ANNI 1300 - 1308

SIGNORIE E PRINCIPATI 
L'ITALIA NEL PRIMO DECENNIO DEL SECOLO XIV 


(vedi cartina delle "SIGNORIE" - attendere con pazienza il caricamento)

LE SIGNORIE - GLI ALERAMICI, I SAVOIA, GLI SCALIGERI, GLI ESTENSI E I TORRIANI - MATTEO VISCONTI - ALBERTO SCOTTO E LA LEGA CONTRO I VISCONTI - ALBERTO "SCOTTO ABBANDONA PIACENZA - GUERRA DI SUCCESSIONE NEL MONFERRATO - L'ERESIA DI FRA DOLCINO - ELEZIONE DI BENEDETTO XI - SUO PONTIFICATO E SUA MORTE - VACANZA DELLA SANTA SEDE - ACCORDI TRA FILIPPO IL BELLO E L'ARCIVESCOVO BERTRAND DE GOT - ELEZIONE DI CLAMENTE V - SUA INCORONAZIONE A LIONE - II PAPATO SCHIAVO DELLA CORTE DI FRANCIA - DIVISIONI DEI NERI E DISORDINI IN FIRENZE - FALLITO TENTATIVO DEI BIANCHI DI RIENTRARE IN FIRENZE - FIORENTINI E LUCCHESI, CAPITANATI DA ROBERTO DI CALABRIA, ASSEDIANO PISTOIA - NAPOLEONE ORSINI IN TOSCANA - UCCISIONE DI CORSO DONATI - MORTE DI AZZO D' ESTE E GUERRA TRA IL PAPA E VENEZIA - ROBERTO D'ANGIÒ RÈ DI NAPOLI
----------------------------------------------------------------------------  

LE SIGNORIE DI ORIGINE FEUDALE E COMUNALE  NELL'ALTA ITALIA 

Tra il 1200 e il 1300, nel periodo di maggior espansione dell'economia cittadina, una nuova classe si impose sul piano economico e politico, la borghesia. Essa, pur divisa all'interno da violenti contrasti, giunse presto a dividere con l'aristocrazia il governo delle città e, in qualche caso, ad appropriarsene. I continui contrasti e le lotte tra le fazioni rivali dei Comuni, portarono alla formazione delle Signorie, ossia di un governo accentrato nelle mani di uno solo, la cui autorità garantiva la pace dello Stato. I signori ottenevano dal papa o dall'imperatore il riconoscimento del loro potere, divenendo così vicari apostolici o vicari imperiali. Arrivarono poi a trasformare lo Stato in ereditario, assumendo titoli di tradizione feudale.

Alla nascita delle Signorie e al loro rafforzamento contribuirono 
spesso le
COMPAGNIE DI VENTURA sorta di milizie mercenarie 
che combattevano ora per un signore ora per l'altro. 


 Mentre tramonta il secolo XIII tramontano anche in Italia i Comuni e sorgono qua e là le prime signorie d'origine comunale che vengono ad aggiungersi a quelle di origine feudale.  La storia italiana degli ultimi anni del Duecento e dei primi del Trecento è, specie nel centro e più nel settentrione, la storia di questo passaggio dal regime comunale a quello signorile.  Fin alla morte di Federico II due sole signorie si erano formate nell' Italia comunale": quella degli ESTENSI a Ferrara e quella dei DA ROMANO nel Veneto, poi a poco a poco si generalizzò nella Lombardia, nel Veneto e nella Romagna la tendenza di dare il potere, per un lungo periodo d'anni, o a vita, a un cittadino col titolo di podestà o capitano del popolo o signore e così a Milano nel 1365 dominò Napoleone DELLA TORRE e, poco più tardi, a Mantova i BONACCOLSI, a Verona gli SCALIGERI, a Treviso i DA CAMINO, a Ravenna e a Cervia i DA POLENTA, a Rimini i MALATESTA, ad Urbino i MONTEFELTRO

