ANNI 1156 - 1159

MILANO AL BANDO- L'ASSEDIO - RONCAGLIA -
ASSEDIO E DISTRUZIONE DI CREMA

(vedi qui la originale carta topografica di Milano del tempo
anno 1158-59 durante l'assedio di Barbarossa)

MILANO MESSA AL BANDO DELL'IMPERO - RICOSTRUZIONE DI TORTONA - I MILANESI ESPUGNANO VIGEVANO - DISTRUZIONE DI LODI - POTENZA DI MILANO - FEDERICO A BESANZONE ED AMBASCERIA DI ROLANDO BANDINELLI - DISSIDIO TRA ADRIANO IV E FEDERICO - SECONDA SPEDIZIONE ITALIANA DEL BARBAROSSA - FEDERICO A BRESCIA - RESISTENZA DEI MILANESI AL PONTE DI CASSANO - PRESA DI TREZZO - RICOSTRUZIONE DI LODI - VICENDE DELL'ASSEDIO DI MILANO - GUIDO DI BIANDRATE CONSIGLIA LA RESA - INGRESSO, DI FEDERICO A MILANO - DIETA DI RONCAGLIA - OPPOSIZIONI DI COMUNI AI DECRETI DI RONCAGLIA - TUMULTO MILANESE CONTRO I LEGATI IMPERIALI - MILANO RIMESSA AL BANDO - ASSEDIO DI CREMA E SUE VICENDE - RESA E DISTRUZIONE DI CREMA - ROTTURA TRA IL PAPA E L'IMPERATORE
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ALLA VIGILIA DELLA SECONDA DISCESA IN ITALIA DEL BARBAROSSA

L'ultimo atto di Federico Barbarossa prima di lasciare l'Italia nel novembre del 1155, fu rivolto contro Milano. Mentre si trovava nel territorio veronese (dove corse il rischio anche di annegare nell'Adige per un tiro mancino fatto dai Veronesi) mise la metropoli lombarda al bando dell'impero e con un decreto firmato da più di duecento vescovi e signori tedeschi e dai consoli di Pavia e Novara le tolse il diritto di coniare moneta e tutte le altre regalie, che furono invece date a Cremona, a lui la più fedele delle altre città italiane.

Fu un provvedimento di nessun valore: i Milanesi continuarono e portarono a termine la promessa ricostruzione di Tortona, difendendola dagli assalti dei Pavesi e risposero al decreto imperiale cingendo di un profondo fosso la propria città, ricostruendo e fortificando Trecate e Galliate e rifacendo il ponte sul Ticino che era stato bruciato e distrutto dal Barbarossa.

Né i Milanesi si limitarono a queste opere di ricostruzione e di difesa per la quale furono spese somme ingenti; ma pensarono anche di punire le città che si erano alleate con il sovrano germanico, e la prima presa di mira era Pavia.
I Pavesi, insieme con GUGLIELMO di MONFERRATO e OBIZZO MALASPINA, tenevano un forte contingente di milizie presso il castello di Vigevano, pronte a varcare il Ticino e a invadere il territorio di Milano. I milanesi, riunito un forte esercito, aggiunsero le milizie di Brescia, e ne diedero il comando al conte GUIDO di BIANDRATE, il quale, passato il Ticino ed evitata la rocca di Vigevano, assalì improvvisamente e distrusse il castello di Gambolato; poi, tornato indietro, diede battaglia ai Pavesi.
Questi, dopo una furiosa mischia si chiusero a Vigevano, ma non vi resistettero che pochi giorni; costretti dalla fame, si arresero a durissimi patti e Vigevano, poi occupata, per punizione fu rasa al suolo.

Fu, questo, soltanto uno dei primi gravi episodi della guerra tra Milano e i comuni nemici. E fu una guerra vittoriosa per la metropoli della Lombardia che fece sentire il morso delle sue armi a Pavia e a Cremona e fu del tutto insensibile con Lodi. Per andare a distruggere quest'infelice città il minimo pretesto era quello buono; e il pretesto arrivò.
Avevano ordinato i consoli che tutti i Lodigiani, dai quindici anni in su, dovevano giurare fedeltà a Milano. Volendo i Lodigiani includere nella formula le parole "salva la fede all'imperatore", i consoli istigarono il popolo contro la vicina città, e a nulla valsero le preghiere di sessanta autorevoli cittadini che, guidati dal loro vescovo, si recarono a Milano a chiedere misericordia presso l'arcivescovo UBERTO.
Lodi fu assalita, e incendiata, i suoi castelli distrutti, devastati i campi, e gli abitanti, scacciati dalla loro terra, dovettero rifugiarsi a Pizzighettone, sotto la tutela dei Cremonesi.

"Umiliata Pavia - scrive L'Emiliano-Giudici- impaurito il marchese di Monferrato, impadronitisi di molti castelli a Novara e conquistati altre venti, nella valle di Lugano, il comune milanese salì in una tale reputazione, che non solo si era rifatto degli innumerevoli danni che Federico gli aveva cagionati, ma vide la sua supremazia riconosciuta su tutte le città lombarde, che volendo emularne gli esempi facevano gara di solerzia, di affetto cittadino, di saggezza politica, di previdenza, moltiplicando i ripari, le strade, stringendo ancor di più le antiche alleanze; il trionfo quasi universale dei liberi ordinamenti in Lombardia pareva avesse sradicato per sempre da quelle terre fortunate la mala pianta della dominazione straniera".

Della potenza di Milano è inutile qui dirlo, in Germania si rodeva il fegato Federico Barbarossa; l'aveva messa al bando per ridurla in miseria e invece quella era diventata ora più ricca, più grande, più superba di prima.
Ma a rendere più acuto il suo malcontento in Germania giunsero le ultime notizie dall'Italia meridionale che gli annunciavano non solo i successi di Guglielmo contro i baroni ribelli della Puglia e i Bizantini, ma veniva pure a sapere con rabbia e indignazione, cosa era accaduto dopo questi successi del Normanno; cioè l'investitura che a Benevento il Pontefice gli aveva dato senza il consenso imperiale.
Ed i patti fatti a Roma erano chiari, sia lui sia il Papa non potevano concludere una pace con un comune nemico senza il consenso reciproco.
E i Normanni per entrambi erano i comuni nemici, e quella pace era un vero e proprio tradimento del Papa.

