. Il ristabilimento dell'istituto cristiano in un regno spirituale fatto di luce, di amore e di virtù, quale era stato nei primi tre secoli il cristianesimo, nel secolo dodicesimo non poteva esser che un sogno di un utopia. E purtroppo non era altrimenti!
Le regalie ecclesiastiche costituivano allora uno dei fattori "organici" dello Stato, alla cui conservazione, oltre il clero che le possedeva, era pure interessato il potere regio. II quale aveva nei principi ecclesiastici i suoi naturali ausiliari contro le cupidigie sediziose dei principi secolari.
Per mettere in atto l'idea di Pasquale II, occorreva come minimo una rivoluzione.
L'Europa poi la vide da lì a quattro secoli, questa rivoluzione, e vide anche quanto sangue costò la spogliazione del clero nei paesi riformati.

"Il disegno di Pasquale, oltre avere il vizio della pratica inattuabilità, aveva pure quello della contraddizione e parzialità. Infatti, mentre il papa comandava ai vescovi di spogliarsi delle regalie, lui per sé pretese la conferma di tutte le donazioni territoriali fatte dai passati imperatori a San Pietro. Questa pretesa distruggeva ogni efficacia dell'invocazione dei canoni contro le regalie. Perché, se era contrario a quelli il possedimento di una contea o di un margraviato da parte del clero, tanto più doveva esserlo il possesso di un vasto Stato, che le risapute falsificazioni dei vecchi diplomi, estendevano a tutta Italia e a buona parte dell'Occidente!".

Giunti alla lettura della pergamena papale che intimava la rinuncia delle regalie, i vescovi si misero largamente a protestare, chiamando empio quell'atto che spogliava la Chiesa dei beni, da tempo faticosamente e acquisiti, e alla protesta degli ecclesiastici si aggiunse quella dei Principi e dei Cavalieri, minacciati di perdere i loro feudi avuti in concessione o in donazione dalla Chiesa per i vari servigi resi alla stessa.
Il tumulto che ne nacque fu enorme: da una parte il Pontefice cercava di giustificarsi dalle accuse che gli erano mosse e difendeva il contenuto della pergamena, e dall'altra i vescovi volevano che tale pergamena doveva essere subito distrutta e proponevano di proseguire la cerimonia dell'incoronazione.

Non vedendo una via d'uscita al tumulto, ENRICO V, su consiglio dei vescovi di Reggio e di Piacenza, dichiarò nullo quel trattato ma nulle anche le promesse da lui fatte, e non per sua colpa ma responsabili erano quelli della Curia romana; dichiarò ancora che non poteva in nessun modo rinunciare a una prerogativa così importante qual'era quella delle investiture.

Mentre il tumulto cresceva, uno dei cortigiani del re gridò che era inutile discutere ancora per contendere qualcosa, e che al sovrano doveva essere concessa la corona ai medesimi patti con i quali l'avevano ottenuta Carlomagno e i suoi successori. E poiché il Pontefice non dava segno di cedere, consigliato dal suo cancelliere Alberto, il re comandò alle sue guardie di arrestare Pasquale II e di portarlo in prigione.
Con il Pontefice furono arrestati sedici cardinali, i quali furono consegnati al Patriarca ULRICO d'Aquileia e poi condotti, quando calò la notte, in luogo sicuro. Una scena selvaggia coronò l'atto sacrilego: mentre il Papa e i suoi porporati dalla basilica venivano portati fuori dalle guardie, nel tempio i Cavalieri di Enrico iniziarono il saccheggio; che s'impadronirono di ogni cosa preziosa e perfino dei più ricchi paramenti sacri. Fu insomma un atto indegno non solo di cristiani come dicevano loro di essere, ma di uomini che solo nelle apparenze erano dei rappresentanti della nobiltà tedesca; in effetti, erano degni di essere solo "barbari" della peggior specie.

Il popolo ebbe notizia della prigionia dell'arresto del Pontefice e degli altri sedici alti prelati, da due cardinali, GIOVANNI di Tusculo e LEONE di Ostia, che erano riusciti in tempo dalla basilica a fuggire travestiti. La sera stessa nelle strade cominciarono le scene cruente di sangue, provocate dalla collera popolare: tutti i tedeschi incontrati lungo le vie furono selvaggiamente linciati e trucidati sul posto, e durante la notte il popolo nel riunirsi decise di penetrare all'alba nella città Leonina e di uscir dalle mura per attaccare l'esercito regio.

