ANNI 1159 -1162

MILANO: RESA E DISTRUZIONE - UN'IDEA DI ADRIANO: LA LEGA LOMBARDA

MORTE DI ADRIANO IV - SCISMA PAPALE: ELEZIONE DI VITTORE IV E DI ALESSANDRO III - CONCILIO PAVESE - ALESSANDRO LANCIA L'ANATEMA SU VITTORE E FEDERICO - IL BARBAROSSA SI CHIUDE A PAVIA - I MILANESI E I BRESCIANI SCONFIGGONO FEDERICO - DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO MILANESE E BLOCCO DELLA METROPOLI LOMBARDA - RESA A DISCREZIONE DI MILANO - ESODO DEGLI ABITANTI E DISTRUZIONE DI MILANO - SOTTOMISSIONE DI BRESCIA, PIACENZA, IMOLA E FAENZA - FEDERICO BARBAROSSA LASCIA L'ITALIA
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(vedi qui la originale carta topografica di Milano del tempo
anno 1158-59 durante l'assedio di Barbarossa)

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MORTE DI ADRIANO IV


Prima ancora che cominciasse l'assedio di Crema si erano rotte le relazioni tra il Pontefice e il Barbarossa. La rottura era avvenuta a Bologna, nella dieta tenutasi dall'imperatore sul finire del 1156, ma si prevedeva fin da quando erano state pubblicate le decisioni di Roncaglia.
Decisione che offendeva Milano ma non per questo domata.

A Bologna, inviati da ADRIANO IV, intervennero quattro cardinali. Questi chiesero che doveva essere mantenuta la fede giurata da FEDERICO a papa Eugenio III con il quale il Barbarossa si era impegnato di abbattere la repubblica romana, rimettere Roma sotto l'assoluto dominio del Papa e di riconoscere a questo il diritto di esercitare le regalie nello stato della Chiesa; chiesero inoltre che la Chiesa non doveva essere tormentata nel possesso dei beni della contessa Matilde e delle isole di Corsica e di Sardegna.
A queste rimostranze l'imperatore rispose punto per punto: che non lui, ma papa ADRIANO IV aveva violato la "fede giurata" perché si era pacificato con i Romani e con Guglielmo di Sicilia; che i vescovi erano suoi vassalli perché in possesso di feudi imperiali; che Roma non apparteneva al Pontefice, ma a lui che portava il titolo di Re dei Romani.
Infine disse ai legati papali, che non avevano il regolare permesso da lui accordato, pertanto vietava loro di passare attraverso il territorio dell'impero; e vietava di alloggiare nei palazzi vescovili che erano tutti di proprietà dell'impero, perché edificati sopra il suolo imperiale.

Queste dichiarazioni di Federico provocarono una delle più tremende lettere della storia; quella scritta e inviata da ADRIANO IV agli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri; redatta nei seguenti termini:

"Il vostro principe, nato da ingiusta stirpe, dimentico di ogni gratitudine e d'ogni timor di Dio, è entrato come volpe nella vigna del Signore e minaccia di distruggerla. Egli non ha mantenuto nessuna delle sue promesse; ha sempre e dovunque mentito; ribelle a Dio, da vero pagano, egli merita l'anatema. Né soltanto egli lo merita, ma (e lo diciamo per vostro avviso) chiunque gli tiene mano, chi palesemente o segretamente lo approva.
Egli ardisce paragonare alla nostra la sua potenza, come se la nostra fosse, al pari della sua, limitata a quell'angolo di terra che è la Germania, che era uno degl'infimi regni prima che i Papi la innalzassero. Come Roma è superiore ad Aquisgrana così noi siamo superiori a questo sovrano, il quale mentre si vanta della signoria del mondo, è incapace di ridurre all'obbedienza i suoi vassalli e di sottomettere la razza dei Frisi.
Egli possiede l'impero solo per merito nostro e noi abbiamo il diritto di riprendere quello che accordammo a chi credemmo capace di gratitudine. Riconducete sulla retta via il vostro principe; altrimenti, se nuovo conflitto scoppierà tra il regno e la Chiesa, anche voi sarete trascinati in un'irreparabile rovina".

PATTO DI… ANAGNI (QUI NASCE LA "LEGA LOMBARDA")

Ma lettera o non lettera il conflitto era già scoppiato.
Nell'agosto del 1159 il Pontefice anglosassone stipulava ad Anagni un trattato con i comuni di Milano, Brescia, Crema e Piacenza, collegati tra loro, con il quale queste città si obbligavano di non far pace con l'imperatore senza il consenso del Papa e questi prometteva di scomunicare entro quaranta giorni il Barbarossa.
Ad Anagni, in Ciociaria, insomma nasceva la "Lega Lombarda", concepita da un Papa inglese.

Riproponiamo qui, sinteticamente, la genesi della Lega Lombarda.

Nell' estate del 1159 Papa ADRIANO IV - già cardinale NICHOLAS BREAKSPEARE, unico pontefice inglese nella storia della Chiesa - si trovava in Anagni a rimuginare. Era tutto preso ad inventarsi "qualcosa" per stroncare l'antipatico imperatore tedesco dopo che alcune notizie a suo pro venivano dalla Lombardia. Un "qualcosa" che pochi sanno, compresi molti seguaci della odierna "Lega Lombarda" "Bossiana" (un mio sondaggio presso quelli che si dicono del "Carroccio" (che come abbiamo già letto non nasce in questo periodo ma oltre un secolo prima) non hanno saputo dirmi la vera e propria genesi; e nell'informarli mi hanno riso in faccia - Probabilmente, anzi sicuramente non sono mai andati ad Anagni!).

