ANNI 1154 - 1166

SICILIA: GUGLIELMO IL "MALO" - MAIONE - MATTEO BONELLO

CONDIZIONI DEL REGNO DI SICILIA - IL GOVERNO NELLE MANI DEL GRANDE AMMIRAGLIO MAIONE - IL "GAITO" PIETRO E L'ABBANDONO DI MHEDIA - RIVOLTA DELLA NOBILTÀ PUGLIESE - MATTEO BONELLO - UCCISIONE DI MAIONE - RISCOSSA DEL PARTITO DEL GRANDE AMMIRAGLIO - CONGIURA DEI BARONI CONTRO GUGLIELMO - DEPOSIZIONE DEL RE - REAZIONE DEL POPOLO PALERMITANO IN FAVORE DEL SOVRANO - PATTO DI CACCAMO - PRIGIONIA DI MATTEO RONELLO - RIVOLTA DI TANCREDI E RUGGERO SCLAVO - ASSEDIO E RESA DI BUTERA - RIVOLTA DELLA PUGLIA E SUA REPRESSIONE - PREVALENZA DELL'ELEMENTO MUSULMANO ALLA CORTE DI SICILIA - MORTE DI GUGLIELMO E REGGENZA DI MARGHERITA
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IL GRANDE AMMIRAGLIO MAIONE E MATTEO BONELLO

Abbiamo visto nel precedente capitolo (quello sulla triste sorte toccata a Milano) il Barbarossa raccogliere gli applausi per lo scempio compiuto su Milano, e promettere (era il 9 giugno 1162) ai Genovesi in cambio dell'aiuto con le loro navi per la spedizione nel Regno di Sicilia, che a vittoria ottenuta sui Normanni avrebbe concesso loro, come ricompensa, in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia.

Barbarossa poi, per tanti motivi, rimandò a successivi tempi l'invasione, e lasciati in Lombardia dei propri rappresentanti con l'incarico di mantenere il controllo sulla provincia, attraversò le Alpi per far ritorno in Germania.
Ma era proprio così facile scendere nel Sud e prendersi il Regno?
Dobbiamo quindi tornare indietro di qualche anno per vedere in quali condizioni era messo il Sud.

Abbiamo visto come nel giugno del 1156, domata la rivolta pugliese provocata dall'esoso governo di MAIONE e, soffocate le offensive bizantine che avevano approfittato mentre era malato a Palermo, GUGLIELMO di Sicilia tornato ad essere in buona salute e intrepido, vincitore su tutti i fronti, riportate all'obbedienza le province ribelli, da PAPA ADRIANO IV (che anche lui aveva approfittato, e anche lui era stato umiliato nella sconfitta) riceveva presso Benevento, l'investitura del regno siciliano, del ducato di Puglia; del principato di Capua e quella di Salerno, di Napoli, di Amalfi e degli Abruzzi.
Concluse la campagna con un regno che era più grande e più forte di prima.

Avvenuta questa pacificazione che tanto indispettiva il re di Germania, Guglielmo se ne tornò a Palermo e s'immerse di nuovo nell'ozio dorato del suo magnifico palazzo, nei piaceri che gli procuravano, snervandolo, le numerose concubine cristiane e musulmane, estraniandosi, dopo l'insolito vigore dimostrato nella passata guerra, dalle cure del regno che rimase, come prima, affidato all'equivoca attività del Grande Ammiraglio MAIONE.

