ANNI 1189 - 1197

TANCREDI - ENRICO VI - GUGLIELMO II E LA FINE DEI NORMANNI

MORTE DI GUGLIELMO IL BUONO - ELEZIONE DI TANCREDI DI LECCE - RICCARDO I D' INGHILTERRA IN SICILIA - CELESTINO III -- ENRICO VI IN ITALIA - INCORONAZIONE IMPERIALE DI ENRICO VI E COSTANZA - SPEDIZIONE IMPERIALE NEL REGNO NORMANNO - RESISTENZA DI NAPOLI - PRIGIONIA DI COSTANZA -- FALLIMENTO DELLA SPEDIZIONE - MORTE DI TANCREDI - SECONDA SPEDIZIONE CONTRO I NORMANNI - ENRICO VI A PALERMO - FEROCIA DI ENRICO - CONGIURA SICILIANA CONTRO ENRICO - MORTE DI ENRICO VI
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Dopo le umilianti vittorie di Saladino (1187) che aveva espugnato prima S.G. d'Acri poi Gerusalemme, in tutta Europa nel corso del 1187, non si pensava ad altro che alla crociata: Genova e Pisa, avevano messo in disparte gli odi, ed insieme si misero ad allestire le flotte; altrettanto i Veneziani che da qualche tempo in lotta con gli Ungari per la città di Zara, stipulavano una tregua e richiamavano navi e i marinai che risiedevano nei porti stranieri per prepararsi al "grande affare" dei noli.
I re di Francia e d'Inghilterra, pure loro, fatta la pace, si preparavano per la spedizione nei primi mesi del 1189. E lo stesso Barbarossa per via terra era partito l'11 maggio dello stesso anno per quel suo viaggio - come abbiamo visto nella precedente puntata - senza ritorno.
Un'altra poderosa flotta la stava preparando il normanno GUGLIELMO II di Sicilia detto "il buono". Ma il 16 novembre del 1189 moriva a 36 anni d'età, dopo 24 di regno. Moriva senza prole, lasciando la corona a COSTANZA che aveva dichiarato sua erede e alla quale aveva fatto giurare fedeltà dai suoi vassalli, eccettuati alcuni baroni di Puglia che erano stati sempre avversi alla signoria normanna.

Ma escluso il vescovo GUALTIERI OFFAMIL l'uomo che si era impegnato -e con successo- presso il re per far concedere la mano di Costanza al figlio del Barbarossa, nessuno tra i grandi del reame di Sicilia, vedeva di buon occhio che il regno passasse sotto lo scettro tedesco di Enrico VI. Fu per questo motivo, dopo la morte di Guglielmo, che i baroni e i prelati del regno, riunitisi a parlamento, elessero re TANCREDI conte di Lecce. Era questi, come si è già detto, figlio illegittimo del primogenito di Ruggero II; prode, intelligente, amante delle arti, era stato sotto il regno di Guglielmo I, partecipe ai moti baronali, per qualche tempo era stato tenuto prigioniero nella reggia, poi, cacciato dal reame, aveva cercato asilo a Costantinopoli; richiamato da Guglielmo II "il buono" e rimesso in possesso dei beni, si era mostrato suddito fedele ed aveva offerto buone prove nella guerra contro l'imperatore bizantino, Andronico.Ricevuto l'annuncio della designazione, TANCREDI si recò a Palermo verso la fine del 1189 e nel gennaio del seguente anno fu incoronato con grande solennità. Primo pensiero del nuovo re fu di comporre il dissidio tra Cristiani e Saraceni scoppiato alla morte di Guglielmo; poi volse l'animo a sottomettere quei baroni d'oltre il Faro che non volevano riconoscerlo, fra i quali era il conte RUGGERO D' ANDRIA, pronipote di Drogone, che, preso ad Ascoli a tradimento dal CONTE D'ACERRA, cognato del re, fu ucciso.Era intento Tancredi a sottomettere i baroni ribelli quando a dargli infinite tribolazioni venne il cognato di Guglielmo... "Diretto in Terrasanta RICCARDO I d'INGHILTERRA, che doveva riunirsi a Messina con FILIPPO II di Francia per continuare con lui la spedizione in comune, era giunto in Sicilia, dove spalleggiato da un formidabile esercito, occupò una posizione molto importante e minacciosa un po' per tutti, appunto perché nessuno sapeva comprendere quale fosse lo scopo prefissosi dal re inglese.
Lui era fratello di GIOVANNA, la vedova di Guglielmo II, e prese il pretesto di proteggere i diritti di quella e si ingerì in modo arbitrario ed egoistico negli affari del regno, che già si stava invece preparando a sostenere una lotta per la propria indipendenza, come abbiamo detto sopra, dai tedeschi.