Per concretizzare subito un'azione decisiva nei confronti dello Svevo, Papa ADRIANO IV, convocò in Anagni i rappresentanti (o Legati) delle città (o meglio dei Comuni lombardi di Milano, Brescia, Cremona, Piacenza e Mantova per discutere il da farsi e predisporre un opportuno piano più che di difesa, un piano di attacco congiunto (scomunica e armi) contro l'Imperatore. Il 19 agosto di quel 1159 tra il pontefice ed i Legati veniva sottoscritto il primo "Pactum Anagninum" che sanciva la costituzione ufficiale di una Lega tra Comuni lombardi e il Papato contro l'imperatore Barbarossa. L'anno successivo (il 24 marzo 1160) la Lega ebbe la definitiva investitura con l'apposita bolla papale - promulgata sempre in Anagni alla presenza di tutti i vescovi lombardi - ma con il nuovo papa, ALESSANDRO III, successore da sette mesi di ADRIANO IV (morto il 1° settembre del 1159). E questo fu il secondo "Pactum Anagninum". Il resto lo leggiamo qui sotto, e lo leggeremo in seguito con gli altri eventi.
Ma vogliamo anticipare che sedici anni più tardi (maggio 1176) l' esercito della Lega Lombarda, all'insegna del Carroccio sconfiggerà definitivamente, nella battaglia di Legnano, il Barbarossa. Ma pochi sanno che alla vittoriosa impresa partecipò anche un forte contingente di fanti laziali inviato dal Papa tra cui ben 400 anagnini guidati da GIOVANNI CONTI , legato e segretario di Alessandro III. A tangibile ricordo della Lega Lombarda in Anagni permane oggi, possente ed austero, il Palazzo Civico, dove ha sede il Comune, eretto da MASTRO JACOPO da Iseo, architetto e diplomatico lombardo, e che fu anche lui un protagonista, qui in Ciociaria, di quegli eventi memorabili.

 

Dunque, ADRIANO IV, non ebbe il tempo di mantenere la promessa, dopo aver sottoscritto il patto del 19 agosto, undici giorni dopo, il 1° di settembre del 1159, quando l'eroica Crema resisteva ancora, lui moriva.

ELEZIONE DI VITTORE IV E DI ALESSANDRO III

La morte di Adriano diede luogo subito ad uno scisma. Radunatosi il collegio dei cardinali, dopo tre giorni di dispute, i voti della maggioranza conversero su quel ROLANDO BANDINELLI che a Besanzone aveva osato sostenere il diritto teocratico al cospetto del Barbarossa mandandolo in collera. (un anticipazione di ciò che avverrà in venti anni tra i due "giganti")
Due soli cardinali si opposero a quella scelta: GIOVANNI di S. MARTINO e GUIDO di S. CALLISTO, i quali gridarono papa, col nome di Vittore IV, il cardinale OTTAVIANO di Santa Cecilia.

Ne nacque un tumulto e, soffocato da un gruppo di armati guidati da GUIDO di BIANDRATE, dal conte palatino OTTONE e da ERIBERTO, che allora si trovavano a Roma. ROLANDO BANDINELLI, che aveva preso il nome di ALESSANDRO III, si rifugiò, con gli altri cardinali in una torre, aspettando, che il popolo, saputa la verità dei fatti, si dichiarasse in suo favore.
Ma il popolo e il basso clero presero le parti di Vittore e così Alessandro, lasciata Roma, si recò in terra Normanna, a Ninfe, dove si fece consacrare ed ottenne il riconoscimento dal re GUGLIELMO di Sicilia.

VITTORE IV si fece invece consacrare nell'abbazia di Farfa. Entrambi i due contendenti Pontefici si rivolsero all'imperatore, scrivendogli lunghissime lettere, e FEDERICO, il cui desiderio era quello di avere un papa ligio ai suoi doveri, si finse indignato alla notizia della duplice elezione ed espresse il proposito di risolvere lo scisma convocando un concilio che doveva tenersi a Pavia il 13 gennaio del 1160 con i vescovi e gli abati d'Italia, di Germania, di Francia, d'Inghilterra e di Spagna.

Latori delle lettere imperiali, annunzianti il concilio ai due Pontefici, furono i vescovi di Praga e di Verdun. VITTORE IV, che era spalleggiato dal popolo romano e dalla fazione imperiale, accolse lietamente l'invito di recarsi a Pavia; ALESSANDRO III invece, che si trovava di nuovo ad Anagni, rispose che
"....non riconosceva all'imperatore il diritto di convocare concili senza il consenso papale, che lui non era un vassallo del sovrano e perciò non aveva l'obbligo di ubbidire alla sua intimazione; che infine spettava solo al Pontefice di esaminare, giudicare e definire le questioni ecclesiastiche e che egli non avrebbe mai sacrificato la libertà della Chiesa, redenta dal sangue di tanti martiri".

Invece del giorno fissato, il concilio, durando l'assedio di Crema, si tenne non il 13 gennaio (la resa fu il 25) ma il 5 febbraio. Federico, sceso per la terza volta in Italia, presentatosi con un numeroso stuolo di baroni, esortò i convenuti alla giustizia e, dicendo di non volere influire con la sua presenza sulle decisioni dell'assemblea, si ritirò.
Il concilio durò sei giorni; l'11 febbraio (non potevano andare le cose diversamente) fu confermato pontefice VITTORE IV; Alessandro e il re Guglielmo di Sicilia furono da lui scomunicati e FEDERICO BARBAROSSA, dopo avere reso grandi onori al papa, scrisse ai grandi e ai vescovi dell'impero minacciando con un bando chi si fosse dichiarato fedele ad Alessandro.
Non aveva -come desiderava- potuto esautorare Adriano IV, ora si era presa la rivincita. Ma non sapeva con chi aveva a che fare; e sì che lo aveva conosciuto bene quell'"arrogante" e "battagliero" prelato a Besanzone.
Per vent'anni lo farà irritare, disperare, angosciare, e ad essere alla fine da lui sconfitto.