La potenza di costui era divenuta più grande di quella dello stesso re, che in lui riponeva la più cieca fiducia. Vuole qualche storico che il tristo ammiraglio aspirasse alla corona e che con queste ambiziose mire creasse il vuoto intorno al sovrano e cercasse d'ingraziarsi la plebe. Oltre che a crearsi un fedele seguito. Promosse al grado di ammiraglio il fratello Stefano e a quello di governatore della Puglia il cognato Simeone Siniscalco.
Qualche altro storico pensa invece che Maione era spinto al suo tirannico governo non dalla brama di usurpare il regno al Normanno, ma solo dal desiderio sfrenato di ammassare ricchezze, e per meglio impunemente riuscirci si liberava di quanti erano in grado di fare aprire gli occhi al re per farlo cadere in disgrazia. C'è anche da dire, che oltre a questi timori, c'era una reciproca insofferenza nei rapporti con i nobili; questo perché la sua origine era plebea e nonostante avesse raggiunto le ricchezze superiori ai nobili, lui li odiava e a loro volta gli altri lo disprezzavano.
Tuttavia si può spiegare il movente dell'opera malvagia del ministro accettando l'una e l'altra opinione degli storici. MAIONE era mosso, sì, dal suo odio di popolano contro la nobiltà feudale del regno e dalla sete di ricchezze e d'incontrastato dominio; ma aspirava anche ad impadronirsi dello scettro.
Solo con l'ammettere queste sue mire noi possiamo spiegarci certi atti della politica di Maione. La pace, ad esempio, da lui sostenuta, con Adriano IV, che, nelle condizioni in cui il Papato versava, a Guglielmo non era per nulla necessario, avrebbe potuto facilmente liberarsi dal nominale vassallaggio della Santa Sede.
Poi l'abbandono di Mhedia, in Africa, che assediata dagli Africani, si dice, che non ricevette le vettovaglie né fu soccorsa, per ordine del ministro, da una flotta siciliana al comando del gaito (corruzione di Kaid) PIETRO; eunuco musulmano, apparentemente convertito come tanti ce n'erano alla corte di Palermo.
Tanto nella pace con il Pontefice, quanto nell'abbandono di Mhedia, Maione fece sparger la voce che lui aveva eseguito gli ordini del re, con lo scopo di suscitare il malcontento dei sudditi contro il sovrano. A questi fatti altri si possono aggiungere che, pur non essendo provati, dimostrano come la fama delle oscure mire di Maione era diffusa in tutto il regno.
Si diceva, infatti, che, per buttare giù dal trono il re, lui era riuscito a diventare l'amante della regina Margherita, e che lei teneva in casa, già pronti il diadema e le insegne regie; ed infine - si diceva anche questo- che avesse inviato una gran somma di denaro a papa Alessandro perché dichiarasse Guglielmo incapace di regnare e affidasse a lui l'investitura.

Queste accuse o vere o false, un fatto era certo: Maione era odiato da tutti per la sua tirannide. Numerose erano le vittime della ferocia del ministro: i conti di MONTESCAGLIOSO e di SQUILLACE erano stati imprigionati e privati della vista; banditi dal regno erano stati i conti di LORETELLO e di RUPE CANINA; relegati in una torre il cancelliere ASCONTINO, e così prosegue la lunga lista che ci ha lasciato il Palmeri
"GUGLIELMO conte D'ALOSA, BOEMONDO conte di Tarso, ROBERTO di BUOVO, valoroso cavaliere zio del conte di Squillace, e migliaia d'altri nobili personaggi erano, ad affollare le carceri di Palermo, alcuni accecati, altri crudelmente frustrati, altri gettati in oscuri e sozzi sotterranei".
Né rimanevano illese le mogli e le loro figliuole. Vedevi matrone e vergini di sangue nobile strappate dai loro palazzi, altre rinchiuse in carcere con i più vili malfattori; altre per fornire sozzi piaceri al grand'ammiraglio; ed altre ridotte ad esercitare ignobili mestieri per vivere. Gli stessi principi TANCREDI e GUGLIELMO, figli naturali di Ruggero duca di Puglia, fratello primogenito del re, erano con rigore custoditi nel palazzo (Palmeri)."
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Il malcontento, a lungo represso, scoppiò alla fine dentro
le file della nobiltà, che era -loro avevano i beni- quella che più d'ogni classe era stata bersagliata dall'odio del potente ministro. La scintilla della ribellione partì da Melfi, che dichiarò di non voler obbedire a qualsiasi ordine impartito da Maione né ricevere dentro le sue mura i rappresentanti del Grande Ammiraglio.
L'incendio si propagò rapidamente in tutta la Puglia: la nobiltà si levò in armi e giurò di non deporle fino a quando il malvagio ministro rimaneva al potere; i conti GIONATA di CONZA, GILBERTO di GRAVINA, BOEMONDO di MONOPOLI, RUGGERO di ACERRA, FILIPPO del SANGRO, RUGGERO di TRICARICO, RICCARDO d'AQUILA e molti altri si diedero a percorrere il ducato per sollevare le popolazioni.
Invano Maione tentò di spegnere l'incendio; Amalfi, Sorrento, Napoli, Taranto, Otranto e Barletta si rifiutarono di ricevere le lettere del ministro che invitava queste città a rimaner fedeli pena il castigo; SIMONE MANISCALCO, impotente a domare la rivolta, si vide costretto a chiudersi in un castello; il Vescovo di MAZZARA, mandato a Melfi, non appena giunto, andato per calmare per calmare gli animi, invece li rianimò.
L'incendio minacciava di estendersi nella Calabria. Per impedire che anche questa provincia fosse travolta dalla ribellione, Maione si servì di MATTEO BONELLO. Era, questi, signore di CACCAMO, in Sicilia; giovane bello, valoroso, magnanimo, imparentato alla più alta nobiltà calabrese, stimatissimo nell'isola e fuori, che Maione aveva saputo attirare a sé, fidanzandolo con sua figlia e strappandolo all'amore della bellissima e ricca contessa di Catanzaro, vedova del conte del Molise e sorella naturale del re.

