ANNI 1287 - 1302

GIACOMO E FEDERICO III: LO SCONTRO - PACE DI CALTABELLOTTA

MORTE DI ONORIO IV ED ELEZIONE DI NICCOLÒ IV - LIBERAZIONE DI CARLO LO ZOPPO E SUA INCORONAZIONE - PROGRESSI DI GIACOMO NELLA TERRAFERMA - ASSEDIO DI GAETA - TREGUA TRA GLI ARAGONESI E GLI ANGIOINI - GIACOMO IN ARAGONA - FEDERICO REGGENTE DI SICILIA - MORTE DI NICCOLÒ IV - CELESTINO V - BONIFACIO VIII - GIACOMO TRATTA E SI ALLEA CON I NEMICI DELLA SICILIA - FEDERICO III RE DI SICILIA - COSTITUZIONE DI FEDERICO III - FEDERICO IN CALABRIA - DEFEZIONE DI RUGGERO DI LAURIA E GIOVANNI DA PROCIDA - GIACOMO IN SICILIA: PROGRESSI DELLE SUE ARMI - BATTAGLIA NAVALE DEL CAPO D' ORLANDO - BATTAGLIE DELLA FALCONARIA E DI GAGLIANO - BATTAGLIA NAVALE DI PONZA - BLOCCO DI MESSINA - ASSEDIO DI SCIACCA - PACE DI CALTABELLOTTA - L'OPERA DI FEDERICO III
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MORTE DI ONORIO IV - PAPA NICCOLO' IV,
CELESTINO V, BONIFACIO VIII -
FEDERICO III RE DI SICILIA -
Dopo la vittoria del 23 giugno 1287, RUGGERO di LAURIA, recatosi con trenta galee nel porto di Napoli, senza autorizzazione del re e solo per avidità di danaro, vendeva al conte D'ARTOIS e al cardinal GHERARDO, per una grossa somma, una tregua per due anni sui mari. E fu una tregua dannosa per la Sicilia, che avrebbe potuto altrimenti sfruttar la vittoria, approfittando anche della vacanza della Santa Sede.
Era infatti morto due mesi prima, il 3 aprile 1287, papa ONORIO IV e per le solite discordie dei cardinali il soglio pontificio rimaneva vuoto. Solo dopo circa undici mesi il collegio cardinalizio riusciva ad eleggere GIACOMO di ASCOLI, generale de' Francescani (22 febbraio del 1288), che prese il nome di NICCOLÒ IV. Ben presto la Sicilia comprese che nulla di buono avrebbe potuto aspettarsi dal nuovo Pontefice. Questi, seguendo la politica dei suoi predecessori, favorevole agli Angioini, il Giovedì Santo del 1288 lanciò una nuova scomunica contro i Siciliani e, sapendo che Eduardo d'Inghilterra si adoperava per metter -pace tra la Francia e l'Aragona, ne favorì le pratiche ma solo quelle che dovevano portare alla liberazione dell'angioino CARLO LO ZOPPO.
Questa avvenne nel novembre del 1298. ALFONSO D'ARAGONA, disinteressandosi della sorte del fratello Giacomo e della Sicilia, lasciò libero Carlo dietro il pagamento di trentamila marchi d'argento e la promessa giurata dell'Angioino di ritornare in prigionia se nel termine di un anno non convinceva la Francia e la Chiesa a pacificarsi con l'Aragona.
Ma la promessa non fu mantenuta, perché NICCOLÒ IV sciolse il principe dal giuramento e il 19 giugno del 1289 lo consacrò a Rieti re di Sicilia, Puglia e Gerusalemme.
In tutto questo tempo era riposata la guerra sul mare, ma era ripresa quella nella terraferma, dove, nella primavera del 1289, assumeva un aspetto più violento. Il 15 aprile, con una flotta di quaranta navi e un esercito di quattrocento cavalli e diecimila fanti, re Giacomo passava a Reggio e un mese dopo si muoveva alla testa delle sue milizie verso il nord mentre Ruggero di Lauria risaliva il Tirreno lungo le coste calabresi. Al re di Sicilia si arrendevano Sinopoli, Santa Cristina, Bubalino, Seminara; con duri assalti erano costrette alla resa Monteleone, Rocca, Castel Mainardo, Maida, Ferolito e Aiello e più tardi si arrendevano Amantea, Fiumefreddo, Castel di Paola e Fuscaldo, mentre il conte d'Artois si ritirava. Il 30 giugno 1289, per via mare, Giacomo sbarcava a Gaeta, dove una fazione di quella città aveva promesso di cedergli la città. Ma non la ottenne perché quella stessa fazione, appreso che un poderoso esercito angioino di Francesi, Toscani, Lombardi, Abruzzesi, Campani e Saraceni si avvicinava, ruppe le trattative con il re, e la città, minacciata, si preparò alla difesa. Giacomo pose l'assedio a Gaeta e intanto s'impadroniva di Mola di Gaeta e correva saccheggiando fino al Garigliano e a Fondi i dintorni di Nola, Maranola e Tragetto.
Duravano da qualche tempo l'assedio e le scorrerie quando giunse il numeroso esercito di Carlo II d'Angiò, comandato dal conte d'Artois, che si accampò a poca distanza da quello Siciliano.
Pareva proprio che questo dovesse presto soccombere, chiuso com'era tra la forte Gaeta e l'immenso esercito angioino; invece ne respinse efficacemente gli assalti e lo tormentò quotidianamente con audacissime azioni, dove si distinsero i messinesi LEUCCIO e BONFIGLIO e il prode MATTEO di Termini.
Erano a questo punto le cose quando EDUARDO D'INGHILTERRA, non tollerando che i Cristiani si dilaniassero tra loro mentre il Soldano d'Egitto s'impadroniva di Tripoli di Soria, facendo strage della popolazione e stringeva di assedio Acri, indusse NICCOLÒ IV a adoperarsi per la pace. Iniziate subito, con la mediazione del Pontefice, le trattative portarono nell'agosto 1289, ad una tregua fra i belligeranti che doveva durare fino al giorno d'Ognissanti del 1291. Firmati i patti, gli Angioini partirono e tre giorni dopo Giacomo, imbarcatosi con tutto l'esercito, fece vela per Messina, dove giunse il 7 settembre. Durante la tregua, che, del resto, non fu strettamente osservata, non cessò NICCOLÒ IV di adoperar le arti della politica. Il Pontefice era d'avviso che per combattere con probabilità di successo Giacomo era necessario staccare prima da lui, e poi spingergli contro il fratello Alfonso d'Aragona.