ALESSANDRO III, lo attacca fin dal primo giorno. Ricevuta notizia delle decisioni del concilio pavese, dal duomo di Anagni, il Giovedì Santo, scagliò l'anatema su VITTORE IV e su FEDERICO BARBAROSSA, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, scomunicò tutti i partigiani dell'antipapa ed inviò legati a tutti i re del mondo cattolico perché riconoscessero solo lui legittimo capo della Chiesa.
Dovunque, fuorché in Germania, ALESSANDRO III ebbe il desiderato riconoscimento; in Lombardia, come nelle altre province della penisola fu predicata la difesa del vero Pontefice e a Milano l'arcivescovo OBERTO - proprio lui che alla dieta di Roncaglia aveva sostenuto i diritti imperiali del Barbarossa - ora annunciava al popolo la scomunica lanciata da Alessandro al Barbarossa e a Vittore, e anche lui calcò la mano scomunicando per proprio conto i vescovi di Mantova, di Lodi, di Cremona, e i consoli di Cremona, Novara, Pavia, Lodi e Vercelli, GUIDO di Biandrate, il MARCHESE di MONFERRATO, i conti del SEPRIO e della MARTESANA e il castellano di BARADELLO.

Un anno dopo, nel marzo 1161 un concilio, convocato a Tolosa dai re di Francia e d'Inghilterra, dichiarava legittimo papa ALESSANDRO III, ma essendo stato tutto il Patrimonio di S. Pietro occupato dagli Imperiali, sul finire dello stesso anno il Pontefice, imbarcatosi al capo Circeo su navi siciliane, si recava a Genova e di là in Francia.
A Milano l'annuncio della scomunica del Barbarossa infiammò l'animo del popolo e poiché, espugnata Crema, le milizie germaniche erano ritornate in patria e al BARBAROSSA non erano rimaste che poche truppe con il duca FERDINANDO e i conti palatini OTTONE e CORRADO, fu deciso dai Milanesi di aprire le ostilità contro l'imperatore.
Un esercito, rinforzato da alcune schiere di Piacenza, marciò su San Romano, dove si trovava il Barbarossa, ma questi, prudentemente, non accettò battaglia e andò a chiudersi a Pavia.

A questo punto aumentò l'ardire dei Milanesi, i quali, approfittando dell'inazione dell'imperatore rivolsero le armi contro la nuova Lodi. Riusciti vani i tentativi di impadronirsene, dedicarono i loro sforzi al castello di Carcano che sorgeva nel territorio di Como. Nel luglio del 1160 le milizie di Porta Nuova, Porta Comacina e Porta Vercellina, aiutate da quelle di Brescia e guidate da alcuni consoli e dell'arcivescovo Oberto, andarono a stringere d'assedio il castello.
Deciso ad impedire che una posizione di tanta importanza qual'era Carcano cadesse nelle mani dei Milanesi, il Barbarossa radunò le milizie di Pavia, Novara, Como e Vercelli e, insieme con i duchi di Boemia e di Turingia, con il marchese del Monferrato e con Guido di Biandrate, corse in aiuto del castello minacciato.
L'assedio non era ancora cominciato e l'esercito milanese, diviso in tre corpi, si trovava a Parravicino, ad Erba e ad Ursinico. Il Barbarossa volle prendersi quel vantaggio da quella divisione delle forze nemiche impedendo a queste di congiungersi e poi di comunicare con Milano e gli riuscì di bloccare nella Val Tenera, tra il suo esercito e il castello di Carcano, le milizie milanesi che si trovavano ad Ursinico.

La situazione dei Milanesi diventò quasi disperata: prive di vettovaglie e strette fra due nemici non rimaneva loro scelta o arrendersi o tentare la sorte delle armi. Scelsero con disperato coraggio questa seconda via.
Spuntava l'alba dell'8 agosto 1160: l'arcivescovo celebrò la messa, arringò con parole vibranti i combattenti, li fece inginocchiare, li esortò a confessare a Dio le loro colpe, poi impartì a tutti l'assoluzione. Squillarono ad un tratto le trombe e i Milanesi, pieni di eccitazione, si scagliarono addosso al nemico, impegnando un sanguinoso combattimento, che per i Milanesi fu epico.