Delle regioni settentrionali d'Italia quella dove il moto comunale si era sviluppato di meno era il Piemonte. Qui — se si eccettuino Asti, Chieri, Vercelli e Tortona, che avevano raggiunto piena autonomia — si era mantenuto il regime feudale. Tra le famiglie feudali del Piemonte spiccavano quelle degli ALERAMICI e dei SAVOIA. Secondo la leggenda gli Aleramici provengono da un Aleramo, primo marchese del Monferrato e discendente dell'eroe germanico Vitichindo, ma pare ch'essi siano di origine franca e avessero legami di parentela con Guido, marchese di Spoleto e re d'Italia. Nel secolo X troviamo gli Aleramici stabiliti tra la Riviera Ligure e gli Appennini, donde poi estesero i loro domini nei comitati di Savona, Acqui, Sant' Evasio e Vercelli, dividendosi in parecchi rami fra cui acquistò importanza quello dei marchesi del Monferrato. A questo ramo appartennero quel Guglielmo IV che, alleato di Federico Barbarossa, combattè contro i Comuni lombardi, e Bonifacio che guidò la IV crociata e, fatto re di Tessalonica, morì guerreggiando contro i Bulgari nel 1207. 

Nella seconda metà del Duecento, marchese del Monferrato era Guglielmo VII, il quale nel 1290 aveva raggiunto grande potenza: aveva sposato una figlia dell'imperatore bizantino Andronico Paleologo ed era signore, oltre che dei suoi feudi ereditari, di Novara, Tortona Alessandria e Pavia. Da quest'ultima città cercarono di scacciarlo i Milanesi, ma ne furono sconfitti e, poiché il marchese volgeva le mire su Asti, si unirono in lega contro di lui Milano, Cremona, Piacenza, Genova e il conte di Savoia. Ai collegati riuscì per mezzo di diecimila fiorini di ribellare Vignale al marchese e tentavano di togliergli con una somma tre volte maggiore Alessandria, quando Guglielmo, saputa la cosa, si precipitò con una piccola scorta di armati nella città e, sebbene il popolo tumultuasse, riuscì a penetrarvi. La sua audacia gli fu fatale: giunto davanti al palazzo del comune fu fatto prigioniero e, messo in una gabbia di ferro, vi morì dopo diciotto mesi nel 1292.

CASA SAVOIA

Anche da Vitichindo la leggenda fa discendere la CASA di SAVOIA, ma dagli storici moderni l'origine di essa è posta in una famiglia feudale della Borgogna. Abbiamo parlato altrove del capostipite UMBERTO BIANCAMANO, che nel secolo XI era signore della contea di Moriana, della Tarantasia, del Ciablese e di una parte del Vallese, e che nel 1032 capitanò la spedizione di Ariberto d'Intimiano in Borgogna. 
In Italia la stirpe sabauda prese stanza col matrimonio di Oddonè figlio di Umberto con Adelaide della casa degli Arduini, signora di Susa e di Torino. Da allora l'azione dei Savoia ebbe per campo i due versanti delle Alpi Occidentali: in quello francese contro i signori del Delfinato e le città svizzere, in quello italiano contro i marchesi di Monferrato e di Saluzzo e alcuni comuni, specialmente quello di Asti. 

Fra i principi di questa casa vanno ricordati Amedeo II (1103-1148) che fu il primo a portare il titolo di Conte di Savoia e morì in Cipro di ritorno dalla seconda Crociata; Umberto III (1148-1189) che partecipò alla guerra tra il Barbarossa e i Comuni, ingrandendo i suoi domini, e Tommaso II (1253-1269) che, dopo di aver sottomesso Chieri, Moncalieri, Carignano e Pinerolo, fu sconfitto da una lega di comuni capeggiata da Asti e fatto prigioniero. Dopo la morte di Tommaso, la casa sabauda si divise in trE rami: quello di Piemonte, che più tardi fu chiamato di Acaia per il matrimonio di Filippo, nipote di Tommaso II, con Isabella di Villehardouin, erede del principato di Acaia nella Morea; quello di Vaud e quello di Savoia. Quest'ultimo ramo ebbe il predominio sugli altri due e con Amedeo V, che per le virtù civili e militari fu detto il Grande, accrebbe il prestigio della casa e i domini. 

Nel 1266 Amedeo divenne signore di Seystel e Montfalcon per cessione di Margherita di Francia, nel 1287 espugnò il castello dell' isola di Ginevra, nel 1290 combattè — come si è detto — contro Guglielmo III del Monferrato, nel 1291 ebbe la signoria di Berna, nel 1292 conquistò Sjon, nel 1294 acquistò Chambery che divenne sede del governo sabaudo; dal 1305 al 1309 s'impadronì di Baratonia, Varisella, San Gilio, Monastero, Ceronda, Balangero, Ciriè, Barbania, Settimo e Bocca di Corìo; nel 1310 avrà dal cognato Enrico III il castello di Grasburgò e nel 1313 Asti, Ivrea e il Canavese; nel 1314 sarà signore di Fossano, Riva e Cavalermaggiore e infine avrà, per cessione di Roberto d'Angiò, Savigliano, Bra, Buttifera, Casteinuovo, Villanova e Montemagno. 
--------------------------------------------