In questo senso indirizzò il Papa la sua politica ed era già riuscito con il trattato di Brignolles del 19 febbraio 1291 nel suo intento quando, il 18 giugno di quello stesso anno ALFONSO, ancora giovanissimo, cessò di vivere. Essendo morto Alfonso senza figli, la corona aragonese passava al fratello Giacomo; e questi andava a prendersela a Saragozza il 24 settembre del 1291, lasciando reggente in Sicilia il fratello Federico. Ed ecco il regno di Sicilia di nuovo unito all'Aragona; e poiché Giacomo si rifiutava di eseguire il trattato del fratello, ecco profilarsi lo spettro della guerra tra l'Aragona da una parte e la Francia, gli Angioini e la Chiesa dall'altra. Giacomo non era uomo da temere una guerra, ma non aveva la tempra eroica del padre, che, pur abbandonato dai sudditi, aveva saputo scacciare dal suo regno gli invasori. Giacomo veniva a trovarsi nelle medesime condizioni del fratello Alfonso, e poiché l'isola gli rendeva meno che l'Aragona per le franchige concesse, il dispendio della difesa e il limitato potere regio, fu d'avviso che gli convenisse abbandonare quella e tenersi questa. Iniziò pertanto trattative segretissime con coloro che fino allora erano stati suoi nemici; ma queste mediazioni, per fortuna dei Siciliani, furono troncate da un avvenimento inatteso: la morte di Niccolò IV, avvenuta il 4 aprile del 1292.
Più di due anni rimase vacante la Santa Sede per le solite discordie tra i cardinali, provocate dalle fazioni dei Colonna e degli Orsini; ma il 5 luglio del 1294, riunito a Perugia, il conclave si accordò sul nome di un povero eremita, PIETRO ANGELERI da MORRONE, che viveva su di un monte presso Sulmona ed era in fama di santità. Pietro da Morrone, figlio di Angelerio e di Maria Leone, nasce nel 1209 (1215?) in provincia di Terra di Lavoro, così come narra la Bolla di Canonizzazione di Clemente V del 1306. Numerose località, da allora, ne rivendicano la paternità. Fra queste, Macchia d’Isernia, Molise, Morrone del Sannio e in particolare Isernia e S. Angelo Limosano, entrambe forti di numerose testimonianze coeve.

"Il povero monaco - scrive il Comani - prese il nome di CELESTINO V, si fece dare la tiara all'Aquila degli Abruzzi, poi andò, non a Roma, ma a Napoli, mettendosi inconsciamente nelle mani degli Angioini, che lo circondarono di ogni sorta di onori ed ottennero da lui quelle nomine di prelati e quelle leggi che a loro erano gradite.
Così il buono, ma ingenuo Papa nel suo breve pontificato "pauca fecit - scrive un cronista - plenitudine potestaiis: plura vero plenitudine semplicitatis".
Per queste sue protezioni e compiacenze il malcontento dei cardinali non devoti agli Angiomi era grande: lo stesso Celestino sentiva d'essere incapace, temeva di sbagliare senza veramente accorgersi quando, e cominciò a desiderare di liberarsi dal peso del Papato, che gli pareva pericoloso per l'anima sua.
" Abdicare però era cosa difficile e contro il costume; si consigliò quindi con vari, fra cui il cardinale BENEDETTO CAETANI di Anagni, dotto giureconsulto e canonista, nel quale Celestino aveva grande fiducia; ed assicurato che poteva rinunciare, abdicò il 13 dicembre, dopo cinque mesi di pontificato. La rinuncia aumentò la sua fama di santo; ma vi fu più tardi chi la chiamò viltà, e chi la riteneva illegale, ma allora nessuno protestò. Celestino finì poi miseramente, perché il successore, temendo che qualcuno lo persuadesse a revocare la rinuncia e ritornare sul soglio, lo fece prendere e chiudere in un castello dove morì nel 1297".


Dal Conclave riunito in Napoli fu eletto il 24 dicembre 1294, il cardinal CAETANI, che prese il nome di BONIFAZIO VIII.
Intorno a questo Pontefice diremo qui solamente ciò che ebbe attinenza con la guerra del Vespro, come fu chiamato il lungo conflitto tra Aragonesi ed Angioini. La questione siciliana prima della sua elezione, era stata già risolta dal mite CELESTINO, che il primo d'ottobre dello stesso anno aveva ratificato il trattato segreto stipulato a Junquera nel novembre dell'anno precedente tra GIACOMO D'ARAGONA e CARLO II D'ANGIÒ.
In questo trattato, l'Angioino prometteva di riuscire ad ottenere dal Papa all'Aragonese l'assoluzione dalla scomunica, il perdono delle offese recate alla Santa Sede, la restituzione del reame di Aragona e la rinuncia del re di Francia e di Carlo di Valois; Giacomo a sua volta si obbligava di restituire gli ostaggi che Carlo aveva lasciati in mano d'Alfonso al tempo della sua liberazione, le Calabrie e le isole presso Napoli; quanto alla Sicilia e a Malta s'impegnava di darle alla Chiesa nel termine di tre anni, usando contro i Siciliani anche le armi se si fossero opposti.
Questo trattato però non piaceva proprio per nulla a Bonifazio VII (che in dicembre era subentrato al dimissionario Celestino); era convinto che il termine di tre anni stabilito per la cessione della Sicilia avrebbe potuto ricondurre la questione al punto di prima. Voleva il Pontefice che la cessione fosse fatta immediatamente e in un convegno tenuto ad Anagni il 5 giugno del 1295 con gli ambasciatori d'Aragona, di Napoli e di Francia riuscì a far modificare nel senso che lui voleva il trattato di Junquera, promettendo a GIACOMO in premio l'investitura della Corsica e della Sardegna. Per rendere più facile l'esecuzione del trattato, il Pontefice cercò trarre dalla sua parte il reggente FEDERICO e RUGGERO di LAURIA, a quest'ultimo concedendo in feudo l'isola delle Gerbe da lui stesso acquistata, mentre al primo la mano di sposa di Caterina di Courtenay, erede nominale della corona di Costantipopoli, aiuti militari per conquistare l'impero, e in quattro anni centotrentamila once d'oro.
Ma il Pontefice faceva i propri conti e firmava bolle, senza i Siciliani, il fiero popolo che da solo aveva saputo cacciare i Francesi ed ora non intendeva essere venduto con un pezzo di pergamena.
Protestarono prima con re Giacomo, dicendosi decisi a difendere la loro libertà e la propria volontà, poi a Palermo, l'11 novembre del 1295, fecero dal parlamento proclamare FEDERICO signore dell'isola (fratello minore di Giacomo).
FEDERICO III REGGENTE DI SICILIA
Federico che - crescendovi- aveva imparato ad amar la nuova patria accettò, dichiarandosi pronto a dare il suo sangue nella difesa dell'indipendenza della Sicilia; e il 15 gennaio del 1296 dal parlamento radunato nel duomo di Catania fu proclamato re.