Il Barbarossa, che comandava l'ala destra del suo esercito, con uno sforzo poderoso, ruppe la sinistra dei Milanesi e andò tanto oltre che giunse dov'era il carroccio, ne ammazzò i buoi, ne strappò il vessillo e lo buttò in un fosso; poi credendo di aver vinto si ritirò nella tenda.
Ma la battaglia non era terminata, anzi era appena cominciata da un'altra parte: i cavalieri milanesi e bresciani che si trovavano all'ala destra; aiutati dai villani delle contrade vicine, ruppero e sbaragliarono la sinistra imperiale, e una parte la inseguirono fino a Montorfano, e una parte quella del marchese di Monferrato la tallonarono con le armi ai reni fino ad Anghiera.
Inebriati da quei due successi, quando i Milanesi tornarono anche loro negli alloggiamenti e appresero la notizia di quella modesta vittoria del Barbarossa, ma che però tuttavia aveva oltraggiato il carroccio, non scesero nemmeno dai cavalli e ritornarono con tutta la rabbia in corpo su quel campo dove il Barbarossa con i suoi stava già festeggiando la vittoria.
In quelle condizioni, presi alla sprovvista da quel "tornado", ci fu prima uno scompiglio, poi un fuggi fuggi, e lo stesso Barbarossa in fuga si salvò prima a Como poi a Baradello.
A festeggiare la vittoria furono i Milanesi, ma nel campo imperiale, abbandonato con tutte le armi, gli equipaggiamenti e le vettovaglie. Meglio di così quell'8 agosto non poteva finire. Festeggiarono, mangiarono e si inebriarono nel campo del nemico fino all'alba. Ma l'alba del giorno dopo, non è che non riservò un'altra bella sorpresa.

Infatti, il giorno dopo i Cremonesi e i Lodigiani, non sapendo questi nulla cos'era accaduto al Barbarossa, si recarono sul posto dove aveva avuto luogo la disfatta, ma invece di trovare le milizie dell'imperatore trovarono i Bresciani e i Milanesi e, prima ancora di rendersi conto di quanto era accaduto, furono subito assaliti, dalla sorpresa si sbandarono, lasciarono sul campo numerosi morti e nelle mani del nemico moltissimi prigionieri.

Il Barbarossa sconfitto e senza un vero esercito, si andò a rinchiudere a Pavia (era l'agosto del 1160) per passarvi l'inverno ma soprattutto per aspettarvi le milizie germaniche. Queste arrivarono nove mesi dopo nel maggio del 1161, condotte da CORRADO, fratello dell'imperatore, dal DUCA di SVEVIA, dal figlio del re di Boemia, dal langravio di Turingia, dall'arcivescovo RAINALDO di Colonia e da altri baroni, che con le milizie italiane raggiunsero il considerevole numero di centomila uomini.

ASSEDIO, RESA E DISTRUZIONE DI MILANO

Con questo esercito Federico si mosse alla controffensiva ed entrò il 31 maggio del 1161 nel territorio milanese, ma invece di mettere in assedio la vasta città o di compiervi di rischiosi assalti contro le potenti e numerose opere di fortificazioni che i Milanesi in 8 mesi avevano erette, si mise a distruggere sistematicamente tutti i dintorni, devastando i maturi raccolti, i fienili, tagliando gli alberi e le vigne in germoglio, e vigilando accuratamente affinché da nessuna parte, da strade, canali e fiumi (che erano allora le principali vie di comunicazione) entrassero cibarie di ogni tipo nella città, intorno alla quale creò il deserto per stroncare la forza di resistenza e costringerla alla resa.

Passarono cosi i primi sei mesi; sopraggiunto l'inverno, Federico mise il suo quartier generale a Lodi, dove lo raggiunse la moglie, e lì aspettò con altri sei mesi di totale assedio, la buona stagione per incalzare poi più da vicino i Milanesi.
Ma non ce ne fu bisogno: priva del raccolto delle campagne del 1161 e degli aiuti di Brescia e Piacenza, le comunicazioni con le quali erano tagliate dalle fortificazioni di Rivalta Secca e San Gervasio, aumentate le bocche da sfamare dall'affluire nella metropoli degli abitanti di tutti i dintorni, l'infelice città dopo aver passato uno dei suoi più tristi inverni, era tormentata dalla fame, sofferente dalla diserzione di non pochi nobili, dal malcontento dei timidi e infine dai tumulti della plebe, la quale voleva che s'iniziassero trattative di pace.

A questo scopo, nel febbraio 1162, otto dei più autorevoli cittadini furono mandati a Lodi e questi, presentatisi all'imperatore, con grande umiltà implorarono la pace offrendogli i seguenti patti che: avrebbero colmati i fossi; avrebbero aperte in sei punti le mura; avrebbero accettato un potestà imperiale anche di nazionalità tedesca; avrebbero fabbricato in città a proprie spese un palazzo imperiale; avrebbero accettato l'esercito imperiale dentro la città.
Come garanzia per rispettare scrupolosamente i patti s'impegnavano a consegnare per tre anni trecento ostaggi.

Il Barbarossa rifiutò tutte queste offerte e rispose con superbia che si dovevano arrendere senza nessuna condizione se volevano sperare da lui qualche grazia. Lo scoraggiamento della città alla risposta dell'imperatore fu grande: i pochi coraggiosi che c'erano ancora, proposero che si continuasse la resistenza, dissero che era meglio morire sotto le rovine della città che arrendersi ad un uomo il quale -dopo quello che gli aveva inferto- non certo amava Milano; prevalse però il volere della moltitudine che s'illudeva di ottenere qualche "umana" e non "barbara" grazia dalla clemenza di Federico.

Il 1° marzo del 1162 i consoli milanesi AMIZONE da Porta Romana, OTTONE VISCONTI, ANSELMO DALL'ORTO, ANDERICO CASSINA, ANSELMO da MONDELLO, GOTTIFREDO MAINERIO, ANDERICO da BONATE ed ALIPRANDO GIUDICE, insieme con venti nobili, si recarono nuovamente a Lodi e, giunti al cospetto del Barbarossa, gli s'inginocchiarono davanti e gli giurarono la resa della città.
Ma l'imperatore volle un altro giuramento: che da allora in poi avrebbero ubbidito solo a lui e ai suoi legati. Il 4 marzo, i consoli, accompagnati dall'architetto GUINTELINO e da trecento cavalieri, ritornarono a Lodi, rinnovarono il giuramento e deposero ai piedi del monarca le loro spade, le chiavi della città e trentasei bandiere del comune.