Se quest'ultimo fatto, in special modo, aveva irritato l'imperatore contro il Pontefice; un lieve incidente, che in altri tempi sarebbe passato inosservato, inasprì ancor più la collera di Federico e fece scoppiare anzitempo il conflitto tra il papa e il sovrano di cui il seme era stato gettato nella pace che Adriano aveva concluso con il re Guglielmo e non poca era la collera pure per quella pace conclusa con i Romani.

Correva l'ottobre del 1157 e Federico Barbarossa si trovava a Besanzone, dov'era andato a prendere possesso dell'alta Borgogna, portatagli in dote da Beatrice, figlia del conte palatino Rainaldo, che Federico aveva sposato in seconde nozze nel giugno dell'anno precedente.
Durante il suo soggiorno a Besanzone, l'imperatore ricevette la visita di un legato pontificio, il cardinale ROLANDO BANDINELLI da Siena, cancelliere della curia romana, che più tardi diventò molto famoso col nome di ALESSANDRO III. Sarà lui ad ingaggiare con lo Svevo la lotta dei "due giganti" per vent'anni, non concedendosi entrambi tregua.

BANDINELLI era stato inviato per chiedere al sovrano di rimettere in libertà l'arcivescovo ESQUILO di Luni, il quale, tornando da Roma, era stato derubato e imprigionato da alcuni suoi cavalieri tedeschi. Il prelato era stato incaricato di consegnare all'imperatore una lettera nella quale Adriano IV, fra le altre cose, gli ricordava di....
"avergli concesso la corona imperiale e di essersi mostrato con lui arrendevole in ogni suo desiderio, ed aggiungeva che non si pentiva dei favori accordatigli, ma desiderava anzi di potergli concedere maggiori benefici, se ci fosse stato sulla terra un "beneficio" ("beneficium") maggiore della dignità imperiale".

La parola "beneficium" nel linguaggio feudale significava feudo, e il Papa, usandola faceva capire che "l'impero era un semplice feudo" della Santa Sede. Federico arse dallo sdegno leggendo quella lettera papale, e la sua collera aumentò quando il legato con l'intenzione di giustificare le espressioni del Pontefice, gli disse: "Da chi dunque il principe tiene l'impero? Da chi se non dal Papa?" .
A queste franche, audaci parole, come stilettate, i grandi, che circondavano l'imperatore, cominciarono a tumultuare e il conte palatino OTTONE di Baviera, che reggeva la spada imperiale, si scagliò contro il BANDINELLI e gli avrebbe recisa la testa se il Barbarossa non lo avesse trattenuto e allontanato.

A ROLANDO BANDINELLI fu imposto di lasciare subito la Germania; ma quando il Pontefice si lagnò di questo con i vescovi tedeschi, e del modo con cui era stato trattato il suo legato, e li esortò ad ammansire l'animo di Federico si sentì rispondere che il suo cancelliere aveva agito con imprudenza e che il torto non stava dalla parte dell'imperatore.
Questi, dal canto suo, mandò lettere per tutto l'impero, nelle quali, raccontava questi fatti e vietava di accogliere legati pontifici; Federico in quelle lettere sosteneva di "avere ricevuto il regno e l'impero soltanto da Dio per mezzo dell'elezione dei suoi principi", e concludeva minacciosamente: "Chi ardisse sostenere che noi abbiamo ricevuto la corona imperiale quale feudo del Papa mente e contraddice alla dottrina di Dio e di San Pietro".

Ma non poteva accontentarsi solo di mandare lettere; il Barbarossa indignato per questo e altro, affrettò i preparativi per la seconda spedizione italiana già annunciata alla dieta di Fulda nel marzo del 1157, bandì una dieta in Ulma, da tenersi nella Pentecoste del 1158 e spedì in Italia il cancelliere RAINALDO di SASSEL e il conte OTTONE di WITTELSBACH perché invitassero i principi italiani ed i Comuni amici a tenersi pronti. I due messi imperiali si recarono a Verona, a Cremona, a Ravenna, a Rimini e ad Ancona e l'accoglienza dovunque ricevuta fu tale che Adriano IV scoraggiatosi, si affrettò a scrivere all'imperatore spiegando che nella lettera speditagli a Besanzone non "feudo" con la parola "beneficium" aveva voluto significare, ma "bene fatto". ("Beficium", hoc enim de "bono et factum" est editum, et dictum beneficium apud nos, non "feudum" sed "bonum factum").
Noi qui, non possiamo per nulla escludere che quella frase sia stata vergata proprio dal fiero Bandinelli (il futuro papa Alessandro III), tutta la sua ostinata condotta successiva è coerente a quella frase.
Federico accolse la scusa, si mostrò o finse di mostrarsi soddisfatto, fece buon viso a coloro che avevano recato la lettera, scrisse pure allo stesso Pontefice che "niente desidero al mondo di più che la pace con la Chiesa e l'amicizia con il suo capo".
Ma l'esercito Federico continuò a prepararlo. E anche poderoso!


SECONDA SPEDIZIONE DI FEDERICO IN ITALIA
LA NUOVA LODI
VICENDE DELL'ASSEDIO DI MILANO

Nella Pentecoste del 1158 si radunò ad Ulma l'esercito imperiale composto di oltre cinquantamila uomini e comandato dai grandi dell'impero, laici ed ecclesiastici, tra i quali il re VLADISLAO II di Boemia, i duchi d'Austria, di Carinzia, di Baviera, di Zaringa, gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia e i vescovi di Costanza, Spira, Worms, Eichstàdt, Praga, Verdun e Virzburgo.