Con tutta l'astuzia e la prepotenza, propria del carattere normanno, egli sfruttò l'imbarazzo di Tancredi di Lecce, appena elevato al trono. Come un conquistatore lui si stabilì a Messina, attizzando e provocando, con ostilità gratuite e arbitrarie l'odio della popolazione scontenta sempre di qualcosa, sperando che uno scoppio del risentimento popolare, appoggiandolo, gli avrebbe dato poi diritto e motivo di passare ad altre misure violente. Con tali condotta Riccardo mise talmente alle strette il nuovo re, da indurlo ad appagare tutte le sue esigenze, pur di essere al riparo da pretestuose pilotate ribellioni e di liberarsi al più presto possibile dell'ospite pericoloso.
Ma il trattato che Tancredi si rassegnò a firmare l'11 di novembre del 1190, non raggiunse lo scopo voluto; anche se Tancredi era stato incoraggiato alla resistenza dal re di Francia la quale però personalmente non volle porgere alcun aiuto.Pace ed amicizia dovevano, secondo quel trattato, regnare da allora in poi tra i due re, e Riccardo si dichiarava pronto, finché rimanesse in terra siciliana, a difendere il suo protetto, Tancredi, contro chiunque aggredisse la Sicilia o movesse guerra al suo re; tuttavia quest'ultimo si vedeva costretto a pagare quell'amicizia e quelle promesse con sacrifici assolutamente sproporzionati ai suoi mezzi.
Per soddisfare l'ingordigia del malaugurato protettore, che appoggiava le sue pretese a certi titoli legali, Guglielmo dovette sborsare in complesso quasi cinque milioni di marchi, somma per quel tempo enorme, e che dimostra come tutto ciò che si narrava intorno alle ricchezze dei re normanni non era appunto una favola (Prutz)".
Verso la metà d'aprile del 1191 finalmente Riccardo I lasciò la Sicilia, ma un altro pericolo si avvicinava a Guglielmo nella persona di ENRICO VI che, sceso in Italia, veniva per prendervi la corona imperiale e far valere nel reame siciliano i diritti della sua consorte Costanza. Lui già usciva da una lotta accanita sostenuta contro Enrico il "Leone", il quale, spogliato dal Barbarossa dei ducati di Baviera e di Sassonia ed esiliato, era tornato sui campi di guerra per ricuperare i perduti domini. Vinto il suo nemico a Verdun e pacificatosi con lui a Fulda, ENRICO VI riuscì con abile politica a procurarsi l'appoggio economico di molte città lombarde; denaro indispensabile per la spedizione siciliana. Ottenne pure che Genova e Pisa mettessero a sua disposizione le loro flotte e si avviò alla volta di Roma, dove papa CLEMENTE III doveva incoronarlo.
Ma mentre il re germanico era in viaggio, era la fine del marzo del 1191, il Pontefice moriva. I cardinali gli diedero come successore GIACINTO BOBO ORSINI, pio uomo, ma vecchio di ottantacinque anni ed irresoluto, il quale, fu invitato a salire sul soglio il 30 marzo, col nome di CELESTINO III; ma volendosi sottrarre all'obbligo di incoronare il giovine Enrico VI, indugiò a prendere l'ordinazione, senza la quale non avrebbe potuto conferire al sovrano la corona imperiale.A rompere gl'indugi e a vincere i pretesti del Papa ci fu una circostanza imprevista. I Tusculani avevano chiesto aiuto ad Enrico ed avevano già ricevuto un presidio tedesco nella loro città. Questo fatto aveva irritato i Romani, i quali fecero sapere ad Enrico che si sarebbero opposti all'incoronazione se lui non avesse ritirato la guarnigione. Il re promise di consegnare Tusculo nelle mani del Papa, dal quale i Romani l'avrebbero ricevuta, ma solo se lo avessero indotto a incoronarlo. Era un infame compromesso-ricatto contro il quale Celestino III non osò alzare la voce. Il 14 aprile prese l'ordinazione e il dì seguente, a S. Pietro, concesse la corona imperiale ad Enrico VI ed alla regina Costanza.