Infatti, all'alba la lotta nelle strade fu ripresa e si fece ancora più accanita: entrato nella città Leonina, il popolo infuriato assalì il quartiere dove aveva preso alloggio il sovrano, che di persona uscì fuori a cavallo esortando i suoi soldati alla resistenza e ad affrontare i ribelli.
E tanta era la sua ira, che imprudentemente il re roteando la spada si spinse fra la calca e poco mancò che l'irrazionale audacia non lo perdesse. Colpito e crollato a terra morto il suo cavallo, anche Enrico stramazzò al suolo ferito e sarebbe stato linciato dalla folla inferocita se un nobile e generoso vassallo, OTTONE visconte di Milano, non gli avesse ceduto il proprio cavallo permettendogli così di fuggire, e al suo posto il suo salvatore caduto nelle mani della turba furiosa, fu fatto a pezzi.
La battaglia continuò per tutta la giornata e il popolo sarebbe alla fine riuscito vittorioso se i Romani, presi anche loro dalla furia non si fossero distratti a saccheggiare i bagagli dei nemici nei luoghi espugnati, permettendo così ai Tedeschi di ricomporsi e tornare nella mischia; che tuttavia riprese ancora più violenta nello scontro avvenuto sul ponte del Tevere; sia gli uni che gli altri si affrontarono e o che si scannarono sul ponte o finirono annegati nelle acque del fiume.
La sanguinosa giornata ebbe termine a sera inoltrata, ma divise i combattenti solo nel corso della notte, perché nella stessa notte il popolo di Roma, questa volta ancora più numeroso e infuriato, non smise di mettere in atto altri propositi di terribile vendetta.
Riunito in assemblea, decise di dare l'assalto il giorno dopo al campo tedesco. Enrico fu informato delle intenzioni e nella critica situazione in cui si trovava, ritenne prudente evitare un nuovo scontro dentro le mura di quella città, i cui abitanti davano prova di indomabile tenacia, per lui decisamente molto pericolosa.
Nella notte dal 15 al 16 febbraio 1111, Enrico V levò il campo da Monte Mario e, portandosi dietro i prigionieri, si diresse alla volta della Sabina. Passato il Tevere a Fiano, si accampò sull'Anio, presso Tivoli, per impedire ai Normanni di correre in aiuto di Roma. Inutile timore e misura cautelativa questa di Enrico, perché i Normanni avevano ben altri pensieri che non quello di soccorrere il Pontefice.
Infatti, alcuni giorni dopo la battaglia tra Romani e Tedeschi, il 21 febbraio 1111, moriva BOEMONDO e il 7 marzo cessava di vivere il duca RUGGERO. E Guglielmo, successo a quest'ultimo, temendo invece che Enrico invadesse il ducato, rimase in Puglia a preparare la difesa.
Il Papa rimase prigioniero di Enrico per sessantuno giorni, inutilmente sperando dal Sud il soccorso normanno o dal Nord quello della contessa Matilde, Alla fine vedendo che ogni sua speranza era vana, cedette alle preghiere dei cardinali, prigionieri come lui, e alle insistenze del sovrano e si dichiarò disposto a riconoscere ad Enrico il diritto di investire con l'anello e il pastorale i vescovi e gli abati, liberamente e senza simonia eletti dal clero e dal popolo; e promise di non consacrarli se non dopo l'investitura regia, di non vendicarsi del trattamento ricevuto, di non lanciare la scomunica sul re, ma di appoggiare il governo e infine di concedere al sovrano la corona imperiale.

Con questi patti fu concluso l'accordo tra ENRICO e PASQUALE, e il primo in cambio, promise obbedienza e protezione, e s'impegnò a rispettare Roma e a rimettere in libertà i prigionieri. L'accordo fu giurato l'11 aprile del 1111; il giorno dopo il sovrano accompagnò a Roma il Pontefice, dal quale aveva anche ottenuto che la salma del padre (quello che lui aveva fatto morire in carcere, dopo averlo spogliato dei suoi poteri) fosse sepolta in luogo sacro; il 13 aprile ebbe luogo la cerimonia dell'incoronazione, che riuscì solenne, e il Pontefice, dividendo con il nuovo imperatore l'Ostia consacrata, giurò di osservare fedelmente il trattato concluso.

Canossa era stata terribilmente vendicata, distrutta in breve tempo l'opera di Gregorio VII e la posizione di Enrico V definitivamente e formidabilmente consolidata.

MORTE DELLA CONTESSA MATILDE
SECONDA SPEDIZIONE ITALIANA DI ENRICO V
FINE DI PASQUALE II

Dopo essere stato incoronato imperatore, ENRICO V lasciò Roma e, attraverso la Toscana, si diresse verso la Lombardia per passare in Germania, dove sollevazioni di città, di principi e di vescovi reclamavano la sua presenza.
Passando per l'Italia superiore, s'incontrò con la contessa Matilde, che lo dichiarò (non si sa in che modo, se sotto minaccia) suo legittimo erede, e ricevette pure i legati del doge veneziano ORDELAFFO FALIERO che lo invitavano a risolvere una contesa esistente tra Venezia e Padova per ragioni di confine.
Enrico, che aveva ricevuto lo stesso invito dai Padovani, pacificò i contendenti dando ragione ai Veneziani, e colse l'occasione per rinnovare con la repubblica veneziana la lega stretta dai suoi predecessori confermandole il possesso di tutte le terre prese negli ultimi trent'anni e ricevendo da Venezia, come tributo annuo, cinquanta cavalli, altrettante libbre di spezie e un manto di porpora.
Dopo questi incontri e patti, Enrico, per la via del Brennero, si avviò verso la Germania.
A Roma, nel frattempo, la condotta tenuta dal Pontefice fu aspramente criticata dagli ardenti seguaci di Gregorio VII, i quali si lagnavano duramente della debolezza di Pasquale II, e che questa aveva fatto crollare tutto ad un tratto il maestoso edificio innalzato dal Papa di Soana; finirono con il dichiarare eretico quel privilegio concesso ad Enrico di conferire le investiture e ne chiesero la revoca.
Il Pontefice, avvilito, lasciò Roma e temendo qualche improvvisa rivolta si rifugiò a Terracina. Ma durante quest'assenza, i cardinali LEONE di Ostia e GIOVANNI di Tusculo convocarono un concilio, in cui furono confermati i decreti di Gregorio e di Urbano e dichiarata nulla la concessione di Pasquale, il quale, atterrito dalle decisioni del sinodo che potevano produrre gravi conseguenze - e non era difficile prevederle- dapprima voleva deporre la tiara, poi si decise a ritornare in Roma e a convocarvi un concilio.