Due giorni dopo, il 6 marzo, per ordine di Federico, si recarono al suo cospetto i consoli degli ultimi tre anni e quasi tutto l'intero popolo milanese. Fu una processione impressionante: dietro i consoli venivano mille fanti e i comandanti dei luoghi soggetti al comune con novantaquattro bandiere, poi i cittadini dei tre quartieri della città, poi ancora il carroccio, e infine il resto della popolazione con il palio adorno dell'immagine di Sant'Ambrogio; e tutti avevano la corda al collo, una croce in mano e il capo cosparso di cenere in segno di pentimento perché avevano prese le armi "contra Romanorum, imperatorem dominum nostrum naturalem".

Il Barbarossa era adagiato sopra un magnifico trono, circondato da un numeroso stuolo di suoi feudatari; intorno a lui era tutto un impressionante scintillio di alabarde e di spade sguainate. Quando il carroccio giunse davanti all'imperatore, fu abbassato per tre volte, in segno di riverenza, l'albero, simbolo della libertà comunale, fu spogliato di tutti i suoi ornamenti, e infine ammainato cadde a terra il gonfalone della tanto amata città; poi le trombe del municipio squillarono; nel silenzio grandissimo, lo squillo di quelle trombe sulla moltitudine così prosternata e umiliata parve l'ultimo ed angoscioso sospiro della libertà milanese; per quanto squillante era un rantolo.

Quando si spensero gli echi di quel lugubre suono, uno dei consoli, a nome di tutta la città, invocò con dolenti parole la misericordia dell'imperatore e l'invocò silenziosamente la folla, levando solo le croci in alto come volersi appellare solo più a Lui a Cristo, o all'Altro che aveva le pretese di essere Lui e non un povero tedesco (che poi proprio come un poveraccio affogherà in un ruscello).

A quella vista e a quell' "assordante silenzio" che emanava l'orgoglio lacerato, una commozione grandissima riempì di lacrime gli occhi di tutti gli imperiali presenti; ma non Lui, soltanto il Barbarossa rimase imperturbabile, come se il suo viso fosse di pietra ("faciem suam firmavit ut petram" scrisse un cronista per i posteri).
Allora i1 conte GUIDO di BIANDRATE, o che simulasse o che fosse vinto dal rimorso di aver tradita la patria, prese in mano una croce, cadde ai piedi di Federico implorando grazia per Milanesi; ma l'imperatore anche davanti a quella scena non si commosse, rimase impassibile. Infine l'arcivescovo di Colonia disse alla folla dei Milanesi, ancora prostrati, che il principe accettava la resa a discrezione. A quel punto non c'era più nulla da dire né aspettarsi qualche umana clemenza, e la folla, atterrita dal freddo contegno di Federico, fece ritorno nell'infelice città.
Disperando della pietà imperiale, il giorno dopo i Milanesi cercarono di muovere a misericordia il cuore dell'imperatrice e si recarono da lei; ma non fu nemmeno concesso di essere ammessi alla sua presenza. Pareva che il Barbarossa volesse, con raffinata crudeltà, prolungare l'agonia della misera popolazione che si era illusa e aveva confidato nella benignità generosità dell'imperatore.

Lui, Barbarossa, l'8 di marzo fece conoscere le sue prime volontà. Chiamato nuovamente il popolo al suo cospetto parlò come un Dio in Terra e disse che
"se avesse voluto far giustizia avrebbe dovuto uccidere tutti, ma, essendo il suo animo propenso alla generosità, concedeva a tutti il dono della vita".

Poi comandò che il popolo tornasse a Milano, ma trattenne in qualità di ostaggi, i consoli, gli ex-consoli, e quattrocento tra cavalieri e giudici, temendo che essi, tornati in città, incitassero i cittadini a ritirare i patti e a resistere.
Il popolo, giurata fedeltà al sovrano, se ne tornò per la seconda volta lacrimante in città, scortati da dodici legati imperiali, sei tedeschi e sei lombardi, che dovevano ricevere il giuramento dal resto della popolazione rimasta a Milano.
Qui giunti, i messi si fecero consegnare gli ultimi quattro castelli che rimanevano al comune ed ordinarono che fosse abbattuto un lungo tratto delle mura e colmato il fosso prospiciente di modo che l'esercito potesse entrare comodamente in città.

Da Lodi il Barbarossa si recò a Pavia e da qui il 19 marzo 1162, emanò un ordine ai Milanesi che, entro otto giorni, tutti, uomini e donne, dovevano uscire dalla città, portando con sé solo quello che potevano reggere sulle spalle.

L'esodo avvenne il 26 marzo, fra il pianto generale. I ricchi se ne andarono a Pavia, a Bergamo, a Lodi, a Como e nelle altre terre vicine; la plebe rimase nelle vicinanze delle mura, affamata, mezzo nuda, esposta all'inclemenza della stagione, e pur con gli stracci addosso riluttante ad allontanarsi dalla città, forse sperando che quel pietoso spettacolo commuovesse l'animo dell'imperatore.
Ben presto però i Milanesi ebbero la prova della "generosità" imperiale! Il giorno dopo Federico comparve alla testa del suo esercito e penetrato dentro Milano dalla breccia aperta nelle mura, ordinò alle sue "nobili" truppe di saccheggiare la città.
Quel giorno stesso radunata un'assemblea, davanti agli Italiani che vi erano intervenuti disse che
"come per tutto il mondo si era sparsa la notizia della ribellione di Milano, così voleva ora che in tutto il mondo si udisse il grido dei puniti". E chiese quale pena si dovesse infliggere alla città ribelle. I Pavesi, i Cremonesi, i Comaschi e i Lodigiani risposero che Milano doveva subire la medesima sorte che essa aveva fatto patire a Como e a Lodi, e il Barbarossa, assentendo, ordinò che gli stessi italiani delle città nemiche distruggessero Milano.