Il 17 aprile il nuovo imperatore diede Tusculo al Papa e questi la consegnò agl'implacabili suoi nemici i quali gioirono con la vendetta covata da anni; distrussero l'antichissima patria dei Catoni e fecero scempio degli abitanti, i cui pochi superstiti trovarono asilo a Frascati e nei luoghi vicini.
Nel maggio del 1191 Enrico VI entrava nel regno normanno, mentre le flotte di Pisa e di Genova: partivano per fronteggiare l'armata siciliana comandata dal famoso "Margaritone". L'inizio della spedizione fu costituito da una serie di successi. Rocca d'Arce, difesa da MATTEO BORRELLO, fu espugnata, saccheggiata e data alle fiamme; Sorella, Atino, Celle, S. Germano si arresero senza opporre resistenza; lo stesso fecero Teano, Capua, Aversa ed altre città; l'abate ROFFREDO di Montecassino e i conti di Molise, di Fondi e di Caserta si sottomisero all'imperatore tedesco e si unirono a lui.
Ma a Napoli l'esercito imperiale trovò un fortissimo ostacolo alla sua marcia. II CONTE D'ACERRA, che vi stava dentro con un buon contingente di milizie, la difese valorosamente e furono inutili tutti gli sforzi fatti dagli imperiali per impadronirsene. Durante quest'assedio, Salerno aprì le porte ad Enrico VI, il quale vi lasciò l'imperatrice Costanza perché la sua inferma salute fosse curata dai famosi medici di quella città; poi riprese con più vigore le operazioni contro Napoli.
La città assediata continuò a difendersi superbamente; la flotta pisana che si dava da fare per bloccarla, fu ricacciata e costretta a rifugiarsi a Castellammare; l'esercito imperiale, ostinandosi nell'assedio vi perse negli assalti e per le febbri i migliori combattenti, tra cui grossi personaggi quali l'arcivescovo Filippo di Colonia e il duca Ottone di Boemia. Lo stesso imperatore si ammalò e fu costretto a togliere il campo e a rifugiarsi a S. Germano proprio quando giungeva in soccorso la flotta genovese.
Ma i Genovesi, scontratisi nelle acque di Monte Circello, invece di aiutare i tedeschi evitarono la battaglia e ripararono a Civitavecchia, da dove sembra fecero ritorno in patria. La spedizione poteva dirsi del tutto fallita
Enrico VI, lasciati presidi a Capua e in qualche altra città, partì da S. Germano e, portandosi dietro l'abate di Montecassino, fece ritorno in Germania dove una tremenda rivolta era scoppiata per opera della casa Guelfa.La partenza di Enrico causò la perdita delle conquiste fatte. Capua, assediata dal conte d'Acerra, sì arrese; Aversa, Teano e S. Germano tornarono all'obbedienza del re siciliano; lo stesso fece il conte di Molise; Montecassino però resistette e da qui papa CELESTINO III lanciò l'interdetto sul monastero. I Salernitani, al risorgere delle fortune normanne, per esser perdonati per aver aperte le porte al tedesco, fecero prigioniera l'imperatrice Costanza; e la mandarono in Palermo a Tancredi. Questi però la accolse e la alloggiò con ogni onore e, di sua volontà (oppure, come altri storici narrano, per intercessione del Pontefice) la rimandò con ricchissimi doni al marito.
Quest'atto di squisitissima cortesia non ebbe l'adeguata gratitudine né valse a far cessare la guerra, che riprese anzi con più energia quando dalla Germania arrivarono nell'Italia meridionale le milizie comandate da ROFFREDO di Montecassino e dal conte BERTOLDO. L'arrivo di queste truppe non poteva però rialzare le fortune degli imperiali. Inferiore per forze, Bertoldo evitò di ingaggiare battaglia con Tancredi, che era prontamente accorso dalla Sicilia con un esercito numeroso.
Bertoldo arretrò nel Molise, ma qui finì la sua vita: durante l'assalto di un castello una sassata gli fracassò la testa.Il re normanno poteva ritenersi soddisfatto della piega presa dagli avvenimenti: i suoi domini di terraferma erano stati tutti liberati e Celestino III aveva conferita al re l'investitura delle Puglie e della Sicilia. Però TANCREDI non sapeva ancora della pacificazione di Enrico con i Guelfi, e in tutta tranquillità lasciò la Puglia e se ne ritornò a Palermo.