MATTEO BONELLO fu mandato in Calabria e, giuntovi, radunò in assemblea i principali baroni per convincerli che erano tutte voci false quelle sparse contro il Grande Ammiraglio e che, per ciò, dovevano rimaner tranquilli e fedeli. Successe invece quel che mai il ministro non si sarebbe aspettato: i baroni persuasero lui dell'ignobile causa che si era messo a sostenere, lo convinsero della malvagità di Maione e dei tristi disegni che aveva in mente, e sostennero che a lui non conveniva proprio andare a nozze con la figlia del tiranno, perché dopo tanta stima che avevano di lui, se stringeva amicizia con il ministro sarebbe stato accusato di essere un suo complice, che avrebbe tradito la fede giurata al re, e che avrebbe coperto con una sozza macchia la nobiltà dei suoi natali; lo esortarono infine a sposare la causa della nobiltà e a procacciarsi gloria e la riconoscenza di tutti gli oppressi "spegnendo" il Grande Ammiraglio e, per meglio persuaderlo, gli promisero la mano della contessa di Catanzaro, che sapevano essere lui innamorato.

MATTEO BONELLO si lasciò persuadere dalle parole dei baroni, accettò lieto la mano che la bella contessa personalmente gli promise, e, dopo aver giurato di uccidere colui che doveva essere suo suocero, fece ritorno in Sicilia.
"Qui - scrive il Palmeri - un certo NICCOLÒ LOGOTETA, che era in Calabria, avvisò il grand'ammiraglio del matrimonio tra Monello e la contessa di Catanzaro, e del partito che lui aveva preso con i baroni calabresi.
Maione non voleva prestar fede a quella notizia, ma poi confermata da altri, piuttosto scocciato si preparò a prevenire il colpo e farla pagar cara a Bonello.

Costui, intanto, reduce dalla Calabria, era giunto a Termini, e qui lo raggiunse uno dei suoi uomini che aveva lasciato Palermo, e lo avvertì che il grand'ammiraglio aveva promesso vendetta e stava solo attendendo il momento per compierla.
Bonello scrisse a Maione una lettera molto affettuosa, nella quale gli diceva: che in Calabria tutto era tranquillo; che i baroni erano tornati all'obbedienza; e aggiungeva, che era stato e sarebbe sempre stato in avvenire pronto a qualunque fatica, pronto ad affrontare qualunque pericolo per lui; ma non di averne ancora avuta quell'occasione; e che anche il suo cuore non desiderava altro che le nozze con sua figlia; e caldamente lo pregava di non differire oltre il matrimonio. Questa lettera fece sparire i sospetti del grande ammiraglio, il quale credendo di smentire tutti coloro, che lo avevano avvertito dell'intenzione di Bonello, gongolando a tutti quella lettera mostrava.
Con altrettanto affetto rispose, ringraziando Bonello di ciò che aveva fatto e lo pregava di scendere presto a Palermo, dove le sue nozze non sarebbero state più a lungo rimandate.
Bonello non indugiò a far ritorno, e fu accolto affabilmente da colui che invece, aveva giurato di sopprimere. Le vicende di questo fosco periodo di storia, siciliana acquistano, ora l'aspetto di un romanzo, o di leggenda che a quei tempi erano un prodotto comune.
Maione in Sicilia si era creato un altro nemico, molto potente perché costui godeva della fiducia del sovrano; era l'arcivescovo UGO di Palermo. Il Grand'ammiraglio non poteva né metterlo in cattiva luce presso Guglielmo, né era prudente rischiare di sollevare lo sdegno degli ecclesiastici dell'isola mettendolo in una prigione, aveva tentato di sbarazzarsene, e fingendosi sempre amico un bel giorno colse l'occasione per fargli propinare un veleno.
Era il 10 novembre del 1160. L'arcivescovo giaceva solo infermo, forse per il veleno già ingerito con un primo tentativo; Maione, però temendo che il suo nemico guarisse, preparò un veleno ancora più forte e glielo portò lui stesso, sul far della sera, facendogli credere che fosse una miracolosa medicina.