La coronazione del nuovo sovrano, che volle prendere il nome di FEDERICO III, avvenne il 25 marzo del 1296, giorno di Pasqua, nel duomo di Palermo. La città era in festa, gremita di gente venuta ad assistere alla cerimonia da ogni parte dell'isola. E per il tripudio furono sparse di mirto le vie, adorni di drappi di seta e d'oro le case, i templi, i portici: Giochi, giostre, cavalcate, mense allietarono per due settimane la capitale e il nuovo re, che in quell'occasione, armò e nominò cavalieri trecento nobili giovani, confermò Ruggero di Lauria grande ammiraglio e nominò gran cancelliere CORRADO LANCIA e capitani dell'esercito BLASCO ALAGONA, frate ARNALDO DE PONCIO e GUGLIELMO di CARTIGLIANO.
Il primo atto politico di FEDERICO III, fu la promulgazione di una nuova costituzione. Con questa, divise tra il sovrano e i rappresentanti del popolo il potere legislativo; stabilì che il parlamento generale, composto dai conti, dai baroni e dai sindaci delle città, si radunasse una volta l'anno, decidesse insieme con il re della guerra e della pace, decretasse leggi, esercitasse la censura sui magistrati e nominasse un'altra corte di dodici nobili uomini per giudicare inappellabilmente le cause criminali dei baroni; confermò le franchigie e i privilegi concessi dai suoi predecessori svevi ed aragonesi; rimosse ai privati l'accusa di fellonia e lasciò ai rei la scelta del giudizio; stabilì che fossero nobili e siciliani e pagati dall'erario i quattro giustizieri dell'isola; provvide all'ordinamento della guardia cittadina nei comuni demaniali; decretò l'unità di peso e misura; obbligò le chiese a vendere o concedere in enfiteusi entro un anno i poderi avuti in lascito; decretò che potessero essere riconcessi i feudi caduti nel demanio regio e che i feudi potessero alienarsi; migliorò le condizioni dei marinai; volle che tutti gli ufficiali dell'erario fossero di nazionalità siciliana e, infine, ampliò o modificò parecchie leggi esistenti.
"Da questa costituzione -scrive l'Amari- la nazione ottenne "diritto di pace e di guerra, leggi più moderate, più spedita e benigna l'amministrazione e la giustizia, la sicurezza pubblica, il favore ai commerci e all'agricoltura; né merita pochi apprezzamenti, quella legge sull'alienazione dei feudi, che qualunque fosse stato il suo scopo, tuttavia rendeva più libere le proprietà".Alle opere di pace, Federico fece seguire quelle di guerra, con il consenso del popolo, che non era ancora stanco, sebbene da quattordici anni con le armi in pugno. Passato lo Stretto con un fortissimo esercito, il giovane re marciò su Squillaci, che Blasco Alagona pose in assedio e la costrinse poi alla resa per sete, mentre lui proseguì e andò ad assalire Catanzaro.
RUGGERO di LAURIA, che era parente del conte di quest'ultima città, consigliava di non tentare l'impresa, ma vinse il parere del re e nacquero così i primi semi della discordia tra il sovrano e il grande ammiraglio, che dovevano più tardi portare alla defezione di quest'ultimo.
Catanzaro fu energicamente assalita ed era già sul punto di essere conquistata quando, per ordine di Ruggero, il combattimento fu sospeso; il conte invocava quaranta giorni di tregua, trascorsi i quali si sarebbe arreso se non fosse stato soccorso dall'Angioino.
Il re di Sicilia a malincuore accettò e per non perdere del tempo prezioso, nell'attesa che scadesse il termine fissato mandò il Ruggero Lauria con parte della flotta e trecento cavalli ai confini della Basilicata a portare soccorsi a Rocca Imperiale assediata da GIOVANNI di MONFORTE.
Vettovagliata audacemente Rocca, l'ammiraglio assalì Palicoro facendo bottino di viveri e cavalli, e, con Federico, arresasi Catanzaro, costrinse il Monforte ad abbandonar l'assedio di Rocca Imperiale.Da qui ricominciò l'avanzata: il re, marciando attraverso le Calabrie, piegò alla resa Sanseverino ed occupò Rossano; Ruggero per mare, oltrepassato il golfo di Taranto, portò la guerra in terra d'Otranto, assalì e saccheggiò Lecce, s'impadronì d'Otranto, che fu rafforzata e presidiata, ed effettuò uno sbarco presso Brindisi. Ma questa città, difesa da un consistente numero di Francesi, non si riuscì ad assalirla e si accontentarono di mettere a soqquadro i dintorni con audaci scorrerie. In una di queste, due cavalieri siciliani, GUGLIELMO PALOTTA e PEREGRINO da PATTI rinnovarono i prodigi di ORAZIO COCLITE. Essendo i due Siciliani sopra un ponte, che rappresentava l'unica via di ritirata, minacciati da numerosi nemici comandati da GOFFREDO di JOINVILLE, i due guerrieri difesero a lungo e con estremo valore l'attacco dei Francesi, e il ponte lo mantennero finché giunsero i rinforzi, questi sconfissero i Francesi e il Joinville, combattendo con il Lauria, fu sbalzato dal ponte e finì nelle acque del fiume.
Nonostante questi successi delle armi, la situazione di Federico non era delle più prospere: una piccola parte della nobiltà del regno tramava contro la corona; Ruggero di Lauria, che bruciava per l'affronto subito a Catanzaro aveva sparso una forte ruggine tra loro; e una parte prestava orecchio a lusinghiere profferte di Giacomo (il re esautorato) e questi, mentre Carlo II armava nuovi eserciti e nuove flotte e il Papa lanciava maledizioni e soffiava nel fuoco della guerra, si preparava a mantenere i patti di Anagni.Ma prima di brandire le armi contro il fratello, Giacomo voleva usar la persuasione e gli fissò un convegno ad Ischia. Federico, lasciato in Calabria Blasco Alagona e chiamato in Sicilia Ruggero con la flotta, volò nell'isola e convocò in Piazza il parlamento, al quale il re, fra le altre cose, disse:
"Tra la Sicilia e i suoi nemici non c' è via di mezzo; o libera come oggi o calpestata oltre ogni antico strazio di servitù".
Il parlamento vietò al sovrano di recarsi al convegno.
Tra fatti d'armi navali e terrestri e i tentativi di Federico di creare al fratello ostacoli in Aragona, trascorse tutto l'inverno. Nel marzo del 1297 giunse GIACOMO in Italia, che dal Papa ricevette la bolla d'investitura della Corsica e della Sardegna e il comando supremo delle forze della Chiesa, fidanzò la sorella Jolanda a Roberto d'Angiò, erede presuntivo della corona di Napoli, si alleò con Carlo II e allacciò amicizia con Ruggero di Lauria.RUGGERO DI LAURIA era ormai deciso di abbandonare la causa della Sicilia e non aspettava che un'occasione per passare agli Angioini ed agli Aragonesi. E l'occasione gliela porse lo stesso Federico, il quale, in piena corte, non si lasciò baciare da lui la mano, com'era usanza, accusandolo (e a quanto pare aveva ragione di sospettarlo) di tramare con i nemici, e gli ordinò di non muoversi dalla sala.