Per rendere più facile il vettovagliamento, l'esercito, diviso in vari corpi, passò le Alpi per quattro vie diverse: ENRICO d'Austria e il duca di Carinzia con gli Ungari scesero per la via di Canale, della marca veronese e del Friuli; BERTOLDO di Zaringa con le milizie di Borgogna e di Lorena passò per il San Bernardo; le truppe di Franconia e di Svevia scesero da Chiavenna e il lago di Como; Federico, con la parte migliore dell'esercito prese la via del Brennero.

Le prime ostilità si trovarono a Brescia, dove proprio l'avanguardia imperiale composta di Boemi fu assalita e respinta dalle milizie cittadine: ma sopraggiunto da Verona, Federico, con il grosso dell'armata, fu posto l'assedio alla città, mentre nel frattempo per ingannare il tempo gli altri reparti si dilettavano a distruggere tutti i ricchi dintorni, fino a tal punto che i Bresciani si affrettarono a chiedere la pace, pagando una grossa somma e consegnando, come ostaggi, sessanta fra i più autorevoli cittadini.

Entrato a Brescia, BARBAROSSA aspettò che l'esercito si riunisse, emanò un editto sulla disciplina militare e radunò in un parlamento tutti i suoi baroni, ai quali, fra le altre cose, disse (quello che dicono tutti i salvatori): "Non la brama di dominio ci muove alla guerra, ma l'ostinazione dei ribelli. Milano vi ha tolto dalle case paterne, vi ha strappato alle mogli e ai figli e con la sua audace irriverenza ha attirato sopra di voi questo flagello. Che la città nemica non creda che noi siamo passivi, né ci consideri degeneri solo perché vogliamo conservare ciò che i nostri antenati, Carlomagno e Ottone, aggiunsero ai diritti dell'impero".

Consigliato dai dotti che seguivano l'esercito, Federico citò i Milanesi a comparire davanti al suo tribunale per giustificare la loro condotta; e il comune si affrettò a mandare oratori; ma invano questi perorarono calorosamente la causa della città, chiesero l'intercessione dei più illustri principi, offrirono somme. Federico, che voleva fiaccare quel comune, che costituiva un pericolosissimo esempio per le altre città della Lombardia, fu inesorabile, rinnovò il bando su Milano e ordinò che l'esercito si muovesse alla volta della città ribelle.
Al ponte di Cassano, sull'Adda, c'erano di guardia mille cavalieri milanesi con un bel gruppo di contadini armati. In quel punto non essendo facile il passaggio, l'esercito imperiale sostò davanti a quell'ostacolo; ma, spinto dall'impazienza, VLADISLAO di Boemia e il duca di Dalmazia si diedero ad esplorare la riva e, trovato un punto che sembrava un buon guado, sebbene il fiume fosse gonfio per lo sciogliersi delle nevi, tentarono il passaggio con una schiera di cavalli. Molti perirono trasportati dalle acque impetuose, ma molti altri riuscirono a raggiungere la sponda opposta.

Assaliti di fianco da questa schiera e di faccia dall'esercito di Federico, i cavalieri milanesi si difesero molto bene, poi, non potendo resistere al duplice attacco e al gran numero di nemici, abbandonarono il ponte e arretrarono verso Milano. Allora il Barbarossa iniziò il passaggio dell'Adda, ma il ponte, per il troppo peso, crollò trascinando nell'acqua quanti vi erano sopra; però il grosso dell'esercito era già passato e già avanzava devastando e uccidendo, mentre i contadini in gran numero, per fuggire alle violenze tedesche, riparavano a Milano, che in breve si trasformò in un asilo troppo piccolo per così tanta gente e non aveva certo i viveri sufficienti a sfamar tutti.
Allora Milano contava circa 50.000 abitanti, altri 50.000 erano nei suoi dintorni, sparsi nelle campagne, in piccoli centri, ma a quei tempi con una moltitudine di contadini impiegati per lavorare la terra.

Passato l'Adda, il Barbarossa espugnò e presidiò il castello di Trezzo, poi andò a Castirago, dove gli andarono incontro, vestiti a lutto, i Lodigiani che lo scongiurarono perché rendesse loro la patria. L'imperatore ebbe per loro parole di conforto, poi si recò a Monte Ghezzone presso l'Adda, e a quattro miglia dalla vecchia Lodi, segnò i confini della nuova città da edificarsi e di quel nuovo territorio diede l'investitura ai consoli lodigiani RANFO MORENA, LOTARIO degli ALBONI e ARCIBALDO di SOMMARIVA.

Intanto, chiamate dal bando imperiale, accorrevano le milizie dei conti e marchesi di tutta la Lombardia al campo di Federico e truppe inviavano Pavia, Cremona, Como, Lodi. Bergamo, Verona, Mantova, Parma, Piacenza, Asti, Novara, Vercelli, Ivrea, Alba, Genova, Modena, Reggio, Bologna, Ferrara, Padova, Treviso, Aquileia, Cesena, Imola, Forlì, Rimini, Ancona, Fano e alcune città della Toscana.
Così si stupiva dolorosamente un contemporaneo, vedendo l'astio con cui le città lombarde si univano per combattere contro Milano.

"…Non come popolo affine, non come un avversario interno, ma come contro nemici esterni, come contro popoli di un'altra stirpe; incrudeliscono contro quelli del loro sangue come non si dovrebbe fare neppure con i barbari".
Il notaio Burcardo non per nulla annotava: "Vinta Milano, abbiam vinto tutto."

Secondo il conteggio dei cronisti di allora, a centomila fanti e quindicimila cavalli assommò l'esercito raccolto sotto le insegne del Barbarossa per andare a punire Milano. Ma lui la voleva punire, ma gli altri - le città sopra menzionate- la volevano distruggere del tutto.