L'arcivescovo, che conosceva le intenzioni di Matteo Bonello, appena il grand'ammiraglio fu in casa sua, fece avvertire il giovane della presenza del ministro nel suo palazzo; e, nella serata, Matteo radunò un buon numero di fedeli armati, li mise in agguato nelle vie, dove Maione, rincasando, doveva passare, e lui stesso si appostò presso la porta detta di S. Agata.
Nella casa del prelato era, intanto, fallito il tentativo di far bere all'arcivescovo il veleno; l'ammalato, fiutando l'inganno, si era rifiutato, dicendo che le medicine gli erano diventate insofferenti. Il grande ammiraglio restò fino a tarda sera a conversare con l'arcivescovo, poi si accomiatò ed uscì mentre, per ordine dell'infermo, venivano sprangate, dietro il ministro, le porte del palazzo.
Qualche cosa doveva però esser trapelata dell'agguato perché, quando Maione giunse nel luogo dell'insidia, il protonotaro MATTEO D'AIELLO e il gran camerlengo ADENOLFO, facendosi largo tra il seguito del ministro, gli si accostarono e gli sussurrarono all'orecchio che lì vicino stava nascosto il Bonello con un gruppo d'armati.
Ma proprio in quell'attimo, sbucava dall'ombra Matteo Bonello e, gridando che era giunto il momento di vendicare tanti innocenti, trapassò con la spada il grande ammiraglio, che cadde esanime al suolo. Gli accompagnatori del ministro, atterriti, si diedero alla fuga; il gran protonotaro, che era stato ferito, a stento riuscì a salvarsi.

CONGIURA BARONALE
DEPOSIZIONE DI GUGLIELMO E SUO RITORNO AL TRONO
GUERRA DI BUTERA E RIVOLTA PUGLIESE
PRIGIONIA DI MATTEO BONELLO
MORTE DI GUGLIELMO

Sparsasi la notizia dell'uccisione di Maione, il giubilo del popolo di Palermo fu proprio grande, si era liberato finalmente dal tiranno e sfogò l'odio, da lungo tempo represso, insultando il cadavere del malvagio ministro.
Scomparso Maione, i baroni della Puglia e della Calabria posarono le armi; ma dichiararono di riprenderle subito se si fosse osato punire il Bonello.
Nessuno però pensava di toccare chi aveva soppresso il mostro; tacevano atterriti i numerosi amici del ministro e il nome dell'uccisore era benedetto dal popolo ed esaltato dalla nobiltà. Il re che sulle prime si era mostrato sdegnato per l'accaduto, avute le prove dei misfatti del grande ammiraglio, si era poi calmato, e aveva dato la carica ad Arrigo Aristippo, arcidiacono di Catania, e concesso a Matteo Bonello, che si era rifugiato in Caccamo, di tornare a Palermo.
Il suo ingresso nella capitale dell'isola fu un vero trionfo; una moltitudine infinita di gente d'ogni condizione andò ad incontrarlo, gridandolo "liberatore"; fra le acclamazioni fu accompagnato al palazzo reale, dove Guglielmo lo accolse con grandi dimostrazioni di stima; poi dai più illustri personaggi della corte fu condotto a casa.