Pronunziata la sentenza Federico uscì con il suo esercito e si mise nelle vicinanze a godersi lo spettacolo. I novelli vandali fissarono ciascuno la propria zona da distruggere: i Cremonesi si presero il quartiere di Porta Romana, i Lodigiani quello di Porta Orientale, i Pavesi quello di Porta Ticinese, i Comaschi quello di Porta Comacina, i Novaresi quello di porta Vercellina e i vassalli del Seprio e della Martesana quello di Porta Nuova.

La distruzione della città, rea soltanto di aver voluto difendere la propria libertà, fu poi completata quando iniziarono gli incendi che i saccheggiatori dopo averla depredata appiccarono contemporaneamente in tutti i quartieri, e che, rapidamente propagatosi, distrusse tutto quello che poteva.
La distruzione del fuoco compiuta dagli uomini in pochi giorni, nel racconto di un cronista, causò "una devastazione per la quale non sarebbero bastati dei mesi".
Ma la distruzione non fu, né poteva essere completa; i fossi solo in parte furono colmati e le gigantesche mura e le saldissime torri rimasero in gran parte in piedi; ma la città propriamente detta fu ridotta in un immenso campo di rovine, in mezzo alle quali soltanto le chiese rimasero ritte, ma spoglie però dei tesori, dei sacri arredi e delle preziose reliquie e di ogni cosa appena di qualche valore. Ma alla fine anche le chiese ebbero la loro punizione.

Mancava una settimana a Pasqua, e con la Settimana Santa, qualcuno sperò che lo scempio infame sarebbe finito. E lo fece sperare quando il Barbarossa la domenica precedente la celebrazione della resurrezione di Cristo, si recò alla Chiesa metropolitana, intatta fra le macerie, ed assistette alla funzione delle Palme. Ma il giorno dopo, tornò a fare l'Attila, e in città riprese l'opera di distruzione: ordinò che si abbattessero tutti i campanili e quello della Basilica Ambrosiana si troncasse a metà. L'ordine fu eseguito immediatamente da una marmaglie di "barbari" con picche e picconi, e maldestramente abbattuto il campanile ambrosiano, crollando, distrusse in gran parte la meravigliosa basilica.

La popolazione milanese fu divisa in quattro borghi, detti Vigentino, Noceto, San Siro e Carrara, e fu diffidata di far risorgere la città dalle sue rovine. FEDERICO compiuta l'opera fino in fondo, si recò a Pavia a celebrare la vittoria e, poiché aveva giurato di non mettersi la corona sul capo finché Milano rimaneva in piedi, volle, distrutta la città ribelle, farsi pomposamente incoronare nel giorno di Pasqua in mezzo a una folla di conti, baroni, vescovi, abati e consoli accorsi a congratularsi con lui del suo "meraviglioso" trionfo.

Intanto l'eccidio e lo scempio di Milano che doveva servire d'esempio agli altri comuni lombardi, produceva l'effetto che il Barbarossa si era ripromesso.
Le città italiane a lui nemiche, atterrite, temendo di subire la stessa sorte della metropoli lombarda, piegavano subito il capo sotto il giogo imperiale.
I Bresciani si affrettarono a sottomettersi, accettando le più dure condizioni, di colmare cioè i fossi, di abbattere le mura e le torri, di cedere le fortezze del loro territorio, di pagare una grossa somma e di accettare il podestà imperiale.
Agli stessi patti si sottomisero Piacenza, Bologna, Imola e Faenza; invece Cremona, Lodi, Parma ed altre città fedeli ricevettero il privilegio di eleggere i loro consoli e di essere esenti dal podestà.
Anche Genova che pareva volesse resistere, si piegò: i suoi consoli chiamati a Pavia, vi si recarono, giurarono fedeltà nelle mani dell'imperatore cui promisero di aiutarlo con la flotta nell'impresa contro i Normanni e in compenso Federico confermò alla Repubblica, tutti i diritti di regalia che esercitavano e tutti i loro possessi; concesse il privilegio di trafficare in tutti i porti dell'impero e promise a vittoria ottenuta sui Normanni di concederle in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia (9 giugno 1162).

La "nuova fede" sembrò quindi sopraffatta da una nuova barbaria, ma dopo quel rogo che l'aveva oscurata ma non spenta, dalle ceneri i Milanesi covavano nel segreto e trovavano alimento per diffondere intorno piccoli carboni ardenti, tutti pronti a dare vita a un incendio ben diverso.
Inconsapevolemente, e sembra un paradosso, gli imperiali portarono una nuova anomala civiltà, dalla quale siamo figli, e che è quella dell'individualismo: una sintesi dell'universalismo cristiano romano e l'individualismo germanico barbaro.
Già dal V secolo, con le invasioni barbariche, i germanici avevano sconvolto gli ordinamenti del passato e portato anche la desolazione nelle fiorenti e bene organizzate contrade della penisola. Questi barbari sentivano altamente il valore dell'individuo singolo, quanto il romano sentiva il vincolo della patria. Solo l'eccesso di questi due valori porta alle disgrazie, quando il primo diventa cinico egoismo e il secondo a un cieco nazionalismo. Ma allora non sono più valori ma aberrazioni.