L'assalto della città fu cominciato per iniziativa di un giovane vassallo di nome ECHEBERTO, il quale, desideroso di acquistarsi gloria e credendo i Milanesi atterriti dalla grande moltitudine di armati che stava avanzando contro di loro, senza chieder licenza a Federico, con un migliaio di cavalieri, assalì improvvisamente una porta di Milano.
Ma le milizie milanesi erano preparate a ricevere il nemico e subito uscirono con le armi in mano ad affrontare l'audace vassallo. Si scatenò una furiosa mischia sotto le mura con i contendenti, che erano come valore pari e, infatti, incerte erano le sorti della battaglia, fin quando un colpo di lancia stese esanime al suolo Echeberto.

La morte del loro capo demoralizzò all'istante i Tedeschi, che subito incalzati dai Milanesi, vacillarono, e furono presto sopraffatti, sbaragliati; molti perirono, molti altri caddero prigionieri, pochi riuscirono a salvarsi con la fuga portando così la notizia della sconfitta all'imperatore, il quale, rimproverò i superstiti per l'insubordinazione; ma a quel punto fu questo un buon motivo per muoversi; levò il campo e marciò contro Milano per scatenare la sua vendetta.

Giunto sotto le mura della città, divise l'esercito in sette corpi e mise un principe di fronte a ciascuna porta; lui si piazzò presso la casa dei Templari; Vladislao di Boemia a San Dionigi, l'arcivescovo di Colonia a San Celso. Gli accampamenti furono cinti da fossi e steccati e furono poste in azione le macchine guerresche.
Ci è stata tramandata in una rarissima incisione realizzata da un certo Aspari, la carta topografica della città di Milano del 1158, con segnate la disposizione dei corpi che assediavano la città.
(vedi il link all'inizio di questo capitolo)

Scrive l'Emiliani-Giudici, da cui ci piace riportare le belle pagine che raccontano l'assedio:
(che riportiamo fedelmente e integralmente nell'antiquato lessico)

"I Milanesi avevano raccolto cinquanta e più migliaia di combattenti, capitanati dai conti ANSELMO di MANDELLO, UBERTO di SEZZA, ANDERICO conte di Martesana, e RINALDO marchese d'Este. Tutti impazienti di scontrarsi con il nemico; i capi non riuscivano a frenarli. Una notte, uscendo zitti zitti da una delle porte, si gettarono sul corno estremo del campo, dove vi era Corrado conte palatino del Reno, gli trucidano le scorte, e si danno a far macello dei soldati immersi ancora nel sonno: cresce il trambusto; il re di Boemia si accorge, e al suono degli strumenti bellici lancia i suoi cavalieri in mezzo alla baruffa; immenso lo scompiglio; i Milanesi non bastano a sostenere l'accresciuto numero dei Tedeschi, e si richiudono dentro la città. I nemici condotti da Ottone conte Palatino, li incalzano fin presso ad un ponte di legno che, sovrapposto al fosso, serviva da varco ad una porta, vi accatastano materie incendiabili e vi appiccano fuoco con intendimento di chiamarvi gli assediati e vendicarsi.
I Milanesi sbucano fuori; si urtano entrambi con immane impeto e riprende la strage; infine i Tedeschi indietreggiano, e gli altri ritornano entro le mura. Giorni dopo si provarono ad assaltare il campo del duca d'Austria, offesero e furono offesi e ritornarono dentro.
"Simili fatti d'arme seguivano spesso, e i Milanesi con grande audacia e destrezza tolsero ai nemici tanti cavalli, che un cavallo si poteva comprare per quattro soldi.

"L'assedio tirava in lungo; né vi era cenno di resa; Federico si impegnò a tempestare la città con le macchine da guerra. Con tale intendimento si studiò di espugnare una torre poco discosta dalle mura che si chiamava l'Arco Romano perché era sovrapposta a quattro arcate di antica costruzione; era presidiata da quaranta uomini. L'assaltò invano, poi l'assediò: per otto giorni quelli di dentro si sostennero; ma i Tedeschi cominciando a rompere i pilastri costrinsero i quaranta ad arrendersi. Collocarono in cima alla torre una petriera che recava gran danno alla città. I Milanesi di dentro con un onigro guastarono la macchina dei Tedeschi e li costrinsero ad abbandonare la torre.
Frattanto Federico faceva orribilmente devastare la contrada, distruggendo le messi, tagliando gli alberi, bruciando le case, rovinando i molini; tutto il paese rendeva immagine di un deserto.