Ma il trionfo del Bonello non durò a lungo. Gli amici del defunto Grande ammiraglio, tra cui i più influenti erano la regina, Matteo d'Aiello ed Adenolfo, non sopportavano proprio gli onori che riceveva il signore di Caccamo e iniziarono un'abilissima campagna, presso il re, di riabilitazione della memoria di Maione e di maligne insinuazioni contro il Bonello, che dipingevano come uomo violento, incapace di fedeltà e gratitudine, avido di gloria e di dominio, desideroso non solo di primeggiare nel regno ma che mirava anche di mettersi sul capo la corona di Sicilia.
Ben presto le insinuazioni dei partigiani di Maione produssero l'effetto che si ripromettevano: Bonello fu tenuto lontano dalla corte e tornarono a spadroneggiare gli astuti consiglieri. Caduto in disgrazia, Matteo Bonello convocò segretamente presso di sé i baroni suoi amici per provvedere alla salvezza comune, e tutti - compresi i principi del sangue Simone, fratello naturale del re, Tancredi, nipote di Guglielmo, e il conte Ruggero di Avellino - furono dell'avviso di deporre il sovrano, confinarlo in una vicina isoletta e mettere sul trono il figlio del re che portava il nome dell'avo RUGGERO.

L'impresa non era facile perché la custodia del palazzo reale era affidata a MALGERIO, ufficiale prode e fedele, e le guardie erano tante e così bene disposte che era impossibile giungere segretamente o per forza alle stanze del re; ma, poiché Malgerio si assentava molte volte lasciando in sua vece il custode delle carceri, che a quel tempo erano nel palazzo, riuscì ai congiurati di corrompere costui e farsi promettere d'introdurli nella reggia e liberare ed armare i prigionieri per cooperare all'impresa.
Stabilita ogni cosa, il Bonello se n'andò a Mistretta per raccogliervi viveri ed armi nell'eventualità di una guerra e raccomandò ai suoi compagni di non tentar nulla prima del suo ritorno; ma questi, essendo la congiura venuta per caso a conoscenza di un soldato imprudentemente invitato a farvi parte, furono costretti a metterla in esecuzione durante l'assenza di Matteo Bonello.

Il colpo fu fatto di mattina. I prigionieri politici e i congiurati, guidati da SIMONE e TANCREDI, penetrarono improvvisamente nelle camere del sovrano, mentre questi si trovava a colloquio con il grand'ammiraglio ARISTIPPO. Guglielmo, atterrito, tentò di scappare; trattenuto e rassicurato da Riccardo di Mandra, che impedì agli altri di toccarlo, si dichiarò pronto ad abdicare.
Tutto era stato fatto senza che fuori nulla trapelasse: a render clamoroso il colpo di stato fu la peggiore feccia dei carcerati, i quali, evasi, si diedero a saccheggiare la reggia, facendo man bassa degli ingenti tesori che vi erano e violentando le donzelle addette al servizio della regina. Nel trambusto che ne seguì un gran numero d'eunuchi e di Saraceni furono trucidati.
Chiuso il sovrano nelle sue stanze, i congiurati gridarono Re il piccolo RUGGERO primogenito di Guglielmo, poi messo su un cavallo lo condussero per le vie della città, dicendo al popolo che lo avrebbero incoronato al ritorno del Bonello.
La popolazione, al sentire che MATTEO BONELLO era stato l'organizzatore della congiura, si mostrò lieta dell'avvenimento, ma poiché, trascorsi tre giorni, lui non tornava, si era sparsa la voce che si voleva dare lo scettro al conte SIMONE; a quel punto i Palermitani cominciarono a mormorare, poi si diedero a tumultuare, e, infine prese le armi, corsero alla reggia reclamando la liberazione di Gugliemo.

I congiurati tentarono di opporsi alla folla e s'impegnarono in un violento combattimento; ma, quando erano sul punto di essere sopraffatti, rimisero in libertà il sovrano, facendosi prima promettere uscire liberi per lasciare Palermo. Durante questa breve lotta trovò la morte il più innocente di tutti, il piccolo Ruggero. La sua fine fu da alcuni attribuita ad una freccia, che, scagliata dal popolo, andò a colpire il fanciullo; altri affermarono che Ruggero, visto il padre in libertà, corse da lui festosamente ma con rabbia fu respinto con un calcio mortale e spirò, poco dopo, tra le braccia della madre.

" Re GUGLIELMO - scrive il Palmeri -intanto, sopraffatto da quel grave oltraggio, cadde in una tale avvilimento d'animo che, deposto il regio manto se ne stava seduto a terra, piangendo amaramente; come prescriveva il divieto reale nessuno poteva parlargli né avvicinarsi a lui, invece gli erano tutti attorno e lui piangendo a tutti narrava piangendo, quell'atto miserevole che gli era capitato.