Era da poco tornato in Sicilia, quando, sul finire del 1193, una grande sventura si abbatté sul suo capo: moriva Ruggero, suo amatissimo primogenito, che era stato dal padre associato al regno ed aveva preso in sposa la bella e giovane Irene, figlia dell'imperatore ANGELO ISACCO di Costantinopoli.
Tancredi, che provvide subito alla successione eleggendo il secondogenito Guglielmo III, ancora fanciullo, ma non riuscì a sopportare a lungo il dolore cagionatogli dalla perdita del figlio e, ammalatosi, cessò di vivere anche lui non molti giorni dopo, il 20 febbraio del 1194, lasciando la tutela dell'erede alla regina Sibilla.

IL REAME E DI SICILIA CONQUISTATO DAGLI SVEVI
Liberatosi dei Guelfi e favorito quindi dalle luttuose circostanze, Enrico VI calò nuovamente in Italia quattro mesi dopo, nel giugno del 1194 con un poderoso esercito, sicuro questa volta di non incontrare nessuna resistenza nel regno normanno.
Siccome per la spedizione aveva assoluto bisogno di navi, si recò, per procurarsene, a Genova, e ribadite le promesse, persuase la repubblica marinara a spedire nelle acque della Sicilia una grossa flotta.
Da Genova, Enrico passò poi a Pisa e con il solito sistema delle promesse anche qui ottenne dodici galee che andarono a congiungersi con l'armata genovese comandata dal podestà UBERTO D'OLEVANO.
Da Pisa, attraverso la Toscana e il Lazio, Enrico VI scese nell'Italia meridionale dove le città, davanti a quell'esercito, una dopo l'altra si arresero, compresa Napoli.

Soltanto Salerno, temendo di essere punita per aver consegnato nelle mani di Tancredi l'imperatrice Costanza, tentò di resistere, ma, costretta a capitolare fu, infatti, poi castigata e orribilmente saccheggiata dalle soldatesche germaniche che fecero scempio degli abitanti. In pochissimo tempo tutti i domini normanni della terraferma caddero in potere di Enrico VI il quale, passato lo stretto, giunse a Messina contemporaneamente alle flotte armate dei Genovesi e dei Pisani. Messina, non avendo forze da opporre all'esercito tedesco, aprì le porte e l'imperatore per premiarla le concesse molti privilegi e la giurisdizione di tutto il territorio compreso tra Patti e Lentini.

Da Messina ENRICO mandò un forte contingente di milizie contro Catania, difesa da un eroico presidio musulmano. Assaliti dalle truppe tedesche comandate dal gran siniscalco MARCOVALDO, la città resistette con tanta forza d'animo, ma alla fine questa davanti alle armi la forza d'animo non bastava e dovette cedere; e come a Salerno, Catania ebbe il suo castigo: fu barbaramente saccheggiata, i notabili del luogo catturati e legati come buoi.

Lasciatavi una guarnigione, MARCOVALDO fece ritorno a Messina, portandosi dietro l'arcivescovo e molti autorevoli cittadini di Catania.
Eguale sorte la ebbe Siracusa che fu costretta alla resa dalla flotta genovese. Resosi padrone di tutta la Sicilia orientale, all'imperatore non restava che la capitale, e quindi marciò su Palermo.
Qui nel frattempo la regina SIBILLA era fuggita nel fortissimo castello di Caltabellotta conducendo con sé il piccolo re Guglielmo III, le tre figlie, la nuora Irene, l'arcivescovo di Salerno, l'ammiraglio Margaritone e tutti i baroni che erano rimasti fedeli alla casa normanna.
A Palermo Enrico VI giunse nel mese di novembre e, intimata la resa, si vide aprire le porte. Un gesto che i Palermitani si dovettero amaramente pentire, ma del resto non avrebbero mai potuto resistere alla numerosa soldataglia che l'avrebbe conquistata comunque e, guardando alla fine di Salerno, Catania e Siracusa, anche Palermo non sarebbe stata risparmiata dalla distruzione dei nuovi barbari.
Alcuni storici affermano che furono i costumi troppo rilassanti della corte Normanna a impedire che i Palermitani reagissero, perchè sembra impossibile la scomparsa di quel potente esercito che esisteva all'epoca di Ruggero II..