Tranquillizzato da due nobili, VINCIGUERRA PALIZZI e MANFREDI CHIARAMONTE, il sovrano, più tardi, lasciò libero l'ammiraglio, che però, tornato a casa, montò a cavallo e andò a chiudersi nel suo castello di Castiglione; e da qui iniziò a mettere in stato di difesa gli altri suoi castelli di Novara, Tripi, Ficarra, Aci e Francavilla. Questa era la preparazione ad un'evidente ribellione che a suo tempo Pietro d'Aragona non l'avrebbe certamente lasciata impunita. Federico invece peccò di debolezza e non solo fece proprio nulla contro l'ammiraglio, ma permise che lui e GIOVANNI da PROCIDA, anche questo in trame col nemico, accompagnassero la regina Costanza, che si recava a Roma per assistere alle nozze della figlia Jolanda. Dopo il matrimonio della sorella, Giacomo tornò in Catalogna, a fare preparativi di guerra, mentre RUGGERO di LAURIA fu nuovamente benedetto dal Pontefice e poi da Carlo II creato ammiraglio del reame di Napoli. "Così lasciavano insieme la Sicilia - scrive l'Amari- entrambi da nemici, i due diventati tanto famosi nella rivoluzione del Vespro, legati strettamente dalla comune fortuna e dalla comune ambizione, compagni nell'esilio, nelle speranze, nella fazione della nuova dinastia in Sicilia, e finalmente nella tradizione.
"RUGGERO era stato allevato fin da fanciullo alla corte di Pietro, fu un uomo di animo smisurato, ma avaro, superbo, insaziabile di benefici; di altissime capacità nelle cose di guerra, il primo ammiraglio dei tempi, gran capitano d'eserciti, ma anche lui sanguinario ed efferato.
Restaurò la riputazione delle armi navali in Sicilia; educò i Siciliani alle vittorie e fu un potentissimo sostegno nel nuovo stato. Iniziò andargli contro quando ebbe i rivali nel potere, forse invidioso o forse perché troppo invidiato; ma è un macchia al suo nome quest'abbandono di Federico quando la sua fortuna stava precipitare."L'abbiamo visto padrone dei mari in Sicilia, poi perfino dominatore del mare Mediterraneo dopo la famosa battaglia alle Formiche del 1285, con Pietro quand'era ancora contro i Francesi-Angioini.
L'abbiamo visto vincere or con l'una, or con l'altra delle fazioni in guerra e poi perdere mettendosi contro i vecchi compagni siciliani (come a Caltabellotta nella sanguinosa scena che leggeremo più avanti). "Minore di lui come figura fu GIOVANNI DA PROCIDA anche se sembra il suo un nome più famoso. Ministro abilissimo del re d'Aragona, nelle ma non sempre corrette tradizioni storiche lo hanno sempre celebrato liberatore di popoli, l'hanno posto accanto ai Timoleoni ed ai Bruti; fatto di lui il simbolo delle passioni e della necessità di tutto il popolo siciliano contro la dominazione straniere, e poi lo ritroviamo ad affiancare lo straniero.
Come virtù ebbe la sagacità, l'ardire, la prontezza, l'esperienza negli intrighi di Stato, ma non si aggiunsero le virtù cittadine, che anzi violò, tramando prima con i nemici (gli Angioini), poi sfacciatamente contro la rivoluzione siciliana e la Repubblica Siciliana, per poi finire contro Federico III.
"Morì a Roma oscuramente all'inizio dell'anno 1299, pagando con la vita il prezzo d'infamia (Amari)".
GIACOMO D'ARAGONA IN SICILIA
BATTAGLIE DEL CAPO D'ORLANDO,
DELLA FALCONARIA, DI CAGLIANO E DI PONZA
RUGGERO DI LAURIA abbandonata la causa della Sicilia, la rivolta sull'Isola la sollevò suo nipote GIOVANNI DI LAURIA, ma non ebbe fortuna, perché nell'estate del 1297, tutti i castelli dello zio caddero in mano di FEDERICO III.
Nello stesso periodo Ruggero non ottenne migliore fortuna in Calabria, dove nelle vicinanze di Catanzaro, assalendo con settecento cavalli angioini meno di duecento Siciliani comandati da Blasco Alagona, fu clamorosamente sconfitto e fu anche ferito. Questa fu l'ultima battaglia di qualche importanza nel corso dell'anno 1297.La guerra si fece invece aggressiva l'anno seguente e Federico III fu costretto a passare dall'offensiva alla difensiva. Giacomo d'Aragona giunto all'inizio dell'estate 1298 ad Ostia con ottanta galee e un grande numero di soldati, scese a Napoli, e da qui il 24 agosto del 1298 fece vela per la Sicilia. Per la seconda volta dopo il 1282 (ma Carlo D'Angiò dovette fermarsi a Messina) il nemico portava le armi nell'isola, questa volta con maggior successo della prima fallimentare spedizione.
Il 1° di settembre 1298 Patti fu presa e poco più tardi, persuasi da Ruggero, si arresero i castelli di Milazzo, Novara, Monforte, San Piero.
Occorreva un porto sicuro, dove la flotta potesse svernare, e Giacomo tentò di impadronirsi di Siracusa e vi pose l'assedio. Ma qui il re d'Aragona trovò il primo inconveniente.
La difesa dei Siracusani, che si protrasse per oltre quattro mesi, fece capire a re Giacomo che l'impresa cui si era accinto non era tanto facile.
Aveva, è vero, ridotti in suo potere con la forza o con le abilissime trame, oltre i castelli già nominati sopra, Buscemi, Palazzolo, Sortino, Ferla, Buccheri, Naso, Capo d'Orlando e Pietraperzia, ma questi successi erano dovuti più agli abili intrighi usati con certi baroni siciliani che non al valore delle sue truppe, né si era spinto oltre nella conquista, anzi dovette agire con molta circospezione di fronte alla buona tattica di Federico III e dei Siciliani, i quali, anziché affrontare il nemico in battaglia campale, come abbiamo visto più volte fare, lo logoravano stancandolo con abile guerriglia e battendolo sanguinosamente a Buccheri e a Giarratana e, per mare, al Faro. Qui una squadra comandata da GIOVANNI DI LAURIA, sorpresa dalle forze navali di Messina, fu sbaragliata e lasciò nelle mani dei Siciliani sedici galee (messo in trappola dagli amici che proprio lui comandava fino a ieri) Fu questo un grave colpo per re Giacomo: sgomento dalla sconfitta, con l'esercito ridotto dalle malattie, disperando di poter fiaccare i Siracusani, l'Aragonese lasciate poche centinaia di uomini a presidiar alcune terre, imbarcò l'esercito e nel marzo del 1299 sbarcò a Napoli, e dopo una breve malattia, si recò in Spagna per poi ritornare un paio di mesi dopo.