Le tribù "barbare" (la "civitas", il "diritto", "l'amministrazione", e perfino la "moneta" non avevano nemmeno idea cosa fossero - così per duecento anni i Longobardi) con i capi della "fariae" (anche se poi si chiamarono "ducati") anche in tempo di pace vivevano staccate le une dalle altre, e spesso si accozzavano in guerra; in ognuna eleggevano un capo, che non era un re, ma semplicemente un condottiero (dux- duca). Stabilitosi nel territorio conquistato, non vi costituirono una compatta unità etnica o nazionale, ma anzi scomposero il vecchio e crearono il nuovo mondo barbarico in mille frazioni, su ognuna delle quali dominava la volontà del "più forte". La società feudale che sorge dal particolarismo germanico, è ambiente propizio allo sfrenarsi della brutalità violenta di ogni cupidigia, dalla quale il debole italiano o è abbattuto o è costretto a servire.
Su quel mondo più rozzo che pagano, l'unica forza morale del popolo italico, in quella prima dissoluzione dell'Impero Romano, fu il rifugiarsi nella la religione, nella Chiesa; ma nonostante fosse bene organizzata essa non potè cogliere i frutti di quella grande eredità, più ricevuta che conquistata.

Questo stato di cose non era terminato dopo la scomparsa dei longobardi, ma continuò con il Sacro Romano Impero di Carlo Magno e fino a Ottone (Un impero che di Sacro c'era rimasto poco, di Romano più nulla, e come impero il territorio era solo germanico e non più latino).

Ma su questo "individualismo, spirito di ardimento, coscienza ed esercizio della forza materiale", attraverso un'azione che inizia con l'audacia di quel (sapientissimo) monaco benedettino Silvestro II, prosegue con l'altrettanto intrepido Gregorio VII, e si inserisce lo spirito della Chiesa Nuova, riformata, che spazza via con una sua lotta interna, lentamente la corruzione) operandovi un benefico rinnovamento.
L'uomo, il popolo, non solo fatto di plebe, fino allora era rimasto turbato dallo sconvolgimento; ed era fuggito dalle città, si era rifugiato nelle campagne, si era messo sotto la protezione di altri uomini corrotti, e solo per campare sotto la rassegnazione, perseguendo -e solo questo gli insegnavano- il suo misero ideale al di sopra degli uomini e delle cose. Un eremita insomma dell'umanità, immerso fino al collo dalla nascita alla morte, nell'ascesi del clero dominante.
Ma ben presto a quest'uomo eremita dalla coscienza annientata e a questo clero assolutistico e corrotto che vendeva al maggior offerente perfino la tiara di Papa, succede il monaco, che sente il bisogno si scendere dentro questa società con un'azione positiva, e lo fa con la predicazione e l'esempio. Ascetismo e attivismo (e tanto coraggio) si uniscono.
Quando escono quei monaci da Cluny, Furfa, Montecassino ecc. non sono solo monaci, ma sono "indomiti guerrieri".
S. Benedetto ai suoi seguaci, aveva inculcato insieme all'ascesi il dovere del lavoro, prima nei loro conventi e poi nella plebe; di una plebe che disertava perfino le campagne lasciandole incolte. Questo esortare, questo attivismo porta a un cambiamento epocale, perché in breve tempo si crea una nuova organizzazione, che poi raggiunge anche il borgo, che diventa sempre di più il luogo dove in competizione si producono nuove attrezzi, nuove tecniche, e soprattutto nasce una nuova organizzazione della società, ci si danno delle regole, diventa necessario nel mercanteggiare i beni che ora si producono in abbondanza al di sopra del proprio fabbisogno, avere regolamenti, ordinamenti, statuti.
In questa trasformazione, l'asceta combatte a fianco del popolo del "borgo" (Come a Milano la Pataria, con i Baggio, i Cotta ecc) che ora -emancipandosi- difende le proprie conquiste; di libertà innanzitutto economiche, contro il signore feudale, contro il clero corrotto, contro re e imperatori. Prende coscienza che la ricchezza del proprio "borgo" ne è lui l'artefice.

E nasce dal "borgo" il "borghese"; che non è solo un materialista e non abbandona affatto l'aspirazione mistica; e perciò sbagliato pensare che in questo preludio della civiltà umanistica la via percorsa è lastricata da atteggiamenti paganeggianti e antireligiosi; infatti, nelle città accanto al palazzo del comune fa sorgere meravigliosi tempi, le migliori cattedrali; le stesse corporazione che stanno per nascere, delle arti, dei mestieri, gli artigiani si riuniscono sotto il patrocinio di una Santo; le navi delle quattro repubbliche salpano dai porti con i vessilli e le immagini della Vergine, di San Marco, di San Giorgio ecc. E le stesse assemblee legiferano in nome di Cristo. Tutta la vita cittadina è permeata da riti religiosi, da solenni celebrazioni che come fasto, solennità e soprattutto come partecipazione è molto maggiore che non nello sparso contado dove i tempi e il tipo di lavoro e la tipologia dei fedeli sono diversi.
L'aspirazione dunque mistica aleggia nel "borgo", è andata fuori dal convento, è ha scatenato con il nuovo "spirito del tempo", un tumulto di passioni di altro tipo che è il bel produrre, il bel vivere, il bel vestire, e il bel "sapere". E saranno proprio loro a promuovere cenacoli, discussioni, rivisitazione della storia e la filosofia della vita.
Coluccio Salutati deve ancora nascere, ma è già presente quella sua frase "cosa santa é la peregrinatio, piu' santa è la giustizia, ma a nostro giudizio, "santissima" è la marcatura (il commercio) senza la quale il mondo non può vivere".
L'ago della bilancia inizia a spostarsi dalla parte opposta della nobiltà e del clero, e la vedremo sempre di più pendere verso la borghesia mercantile, sempre più agguerrita, sempre più forte, capace di condizionare le prime due, che predicano la morale ma hanno bisogno per sostenersi di soldi.
Come non ricordare quel passo nel '400 del Novellino (un testo dove é riportato il quotidiano) dove troviamo propria una di queste testimonianze "Messere, io sono mercante molto ricco, e questa ricchezza che ho, non l'ho di mio patrimonio, ma tutta guadagnata di mia sollecitudine nell'operar nel mio umile mestiere".