Questo avvenne il 18 marzo 1112, in Laterano e vi parteciparono dodici arcivescovi e centoquattordici vescovi. Posto in discussione il "privilegio" di Pasquale, il vescovo GERARDO d'AUGOULÉME, che lo chiamava "pravilegio", sostenne che il giuramento del Pontefice non era valido perché non escludeva la revoca del privilegio.
Era una sottigliezza di grammatico, ma riscosse l'approvazione del consesso e lo stesso Pasquale si convinse di trovarci l'unica via di uscita dalla difficile situazione in cui si trovava.

Il 23 marzo, nell'ultima seduta del concilio, PASQUALE II, dopo aver fatto un minuzioso racconto delle torture morali con cui Enrico gli aveva strappato il privilegio dichiarò di "approvare, mantenere, confermare, condannare, rigettare, proibire tutto ciò che Gregorio VII e Urbano II avevano approvato, mantenuto, confermato, condannato, rigettato, proibito"; dopo di che il privilegio fu dichiarato nullo.
Il vescovo di ANGOULÉME diede all'imperatore la comunicazione del decreto, ma Enrico V non se ne curò e continuò a conferire le investiture pur mantenendo i rapporti con il Pontefice.
La debolezza di Pasquale II fece formare intorno alla Santa Sede un partito che aveva l'incarico di provvedere alle deficienze del Papa in fatto di politica. In questo partito possiamo includere i legati a latere che di solito erano mandati dai Pontefici nelle varie province per farvi rispettare l'autorità papale.
Per iniziativa di uno di costoro, l'arcivescovo GUIDO di Vienne, nell'ottobre del 1112 fu convocato in questa città un concilio che, condannato come ereticale il famoso privilegio, scomunicò l'imperatore e invitò il Papa, sotto la minaccia di sottrarsi alla sua obbedienza, a confermare queste decisioni. Il debole Papa le confermò, pur tuttavia la conferma non fece troncare i suoi rapporti con l'imperatore, e anche la scomunica non produsse gli effetti che gl'intransigenti prelati del concilio di Vienne si ripromettevano.

I rivolgimenti provocati dal privilegio erano a questo punto, quando giunsero a Roma da Costantinopoli i legati dell'imperatore ALESSIO COMNENO, i quali, credendo di potere trarre profitto dall'irritazione dei Romani contro Enrico V, proposero di eleggere imperatore il figlio del sovrano di Costantinopoli. Vano tentativo, questo, di legare, dopo un secolare distacco, la sorte d'Italia a quella dell'Oriente; tentativo che fruttò soltanto dimostrazioni di onore ai legati e un'ambasceria con ricchi doni all'imperatore bizantino.
Nel dicembre del 1113 troviamo Pasquale II a Benevento, chiamatovi dai cittadini perché li proteggesse dai Normanni di Capua. Il Pontefice vi lasciò a difesa, con il titolo di conestabile, il prode e potente LANDOLFO della GRECA. Dieci mesi dopo, nell'ottobre del 1114 il Pontefice era a Ceprano, dove conferiva a GUGLIELMO l'investitura della Puglia, della Calabria e della Sicilia.
Le cose facevano sperare una tregua per qualche tempo, quando un avvenimento di grande importanza riaprì la vecchia lotta tra il Papato e l'Impero.
Moriva il 24 luglio del 1115 all'età di sessantanove anni la contessa MATILDE dopo aver legato alla Chiesa tutti i suoi beni che costituivano il più vasto principato d'Italia. Infatti, gli appartenevano le Marche di Toscana, Spoleto e Camerino, e le città di Mantova, Modena, Reggio, Parma e Brescia, e molti suoi beni allodiali si estendevano dal Po al Liri.

"Dalla testimonianza stessa di Matilde apprendiamo, che una prima donazione dei suoi beni alla Chiesa era stata da lei fatta a Roma al tempo di Gregorio VII. Essendo quel documento andato smarrito, Matilde ne dettò un secondo a Canossa, con la data del 17 novembre 1103, dello stesso tenore, che consegnò nelle mani del Cardinale legato BERNARDO. Anche l'originale di questo nuovo documento andò perduto e la sua trascrizione a noi pervenuta proviene da una copia dell'originale. Questo non invalida però né la verità della donazione, né la sincerità del documento trascritto. Notevole è il fatto, che questo documento non contenga nessuna descrizione dei territori posseduti da Matilde, e sopratutto non vi è fatta distinzione dei beni allodiali dai feudali; ora questa omissione si spiega facilmente, quando si avverta che la donatrice non volle in nessuna maniera avere vincolata la propria libertà circa l'uso del suo patrimonio anche dopo la donazione sottoscritta; tanto è vero, che nove anni dopo, quando Matilde si pacificò con l'impero, riconobbe come suo legittimo erede Enrico V. Matilde sapeva dunque, che con la sua precedente donazione gettava una gran lite fra l'impero e il papato; tuttavia non rimosse la prima idea, e forse, nell'ebbrezza del suo fanatismo, era convinta di aver fatto invece un'opera santa, che le assicurava un seggio in paradiso (Bertolini)".

Dunque, tre pretendenti sorsero a disputare alla Chiesa l'eredità della Contessa: le città comprese nel patrimonio e che da Matilde avevano ricevuto l'autonomia; il marito GUELFO di Baviera; infine l'imperatore. Quest'ultimo dichiarò invalido il testamento della contessa verso la Chiesa e reclamò tutti i beni per sé: i feudali per diritto come capo dell'impero e gli allodiali come il parente più vicino a Matilde; e per prender possesso della pingue eredità, verso la fine del febbraio del 1116, lasciato il governo della Germania a Corrado di Hohenstaufen, in Italia.