La partenza di Giacomo, non fece allentare la guerra: in Sicilia i Catalani persero quasi tutte le conquiste fatte; in terraferma gli Angioini furono più fortunati; parecchie terre di quelle che avevano perse le ricuperarono, non per valore di assalti, ma per il tradimento dei preposti alla difesa che per danaro o per promesse di onori le consegnarono .Così si venne all'estate del 1299. Giacomo era tornato dalla Spagna e alla fine di giugno navigava verso le coste settentrionali dell'isola con una flotta di cinquantasei galee, su cui oltre il re d'Aragona, c'erano RUGGERO DI LAURIA e Roberto e Filippo, figli di Carlo II.
Federico III ebbe notizia dell'avvicinarsi del nemico quando questo era già alle isole Lipari e, ritenendo opportuno dargli battaglia prima che sbarcasse nell'isola, uscì da Messina con quaranta galee, sicuro della vittoria per l'ardente desiderio degli equipaggi siciliani di combattere.
LA BATTAGLIA NAVALE DI CAPO D'ORLANDO
Fu però quest'ardore che doveva riuscir fatale a Federico III. Quando doppiò il Capo d'Orlando si accorse di essere giunto troppo tardi: il nemico, vi era arrivato prima, aveva guadagnato i lidi di San Marco alla foce della fiumara Zappulla, aveva gettato le ancore e girate le prore al mare in ordine di battaglia.
Gli equipaggi siciliani volevano, senza perder tempo, dare addosso alla flotta catalana, non curando l'ora tarda (il sole volgeva al tramonto) e a stento riuscì Federico a contenerle. Se avesse bloccato l'impazienza degli equipaggi e aspettato l'arrivo di Matteo di Termini che doveva raggiungerlo con otto galee, forse, dopo diciassette anni di dominio dei mari, i Siciliani non avrebbero assaggiato la prima sconfitta.Si passò la notte nei preparativi. Quando spuntò l'alba del 4 luglio si vide la flotta catalana con le ali distese per accerchiare meglio la nemica e con al centro la nave ammiraglia dove c'erano il re e i figli di Carlo II.
Anche l'armata di Sicilia si era schierata, e in mezzo la capitana, sormontata dallo stendardo reale spiegato al vento, sulla quale avevano preso posto, attorno al giovane sovrano, i più forti guerrieri. Squillarono le trombe da entrambe le parti, si alzarono al cielo le grida di guerra, poi le due flotte iniziarono a muoversi e incominciò la battaglia nella quale due sovrani fratelli si trovavano di fronte. La battaglia fu lunga, aspra, e sanguinosa. All'inizio si combattè da lontano con le armi da lancio, poi per prima dal fronte siciliano si staccò la galea di GONIBALDO degli INTENSI andando a investire furiosamente il nemico. Preso in mezzo dai Catalani, il temerario Gonibaldo si difese eroicamente, facendo strage di Catalani; ma nel frattempo anche le navi delle due flotte erano entrate a contatto e la mischia diventò generale.Il combattimento iniziato all'alba, a mezzogiorno era ancora aspro, accanito, ma senza un vantaggio dell'una e dell'altra parte; le navi cozzavano tra loro, tentavano l'abbordaggio, erano coperte da nugoli di frecce, bersagliate dal fuoco greco; dai bordi con quelle affiancate si combatteva con le aste e con le spade, e le armature luccicavano al sole cocente di luglio e la fatica della battaglia, il caldo, il peso delle armi estenuavano i corpi e bruciavano le gole dei combattenti. Gonibaldo, ferito in più parti, cercò un momento di riposo tra il fragore della battaglia ma subito dopo cessò di vivere e la sua bella galea senza più ordini cadeva preda al nemico.
Però le altre trentanove tenevano sempre testa al numero preponderante dell'armata avversaria e la battaglia forse sarebbe durata fino a sera se un'abile mossa di Ruggero di Lauria, che all'improvviso con sei navigli piombò alle spalle della flotta siciliana, mettendola in rotta. Dopo tanto sangue sparso e aver dato tante prove di valore, la giornata per i Siciliani era perduta. Accerchiati dal nemico, impediti nei movimenti, sopraffatte dal numero, le navi degli isolani non avevano più nessuna speranza di vincere, e solo sei riuscirono a rompere il cerchio e a prendere il largo; ma FEDERICO III non voleva cedere e urlando di voler morire in battaglia si lanciava nella mischia quando spossato dalla fatica e dal caldo cadde svenuto sulla tolda. Fu la sua salvezza. UGONE degli EMPURI, preso il comando della capitana, non volendo che il re cadesse prigioniero, fece remare vigorosamente e pose in salvo la nave. Sulle rimaste si sfogò il furore dei vincitori, che fecero strage di Siciliani, istigati dalle grida isteriche di RUGGERO di LAURIA (l'ex condottiero di tante battaglie vinte dai Siciliani!). Così, nel sangue e nell'orrore del macello, finita la battaglia del Capo d'Orlando, la flotta Siciliana, che si era onorevolmente battuta, era annientata e perdeva seimila uomini e diciotto galee.
Forse preso dal rimorso di essere andato contro il fratello e i Siciliani, - il che stento a credere - forse per la poca utilità che da quella guerra gli poteva venire, forse ancora per lo scarseggiare del denaro da parte del Pontefice, dopo la vittoria di Capo d'Orlando, che costò moltissime vite anche ai Catalani, Giacomo, traghettate in Sicilia dalla terraferma le milizie angioine con i figli di Carlo II, se ne tornò a Napoli per poi proseguire con la madre e la moglie in Spagna.Continuarono la guerra i principi ROBERTO e FILIPPO D'ANGIÒ. In tre settimane ripresero per tradimento di PIER SALVACOSSA, Ischia, Capri e Procida; con gli intrighi di RUGGERO di LAURIA non per forza d'armi, ottennero Castiglione, Roccella, Placa, Adornò; dopo due giorni d'assedio Paternò; per tradimento Vizzini.
Ma a Randazzo trovarono una dura resistenza e, battuti, furono costretti a ritirarsi. Vigorosa, ma breve resistenza trovarono a Chiaramente, ma poi costretta alla resa, vi rinnovarono le stragi d'Augusta, passando gli uomini a fil di spada, sfracellando contro i sassi i bambini, sventrando le incinte.
Anche Aidone conquistarono; ma da Piazza energicamente difesa da GUGLIELMO CALCERANDO e PALMIERO ABATE, dovettero allontanarsi dopo un inutile assedio. La conquista più importante che gli Angioini fecero in Sicilia fu Catania, di cui s'impadronirono senza fatica, per tradimento di due abietti cittadini, VIRGILIO SCORDIA e NAPOLEONE CAPUTO; e dopo Catania cedettero -anche queste con disonorevoli intrighi e tradimenti- Noto, Buscemi, Ferla, Palazzolo, Cassaro e Ragusa.Ma tutto il resto dell'isola si manteneva fedele a Federico III, che lasciato il comando di Messina a NICCOLÒ e DAMIANO PALIZZI, si era rinforzato a Castrogiovanni. Si trovava in questa inespugnabile città, quando, nel novembre del 1299, gli giunse la notizia che il principe FILIPPO di Taranto figlio di Carlo II, giunto sulle coste occidentali dell'isola con una flotta di circa cinquanta galee, numerose milizie e i più rinomati nobili francesi e del reame di Napoli, dopo aver depredato il territorio, si accingeva a stringere d'assedio Trapani.