Vincevano i devastatori tutti per rabbia e ferocia quelli di Pavia e di Cremona, che agognavano la distruzione dell'aborrita Milano. Qui, benché gli animosi con ogni studio tenessero desto il coraggio e viva la speranza nei cuori dell'afflitto popolo, la fame infuriava, e le malattie pure, e il luogo così contaminato produsse una mortale epidemia. La vigilanza degli amministratori non fu abbastanza per impedire la confusione; tutti mormoravano, tutti tumultuavano, tutti erano stanchi. GUIDO di BIANDRATE colse l'occasione e cominciò a mandare in giro pensieri e consigli di resa. Era uomo scaltro e reputato e per i suoi gentili portamenti ben accetto ai nobili e al popolo; uno di quegli esseri che si sanno barcamenare e in una generale rovina cascano ritti. Combatteva i Tedeschi ed era da loro amato e riverito tanto che Federico Barbarossa, il quale per costume non si lasciava concessioni al perdono, gli concesse poi tutto il suo regio favore, e l'ebbe caro e lo beneficò pure. Costui dunque, fatto convocare un parlamento di popolo, ed arringandolo con bella eloquenza disse: che se egli fino allora aveva serbata fede alla repubblica, se aveva bramato che lo stato e l'onore di Milano si mantenessero incolumi e fermi, altro non aveva fatto che il proprio dovere: perché fin dai suoi primi anni, aveva dalla benevolenza dei cittadini ricevuto tanti favori e benefici da conoscersi insufficiente ad esprimere la sua gratitudine, sperava nella coscienza retta e che il buon volere gli valessero di merito ai loro occhi. Fiducioso sulla propria coscienza, era pronto a porgerne prova parlando senza timore e schiettamente il vero, come se fosse certo che ciò dovesse spiacere a quanti erano ingannati dal proprio desiderio e in questo si ostinavano.
La loro dignità, riputazione e fortuna, si erano fino a quel giorno mantenute in alto; i loro gloriosi fatti avevano reso attonito il mondo, perciò era noto a tutta Milano avere con la sua autorità sostenuti molti segnatori, e molti altri averne cacciati dal trono. Ma perché ogni cosa soggiace all'imperio della fortuna, la quale non secondo ragione, ma nella sua cecità esalta e prosterna le cose mortali, ora che essa cominciava ad esser loro nemica, si reputava tenuto a consigliare loro di cedere e seguire la vicenda di quella.
Consentiva anche lui con quanti andavano dicendo: la libertà essere inestimabile tesoro, e glorioso era il morire difendendola, e quel popolo che accetta il giogo e si scoraggia, diventa poi difficile scuoterlo; ma dovevano rammentare come fosse legge imposta fatalmente dalla provvidenza agli uomini non meno che agli altri animali, che il debole ceda al più forte; e però chiunque resiste alla potestà costituita resiste al volere di Dio; dal che manifesto emergeva che la città ostinandosi a resistere all'imperatore resisteva a Dio stesso.
Confessava essere cosa durissima dopo avere gustate le dolcezze del vivere libero piegarsi al giogo e mordere il freno. Ma finalmente dovevano consolarsi considerando che non s'inchinavano innanzi a piccola potenza, ma ad un imperatore nobile e grande. Rammentava come i padri loro fossero stati migliori dei figli per probità, per fede e per tutte quelle virtù che valsero a far loro conseguire l'onore, la gloria e la libertà che Milano godeva; e nondimeno quei gloriosi non poterono sottrarsi all'impero transalpino, testimone l'obbedienza che serbarono a Carlo e ad Ottone magni.

Non avendo dunque speranza di vincere, reputava demenza provarsi più oltre a resistere, mentre altra via più salutare non rimaneva che affidarsi alla clemenza del principe. E posto che avessero potuto sostenere l'impeto delle armi nemiche, in che modo si sarebbero potuti salvare dagli assalti della fame e della pestilenza? Ripensassero alle spose, ai figliuoli, ai genitori.
E terminava dicendo con l'astuta protesta che adoprano sempre gli oratori di popolo, come lui non desse quel consiglio per ignavia o paura, ma perché altra via non vedeva schivare il pericolo della comune rovina; intanto giurava di esser pronto a morire per il popolo suo, per la città sua, e versare tutto il suo sangue per la salvezza dei Milanesi.
Vi furono di quelli che consigliavano di perseverare o almeno tentare una generale prova estrema d'armi, ma erano pochi, e studiarono invano di stornare il popolo dai consigli del conte di Biandrate, il quale fu deputato a far pratiche di resa con mediatori il duca d'Austria e il re di Boemia.
Fu dunque concluso che i Milanesi riconcedessero la libertà ai Lodigiani ed ai Comaschi, e giurassero di non molestarli; prestassero giuramento di fedeltà all'imperatore, innalzandogli a spese loro un palazzo dentro la città, e pagandogli novemila marchi d'argento; liberassero i prigioni di guerra; che i consoli eletti dal popolo fossero approvati dall'imperatore; e per la sicurezza della fedele osservanza dei patti stabiliti consegnassero nelle suo mani trecento ostaggi. Ed egli prometteva che tre giorni dopo la presenza degli ostaggi avrebbe condotto l'esercito fuori delle mura, e che non avrebbe approfittato della vittoria.
Nella riferita convenzione, erano incluse le città alleate di Milano, cioè Tortona, Crema e l'isola del Lago di Como. Più onorevoli patti non avrebbe potuto ottenere Milano, anche se avesse ottenuta una vittoria con un gran fatto d'arme in campo aperto con il nemico.
Considerando l'altera e ferrea indole di Federico, e il concetto che aveva della sua imperiale dignità e dell'obbedienza dei popoli, lui si preparava a pattuire con il comune di Milano come avrebbe fatto con un potente suo pari, e concludendo andava affermando che Milano era uno stato veramente grande e solidamente costituito, e che le libertà cittadine avevano gettate così profonde le basi, che non si potevano senza annientare il comune. La qual cosa ci sarà poi mostrata dai fatti posteriori, quando Federico, usando il suo supremo privilegio di principe, che è quello di rompere la fede giurata, si provò ad angariare i popoli domati".

RESA DI MILANO - DIETA DI RONCAGLIA

Il 7 settembre de 1158 fu stipulata la resa di Milano; il giorno dopo i Milanesi uscirono dalla città e si recarono a fare atto di sottomissione all'Imperatore che si era allontanato di quattro miglia. Ai fianchi della lunga via erano schierate le soldatesche imperiali e in mezzo a due interminabili siepi di alabarde, di picche e di lance sfilò la triste processione dei vinti.
Il corteo era aperto dall'arcivescovo, vestito con i sacri paramenti; venivano dietro il clero con le croci, i consoli e gli altri magistrati, scalzi e in abiti da lutto; seguiva dietro il popolo con la corda al collo.
I prigionieri furono liberati quel giorno stesso e sulla torre del duomo fu piantato lo stendardo imperiale attestante la fine delle libertà comunali e il ritorno della città sotto il giogo del monarca straniero.
Poi Federico, con il suo brillante seguito, entrò con gran pompa a Milano, poi si recò a Monza; da ultimo sciolse l'esercito e diede licenza ai principi che lo avevano seguito di fare ritorno con i loro soldati nelle loro case.
Federico si trattenne a Milano qualche tempo ancora per ordinare agli affari della Lombardia, e quando partì, volendo conciliarsi l'animo dei Milanesi e far dimenticare l'umiliazione subita, baciò i più autorevoli cittadini, ai quali disse: "Preferisco premiare anziché punire; ma nessuno dimentichi che mi si piega più con l'obbedienza che non con la violenza. Confido che da oggi in poi questa città, rimanendo sempre sulla retta via, provi non già la severità e la potenza, ma la grazia e la mitezza del suo principe".