Nello sfarzo dei palazzi, vestiti quasi sempre in pompa magna, nei rituali e anche in banalissime celebrazioni, i normanni adottarono contemporaneamente il cerimoniale Bizantino, la magnificenza dell'oriente Saraceno e i riti della cavalleria occidentale. I reali furono contagiati dal lusso; e questa moda fu subito imitata dai nobili della corte, poi dai comandi militari che lo trasmisero perfino ai soldati con le loro sgargianti uniformi saracene, e tutto iniziò a degenerare diremmo oggi "nell'edonismo" un po' troppo arrogante, da "parata", e che a poco a poco indebolirono le energie e minarono la loro dignità; e anche l'eccessivo eccletismo - vissuto e concesso a piene mani - si trasformò in una funesta influenza: quella che fece aprire quest'anno ad altri palermitani -esclusi da questa agiatezza- le porte ad Enrico VI, e ad ignorare in un angolo l'ultimo re normanno.

Altri storici arrivano a questa conclusione: che proprio queste (più che encomiabili) grandi aperture dei normanni a tutte le civiltà, questa eccessiva spinta all'eccletismo, questi inviti alla tolleranza reciproca e agli usi e costumi di ogni gruppo presente, paradossalmente fu il principale motivo della decadenza della corte normanna in Sicilia, prima ancora che arrivasse Enrico. Essendo così molto ineguali, tutti gli elementi che concorsero a creare questa -sotto altri aspetti- felicissima e pacifica convivenza, non potevano certo creare una stabile fusione tra le razze esistenti, creare un'identità territoriale comune, né poteva formarsi un popolo, soprattutto se ognuno di questi gruppi etnici - libera scelta era stata con tanta magnanimità "illuministica" concessa - restava fedele ai propri usi, costumi, proprie tradizioni, religioni, cultura e linguaggio. Più che un'unione dell'isola si crearono delle "isole" nell'isola, un "mosaico" di genti. Ed ugnuno pensava a se stesso.

Del resto Ruggero aveva detto: "Tutte le leggi da me promulgate sono vincolanti per tutti, ma senza pregiudizio per le abitudini, gli usi e le leggi dei popoli soggetti alla nostra autorità, ciascuno nella propria sfera, salvo che una qualsiasi di queste leggi od usi non sia opposta ai nostri decreti". Questo mosaico di colori della cosmopolita vita siciliana poteva convivere, poteva anche apparire un'armonia di raffinatezza e di saggezza universalista, ma questo fino a quando nel palazzo - se pur paludato in un ricco e raffinato costume da sultano (come quello di Ruggero - tuttora conservato al museo) c'era al vertice un re universalista, dotato di grande carisma, e la sua buffa e ricca veste (bizantina-cristiana-musulmana-gotica) non insolentiva per nulla, anzi conferiva solennità all'autorità.
Quando invece - morto il re che rappresentava questa armonia- apparve tutta addobbata la numerosa "fauna" dei "palloni gonfiati" tutto il resto crollò. Ogni capo di un gruppo etnico credeva di essere lui l'erede della "nazione". E fu l'anarchia. Ricchezze e mollezze di molti inetti soggetti avevano fiaccato il corpo e lo spirito, dal vertice alla base.

Forse il partito che non aveva molte simpatie per Tancredi, sperò in un provvidenziale ritorno di Costanza, la figlia di Ruggero, ora consorte di Enrico VI. Ma quando suo marito iniziò a colpire gli avversari con le repressioni, si accorsero ben presto che Costanza non era più la figlia di Ruggero II, bensì un'imperatrice plagiata dal sovrano germanico.A quel punto, conquistata con facilità pure la capitale, tutto il reame normanno era caduto nelle mani dell'imperatore Germanico.
Ma il trionfo del tedesco non era completo fin tanto che rimaneva libero il piccolo Guglielmo, né era una facile impresa espugnare Caltabellotta, ben fornita di viveri e cinta da poderose fortificazioni.
Temendo che, mentre lui logorava le sue forze sotto le mura di quella città, il regno così facilmente conquistato si ribellasse, Enrico ricorse al tradimento e fece sapere alla regina Sibilla che, se avesse deposte le armi e la corona, lui avrebbe restituito a Guglielmo la paterna contea di Lecce e gli avrebbe concesso il principato di Taranto.