LA BATTAGLIA DELLA FALCONARIA
Senza perder tempo Federico III riuniti tutti i cittadini abili alle armi di Castrogiovanni e quante milizie feudali si trovavano con lui, marciò alla volta di Trapani; lungo la via da Palermo e dalle contrade vicine raccolse altri uomini spontaneamente accorsi per unirsi a lui, e il 1° dicembre 1299, affrontò il nemico nella pianura della Falconeria, tra Marsala e Trapani, e qui diede battaglia.
L'esercito angioino era ordinato in tre schiere: alla destra si trovava il principe FILIPPO, al centro il maresciallo BROGLIO dei BONSI e alla sinistra il conte SANSEVERINO di MARSICO.
Federico III divise anche lui le sue truppe in tre schiere e diede il comando della sinistra a BLASCO ALAGONA con pochi cavalli e un consistente gruppo di almugaveri, la destra l'assegnò alla cavalleria di GIOVANNI CHIARAMONTE, VINCIGUERRA PALIZZI, MATTEO di TERMINI, MATTEO di QUERALTO e FARINATA degli UBERTI, congiunto certo del vincitore di Montaperti, con i fanti di Castrogiovanni; il centro, quasi tutto composto di pedoni, lo tenne per sé.
La prima ad entrare in battaglia fu la destra siciliana, che andò contro il Sanseverino. Vedendo questo attacco, Filippo d'Angiò ordinò ai suoi balestrieri a cavallo di dare contro gli almugaveri; mentre lui con i suoi cavalieri si spinse avventatamente contro Blasco, e trovando nella sinistra siciliana una energica resistenza, si spostò verso il centro, che perché formato da fanti, gli sembrava la parte più debole dello schieramento di Federico.Questa mossa gli fu fatale perché da una parte impedì al suo maresciallo Broglio dei Bonsi di entrare in battaglia, dall'altra permise a Blasco di accerchiarlo con i suoi terribili almugaveri, i quali ad un cenno del capo si misero a ferire selvaggiamente i cavalli francesi disarcionando i cavalieri; infine, Filippo, nella fanteria siciliana trovò una resistenza così aspra che in breve, invece di compiere una offensiva gli riuscì penoso perfino mettersi in difensiva.
Né alcun soccorso riuscirono a portargli il Sanseverino, impegnato com'era; e Broglio, il quale, affrontato dalla retroguardia degli almugaveri, non riuscì nemmeno a iniziare il combattimento perché una freccia o un colpo di lancia mortale lo aveva disteso morto a terra. Le cronache narrano che quel giorno sia Federico III sia Filippo entrambi diedero grandi prove di coraggio, esponendosi di persona in battaglia. Filippo, scontratosi con un catalano gigantesco, tal MARTINO PEREZ de ROS, fu ferito, disarcionato da cavallo e ruzzolato a terra, sarebbe stato sicuramente ucciso come un qualsiasi soldato se non diceva in tempo detto chi era e il suo nome.
L'energumeno lo risparmiò pensando che vivo come premio valeva più che morto, ma sopraggiunto Blasco Alagona lo voleva uccidere subito per vendicare su di lui la morte di Corradino. Filippo si salvò per il sopraggiungere di Federico III, che lo prelevò e lo mandò sotto buona guardia nel campo prigionieri.Nel frattempo anche la sinistra angioina era fatta a pezzi, e i superstiti insieme ai sopravvissuti del centro si davano a fuga precipitosa verso il mare vicino, dove la flotta che era al largo per ripararsi, guardava impotente la impressionante disfatta, né si accostarono, cosicché i pochi che cercavano scampo nell'imbarco, caddero o furono fatti prigionieri e solo pochi, durante la notte su alcune navi accostate alla riva, riuscirono a mettersi in salvo La giornata di Capo d'Orlando era stata vendicata!
Fra gli uccisi va rammentato il traditore PIER SALVACOSSA: inseguito da un certo GILETTO, siciliano, gli offrì in cambio della salvezza mille once d'oro, ma il soldato gli rispose: "Gran fatica è a contarle; conservale per i tuoi figli e tu, traditore, muori" e lo uccise.
La sera stessa del giorno della battaglia -che ricordiamo era il 1° dicembre 1299- FEDERICO III entrò vittorioso a Trapani, e subito inviò corrieri in tutta la Sicilia ad annunciare la vittoria; poi con l'esercito e i prigionieri marciò su Palermo, che lo accolse trionfalmente.Con la vittoria della Falconaria, la più grossa tra le battaglie combattutesi in campo aperto nella guerra del Vespro, si chiudeva il 1299. Un'altra sconfitta di poca importanza ma molto dolorosa e umiliante riservava ai Francesi l'anno successivo.
LA BATTAGLIA DI GAGLIANO
RUGGERO DI LAURIA era andato in terraferma a cercare nuova gente e, lasciando la Sicilia, aveva ammonito il principe Roberto a non avventurarsi a combattere il nemico, durante la sua assenza. Ma Roberto, impetuoso e imprudente, non tenne in alcun conto i consigli del saggio ed accorto ammiraglio e volle tentare ugualmente un'impresa che gli doveva dare in mano con poca fatica il castello di Gagliano, offertogli con il tradimento dallo spagnolo Montaner che ne comandava il presidio.
L'offerta nascondeva però un tranello, e BLASCO ALAGONA con pochi cavalli e una grosso contingente di almugaveri si era messo in agguato per sorprendere il nemico lungo la via. Per l'impresa l'incosciente credulone, si era scelto trecento cavalieri francesi sotto il comando del conte di BRIENNE, ai quali s'erano aggiunti il conte di VALMONTE, GOFFREDO DI MILI, JACOPO DI BRUSSON, GIOVANNI DI JOINVILLE, OLIVIERO DI BERLINGON, ROBERTO CORNIER, GIOVAN TRULLARD, GUALTIERO DI NOC E TOMMASO DI PROCIDA.
BLASCO ALAGONA avrebbe potuto coglierli alla sprovvista e, favorito dalle tenebre, farne uno scempio, ma il suo animo generoso e cavalleresco non accettava l'idea di assaltare un nemico come dei selvaggi briganti, quando i francesi gli furono poco lontani, li avvertì della sua presenza, facendo dar fiato alle trombe e gridare il suo nome: "Alagona ! Alagona !" Non contento di questo, lasciò il nemico durante la notte indisturbato e soltanto all'alba ordinò l'assalto contro i Francesi, i quali, pur avendo la possibilità di allontanarsi durante la notte, avevano voluto temerariamente rimanere ad aspettare il combattimento.