L'11 e il 12 marzo 1116 troviamo l'imperatore à Venezia, ospite del doge ORDELAFFO FALIERO, al quale concesse di arruolare truppe mercenarie nel regno d'Italia per liberare Zara dalle mani degli Ungari. Da Venezia Enrico passò nella Lombardia, dove il suo partito, nonostante i progressi dell'indipendenza comunale, era sempre forte; e con abile generosità seppe superare l'opposizione anche nelle altre grandi città. A Mantova donò l'isola di Ripalta e concesse di abbattere la rocca imperiale, una minaccia perenne alla libertà di quel comune; sciolse Torino dalla dipendenza dei marchesi di Susa e dalla casa Savoia che osteggiava l'autonomia della città; alcuni simili privilegi li concesse a Bologna; a Novara, per premiarla della sua fedeltà, accordò il possesso delle mura e delle torri che prima aveva abbattute; a Pisa, uscita vittoriosa dalla lotta contro gli Arabi nelle Baleari, donò le corti di Livorno e di Popiana.
Dall'Italia superiore ENRICO V tornò a rivolgere nuovamente il pensiero a Roma, dove il Pontefice che aveva in un concilio lateranense colpito d'anatema il privilegio, si trovava in aperto conflitto con il popolo per aver conferito la carica di prefetto al figlio di un PIERLEONI anziché al figlio del defunto prefetto PIETRO.
Quindi tormentata da tumulti era Roma e travagliata dalle calamità era l'Italia settentrionale, dove un terremoto arrecava gravissimi danni e provocando numerose vittime a Verona, a Venezia, a Milano, a Cremona, a Padova e a Parma.
Alcuni storici pensano che l'imperatore, atterrito da questi disastri che la voce pubblica attribuiva all'ira divina contro il sovrano parricida, desiderasse rappacificarsi con la Chiesa e inviasse a Roma ambasciatori per comporre il dissidio con il Pontefice. Ma fallita quest'ambasceria, Enrico V ruppe gl'indugi e all'inizio della primavera del 1117 si mosse alla volta di Roma.
PASQUALE II, memore dei drammatici fatti accaduti sei anni prima, non ebbe il coraggio di aspettare a Roma l'imperatore e nell'aprile andò a rifugiarsi prima a Montecassino, poi proseguì per Capua, infine riparò a Benevento, dove forse sperava un aiuto dai Normanni, per marciare su Roma contro Enrico.

Nel frattempo l'imperatore giunto in Roma, dove veniva accolto con molta freddezza e nessuna pompa, cercò in un primo tempo di risolvere pacificamente la questione delle investiture convocando nella Pasqua di quello stesso anno, un parlamento in San Pietro al quale parteciparono alcuni cardinali. Ma la questione, rimanendo i cardinali e l'imperatore fermi nei loro rispettivi punti di vista, non fu per nulla risolta.
Allora Enrico V cominciò a spadroneggiare in Roma e a raccoglier partigiani intorno a sé; confermò il nuovo prefetto eletto dal popolo, sedusse con doni molti della faziosa nobiltà e si guadagnò l'amicizia di TOLOMEO di Tusculo, che pretendeva addirittura di discendere dalla famiglia Ottavia. A lui diede in sposa Berta, la sua figlia bastarda, confermò tutti i beni che aveva ereditato dall'avo Gregorio e che si estendevano dalla Sabina al mare e gli concesse la custodia dell'impero alle porte di Roma.

Facendosi insopportabili i calori estivi e temendo che l'aria cattiva nuocesse all'esercito, conseguiti tutti i vantaggi che poteva, l'imperatore partì da Roma alla volta della Toscana, sicuro che il suo partito sotto la guida di Tolomeo avrebbe mantenuta la pace in città. E, infatti, il genero faceva buona guardia e riuscì perfino a sbaragliare trecento cavalieri normanni del principe di Capua inviati nella campagna romana.
Fu un successo il suo che però che non sottrasse il Pontefice dal rinnovare il tentativo d'impadronirsi di Roma.
Incoraggiato dalla lontananza dell'imperatore, Pasquale II raccolse nuove milizie normanne e alla testa di queste riprese Pillo e Pulleno e si spinse fino ad Anagni, dove rimase fino a dicembre. Celebrato il Natale in Palestrina sotto la protezione armata di Pietro Colonna, si mosse alla volta di Roma e riuscì a penetrare a Transtevere. Ma non riuscì mai più a sedersi sul suo trono.
Mentre le sue milizie si accanivano in inutili tentativi di riconquistare la basilica di San Pietro, nella quale si era trincerato il prefetto, Pasquale II cessò di vivere il 21 gennaio del 1118, dopo diciannove anni di pontificato, trascorso continuamente in lotte disgraziate contro l'impero e contro quegli stessi ecclesiastici che invece avrebbero dovuto sostenerlo.

IL PONTIFICATO DI GELASIO II - ENRICO V A ROMA
ELEZIONE DELL'ANTIPAPA GREGORIO VIII

Morto Pasquale II, i cardinali si riunirono nel convento di Santa Maria in Pallara, sul Palatino, e tre giorni dopo la morte di Pasquale, il 24 gennaio 1118 elessero Pontefice un uomo dotto e mite, fervente sostenitore delle dottrine gregoriane: il cardinale arcidiacono GIOVANNI di Gaeta, che prese il nome di GELASIO II.
La scelta di un tale uomo non poteva certamente esser accolta con favore dal partito imperiale e a Roma si rinnovarono i tumulti e le scene di violenza. I cardinali erano ancora riuniti, quando nel convento irruppe una moltitudine di armati. Il potente e facinoroso CENCIO FRANGIPANI, che li guidava, afferrò per la gola il vecchio Pontefice, lo atterrò, lo ricoprì di calci, e pesto, sanguinante e carico di catene, lo fece chiudere in fondo ad una torre, mentre gli scherani del prepotente infuriavano contro i cardinali.