Finalmente, confortato dai vescovi, si recò nella gran sala, contigua al palazzo, e qui convocato il popolo, si diede a ringraziarlo di ciò che aveva fatto per lui, ed ad esortarlo a conservar sempre la stessa fedeltà. Confessava di essere stata quella disgrazia un castigo di Dio, per la sua mala condotta, e prometteva di ravvedersi e riscattarsi, e dichiarava di esser pronto a concedere ai sudditi quanto da loro era stato chiesto, che andava a loro bene; diceva volere abrogare tutte le consuetudini nel suo regno introdotte, ma faceva anche notare che così facendo poteva essere ristretta la libertà dei cittadini, mentre in caso contrario essere gravati di pesi straordinari; finalmente, in merito del servizio prestato, concesse al popolo di Palermo l'esenzione di tutte le gabelle nel comprare, vendere, e liberi di portare in città ogni genere di prodotti della terra".

Lo scacco patito dalla rivolta popolare e le improvvise liberalità del sovrano non potevano che provocare una reazione da parte dei congiurati, i quali avevano trovato ospitalità in Caccamo, presso MATTEO BONELLO. Costui, rimproverato dal sovrano di aver concesso asilo a tanti traditori, rispose altezzosamente, in nome di tutti, che a lungo la nobiltà aveva sopportato i soprusi del re, fra i quali il più intollerabile era l'ostacolo opposto alle nozze delle figlie dei baroni, al cui matrimonio era spesso negato il consenso regio; che i nobili male tolleravano le illegali riforme recentemente introdotte e che infine reclamavano che fossero rimessi in vigore gli antichi statuti sanciti da Roberto il Guiscardo e confermati dal conte Ruggero.

La risposta del Bonello sdegnò Guglielmo, il quale fece riferire che avrebbe concesso ai nobili quanto loro chiedevano se, essi, abbandonati i traditori, fossero venuti a lui umili ed inermi. Pieni di collera a queste parole, i baroni cominciarono a rimproverare il Bonello, al cui temporeggiare attribuivano il cattivo esito dell'impresa, e tanto dissero che alla fine il Signore di Caccamo, radunate le sue schiere mosse contro la capitale.
Guglielmo si vide perduto; tardavano a venire i soccorsi chiesti da Messina; le vettovaglie raccolte rapidamente nelle campagne erano insufficienti per un assedio; i partigiani di Maione, sgomenti, anziché prepararsi alla difesa, si preparavano a mettersi in salvo con le loro cose; la popolazione mostrava di volere schierarsi dalla parte dei baroni che marciavano verso la città.

A un tratto però quel temporale che si addensava sul capo del sovrano si dissipò: Bonello, spaventato forse dalle conseguenze dell'impresa più che dall'impresa stessa, la quale si presentava facilissima, giunto nelle vicinanze di Palermo, ritornò indietro. Vollero i baroni, per conto loro, ritentare l'impresa; ma ormai era troppo tardi, perché da ogni parte erano giunti soccorsi di truppe al re; accettarono quindi i patti che furono loro offerti da Guglielmo per mezzo del canonico Roberto di S. Giovanni, di uscir cioè dal regno.

Soltanto tre furono esclusi dal bando: il conte di Avellino, ultimo di quel casato, per l'età giovanile e le preghiere della nonna, cugina del re; MATTEO BONELLO per il grande favore che godeva presso il popolo; e RICCARDO di MANDRA, che, per aver salvata la vita del sovrano durante la rivolta, si ebbe la carica di Conestabile. ARRIGO ARISTIPPO, sospetto di complicità con i baroni, perse il favore del re; lo riacquistò invece MATTEO D'AIELLO, che, liberato dalla prigione, riebbe la carica di protonotaro.
Guglielmo giurò di perdonare il passato di Bonello e di rimetterlo nella sua grazia ma ben presto il signore di Caccamo dovette imparare quanto sia stolto colui che crede al perdono di un principe contro il quale ha snudato la spada.
Non tutti i baroni avevano voluto assoggettarsi ai patti di Caccamo. Capitanati da TANCREDI, da SIMONE e da RUGGERO SCLAVO, figlio illegittimo di quest'ultimo, mantennero viva l'agitazione e, fatto il centro della rivoluzione la forte Butera, Piazza ed altre terre popolate da Lombardi, diedero addosso alle popolazioni musulmane di quelle parti, fedeli al re, e spinsero le loro incursioni fin sotto Siracusa e Catania.