SCALIGERI - ESTENSI - TORRIANI

Fra le signorie d'origine comunale nella seconda metà del Duecento e nei primi anni del Trecento le più importanti erano quelle degli SCALIGERI, degli ESTENSI e dei TORRIANI. Fondatore della prima fu Martino della Scala, il quale, eletto nel 1262 dopo la fine di Ezzelino, podestà e capitano del popolo, resse Verona fino al 1277, nel quale anno, essendo stato ucciso dai nobili, gli successe il fratello Alberto, che visse fino al 1301 ed ebbe come successori prima il figlio Bartolomeo, poi, col titolo di capitani generali del popolo e del comune, i fratelli Alboino e Cangrande. 
Degli ESTENSI abbiamo qua e là dette le vicende dopo la caduta di Salinguerra. Morto nel 1293 Obizzo d' Este, gli successe il primogenito AZZO VIII; gli altri due figli Aldobrandino e Francesco, rimasero senza signoria. Ad Aldobrandino fu dato il governo di Modena, ma, volendo egli insignorirsene, fu dal fratello Azzo sconfitto e costretto a rifugiarsi in Bologna. Questa città, istigata forse da Aldobrandino, forse gelosa della potenza della famiglia d' Este, strinse nel 1295 coi Parmigiani, coi Bresciani, coi Milanesi e coi Piacentini una lega contro Azzo, il quale a sua volta si unì con Maghinardo da Susinana, con Scarpetta degli Ordelaffi, con Uguccione della Faggiola, coi Lambertazzi e coi ghibellini di Ravenna, Rimini e Bertinoro. 

La guerra tra le due leghe ebbe varie vicende: i Bolognesi vennero prima sconfitti al passo del fiume Santerno, persero Imola ed ebbero il territorio invaso da tre eserciti nemici, comandati da Azzo, dal fratello Francesco e dal conte Galasso da Montefeltro e Maghinardo; poi, ricevuti aiuti dai Fiorentini, dai Polentani e dai Malatesta, passarono all'offensiva, ripresero Savignano, s'impadronirono di Bazzano e Montese e sostennero vigorosamente la lotta fino al 1299, nel quale anno la guerra ebbe termine per intromissione del Pontefice. 

Anche dei Torriani abbiamo narrato i casi in altre pagine di questa storia ed abbiamo visto come l'arcivescovo OTTONE VISCONTI, a capo dei fuorusciti ghibellini ed aiutato da Alfonso di Castiglia e dal Marchese di Monferrato, sconfitto a Desio il 21 gennaio del 1277 Napoleone della Torre, entrasse in Milano trionfalmente accolto dal popolo che lo acclamò signore perpetuo.
 
OTTONE fu il fondatore della fortuna della sua famiglia. Nel 1287 fece dal popolo nominare il nipote Matteo capitano per un anno, nel 1290 gli fece confermare la stessa carica dalle città di Novara e di Vercelli e alcuni anni più tardi gli fece conferire dall' imperatore Alberto di Nassau il titolo di vicario imperiale in Lombardia. Morto nel 1295 l'arcivescovo Ottone, Matteo Visconti gli successe nella signoria di Milano. La sua opera fu rivolta ad estendere i suoi domini e a procurarsi per mezzo di matrimoni, potenti alleati: difatti approfittando della giovane età di Giovanni, figlio di Guglielmo VII, obbligò i Monferrini a dargli il titolo di capitan generale e il giovane marchese a mettersi per cinque anni sotto la sua tutela; nel 1298 diede una sua figlia in sposa ad Alboino della Scala, signore di Verona ed uno dei più potenti capi del partito ghibellino, e nel 1300 fece sposare il proprio figlio Ga- leazzo con una figlia del marchese Azzo d' Este, Beatrice, vedova del conte Sino di Gallura; inoltre, intervenendo nelle discordie che laceravano Bergamo, si insignorì nel 1301 di questa città. 