Si rinnovava la scena del Natale del 1075. Ma proprio come allora, la violenza fatta al Papa, provocò l'immediata reazione popolare; così l'insulto che era stato recato al mite vecchio, si ritorse sugli aguzzini, e fece insorgere a suo favore il popolo. I Frangipani dovettero piegarsi e rilasciare in libertà il Pontefice, il quale, sopra un muletto bianco e fra grida festose, fu dalla folla scortato fino in Laterano, dove ricevette l'omaggio commosso della folla e dei più autorevoli cittadini di Roma.
Informato di questi avvenimenti dai suoi partigiani e premendogli di rivendicare il diritto imperiale nell'elezione dei Pontefici, Enrico V, con un piccolo gruppo di milizie lasciò frettolosamente l'Italia settentrionale dove si trovava e la notte del 2 marzo 1118 comparve improvvisamente nella città Leonina.
GELASIO II, atterrito dalla presenza dell'imperatore e dal ricordo dei casi toccati al suo predecessore, si rifugiò con alcuni uomini della sua corte in una casa privata lungo il fiume, dove trascorse la notte, e all'alba, mentre tuonava e lampeggiava una furiosa tempesta che sconvolgeva le acque del mar Tirreno, con un'imbarcazione era intenzionato a lasciare il rifugio attraverso il Tevere per raggiungere il mare e imbarcarsi. Ma, essendo il fiume ingrossato e impetuoso, fu costretto a restare a terra, e sarebbe caduto nelle mani dei soldati tedeschi mandati all'inseguimento, se il cardinale UGO d'Alatri, caricatoselo sulle spalle, non lo avesse portato a rifugiarsi nel castello di Ardea e se i cortigiani raggiunti da tedeschi non avessero giurato che il Papa era fuggito ma non sapevano dove.

Ritiratisi i Tedeschi, Gelasio fu ricondotto sulla nave e, sebbene la tempesta non era per nulla cessata, affrontò i pericoli del mare e giunse a Terracina, poi passò a Gaeta festosamente accolto dai suoi concittadini e da un gran numero di prelati.
A Gaeta, scoperto il suo rifugio, andarono a trovarlo, poco tempo dopo, alcuni ambasciatori di Enrico, i quali lo invitarono a ritornare a Roma per essere consacrato purché promettesse di pacificare il Papato e lo Stato.
Gelasio rispose che non era suo compito, che occorreva un concilio per risolvere la controversia e assicurò che n'avrebbe convocato uno nel successivo ottobre a Milano o a Cremona, città amiche e devote alla Chiesa.

Non potendo a questo punto l'imperatore giungere in breve tempo ad un accordo pacifico, convocò il popolo a parlamento in San Pietro, e dal famoso giurista IRNERIO di Bologna fece dimostrare che l'elezione di Gelasio era illegittima.
Dopo questo cavillo giuridico a suo favore che invalidava quell'elezione, si procedette alla nomina di un nuovo Papa e la maggioranza dei voti andarono all'arcivescovo BURDINO di Braga (Portogallo), uomo dotto e pacifico, ma sostenitore della politica imperiale e proprio per questo fu eletto.
Il giorno dopo, 9 marzo, fu consacrato in Laterano con il nome di Gregorio VIII. L'indomani, a Capua, veniva, a sua volta, consacrato Gelasio II e la cerimonia riceveva speciale solennità dall'intervento di Guglielmo di Puglia, Roberto di Capua e Riccardo di Gaeta, i quali offrirono al Pontefice l'omaggio feudale. Il cattolicesimo aveva così ancora una volta due papi, uno eletto dal popolo con il consenso dell'imperatore, l'altro proclamato dai cardinali, e ancora una volta quest'ultimo pronunciava contro l'antipapa e l'imperatore la scomunica, che però ormai rappresentava un'arma sciupata e senza grande efficacia (7 aprile del 1118).

"Erano più di quarantacinque anni - scrive il Lanzani - che irriducibili contese e sanguinose guerre mettevano sottosopra l'Italia e la Germania: tutto aveva preso una specie di stanchezza o, dirò meglio, di sazietà. Tanto l'impero, quanto il papato si trovavano di fronte ad infinite contraddizioni di fatti e di principi. Gran parte del programma di Ildebrando era stato attuato: l'aristocrazia ecclesiastica, specialmente di qua dalle Alpi, era quasi tutta vincolata agli interessi della curia romana; il papato emancipato totalmente dalla politica potestà, si teneva vassalli i principi normanni; per l'eredità di Matilde vantava diritti sulla più importante signoria della penisola; aveva allo scopo confederato le democrazie dei risorgenti municipi; le crociate dimostravano come il Papa fosse padrone, ora più che mai, del cuore e del braccio di tutte le popolazioni occidentali. Eppure i papi, manipolati ora da Italiani ora dai Tedeschi, finivano appena eletti tutti esilio; Roma era in preda all'anarchia; le scomuniche papali erano sempre contro gli eserciti imperiali ma poi davanti al minaccioso sovrano tedesco quasi sempre si aprivano le porte della città santa. D'altra parte, anche l'imperatore riteneva più che mai inefficaci quelle vacillanti vittorie ottenute. In Germania la rivoluzione fremeva intorno al trono, come ai tempi di Enrico IV. Invano la famiglia degli Hohenstaufen, che in quegli avvenimenti da umili principi che erano, in breve era salita a grandissima potenza con Federico e Corrado; l'impudenza dei principi, sostenuta dalla rivolta di intere province si faceva sempre più minacciosa; dappertutto regnava violenza; insomma lo scompiglio era piuttosto universale.