Deciso a domare i ribelli, Guglielmo radunò un fortissimo esercito; prima però di partire, ascoltando le parole degli amici di Maione che lo consigliavano di non lasciar libero a Palermo Matteo Bonello, chiamato alla reggia, ordinò poi di arrestarlo e di chiuderlo in prigione. Qui all'infelice giovane gli furono barbaramente cavati gli occhi e tagliati i garretti. Uguale sorte toccò a qualche suo parente ed amico. Ma il popolo volle vendicare il suo eroe; uccisero il gran camerlengo ADENOLFO e tentò pure di assalire la reggia; ma questa era ben difesa e dopo inutili sforzi i Palermitani desistettero dagli assalti e la calma ritornò in città.
A quel punto Guglielmo mosse contro i ribelli ed assediò Butera dove si erano ritirati; ma la città era fortissima come luogo di difesa, né si poteva prender per fame essendo fornita di una gran quantità di vettovaglie; l'assedio durò quindi a lungo e già il sovrano, perdendo la speranza d'impadronirsene, aveva deliberato di allontanarsi, quando un'improvvisa discordia, sorta tra gli abitanti e la guarnigione, gli porse l'occasione di avere per patti Butera. La città fu smantellata e distrutta; Ruggero Selavo e Tancredi ebbero salva la vita a condizione che partissero subito dal regno.
Domata la rivolta in Sicilia, Guglielmo portò le armi in Calabria, dove qui il conte di LORETELLO, dopo avere invasa la Puglia, si era spinto ribellandovi i baroni locali, ai quali si era unita la contessa di Catanzaro.

"Il primo ad essere assalito fu il castello di Taverna, di proprietà proprio della bella contessa. Era posto sopra la cima di una rupe erta da tutti i lati, e vani furono i tentativi per espugnarlo; gli assalitori ne furono sempre respinti, senza alcun danno degli assediati, i quali mandavano giù botti, armate esternamente di lunghi chiodi di ferro, ed enormi macigni, che rotolando giù con un gran fracasso, colpivano, ferivano, disperdevano le schiere nemiche. Ognuno riteneva impossibile sottomettere con la forza quel castello, e tutti consigliavano il re a rinunciare, per correre in Puglia che era più necessario. Ma, se duro era l'ostacolo, più duro era Guglielmo nella sua ostinazione. Gli assediati, ritenendo veramente inaccessibile un lato della rupe non si curavano di custodirlo; il re vista quest'unica possibilità scelse i più audaci soldati e ordinò di dare la scalata da quel lato; e tanto fecero costoro che alla fine inerpicandosi giunsero in vetta sulla rupe poi senza incontrare altri ostacoli penetrarono nel castello, e mentre gli abitanti correvano a nascondersi in ogni angolo, aprirono le porte principali ai loro compagni".

"La contessa con la madre e gli zii Alferio e Tommaso, che governavano la milizia, caddero in mano del re. Alferio sul campo stesso pagò il tradimento con l'estremo supplizio; Tommaso fu impiccato poi a Messina; gli altri ribelli ad alcuni gli furono troncate le mani ed altri cavati gli occhi; la contessa e la madre furono mandate nelle carceri di Palermo (Palmeri)".

Espugnato il castello di Taverna, il re passò nella Puglia, dove non trovò resistenza; fuggito nell'Abruzzo era il conte di LORETELLO, fuggiti i conti di Fondi, di Conza, d'Acerra e gli altri; le città sollevate si affrettavano a fare atto di sottomissione al re che imponeva forti taglie e mandava nelle carceri di Palermo tutte quelle persone che credeva responsabili della rivolta ed altre ancora.
Giunto a Taranto, la città aprì le porte e il re fece impiccare i pochi soldati che il conte di Loretello vi aveva lasciati; Bari fu rasa al suolo e poco dopo Salerno avrebbe subito la stessa sorte se non l'avessero salvata le preghiere del gran protonotaro D'AIELLO, ch'era salernitano, il conte di MARSICO e RICCARDO PALMER vescovo di Siracusa, e un'improvvisa, furiosa tempesta, che costrinse il sovrano ad allontanarsi.