La misera regina, prestando fede alle parole del vincitore, si recò con il figlio a Palermo, fece atto di sottomissione e depose la corona; ma ben presto conobbe a quale belva si era affidata. ENRICO radunato il parlamento, riceveva la corona dall'arcivescovo Bartolomeo Offamill succeduto al fratello Gualtiero. La notte di Natale del 1194 Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, fu incoronato Re di Sicilia.
In un angolo, appartati, erano presenti anche il piccolo Guglielmo III d'Altavilla, ultimo Re Normanno, e la madre Sibilla. Enrico offrì al detronizzato re la contea di Lecce e Taranto, ma dopo tre giorni, con la scusa di un complotto, lo fece arrestare insieme alla madre e ad altri nobili. L'atto indegno - vista la giovane età di Guglielmo ed il fatto che la povera Sibilla non aveva nemmeno un difensore - in alcuni nobili risvegliò un senso di ribellione.

Ma era proprio quello che aspettava Enrico per scoprire tutti coloro che gli erano contro, per eliminarli e metterli in prigione. Vi rimasero due anni. Poi quando effettivamente, visto l'autoritarismo del tedesco, nel 1196-97 scoppiò un'insurrezione generale, Enrico calcò la mano e ordinò delle sanguinose repressioni, esecuzioni in massa, accecò molti nobili che vi avevano preso parte, e fatti uscire i nobili che erano in prigione da due anni, fece strappare gli occhi anche a loro.
Con il pretesto della congiura e di voler punire i colpevoli Enrico VI sfogò ferocemente i suoi istinti sanguinari. Le carceri di Palermo rigurgitarono di prigionieri appartenenti alle più cospicue famiglie del regno; processi sommari furono istruiti a carico di baroni, vescovi e dignitari della corte normanna, e i carnefici ebbero un gran da fare, impiccando, scorticando, bruciando, accecando, mutilando orribilmente i condannati.

Il piccolo GUGLIELMO III (questa è una versione) fu accecato e castrato, l'arcivescovo di Salerno e i figli del protonotaro MATTEO D'AIELLO furono anch'essi privati della vista; dei baroni e prelati che avevano esaltato al trono Tancredi, solo l'ammiraglio Margaritone si salvò, ma solo perché poteva essere utile all'imperatore, e ottenne il principato di Taranto con il titolo di duca di Durazzo.
Alle donne fu riservata sorte migliore: la regina Irene (la bella e giovane bizantina figlia dell'imperatore Angelo Isacco, vedova del figlio di Tancredi, Ruggero) piacque al duca di Svevia la prese in moglie.
Sibilla con le tre figlie fu chiusa in un monastero, da dove poi più tardi uscirono e le tre principesse andarono spose una a GIOVANNI DI BRIENNE, un'altra al doge di Venezia e la terza a GIOVANNI SFORZA.
Non contento di avere sfogata la sua crudeltà sui vivi, il tedesco inferocì sui morti: ordinò che i cadaveri di Tancredi di Lecce e del figlio Ruggero fossero dissepolti solo per togliere dal loro capo le corone.Del giovane Guglielmo III, ultimo re Normanno di Sicilia, non si seppe più nulla; alcune fonti lo dicono deportato e morto in Germania, altre affermano che fu catturato e mutilato (accecato) da Enrico VI, e altre ancora che fu chiuso in un convento. Ma nessuna di queste notizie ha un'esaustiva verifica storica.


Della slealtà imperiale furono poi vittime anche i (creduloni) Genovesi e i Pisani; ai primi, che gli domandavano di mantener fede alle promesse, non solo negò i feudi e i privilegi pattuiti, ma gli tolse pure le franchigie che da qualche tempo godevano: il diritto di commercio nel regno e il privilegio di eleggere i consoli; e quando, più tardi, gli inviarono a Pavia il podestà e l'arcivescovo con la preghiera di adempiere ai patti stipulati prima della spedizione, oltre il rifiuto si ebbero lo scherno perché Enrico VI rispose che se volevano un reame dovevano conquistarselo; e indicò loro quello d'Aragona promettendo (come se fosse suo) che lo avrebbe concesso come feudo a Genova. Altrettanto comportamento con i Pisani, licenziati senza tanti complimenti; se reclamavano sarebbe stato capace Enrico di incolparli di una congiura e fatti finire tutti nelle carceri a far compagnia ai nobili.Compiuta la conquista della Sicilia, l'imperatore costituì reggente del reame normanno la moglie Costanza - che il giorno dopo la sua incoronazione, passando da Jesi, nella marca d'Ancona, dava alla luce un figlio cui era posto il nome di FEDERICO.