Questa politica di Matteo Visconti non poteva certamente riuscir gradita ai signori vicini, fra i quali potente ed ambiziosissimo era ALBERTO SCOTTO, che dal 1290 teneva la signoria di Piacenza. Questi, geloso della potenza del Visconti ed offeso per le nozze di Beatrice d' Este che prima era stata a lui promessa, organizzò contro Matteo una lega, nella quale entrarono FILIPPONE LANGOSCO signore di Pavia, Antonio da FISIRAGA signore di Lodi, Corrado BUSCA signore di Como, Venturino BENZONE signore di Crema, il marchese GIOVANNI di Monferrato, i CAVALCABÒ di Cremona, i BRASATI di Novara, gli AVOGADRI di Vercelli, i TERNANI esuli nel Friuli e alcuni parenti dello stesso Matteo. 

I confederati radunarono le loro milizie nella Chiara d'Adda e contro di essi, lasciato in Milano GALEAZZO con poche truppe, uscì Matteo. La decisione della guerra si ebbe senza che si venisse alle armi: essendo stato Galeazzo cacciato dal popolo milanese e non giungendo i soccorsi chiesti al marchese d'Este, Matteo Visconti, disperando, con le sue scarse forze di potere tener testa a tanti nemici, entrò in trattative con Alberto Scotto ed ebbe pace a condizione che rinunziasse alla signoria, che fossero richiamati tutti gli esuli e che lui, da privato cittadino, si ritirasse nel castello di San Colombano. 
Entrati in Milano i DELLA TORRE non tardarono a riacquistarvi l'antico potere: Guido, capo della famiglia, fu eletto prima capitano del popolo, poi signore a vita, e Gastone fu creato arcivescovo.

 Fiaccata la potenza dei Visconti, che appartenevano alla fazione ghibellina, Alberto Scotto cercò di trarre profitto dalla vittoria e di estendere la propria influenza nella Lombardia e, a danno degli Estensi, nell' Emilia. Nel luglio del 1302 pertanto formò una lega tra Milano, Piacenza, Pavia, Bergamo, Lodi, Asti, Novara, Vercelli, Crema, Como, Cremona, Alessandria e Bologna e di essa fu nominato capo. Ma venuto ben presto in sospetto della lega, ne fu nel 1303 scacciato e allora lo Scotto, pentitesi di avere aiutato i Torriani, si accostò ai Visconti, ai Bonaccolsi di Mantova, agli Scaligeri e a Gilberto da Correggio, signore di Parma.
 
Nel 1304 le milizie della lega guelfa vennero ad attaccare Alberto Scotto in Piacenza, ma, visto che gli stessi Piacentini si erano ribellati al loro signore, si ritirarono. In difesa dello Scotto era venuto da Parma Gilberto con duemila uomini. Questi, malgrado l'alleanza che lo univa ad Alberto, volendo volgere in suo favore la ribellione dei Piacentini consigliò lo Scotto ad abbandonar la città che promise di restituirgli non appena fosse stata domata la sedizione. Partito Alberto Scotto, Gilberto da Correggio tentò di farsi proclamare signore di Piacenza; ma il popolo, che non si era ribellato per cambiar padrone, costrinse con le armi l'intruso ad abbandonare la città, nella quale solo nel 1309 doveva rientrare lo Scotto, cacciandone le milizie di Guido della Torre che ne era stato eletto capitano. 

L'anno dopo la ribellione di Piacenza, moriva (gennaio del 1305) Giovanni di Monferrato e una nuova guerra si delineava nel Piemonte per la successione in quel marchesato. Con la morte di Giovanni si era estinto il ramo maschile degli Aleramici: non rimaneva che una sorella di lui, Iolanda, moglie dell'imperatore bizantino ANDRONICO PALEOLOGO. I Monferrini, riunitisi a Torino, spedirono messi a Costantinopoli per avvisare imperatrice che era stata dal fratello istituita erede, e intanto affidarono il Monferrato al marchese MANFREDO di Saluzzo. Iolanda mandò in Italia il figlio secondogenito TEODORO; ma quando questi, nel 1306, giunse in Piemonte, si vide negare il marchesato da Manfredo che vi vantava dei diritti. Aiutato dagli SPINOLA di Genova e da Filippone LANGOSCO di Pavia con cui era imparentato, Teodoro mosse guerra al marchese di Saluzzo, il quale fu sostenuto dai DORIA e da Carlo II d'Angiò. A questa guerra prese parte Filippo d'Acaia ch'era stato nominato capitano d'Asti, il quale sperava di acquistare parte del Monferrato e quindi farsi eleggere signore perpetuo di Asti e Chieri. 