Poiché tutte le città dei suoi domini di terraferma erano ritornate all'obbedienza, il sovrano fece ritorno in Sicilia.
"E a Palermo - scrive il Prutz - ricadeva Guglielmo nella molle consueta indolenza. Vi cercava, l'oblio di dure memorie, rimorsi, cordogli quell'indole strana giungeva così a inebriarsi e stordirsi di piaceri e di crapule: perché nulla guastasse il sereno dei voluttuosi suoi giorni, proibì di recapitargli novelle troppo serie e sgradevoli. Il potere della gruppo musulmano che lo proteggeva a corte, era sempre predominante".

"Le terre dei Lombardi pagavano molto caro lo scotto delle recenti violenze e ci pensarono gli esecutori di Guglielmo; nelle province di Puglia, i Giustizieri, gli Strateghi, altri regi ufficiali, gli eunuchi e i paggi, di cui fidava del tutto Guglielmo, erano loro a compiere le vendette ed i rigori contro i feudatari e i Comuni, che avevano causato o in qualche modo concorso nei passati tumulti.

"L'elemento del quale si era minacciata l'oppressione, a sua volta si faceva oppressore: la reggia normanna mai come allora prese le sembianze, e sposò l'interesse e la causa del soggiogato islamismo.
Qualche funzionario cristiano e borghese, uscito dalle file dove era uscito Maione, scapitava e contava assai poco di fronte ai gaiti arabi: né il nuovo predominio accordato a costoro si moderava davanti alla stima di cui talvolta diede prova Guglielmo a questo od a quest'altro prelato, nazionale o straniero: né per le sue tendenze musulmane gli parve un compenso abbastanza accettabile quello offertogli da qualche ecclesiastico per limitare quelle tendenze.

"Inoltre, la precedente rapacità di Maione e le sue infamanti accuse indirizzate al Re per coprire le sue malefatte, avevano procurato e lasciato allo stesso la nomina d'avaro e di lussurioso; ma sappiamo che erano ingiuste, del resto lui sapendo che erano falsità non se la prendeva più di tanto, perché ai propri fedeli o cristiani o musulmani indifferentemente lui si mostrava larghissimo dispensatore d'elogi e dispensava loro moltissimi doni".

"Uno dei tanti immotivati rimproveri (era in fin dei conti un Re del più gran regno d'Europa) era quello di possedere una splendida villa, fatta costruire e poi adornata cercando di emulare quelle musulmane e con i piaceri e le delizie che avevano le antiche dimore degli Emiri di Palermo.
E fu in questa dimora che nel 1166, dopo 15 anni di regno, e 46 di vita, improvvisamente moriva GUGLIELMO I d'ALTAVILLA (figlio di Ruggero II).
Negli ultimi istanti dettò il suo testamento; affidò il trono al maggior dei suoi figli, GUGLIELMO II di 13 anni, il minore fu confermato nel principato di Capua, e come tutrice di entrambi nominò Margherita sua moglie".

"Le esequie che accompagnano i principi, a GUGLIELMO d'ALTAVILLA non mancarono e furono solenni e sfarzose. La città lo accompagnò nel suo ultimo viaggio tutta in gramaglie: e durante il trasporto schiere di matrone sia musulmane sia cristiane, sparsi i capelli, avvolte di rozzi sacchi, precedute da una turba di serve, percorrevano in giro le vie, recitando lugubri nenie al cupo suono di timpano: e, nota Ugo Falcando, "se fu vero dolore, le Musulmane lo sentivano".
Ma la storia tramandò il nome dell'iniquo monarca ai posteri con l'appellativo di "Malo".
Mentre suo figlio l'appellativo fu "il buono", che morì più giovane del padre, a soli 36 anni, aprendo la strada agli Svevi, perché sua zia paterna, era COSTANZA (1154-1198 - figlia di Ruggero II, quindi sorella di Guglielmo), andata poi in moglie (1186) ad Enrico VI di Svevia (figlio del Barbarossa, e fu lui a farla sposare con la Normanna), ed alla cui morte l'imperatrice fece incoronare il 4 enne figlio, Re di Sicilia, il futuro imperatore Federico II (1194-1250).

Questa era il Regno di Sicilia, nel periodo di Barbarossa, dopo Milano.
Ora, a quell'anno del suo successo in Italia dobbiamo ritornare; quando Federico rinuncia e rimanda la sua discesa nel regno Normanno; torna in Germania, inizia a prepararsi.
Questi i progetti, ma molte cose accadranno in Lombardia, che andiamo a narrare con il prossimo....


periodo dall'anno 1162 al 1177 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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