Enrico gli mise a fianco i fidati consiglieri, primo fra i quali CORRADO di URSLINGEN, da lui creato duca di Spoleto; poi, spogliata la reggia di Palermo di tutti i suoi tesori che inviò in Germania - ed erano tanti che per il trasporto furono impiegati centocinquanta muli - nel maggio del 1195 ripassò lo stretto, portandosi dietro la maledizione dei Siciliani, che, inorriditi dalle sue crudeltà, gli attribuirono il nome di Ciclope. E non avevano ancora subito la repressione del '97! che abbiamo già accennato sopra.
"Signore della monarchia degli Altavilla, - scrive il Lanzani - padrone della corona longobarda, lo Svevo aveva conseguito in Italia, una potenza, quale nessuno dei suoi predecessori non aveva mai avuto; poteva dirsi arbitro di quasi tutta la penisola; poteva sfidare impunemente quel potere papale, dinanzi al quale il suo genitore aveva dovuto piegarsi. I fulmini del Vaticano, che non avevano arrestato le vittorie del Ciclope, non avrebbero potuto impedirne le usurpazioni. I beni della contessa Matilde furono considerati come esclusiva proprietà dell'impero e ne conferì l'investitura a FILIPPO, fratello minore dell'imperatore; il gran siniscalco MARCOVALDO di ANWEILER ebbe in ducato tutta quella zona che lungo l'Adriatico dal territorio bolognese si stende sino ai confini napoletani, cioè la Romagna e la Marca d'Ancona; la contea del Molise con molte altre terre formanti il patrimonio di S. Pietro, fu data a CORRADO di LUTZENFELD; altri signori tedeschi e italiani ottennero altre terre, cosicché il temporale dominio del Pontefice era ridotto a nulla, e lui stesso sempre vacillante dentro le mura di Roma; infine le repubbliche lombarde, serrate nuovamente, soffocate tra le province germaniche a nord e questi nuovi grandi feudi imperiali a sud, presentivano che se quello stato di cose continuava a lungo, altre grandi lotte avrebbero dovuto sostenere per difendere l'indipendenza guadagnata con tanto valore e consacrata con un trattato.

Timori non infondati; infatti, i disegni del giovane imperatore erano giganteschi. Ritornato in Germania, portandosi dietro una gran schiera di nobili prigionieri normanni e su una lunga colonna di muli gli immensi tesori sottratti alla misera Sicilia, osò tentare cosa che nessuno dei suoi predecessori non aveva mai fatto, cioè rendere con pubblico atto ereditario nella propria casa Sveva la sovrana dignità: avrebbe in compenso riunito all'impero il regno siciliano, esteso anche alla linea -femminile il diritto ereditario dei feudi imperiali, e rinunciato ad ogni diritto del fisco sui beni delle chiese. Tuttavia, a questo disegno, nonostante fosse già morto ENRICO il "Leone", l'opposizione tedesca aveva trovato valorosi campioni nei suoi tre figli ARRIGO, OTTONE e GUGLIELMO; ben presto si unirono a questi il re di Boemia, il langravio di Turingia, gli Arcivescovi di Magonza e di Colonia; sicché Enrico VI, per non provocare una nuova guerra civile, che poteva essere fatale alla sua casa, riservò a tempi più propizi l'attuazione di quell'ardito disegno, e nella dieta di Worms (30 novembre 1195), dove si doveva stipulare l'atto che avrebbe sconvolta la costituzione del regno alemanno, si accontentò che per via di elezione fosse assicurata la corona a suo figlio FEDERICO (aveva 1 anno) il quale fu proclamato re dei Romani ed ebbe dai grandi vassalli il giuramento di fedeltà".