Questa seconda spedizione del Barbarossa in Italia non sarebbe stata per lui positiva di risultati se egli non avesse solennemente affermato la sovranità feudale sulla libertà comunale. Quest'affermazione lui volle che fosse fatta nella dieta di Roncaglia, convocata per il novembre del 1158, dove convennero i grandi laici ed ecclesiastici dell'alta Italia, i consoli dei comuni e quattro famosi giuristi dello studio bolognese, BULGARO, MARTINO GOSSIA, GIACOMO UGOLINO ed UGO di Porta Ravegnana.

Narrano le cronache che a Roncaglia l'Imperatore, in un'orazione recitata in lingua tedesca e tradotta in latino dall'interprete, disse ai convenuti di aver convocata quella dieta per conoscere i confini delle prerogative imperiali e ciò allo scopo di amministrar meglio la giustizia; poi rivoltosi ai giuristi bolognesi, domandò a chi spettassero le regalie. "Tutto è dell'Imperatore" risposero quelli.
Quali erano i diritti regi, compresi in questo nome generico di "regalie", fu stabilito dai giuristi con il concorso dei giudici delle singole città, i quali compilarono una nota in cui erano elencati i ducati, le contee, le zecche, i telonii, il fodro, i porti, i pedaggi, le gabelle, i dazi, i balzelli, i mulini, i fiumi, le cacce, le pescherie ecc.

Federico emanava quindi la "Constitutio de regalibus" e la "Constitutio pacis", con cui avocava all'impero i diritti e le riscossioni (regalie) di cui i Comuni si erano appropriati e proibiva le guerre interne e le leghe tra città.

Nessuno osò opporsi, e tutti, baroni, vescovi e consoli, restituirono le regalie all'Imperatore, il quale volle dimostrare la sua generosità riconcedendole a coloro che con documenti potessero provarne il legittimo possesso e la concessione ricevuta dai precedenti sovrani. Da questo riordinamento, il fisco imperiale si assicurò un profitto annuo di trentamila libbre d'argento.
Nella dieta di Roncaglia il Barbarossa nelle due costituzioni anzidette: si precisava in una ciò che riguardava i feudi e ai possessori toglieva la facoltà di alienarli o legarli alle chiese, rivendicandoli all'alto dominio dell'Imperatore; nell'altra proibiva la guerra, cioè la pace in Italia, ma nello stesso tempo obbligava tutti gli uomini dai diciotto ai settant'anni a giurare e mettersi a sua disposizione per una guerra; scioglieva le leghe fra le città, minacciando questa violazione con una multa di cento libbre d'oro; proibiva inoltre le riunioni armate; toglieva il diritto di guerra privata e stabiliva la sudditanza dei feudatari e dei comuni.

"I decreti di Roncaglia - nota il Bartolini - portarono con sé una radicale trasformazione dello stato civile delle città italiane: non era pertanto arduo il prevedere, che quanto facile era stato emanarli altrettanto scabroso sarebbe stato il farli eseguire. La tenacia messa da Federico nel pretenderne l'osservanza, aprì l'adito a nuovi conflitti fra lui e le città italiane, che dovevano costare enormi sacrifici di sangue, così all'una come all'altra parte, e segnare l'inizio del decadimento politico del regno germanico".

Per far sì che le leggi di Roncaglia fossero osservate il Barbarossa istituì in ogni comune un magistrato imperiale, che con il nome di "podestà" doveva esercitarvi il potere amministrativo e giudiziario; ma questa nuova istituzione che dava il colpo di grazia alla libertà comunale, se fu accolta con buon viso dalle città amiche dell'imperatore - non tutte però - provocò grande sdegno in quelle che lo avevano sempre avversato, come Piacenza che si rifiutò di abbattere le mura; Crema che scacciò i messi imperiali e Genova che, pur pagando dodicimila marchi e promettendo di ubbidire, continuò a costruire le sue fortificazioni.
Più audace fu il contegno tenuto dai Milanesi; non contenti di Federico perché aveva privato il loro contado del Seprio, della Martesana e di Monza. L'imperatore inviò a Milano RAINALDO di Dassel ed OTTONE di Wittelsbach per abolire i consoli e creare il podestà. I cittadini, che non conoscevano lo scopo del loro arrivo, li accolsero cortesemente e li ospitarono in Sant'Ambrogio; ma quando i due messi resero nota la volontà dell'imperatore, sorsero sdegnati MARTINO MALOPERA, AZZO BALTRASIO e CASTELLINO ERMENOLFO, i quali pronunziarono aspre parole all'indirizzo del sovrano perché Federico non aveva fede al patto del 7 settembre in cui era lasciata ai Milanesi la costituzione consolare.
Alle parole dei tre patrioti si levò a tumulto il popolo e i due messi, se vollero avere salva la vita, dovettero in gran segreto fuggire dalla città (febbraio del 1159).
Federico si trovava negli stessi mesi nel castello di Marmica e qui chiamò i Milanesi a giustificarsi della condotta tenuta verso i suoi messi ed avendoli chiamati violatori dei patti giurati si sentì intrepidamente rispondere che non erano tenuti a mantenere la fede verso chi per primo si era reso spergiuro.