In Italia andava consolidandosi la signoria normanna, alleata del papato; una gran parte del regno feudale era stata sottratta al diritto imperiale; e se la feudalità correva ancora intorno al suo capo, ogni volta che lo vedeva scendere giù dalle Alpi era sempre pronto ad ubbidire, ma appena si allontanava, insubordinazioni ed arbitri d'ogni natura nelle città non davano pace all'imperatore. Le stesse città traevano profitto da ogni suo più piccolo disastro, per far subito valere le loro precedenti franchigie oppure per accrescerle, e sempre con calcolo perché ma nello stesso tempo erano subito pronte per la prossima rivolta.
"Si aggiunga che con Gregorio VII, con Enrico IV, con Urbano II, con Matilde, con Guiberto, con il Guiscardo, erano scomparsi i maggiori attori del grandioso dramma. I successori di Ildebrando, avevano accettato tutti e portato a buon punto la sua opera, ma dopo Urbano II, non troviamo più quella coraggiosa politica, quella prima presa di coscienza dell'assoluta superiorità del diritto papale, quella fede che aveva prodotto il "dictatus papae" e la prima crociata. La lotta va perdendo sempre più il suo carattere eroico; ai grandi moventi sono subentrate le passioni di parte, interessi dinastici, ambizioni di principi e di prelati; alle grandi battaglie dei concili generali e delle diete subentrano gli intrighi delle corti e le incertezze diplomatiche; intanto, perso di vista l'oggetto di quelle contese, i popoli ne rimangono scandalizzati, le coscienze turbate".

Ai primi del giugno del 1118 l'imperatore lasciò l'Italia. Con lui si allontanava il principale sostenitore dell'antipapa, il quale, non sentendosi troppo sicuro a Roma, andò a stabilirsi a Sutri.
La partenza di Gregorio VIII rese ardimentoso Gelasio. Segretamente e sotto la protezione di Stefano Colonna e di Pietro Corso, rientrò a Roma; ma vi rimase poco tempo. Mentre celebrava la messa nella chiesa di Santa Prassede, i Frangipani con un gruppo di armati irruppero nel tempio per far violenza al Pontefice: s'ingaggiò una mischia accanita tra gli assalitori e i sostenitori del Pontefice, valorosamente difeso dal nipote CRESCENZIO, da STEFANO e PANDOLFO normanni e da PIETRO, Gelasio a stento riuscì a salvarsi fuggendo verso San Paolo, e qui nominato suo vicario il vescovo di Porto e suo governatore a Benevento il cardinale Ugo, partì con sei cardinali e molti chierici e nobili (settembre del 1118) e, per la via del mare, si rifugiò a Pisa, poi fece vela verso Genova, poi proseguì e sbarcò in Provenza.

Giunto a Marsiglia il 26 settembre, non come un fuggiasco, sebbene come un trionfatore, onorato dai vescovi e dai grandi della Francia, che sperava di averli alleati contro la Germania. Non doveva però godere a lungo dell'ospitalità francese ne riuscì a mettere in esecuzione i suoi progetti: dopo aver tenuto un concilio a Vienne e averne programmato un altro per il successivo marzo 1119, per risolvere la dibattuta questione delle investiture, cessò di vivere due mesi prima, il 29 gennaio, mentre si trovava ospite del monastero di Cluny.

CALLISTO II - IL CONCORDATO DI WORMS

Prima di morire si narra che Gelasio abbia suggerito di far eleggere al trono pontificio il vescovo OTTONE di Palestrina; ma questi rifiutò l'offerta e in sua vece fu eletto l'arcivescovo GUIDO di BORGOGNA (o di Vienne).
Non era questa un'elezione regolare essendo stata fatta dai soli sei cardinali che avevano seguito Gelasio in Francia; eppure, diffusasi la notizia, giunsero entusiastiche adesioni da parte del clero, della nobiltà francese e dello stesso re Luigi VI; ed otto giorni dopo, il 9 febbraio 1119, Guido fu consacrato col nome di papa CALLISTO II.

Il nuovo Pontefice apparteneva al clero secolare e, poiché tra questo e il clero regolare esistevano molti dissidi, l'elezione di Guido suonava promessa di riconciliazione fra i due cleri. Callisto II inoltre faceva sperare una politica più energica di quella seguita dal suo predecessore; per le sue potenti parentele e per le sue tendenze. Egli, infatti, si vantava discendente degli ultimi re d'Italia, era del resto figlio del conte Guglielmo di Borgogna, era cognato di Umberto II di Savoia ed era imparentato con le case regnanti di Castiglia, di Francia, d'Inghilterra e di Germania. Era infine quello stesso "energico" Guido che, convocato di propria iniziativa un concilio a Vienne, aveva scomunicato Enrico V e minacciato di togliere l'obbedienza a Pasquale II se non avesse revocato quell'"ignominioso" privilegio concesso a Roma.