Né solo questi, erano i disegni del giovane sovrano. Anche lui, come il padre, sognava la signoria del mondo, la ricostituzione dell'impero romano; e pareva che non dovesse riuscirgli impossibile l'attuazione di un tale sogno, perché l'impero bizantino era ormai divenuto tributario di Enrico VI e, minacciato da Bulgari e Turchi, debole com'era, non avrebbe resistito ad una seria invasione; inoltre quello del Saladino, morto il suo fondatore, minacciava di sfasciarsi per le aspre contese dei suoi successori. Ma accecato dal suo sogno e inebriato dal delirio di potenza, ENRICO VI non si accorgeva delle crepe che si andavano producendo nel grande edificio del suo impero.

Minacciate dalla politica ottusa e disgregatrice dell'imperatore, per iniziativa di Milano, nel luglio del 1195, le città di Verona, Mantova, Modena, Faenza, Bologna, Reggio, Padova, Piacenza, Gravedone, Crema e Brescia, inviati i propri deputati a Borgo S. Donnino, si preparavano e rinnovarono i patti della Lega Lombarda; l'esempio doveva esser seguito due anni dopo da Firenze, Lucca, Siena, Volterra, Prato e San Miniato, i cui rappresentanti, riuniti l'11 novembre del 1197 nella chiesa di San Cristoforo nel borgo San Ginesio, giuravano patti d'alleanza obbligandosi di difender la Chiesa romana e i suoi domini e di non accogliere entro le mura imperatore, re, principe, duca, marchesi che non fosse stati riconosciuto dal Pontefice (ed era questa decisione, una nuova contraddizione: i "Ghibellini" tornavano a sperare nel partito "Guelfo" -del papato- che se non aveva la forza delle armi aveva quello delle scomuniche, ma che -come vedremo- non avevano più quella forza di Gregorio VII. Il futuro re Federico II, ne collezionò una serie completa, senza farsi intimidire).

Intanto nell'Italia meridionale e specialmente nella Sicilia le crudeltà del conquistatore e il suo tradimento alla famiglia reale normanna, la ferocia e la licenza delle soldatesche germaniche avevano reso odioso il nome di Enrico VI e una congiura fu ordita per rovesciare dal trono il tedesco. Avuta sentore della congiura, l'imperatore, che aveva radunato un grande esercito per compiere una spedizione in Terrasanta, mosse con parte di questo verso l'Italia meridionale, che fu nuovamente esposta alle feroci vendette del figlio del Barbarossa.
Napoli e Capua furono smantellate, il conte d'Acerra, caduto nelle mani degli imperiali mentre travestito, tentava di fuggire, fu trascinato per le vie prima attaccato a una coda di cavallo e poi impiccato; molti nobili pugliesi furono messi a morte; Catania, inutilmente difesa dai cittadini, fu espugnata dal gran siniscalco Marcovaldo, molti abitanti passati per le armi e anche quelli che si erano rifugiati nel tempio di Sant'Agata non ebbero scampo, la chiesa fu incendiata e fatti perire tra le fiamme; a Palermo furono rinnovate le crudeltà di alcuni anni prima, Margaritone e un conte Riccardo, furono accecati; al misero Giordano che era stato proposto come re dai ribelli, catturato gli fu calcato sul capo una corona di ferro rivestita di chiodi; molti autorevoli personaggi furono bruciati vivi o impiccati.La ferocia dell'imperatore, anziché sgomentare i Siciliani, li inasprì; il castellano di Castrogiovanni levò in alto il vessillo della rivolta e sfidò la collera di Enrico VI che corse ad assediarlo. Ma i suoi sforzi contro l'inespugnabile città, riuscirono inutili, anzi gli furono fatali.

Stanco per le fatiche dell'assedio, si ammalò e si ritirò a Messina, dove si erano concentrati numerosi crociati, e qui cessò di vivere nella note fra il 28-29 settembre del 1197 nell'età di trentadue anni. Morte misteriosa, dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua fredda, forse una congestione, o forse avvelenato (dicono alcuni) per ordine della moglie Costanza. In qualsiasi modo, l'uomo che voleva conquistare il mondo, cessando di ricordare che il padre con lo stesso progetto era miseramente annegato in una pozzanghera, lui penosamente annegava in un bicchier d'acqua. Lasciava dunque Costanza, con un figlio di 3 anni, Federico.
Di lui inizieremo a parlare nel prossimo e poi lungamente
nei successivi capitoli. Cominciamo dal….
periodo dall'anno 1198 al 1216 > > >
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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