In una battaglia combattutasi nell'agosto del 1307 Teodoro fu sconfitto e Filippone di Langosco, fatto prigioniero, venne mandato in un castello angioino di Provenza. Filippo d'Acaia riuscì ad occupare una parte del Monferrato e chiese la signoria di Asti, ma, essendogli stata rifiutata, se ne allontanò. Poco dopo, Carlo II d'Angiò, pregato dagli Spinola, da cui sperava aiuti navali contro la Sicilia, liberò Filippone di Langosco e si ritrasse dalla guerra e così Teodoro, uscito dalla lotta con un così potente avversàrio, potè trionfare dei suoi nemici. 

Era questo il tempo in cui, nel Novarese, FRA DOLCINO predicava la sua eresia e traeva dietro di sé una turba di uomini e donne, che dicendo di voler menare una vita simile a quella degli Apostoli, andavano peregrinando pei monti della Val d'Ossola. E mentre ferveva la lotta per la successione del Monferrato, una crociata veniva bandita dal vescovo di Vercelli contro l'eresiarca, il quale, ridottosi con l'amante Margherita e numerosi seguaci sul monte Zebello, dopo ostinata difesa, costretto dalla fame ad arrendersi e rifiutandosi di abiurare alle sue dottrine, era arso vivo nel 1307.

---------------------------------

PONTIFICATO DI BENEDETTO XI E CLEMENTE V
 TENTATIVO DEI BIANCHI DI RIENTRARE IN FIRENZE 
ASSEDIO DI PISTOIA — MORTE DI CORSO DONATI 
GUERRA TRA IL PAPA E VENEZIA — ELEZIONE DI ROBERTO D'ANGIÒ.

Il  sorgere di leghe, nell' Italia settentrionale, che si chiamavano guelfe e ghibelline potrebbe far credere che il Pontefice e l'imperatore avessero dato motivo al rifiorire delle vecchie fazioni. Niente invece di tutto questo. Ghibellinismo e Guelfismo, intorno al 1300, erano soltanto dei nomi consacrati dalla tradizione, erano colori di cui si rivestivano comuni e signori nemici tra loro, ma, cessata la gran lite tra il Papato e l'Impero, avevano perduto la loro ragione d'essere. 
Né i Ghibellini d'Italia, prendendo le armi, pensavano di giovare alla causa già spenta, dell' imperatore e lo stesso si dica dei Guelfi. 
Diserto era il giardino dello imperio, al dir di Dante, e dopo la morte di Federico II nessun imperatore aveva visto l'Italia e cinta la corona a Roma; ne Rodolfo I (1273-1291), ne Adolfo di NASSAU (1292-1298), nè ora Alberto I d'ABSBURGO (1298-1308). D'altro canto, finita la teocrazia con BONIFACIO VIII, il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie e si incamminava per una via che era quella dell'esilio. Il successore di Bonifazio fu NICOLA BOCCASSINI, uno dei due cardinali che erano rimasti presso il Pontefice quando ad Anagni aveva fatto irruzione GUGLIELMO NOGARET. 
Era nato presso Treviso da oscura famiglia sessantatrè anni prima e il suo grande ingegno e le sue virtù lo avevano fatto, per gradi, pervenire alla dignità cardinalizia. Eletto Papa il 22 ottobre del 1303, prese il nome di BENEDETTO XI. Ma non era il Papa che ci voleva dati i tempi che correvano. Turbolenti erano i cardinali e potenti per ricchezze e parentele, come gli ORSINI, irrequiete le fazioni romane e i COLONNA, malgrado la scomunica, erano rientrati in Roma.

Per dominare i partiti, abbassare l'orgoglio dei porporati e raccogliere con frutto e dignità la difficile eredità di Bonifazio ci voleva un Pontefice che potesse contare su potenti relazioni, sull'aiuto di ricchi congiunti, sul prestigio della famiglia e fosse dotato di carattere energico e battagliero. E invece Benedetto XI era povero, mite d'animo e alieno dalla lotta. Egli comprese, che rimanendo a Roma, gli sarebbe stato impossibile  governare la Chiesa, e adducendo come pretesto l'aria malsana della città, dopo la Pasqua del 1304, lasciò Roma col proposito forse di stabilire la sede apostolica nell' Italia settentrionale. Invece si fermò a Perugia e, incline com'era alla pace, mandò a Firenze un cardinale per conciliare i BIANCHI e i NERI, ma, essendo i suoi tentativi riusciti vani, riconfermò l'interdetto che il suo legato aveva lanciato sulla città toscana. Da Perugia sono datati gli atti più importanti di Benedetto XI, che sono consacrati in due bolle: quella del maggio e quella del giugno del 1304. Con la prima egli commetteva un atto di estrema debolezza assolvendo Filippo il Bello e i suoi ministri dalla scomunica in cui erano incorsi per aver maltrattato quelli che andavano a Roma o vi mandavano denaro; con la seconda però dava prova di un'energia di cui nessuno lo avrebbe creduto capace.