Ma la sorte non premiò tanto ardire: la battaglia fu aspra e ci furono anche mirabili prove della loro bravura, ma i trecento angioini caddero quasi tutti sul campo con le armi in mano mano: pochi furono i prigionieri e fra questi il conte di Brienne, il quale, circondato dagli almugaveri, si arrese a Blasco quando vide che tutto era perduto.Le vittorie della Falconaria e di Gagliano e quella riportata da PEREGRINO da PATTI nella primavera del 1300 su dodici galee angioine, diedero a Federico tanta sicurezza da spingerlo a portar la guerra in casa del nemico.
A questa ardita impresa lo spingevano anche i nuovi marchingegni di guerra di Carlo, che riceveva aiuti dalla Francia e dalla Spagna; e lo istigava pure la tenacia di Bonifacio VIII, che non cessava dal porgere aiuti finanziari all'Angioino, ordinava ai Gioanniti e ai Templari di passar con tutte le loro armi in Sicilia e riusciva perfino a staccare da Federico III i Genovesi, facendoli alleare con il re di Napoli.Federico III, inoltre, sognava anche di prendersi sul mare la rivincita e, confortato dalle imprese vittoriose di Peregrino, armò ventisette galee e, affidatone il comando al genovese CORRADO DORIA, le inviò sulle coste napoletane. La flotta risalì il Tirreno devastando le coste dell'Italia meridionale e, a giugno, si presentò nel golfo di Napoli a sfidare RUGGERO LAURIA, il quale aspettando aiuti e navi da Genova non accettò sul momento la battaglia.
Scambiando per paura la prudenza del Lauria, i Siciliani rimasero ad incrociare davanti al golfo orgogliosi di tenere braccato un così famoso ammiraglio.
Ma la loro sorveglianza non fu molto rigorosa: allontanatisi una notte verso Ponza, permisero a sette galee genovesi e dodici mandate da Catania dal principe Roberto entrassero nel porto di Napoli. Avuti quei rinforzi, Ruggero di Lauria uscì con cinquantotto galee contro il nemico che ne aveva soltanto trentadue.Nonostante i saggi consigli di PALMIERO ABATE, che affermava che non era prudente affrontare una flotta quasi due volte più numerosa, la battaglia fu accettata. Fu combattuta il 14 giugno del 1300 nelle acque di Ponza e il numero delle navi angioine e napoletane ebbero ragione del superbo valore mostrato dagli equipaggi di Sicilia.
Dopo una lotta impari e perciò tanto più gloriosa, sfasciate, sopraffatte, con le ciurme e i combattenti stanchi e coperti di ferite, i navigli di Federico caddero una dietro l'altra in mano del nemico, riuscirono a fuggire solo sette.Tuttavia fu questa una vittoria che giovò poco alle armi di Carlo, così come poco giovarono le conquiste fatte per intrighi e per tradimenti di alcuni castelli e terre nell'isola, né giovarono per il tentativo di costringere alla resa Messina.
Questa città, che diciannove anni prima aveva visto sotto le sue mura il poderoso esercito di Carlo I d'Angiò, vide nell'estate del 1301 quello del nipote ROBERTO. Più che con le armi il principe angioino sperava di avere la città con la fame, aiutato da una terribile carestia che affliggeva tutta l'isola; minacciato però, qualche tempo dopo, dall'arrivo di aiuti condotti da Blasco Alagona, passò di fronte, sulla costa Calabra e, posto il campo alla Catona, continuò a tener bloccata dalla parte del mare la città. Ma l'eroica Messina superò anche quest'ultima prova; rifornita di viveri da un audace frate templaro e fatte sfollare le bocche inutili in altre parti dell'isola, lottò ostinatamente contro i due nemici, gli angioini e la carestia, fino a quando a stancarsi fu Roberto d'Angiò, molto preoccupato dal propagarsi di un'epidemia fra le sue truppe. Concluse una tregua di alcuni mesi con Federico III e tolse l'assedio. La tregua era necessaria all'Angioino per prepararsi ad un ultimo poderoso sforzo, e questo fu fatto nella primavera del 1302. Comandante supremo di tutte le forze angioine era CARLO di VALOIS, chiamato in Italia dal Pontefice con lusinghiere promesse: con lui erano ROBERTO e RAMONDO BERENGARIO, figli di Carlo d'Angiò, molti baroni francesi, un esercito numeroso di fanti e cavalli e più di cento navi da battaglia.
Partita da Napoli nel maggio 1302, la flotta approdò verso la fine del mese a Termini, che fu presa senza colpo ferire. Ciò diede l'impressione che la spedizione dovesse riuscire felicemente.
Invece Federico III aveva preso tutte le misure contro il nemico; nell'inverno aveva costretto alla resa Aidone e Ragusa, aveva vettovagliato e rafforzato il territorio ed ora teneva d'occhio il nemico dalla vicina fortezza di Polizzi.Da Termini Carlo di Valois mandò ad assalire Caccamo, ma le prime schiere francesi che vi erano state inviate, battute dai difensori capitanati da GIOVANNI di CHIARAMONTE, furono costrette a ritirarsi. Non migliore fortuna ma semmai fu un dramma, il contingente che il Valois inviò per conquistare Corleone. Qui gli abitanti riservarono una bella accoglienza: ebbero l'ardire di lasciare aperte le porte al nemico, ma poi quando alcune schiere entrarono baldanzose nelle vie deserte, ad un segnale i Corleonesi come una furia si riversarono all'improvviso sulle strade e li fecero a pezzi; non contenti con audaci sortite infastidirono così tanto i Francesi che Carlo, dopo diciotto giorni d'inutile assedio, penso che la migliore cosa da fare era quella di togliere il campo.
Da Corleone il Valois passò a Sciacca e mentre la flotta la bloccava dalla parte del mare lui l'assediava da terra. Era la metà di luglio sempre del 1302, e Sciacca era fermamente decisa a resistere, confortata dalla vicinanza di Federico, che da Polizzi si era rafforzato nella fortissima Caltabellotta. Qui giungevano al re di Sicilia le notizie dell'assedio e della coraggiosa difesa di quei cittadini; più gradite forse gli pervenivano altre notizie dal campo nemico; infatti, un'epidemia misteriosa faceva strage di cavalli e di uomini, oppressi questi ultimi anche dalla stagione caldissima e dal clima malsano.Consigliato dai baroni siciliani, Federico III da Caltabellotta inviò ordini a tutte le milizie feudali dell'isola; che si raccogliessero a Corleone per dare poi tutti insieme battaglia al nemico.
Se avesse attaccato i Francesi con le sole forze di cui allora disponeva forse avrebbe ugualmente ottenuto la vittoria; ma Federico volle esser prudente; e voleva lasciare che il nemico -fra malattie, caldo e fatica- si logorasse all'assedio ed aspettare che le milizie siciliane si adunassero più numerose per muovere a sicura vittoria.