Quello che modifica enormemente la società non è solo quell'unito ascetismo-attivismo di cui abbiamo parlato sopra; l'uomo nuovo del "borgo" ha ereditato dal guerriero e dal cavaliere lo spirito d'ardimento, il coraggio, lui fa le sue "avventure" in altri campi, e costituisce (anche lui come i feudatari) un corpo politico che pretende i suoi diritti. All'inizio è un ceto ristretto, ma poi a queste prime espressioni di questa comune coscienza, in questa nuova "società" collegiale troviamo a fare giuramenti tutti gli "habitatoris urbis", la cui volontà trova manifestazione nelle assemblee generali; e l'attivismo diventa generale, "pubblico", si forma una cultura e una specifica coscienza cittadina che lentamente si estende nei suoi dintorni, anche perché ora questi, in buona parte (le "pievi" vicarie o i "contadi" feudali) sono sempre meno in possesso dell' abulico feudatario, sono in mano a forze signorili più dinamiche (ex conti, ex ecclesiastici, ex nobili cavalieri) che ora vivono in città, e che spesso entreranno in contrasto con i resistenti a questa nuova realtà che ha fatto emergere i popolani più ricchi, spesso affiancati dagli strati più bassi della popolazione che essi pure aspirano ad avere -ricchi, capaci, autorevoli- rappresentanti nei governi cittadini (vedi poi i Medici, i Visconti, gli Sforza ecc.). Una dinamica sociale, che portavano alla ribalta di volta in volta, fazioni, gruppi e ceti diversi. E spesso alcuni "nobili" e "vescovi" a lottare con quella retriva aristocrazia da dove essi stessi discendevano, lasciandosi così alle spalle soggetti che non avevano nessun merito, ma erano solo membri di una casta parassita che si tramandava privilegi da padre in figlio, e che spesso la sua superbia faceva a gara con la sua imbecillità, anche questa dispensata dal "Buon Dio"; che ovviamente nel loro "delirio di potenza" non ammettevano, anzi volevano sostituirsi a Lui. Come non rammentare qui la frase di Barbarossa davanti ai Milanesi: "se avessi voluto far giustizia avrei dovuto uccidere tutti, ma, essendo il mio animo propenso alla generosità, concedo a tutti il dono della vita".
Anche un non credente a queste parole si sarebbe sentito ribollire il sangue!

Quello che è avvenuto quest'anno a Milano, più che la distruzione e lo scempio, fu lo sconvolgimento delle coscienze in quel lugubre silenzioso corteo di prelati, nobili e popolo vestito a lutto, con la corda al collo, davanti a Federico.
Ma in quel momento non sfilavano solo i Milanesi, per la prima volta, anche se non erano presenti, sfilavano anche le città vicine. Anche quelle filo-imperiali, dimenticarono le loro contese locali, e per la prima volta sentivano di essere un solo popolo con una forza morale tutta nuova.
Ci saranno ancora contrasti, dissoluzioni, difficoltà, lotte intestine di comuni e comuni (in seguito le Signorie) spesso inutili; desolazioni di fiorenti contrade, tentativi degli stranieri di annichilire quella forza morale sempre latente, ma nonostante tutto ciò, le lotte di questo periodo non saranno mai più dimenticate, e quando quella forza tornerà a farsi sentire sette secoli dopo, proprio nelle stesse contrade, le passioni e le contese stesse, che agitarono questo glorioso periodo del medioevo, furono poi decisive nel secolo XIX e per il successivo sviluppo storico dell'Italia Unita.
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Torniamo agli eventi di questo periodo. Dopo quelle promesse fatte ai Genovesi, tutti ora si aspettavano che il Barbarossa scendesse a Sud e desse inizio all'impresa contro i Normanni; ma il desiderio di risolvere prima lo scisma papale e un'improvvisa guerra sorta tra Pisa e Genova lo persuasero a rimandare ad altro tempo la spedizione e nell'agosto del 1162, fatta giurare una tregua alle due repubbliche, attraverso la via del Piemonte si mise in viaggio verso la Borgogna.

Visto sopra che Barbarossa sta pensando in tempi brevi di scendere nuovamente in Italia per aggredire e impossessarsi del Regno Normanno, noi dobbiamo andarci prima, per vedere in quali condizioni era ritornato il regno dopo i successi in Puglia di Guglielmo, e dopo la famosa pace di Benevento fatta con il Papa.
Per Guglielmo, diventato troppo potente, non fu un periodo questo privo né di contrasti né di momenti drammatici, ed è il periodo che andiamo a narrare...


dall'anno 1154 al 1166 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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