Così si riapriva il conflitto tra Milano e l'imperatore, il quale giurò di non avrebbe messo più in capo la corona fino a quando non avesse abbattuto le torri e le mura dell'odiata città.
Avendo però licenziato l'esercito, non disponeva di forze sufficienti per ridurre all'obbedienza Milano; scrisse quindi alla moglie Beatrice e al duca di Baviera che gli inviassero truppe dalla Germania, e per temporeggiare accolse la proposta del vescovo di Piacenza, ed aprì a Marengo un'inchiesta sui fatti di Milano. Non avendo questa dato alcun risultato, Federico, da Bologna, dove si era recato, rinnovò il bando contro i Milanesi, cui non erano rimasti come alleati solo i Cremaschi e i Bresciani.

Appena dichiarata la guerra, i Milanesi assalirono il castello di Trezzo, dove l'imperatore aveva messo un forte presidio, lo espugnarono, lo saccheggiarono, n'abbatterono le mura e se ne tornarono con duecento prigionieri.
Incoraggiati da questo primo successo, decisero di portar le armi contro le città che avevano fatto lega con il sovrano, cominciando da Lodi e Cremona. Quest'ultima città fu assalita dai Bresciani che però furono respinti lasciando quattrocento uomini tra morti e prigionieri; Lodi doveva essere attaccata da due punti, ad ovest dai Milanesi, a nord dai Cremaschi; e l'assalto, condotto di notte tempo, sarebbe riuscito vittorioso se quelli di Crema trattenuti sul ponte, non avessero dato tempo ai Lodigiani di prepararsi alla difesa e non fossero stati da loro, il mattino seguente, ricacciati indietro.

ASSEDIO E DISTRUZIONE DI CREMA

Giungevano intanto al Barbarossa notevoli rinforzi; le prime schiere tedesche avevano varcate le Alpi e le milizie del marchese Guelfo di Toscana avevano notevolmente ingrossato l'esercito imperiale. Tuttavia Federico non si sentiva abbastanza forte da muovere contro Milano, temporeggiava.
Chi lo decise a rompere gli indugi fu Cremona la quale offrì all'imperatore undicimila marchi perché assalisse e distruggesse Crema. II sovrano accettò l'offerta e ordinò ai Cremonesi di precederlo.

Il 7 luglio del 1159 le milizie di Cremona giungevano sotto le mura di Crema, dove Milano aveva mandato un rinforzo di quattrocento fanti al comando del console MANFREDI DUGNANO; e s'iniziava il famoso assedio che doveva durare otto mesi e terminare con la distruzione dell'eroica città.
Alcuni giorni dopo arrivò anche Federico sotto Crema e più tardi lo raggiunsero le milizie che dalla Germania conducevano l'imperatrice BEATRICE ed ENRICO il "Leone".
L'imperatore mise il campo ad oriente della città, di fronte alla porta del Serio; i Cremonesi stavano di fronte alla porta di Ripalta; contro quella chiamata Umbriana si accamparono il duca CORRADO e il conte palatino OTTONE e presso la porta di Ravengo le milizie di FEDERICO, figlio di Corrado; di modo che l'infelice città fu completamente stretta in un fortissimo assedio di armati, attraverso i quali era impossibile che gli giungessero soccorsi d'uomini o di vettovaglie.

Fu quello di Crema uno degli assedi più famosi che ricordi la storia, per il mirabile eroismo dei difensori e per l'inaudita ferocia di cui diede prova l'imperatore germanico. Federico aveva messo in azione numerose macchine e non passava giorno che la città non fosse tempestata da una pioggia di enormi massi e investita dalle truppe imperiali che si ostinavano a volerla prendere d'assalto. Ma i Cremaschi resistevano accanitamente: alle macchine nemiche altre macchine perfette opponevano, preparate e dirette da un architetto di grande ingegno di nome MARCHISIO; agli assalti tedeschi rispondevano i cremaschi con audaci sortite che causavano dei considerevoli vuoti nelle file degli assedianti, mentre sulle mura erano sempre vigili i difensori a ributtare coraggiosamente indietro tutti gli assalti fatti dai nemici.

L'eccezionale resistenza dei Cremaschi finì con l'irritare il Barbarossa, che tentò di scoraggiare i difensori con atti di ferocia che rimarranno a perpetuo disonore del barbaro e sanguinario monarca.
Federico ordinò che nella gigantesca torre di legno (una specie di cavallo di Troia), costruita dai suoi alleati Cremonesi, fossero legati sul davanti numerosi Cremaschi e Milanesi che lui teneva come ostaggi. Sperava che i difensori non avrebbero osato colpire con le frecce e con le pietre la torre per il timore di uccidere i propri concittadini e congiunti e che l'enorme macchina, contenente numerosi armati, si sarebbe perciò potuta accostare alle mura e impadronirsene.

Il feroce stratagemma si rese vano. La grande torre si avvicinò lentamente, rivestita dei corpi degli infelici ostaggi; le mura cinte di brulicanti Cremaschi e Milanesi, erano pronti a respingere l'assalto, e fra loro forse c'erano padri, fratelli e figli dei miseri che la ferocia imperiale aveva destinato a servir da schermo agli assalitori.
Riconosciuti dai difensori sopra le mura gremite di guerrieri si diffuse un improvviso e angoscioso silenzio. Ad un tratto si levò una voce: era quella di un cremasco che aveva scorto fra gli ostaggi i suoi figli. Non era però un lamento, non era preghiera ai suoi commilitoni di non tirar su i suoi cari.
La voce gridava appassionatamente: "Fortunati coloro che muoiono per la patria e per la libertà. Non temete la morte, che può sola renderci liberi. Se voi foste giunti alla nostra età non l'avreste voi disprezzata come facciamo noi".