Il Valois dei preparativi del re ovviamente ne venne a conoscenza e conscio della propria debolezza, pensò che, insistendo nell'assedio, sarebbe andato a sicura rovina. Due vie gli restavano come scelta: togliere subito il campo, imbarcandosi con tutto l'esercito sulla flotta oppure tentar la sorte delle armi.
Non volle seguire né l'una né l'altra, perché la prima sarebbe parsa una vergognosa fuga, la seconda lo avrebbe condotto alla sicura sconfitta.
Seguì pertanto il consiglio che gli sembrò -ed era difatti il migliore- di trattare la pace con Federico.
E pace e non tregua doveva essere, perché Federico, nelle favorevoli condizioni in cui si trovava, non avrebbe accettato di sicuro una temporanea sospensione delle ostilità.I preliminari della pace furono negoziati a Castronovo il 19 di agosto; il 24 dello stesso mese tra Caltabellotta e Sciacca, - scrive l'Amari - in certe capanne di bifolchi, giunsero, con cento cavalli ciascuno, Federico III e Carlo II di Valois; parlarono soli per molto tempo; poi fu chiamato Roberto.
Forse non senza pianto s'incontrarono Roberto e il siciliano re per la perdita di Jolanda, amorevolissima ad entrambi, giovane, bella, di santi costumi, genio di pace tra lo sposo e i1 fratello; era morta a Termini sola, mentre uno era all'assedio di Sciacca, l'altro era pronto a piombargli addosso.
Nell'incontro dei tre principi furono pure chiamati da una parte RUGGERO LOIRA, dall'altra VINCIGUERRA PALIZZI, e altri nobili e capitani. Le trattative durarono cinque giorni, ma i preliminari presentati da Federico III mutarono di poco.

Il giorno 29 agosto 1302, fu firmata la pace, il giorno 31 fu solennemente giurata. I patti di quella che fu detta "PACE DI CALTABELLOTTA", erano i seguenti: Federico III conservava, con il titolo di re di Trinacria, la Sicilia, indipendente dal Papa e da Carlo II d'Angiò; Eleonora, figlia di costui, doveva essere data in sposa a Federico III, e ai figli che da tale matrimonio fossero nati sarebbe stato procurato il reame di Sardegna o di Cipro.
Federico doveva restituire le terre occupate nella terraferma, Carlo quelle prese in Sicilia; senza riscatto doveva esser liberato Filippo e scambiati i prigionieri; ai sudditi di entrambi i re passati al nemico doveva essere concesso il perdono, ma non restituiti i feudi. Erano esclusi però Ruggero di Lauria e Vinciguerra Palizzi: l'uno avrebbe tenuto il castello d'Aci, in Sicilia, l'altro Calanna, Motta di Mori e Messa, in Calabria. Da ultimo sarebbero stati restituiti i beni ecclesiastici confiscati in Sicilia e Carlo di Valois si sarebbe adoperato ad ottener la ratifica del trattato da Bonifacio VIII e da Carlo d'Angiò.
Il re di Napoli confermò subito la pace, ma il Pontefice, sebbene ribenedicesse Federico ed accordasse la dispensa per le nozze con Eleonora, volle che fossero apportate al trattato modifiche in suo favore, chiedendo che Federico si tenesse pure l'isola ma come feudo della Chiesa; che gli pagasse un censo annuo di tremila once d'oro; che gli fornisse, occorrendo, trecento cavalli con stipendio per tre mesi; che restituisse alle chiese il possesso di quanto godevano prima del 1282; che rifornisse la Santa Sede per l'impresa di Terrasanta di diecimila misure di grano senza gabella e, infine, che prendesse il titolo di re di Trinacria. Federico non disse di no alle modifiche pretese dal Pontefice e questo gli permise il 21 maggio del 1303 di far ratificare il trattato al Papa.
È bene però notare che non a tutte le modifiche Federico tenne fede: non pagò infatti mai a Roma il censo; riprese pochi anni dopo la guerra; si fece ancora chiamare re di Sicilia e infine fece riconoscere come suo successore dal parlamento siciliano Pietro II. Di questo re Michele Amari ci lasciò un ritratto che per la precisione e la concisione merita di essere riferito:
(lo riportiamo integralmente nella sua sintassi originale)

"Federico III, Ebbe animo gentile, affabile, adorno dalle lettere, dato agli amori, pieghevole alle amicizie ma troppo, sì che si reggea ai consigli di favoriti: e ne nacque il turbolento parteggiar della sua corte, che lo portò ad estremo pericolo con la ribellione di Ruggero di Lauria, e, posate le armi di fuori, accese in Sicilia le dissensioni civili. Nei maneggi di Stato non fu molto accorto o magnanimo: né coraggio politico ebbe, al pari di un soldato, questo principe, che nel 95 si lasciò raggirar da Bonifazio, e per poco non tradì i Siciliani, né seppe spegnere né accarezzare i suoi baroni; e dopo questa pace, ripigliando le armi al tempo dell'imperatore Arrigo di Luxemburg, troppo osò, poco mantenne, meritò nota, ancorchè troppo severa, di avarizia e viltà, da quel Dante che a lui si era volto, come all'erede del grande animo di re Pietro. Tal sembra, su i più certi riscontri storici, Federico III, lodato a cielo da Speciale, suo ministro, da Montaner soldato di ventura catalano, e ammirato dalle età seguenti, perché a lui si è dato quanto oprarono ne' primordi del suo regno i Siciliani, esaltati ad eroiche virtù dalla rivoluzione del vespro. Ma anche se non si levasse con la sua mente all'altezza di gran capitano o uomo di Stato, avrà sempre una splendida pagina nelle storie siciliane, come franco e schietto, costante nelle avversità, solerte in guerra, prode in battaglia, vigilante nel civile governo, umano con i sudditi, degnissimo di fama per le generose leggi politiche che restano con il suo nome, le quali se non le dettò lui, ebbe però la prudenza e la magnanimità di assentirle"
Federico, quando accettò la corona offertagli dai Siciliani nel 1296, si intitolò terzo per continuità con la dinastia sveva da cui discendeva.
Federico III era nato nel 1272, figlio di Costanza che era la figlia di Manfredi e nipote di Federico II. La donna nel 1262, a quindici anni, aveva sposato Pietro III D'Aragona.
Fu per questi natali Svevi, legittimata ad aspirare al trono di Sicilia, conseguito con il marito, subito dopo la "Rivolta del Vespro" nel 1282.
Costanza fu madre di Alfonso III (morto nel 1295) e di Giacomo e Federico; i due fratelli che nel periodo di queste pagine abbiamo visto combattersi. Federico III, vivrà fino 1337. Nel 1313 designò il figlio Pietro suo erede.

Lasciamo ora i due regni dell'Italia meridionali, e ritorniamo a quelli dell'Italia Centrale e Settentrionale.
poi segue il periodo delle Civiltà Comunali
delle Signorie e dei Principati
continua seguendo i fatti in Toscana > > >
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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