Nonostante i precedenti, che facevano temere un inasprimento della lotta tra il Papato e l'Impero, CALLISTO II mostrò fin dagli inizi del suo pontificato di essere disponibile alla conciliazione e, accogliendo la preghiera dei cardinali di Roma, convocò pel 20 ottobre 1119 un concilio generale da tenersi a Rheims e inviò ad ENRICO V, a Tribur, legati affinché la sua elezione fosse riconosciuta anche dall'imperatore.
Enrico rispose che rimandava la decisione delle questioni ecclesiastiche alla fine del concilio. E prima che questo si riunisse, si adoperarono in tentativi di pacificazione l'abate di Cluny e il vescovo Guglielmo di Chàlons, i quali si recarono dal sovrano e, ricordandogli che in Francia non si praticava l'investitura allo stesso modo che in Germania e che tuttavia non ne soffriva l'autorità della monarchia, lo esortarono a rinunciare al diritto di investitura.

Sembrò per un momento, che la missione dei due autorevoli prelati dovesse avere un esito felice, infatti, Enrico si mostrò disponibile alla rinuncia purché i diritti del regno di fronte ai vescovi non risultassero dagli stessi danneggiati. Al loro ritorno i due mediatori persuasero il Pontefice ad inviare plenipotenziari con i quali furono redatti documenti che contenevano il risultato dei colloqui e dovevano essere firmati e scambiati in un successivo convegno fra l'imperatore e il Papa.
CALLISTO II, sospese le sedute conciliari, e si era già mosso da Rheims; ma tornò subito indietro convinto che un accordo era impossibile. Nel concilio, che si chiuse il 29 ottobre del 1119 e al quale intervennero re Luigi e settantacinque vescovi, in gran parte francesi e borgognoni, furono presi nuovi e severi provvedimenti contro la simonia e il matrimonio dei preti ed altri decreti intesi a tutelare i beni e i privilegi ecclesiastici; riguardo invece alla questione delle investiture non fu presa nessuna decisione; diversamente sull'anatema che fu lanciato su Enrico V, l'antipapa e i loro sostenitori.

Nel marzo del 1120, Callisto II ripassò le Alpi; attraversò la Lombardia accolto festosamente in tutte quelle città nemiche del giogo tedesco e, componendo vari dissidi e consacrando chiese, si avvicinò a Roma, mentre l'antipapa, abbandonato dai suoi partigiani e intimorito dalle accoglienze festose che ovunque lungo il percorso riceveva il suo rivale, fuggiva dal Vaticano e andava a chiudersi e fortificarsi nel castello di Sutri sperando forse in una nuova discesa in Italia di Enrico.
CALLISTO II, entrò a Roma il 3 giugno, accolto con straordinarie dimostrazioni di affetto dalla cittadinanza. A rendere completa la sua vittoria non restava che la caduta dell'ultimo baluardo dal quale il suo rivale sperava aiuto dall'imperatore. Ma prima di muovere contro l'antipapa, Callisto si recò nell'Italia meridionale a mettere un po' di pace nel gran disordine che vi regnava e l'8 agosto, riuniti a Benevento il duca Guglielmo, il principe Giordano di Capua ed altri baroni, si fece offrire l'omaggio feudale.
Per porre termine alle discordie che dilaniavano il mezzogiorno, il Papa convocò un concilio a Troia e vi decretò la "tregua di Dio" che però fu subito dimenticata non appena il Pontefice si allontanò per andare a stanare Gregorio VIII da suo rifugio.

Sutri fu assediata dall'esercito pontificio capitanato dal cardinale GIOVANNI da CREMA; ma non era un'impresa facile prendere una piazza munita di fortissime opere di difesa, e chi sa quanto sarebbe durato l'assedio se gli abitanti, stanchi della lotta, non avessero catturato e consegnato l'antipapa nelle mani del Pontefice (aprile del 1122).
Lo scisma era finito: Gregorio VIII fu usato come un barbaro ornamento al trionfo del suo rivale. Messo a cavalcioni a rovescio su un cammello, con la coda dell'animale tra le mani e il corpo ricoperto di pelli caprine, fu messo a seguire il vincitore per le vie di Roma; condannato poi a perpetuo esilio, passò da un carcere all'altro finché nel convento della Cava trovò con la morte la fine alle sue miserie.

Eliminato l'antipapa e avendo i suoi sostenitori fatto atto di sottomissione al Pontefice, fu possibile iniziare, e poi portare a termine, le trattative per risolvere la questione che da circa mezzo secolo teneva di fronte il Papa e l'Imperatore. La buona volontà non mancò da nessuna delle due parti, l'ostinazione del sovrano fu vinta dalla situazione favorevole in cui si era venuta a trovare la Santa Sede; e l'oculatezza dei mediatori, tra cui degno di menzione il vescovo AZZONE D'AQUI parente di Callisto e di Enrico, fece il resto.
Nella dieta di Virzburgo, nell'ottobre del 1122, furono accettate dall'una e dall'altra parte le proposte di pace. ENRICO V prometteva obbedienza alla Santa Sede; doveva conservare ciò ch'era suo e del suo regno; la Chiesa doveva rimanere nel possesso di quanto le spettava; tutti i vescovi nominati secondo i canoni, compresi quelli di Spira e di Worms, rimanevano in carica, fino a quando, presentatisi al Pontefice, questi non avesse deciso della loro sorte; i prigionieri e gli ostaggi erano rimessi in libertà; fino alla soluzione della contesa i vescovi potevano avere libero accesso alla corte sovrana e i principi assicuravano il loro intervento in favore di quelli che erano venissero colpiti da eventuali rappresaglie imperiali.