Quella voce vinse l'incertezza dei difensori con il disumano passaparola "si uccidano pure i figli, i padri e i fratelli, ma si respinga l'assalto"; e nugoli di frecce partirono dalla sommità delle mura e numerosi sassi furono scagliati dalle balestre, e i mangani infuriarono contro la torre, mentre i difensori urlavano contro il sanguinario imperatore le loro maledizioni e quelli legati ricevevano, senza lamentarsi, le offese dei loro medesimi congiunti.
Minacciando la torre di sfasciarsi, fu ritirata e gli infelici ostaggi furono slegati. Dei Milanesi quattro erano morti, e a distanza di secoli conosciamo anche i loro nomi, per il loro sacrificio e furono tramandati come martiri della libertà: CADEMELIO da PUSTERLA ed ENRICO da LANDRIANO; dei Cremaschi TRUCO da BONATE, ARRIGO da GALIOSSO; un chierico ed altri due, GIOVANNI GAREFFI aveva le braccia spezzate, ALBERTO ROSSI le gambe fracassate; gli altri più o meno feriti.

Quello che fecero dopo i Cremaschi, fu una sacrosanta rappresaglia. Avevano anche loro in città numerosi prigionieri tedeschi, cremonesi e pavesi: sdegnati da quell'atto di ferocia, li trascinarono sulle mura e li impiccarono in un modo che il Barbarossa li potesse ben vedere.
Il Barbarossa vide e fece subito innalzare sotto le mura un gran numero di forche ed ordinò di appendervi tutti gli altri prigionieri ed ostaggi che aveva in mano.
Caddero allora in ginocchio davanti alla belva imperiale i vescovi e gli abati, scongiurandolo in nome di Dio di non fare altre vittime; ma la sete del sangue bruciava la gola di Federico e la sua generosità non poteva che essere cruenta. Il numero degli impiccati non fu rilevante come doveva essere, ma nove corpi penzolarono ugualmente dalle forche bene in vista.

I Milanesi, impotenti a recar soccorso a Crema, cercavano intanto di distogliere l'Imperatore dall'assedio. Per conseguire tale scopo portarono le armi contro Manerbio, castello sul lago di Como, difeso da milizie germaniche, ma l'impresa fallì per il pronto accorrere di truppe imperiali da Crema. Allora si diedero in qualche modo da fare per fornire di vettovaglie la città e aver modo di resistere a Federico, anche perché temevano, che una volta caduta Crema, lui sarebbe andato ad assediare Milano.
A quel punto critico, essendo stati i Piacentini messi anche loro al bando dell'impero, i Milanesi strinsero lega con loro, ma non si fermarono qui. Anzi, questa fu un'idea davvero clamorosa; iniziarono trattative per fare entrare nella lega anche il Pontefice che in questo periodo, lo abbiamo già appreso dalle altre pagine, i rapporti con il Barbarossa non erano per nulla buoni, dopo la pace fatta con i Normanni e con Roma. Ne parleremo più avanti.

Crema, nel frattempo, ed erano passati sette mesi, resisteva ancora ed avrebbe resistito molto tempo ancora se a capo della difesa fosse rimasto MARCHISIO. Ma costui, sollecitato dall'oro offerto da Federico, passò al campo imperiale e causò due fatti molto negativi: una gravissima perdita per gli assediati ed un prezioso acquisto per il Barbarossa, perché Marchisio conosceva i mezzi di difesa dei Cremaschi e ovviamente passato dall'altra parte riuscì a dare un nuovo ed efficace contributo all'opera dei Tedeschi le cui macchine furono da lui arricchite dai potenti suoi congegni.

Consigliato dal traditore, Federico tentò un assalto decisivo. Fatte costruire alcune torri di legno più alte delle mura, le riempì di scelti guerrieri, in cima vi mise un buon numero di balestrieri poi le fece accostare alle mura con il proposito di gettare dei ponti.
Tra torre e torre stavano degli ausiliari con zappe, picconi, pali ed altri curiosi strumenti. Mentre i balestrieri coprivano i primi saettando con le frecce i Cremaschi, dalle torri verso le mura venivano calati dei lunghi pali a mo' di ponti, e sopra di questi si precipitavano in gran numero all'assalto gli ausiliari. La difesa dei Cremaschi divenne drammatica, per tutto il giorno correndo da un punto all'altro rimasero a contendere la cinta agli assalitori; infine, stremati di forze, sopraffatti dal numero e tormentati dalle frecce che da ogni parte piovevano, si ritirarono nella cinta interna decisi a difendersi ad ogni costo; altro non potevano fare.

Ma quando si resero conto delle grandi perdite subite, della debolezza in cui si trovavano le difese interne e dell'inutilità di un'ulteriore resistenza, deliberarono di arrendersi e si rivolsero al patriarca PELLEGRINO di Aquileia, affinché con la sua intercessione ottenere patti sopportabili e non li consegnasse in mano ai Cremonesi, i loro spietati nemici.
Al patriarca, come mediatore, si aggiunse il duca di Baviera e il Barbarossa alla fine concesse i patti seguenti:
a) uscissero i Cremaschi con le mogli e i figli e con quanto riuscivano a portare con sé ed erano liberi di andare dove meglio loro piacesse;
b) uscissero i milanesi e i bresciani senz'armi e bagagli, liberi anch'essi di andare dove volevano.

Era il 25 gennaio del 1160 quando furono eseguiti i patti della resa: circa ventimila Cremaschi abbandonarono la loro città e si diressero alla volta di Milano; Crema fu invasa dalle soldatesche del Barbarossa e dopo averla orrendamente saccheggiata, fu appiccato il fuoco alla città che in poco tempo si trasformò in un gigantesco braciere.
I Cremonesi gioirono della rovina della città nemica, e mostrarono pure quanto fosse grande l'odio che in quei tempi teneva divise le città italiane; quei pochi edifici che erano stati risparmiati dalle fiamme, ci si accanirono fin quando distrussero l'ultima casa.
Distrutta Crema, ora il dramma iniziava per i Milanesi.

Moriva Adriano IV, saliva sul soglio Alessandro III, e il Barbarossa si sentì più forte, e anche più arrogante, fino a punire con la distruzione, e a concedere, come un Dio in Terra la vita e la morte, a quegli uomini e al loro anelito di libertà.
Ed è la prossima puntata del nostro racconto di questo nuovo periodo


dall'anno 1159 al 1162 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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