Approvate le proposte fu proclamata la pace per tutto l'impero e si minacciò la pena di morte contro chi avesse tentato di violarla. A Callisto fu inviata un'ambasceria con l'invito di convocare un concilio per concludere definitivamente la pace tra la Chiesa e lo Stato; il concilio prima indetto a Magonza, fu poi convocato a Worms.
In questa città, il 23 settembre del 1122, furono portate a termine le trattative per la conciliazione che furono sancite in due atti contenenti le concessioni anteriormente concordate a Virzburgo. L'atto dell'imperatore, firmato da diciotto principi, conteneva la rinunzia all'investitura con il pastorale e l'anello; il rispetto della libertà delle elezioni ecclesiastiche; la promessa di restituire a San Pietro le regalie che sotto il suo regno e sotto quello del padre gli erano state tolte.
Mentre l'atto del Pontefice conteneva la concessione fatta al sovrano di assistere personalmente e per mezzo di legati alla elezione dei vescovi e degli abati nel regno tedesco e di conferire agli eletti le regalie per mezzo dello scettro. Quanto alle elezioni episcopali nel territorio dell'impero, entro il regno germanico l'atto del Pontefice stabiliva che le regalie con lo scettro dovevano esser conferite durante i primi sei mesi.

Il 18 marzo del 1123, Callisto II convocò in Laterano un concilio ecumenico, al quale intervennero numerosissimi dignitari ecclesiastici da tutto il mondo cattolico. In questo concilio, che poi fu chiamato PRIMO CONCILIO ECUMENICO LATERANENSE, furono rinnovate le pene contro la simonia e il matrimonio dei preti (dichiarati tutti i matrimoni precedenti dei preti); fu approvato e confermato il concordato di Worms e furono proclamati nuovi canoni che assicuravano la libertà delle elezioni e delle consacrazioni e salvaguardavano i beni ecclesiastici dalle dannose intromissioni dei laici.

L'anno seguente, il 13 dicembre del 1124, moriva CALLISTO II, che veniva sepolto in Laterano; e risorgevano a Roma nuovamente gli antagonismi che la pacificazione del Papato con l'impero pareva che avesse per sempre eliminati.
Il partito papale e il partito imperiale erano rispettivamente capitanati dai PIERLEONI e dai FRANGIPANI: e da un atto di violenza commesso da questi ultimi che fu decisa l'elezione del nuovo Pontefice.
I cardinali, riuniti in Laterano, avevano eletto TEOBALDO di Sant'Atanasio col nome di CELESTINO, quando Roberto Frangipane, apparso con uno stuolo d'armati, proclamò Papa LAMBERTO di Ostia, originario di Fagnana, presso Imola.
Lo scisma fu scongiurato per la remissività di Teobaldo e dall'abilità di Lamberto. Il primo rinunziò spontaneamente alla dignità, il secondo, non essendo stata regolare la sua elezione, depose le insegne, ma poi fu all'unanimità dai cardinali riconfermato. Lamberto fu consacrato il 21 dicembre del 1124 col nome di ONORIO II.

Sei mesi dopo la morte di Callisto II, di ritorno da una campagna contro la Francia alla quale aveva partecipato come alleato del re d'Inghilterra, suo suocero, ENRICO V cessava di vivere ad Utrecht il 23 maggio del 1125.

Enrico V aveva appena 44 anni, ed era l'ultimo della casa salica, che con lui si spegneva dopo avere regnato per 101 anni sulla Germania e sull'Italia.

La corona sta per passare, com'era già prevedibile, alla potente famiglia degli HOHENSTAUFEN (Svevi) non senza contrasti.
Di questi contrasti approfittarono molte città italiane per trarne profitto, e metteranno fatalmente di fronte l'Impero e i Comuni; vale a dire un'altra lotta più aspra e più lunga tra la forza e il diritto, tra la libertà e il dispotismo. Lotte che se faranno scrivere a molti borghi d'Italia pagine di storia senza eguali, lasceranno in futuro, indistruttibilmente nelle coscienze delle successive generazioni, ricordi che sembrano legati al Dna degli abitanti di quelle città.
Spesso ancora oggi, quella che è definito "esasperato campanilismo" (con rancori, odi, disprezzi, risentimenti, rivalse, grulle vendette) ha la sua origine proprio da queste lotte fra Comuni, che spesso erano città molto vicine, ma che le sorti affidavano a questo o a quel potente signore o la propria prosperità e la pace, o la miseria e la guerra; spesso ad oltranza, erigendo o abbattendo le mura delle difese.
Ancora oggi, per questi brutti atavici ricordi (ma che alcuni nemmeno conoscono l'origine, i motivi, le cause) molte città distanti soltanto 30-40 chilometri, a metà strada, cioè sul reciproco confine, nessuno è disposto a costruirci una casa, per non essere vicino al "nemico" di un tempo molto lontano.
Fateci caso: fra Trento e Bolzano, fra Vicenza e Padova, fra Siena e Firenze, fra Novara e Vercelli e tante, tante altre città e paesi.
A metà strada, ci sono deserti, un po' più a valle o a monte, terreni con costi alle stelle, le case una dietro l'altra, ma "" nulla, in quel "posto lì" mai!

Siamo dunque arrivati proprio a queste lotte dei Comuni con uno spirito degli uomini che li abitano del tutto "nuovo"; ma quante battaglie! tra i vassalli minori e maggiori, tra ecclesiastici e imperiali, e con questi e quelli le lotte delle classi popolari, o meglio gli abitanti liberali di questi "borghi", vale a dire il "terzo stato" che sta per nascere, quello, appunto detto dei "borgh…esi", quindi una nuova coscienza, che inizia con una nuova luce a farsi strada nelle tenebre del medioevo.

I primi passi di questa nuova vita sono appunto narrati
nel prossimo ....

capitolo dall'anno 1125 al 1154 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
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STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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