In questa bolla il Pontefice condannava con indignazione l'ingiuria fatta al suo predecessore ed esprimeva la ferma volontà di punire i colpevoli. «Abbiamo — scriveva — prorogata fino ad ora, per giusti motivi, la punizione dell'esecrando delitto che alcuni scellerati commisero contro la persona del nostro predecessore, Bonifazio VIII, di felice memoria. Ma non possiamo più oltre tardare a muoverci, anzi Dio medesimo deve muoversi con noi per disperdere i suoi nemici e scacciarli dalla sua presenza ». 

Quindi elencava tutti coloro che erano stati partecipi della brutale aggressione di Anagni, tra i quali erano Guglielmo di NOGARET e quattordici nobili, la maggior parte italiani, e dopo aver rievocato a foschi colori la triste scena, aggiungeva: «Avendo pertanto osservate le forme di diritto, dichiariamo che i su nominati, e tutti quegli altri che parteciparono alla delittuosa azione, e tutti coloro che con la propria persona concorsero nelle violenze commesse contro Bonifazio VIII in Anagni, e, infine, tutti quelli che fornirono aiuto, consiglio e favore, sono incorsi nella sentenza di scomunica pronunciata dai sacri canoni. Con il consiglio dei nostri fratelli e in presenza di questa moltitudine di fedeli, li citiamo categoricamente a comparire personalmente davanti a noi prima della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per udire la giusta sentenza che con l'aiuto del Signore pronunzieremo sugli attentati di cui abbiamo discorso». 

Il nome di Filippo il Bello non era fatto, ma era evidente che anche sopra di lui cadeva la scomunica. Narra il cronista vicentino Ferreto che Filippo di Francia, volendosi vendicare del Pontefice, per mezzo dei cardinali Orsini e Giovanni il Monaco, corruppe due scudieri del Papa, i quali diedero a Benedetto XI dei fichi avvelenati. Anche il cronista Villani parla di fichi avvelenati, ma li dice inviati dalla badessa di Santa Petronilla. Forse per veleno o, com'altri crede, per indigestione, meno di un mese era trascorso dalla pubblicazione dell'ultima bolla quando, il 4 luglio del 1304, il Pontefice morì.

 I cardinali, in numero di venticinque, si riunirono in conclave nel palazzo arcivescovile di Perugia; ma non era facile procedere all'elezione del nuovo Pontefice. In  due parti era diviso il Sacro Collegio: una, fedele alla politica di Bonifazio VIII, era capeggiata da MATTEO ROSSO degli Orsini; l'altra ligia al re di Francia, era guidata dal cardinale NAPOLEONE degli Orsini. Passarono difatti parecchi giorni senza che si venisse ad una decisione. Finalmente fu fatto un compromesso tra le due fazioni cardinalizie: su proposta del cardinal D'Acquasparta, che segretamente favoriva il partito francese, si stabilì che la fazione italiana dovesse proporre tre nomi di prelati stranieri tra i quali la fazione avversa avrebbe scelto il futuro Papa. I cardinali italiani proposero tre prelati francesi notoriamente nemici di Filippo il Bello, tra i quali l'arcivescovo di Bordeaux BERTRAND DE GOT, favorevole a Bonifazio VIII  nella contesa col re di Francia.
 
Erano gli Italiani certi di aver in uno dei tre un Pontefice amico loro sebbene straniero; gli avversari manovrarono in modo da conciliare a Filippo il prelato che doveva essere scelto. Infatti, avvisato in tempo, il re di Francia si abboccò con l'arcivescovo Bertrand e, assicurandolo del suo appoggio nella scelta, si fece promettere che lo avrebbe assolto coi suoi dalla scomunica, che per cinque anni gli avrebbe concesso le decime delle chiese francesi, che avrebbe fatto condannare la memoria di Bonifazio e ammettere nella dignità cardinalizia Giacomo e Pietro Colonna. Dopo ciò i cardinali francesi scelsero l'arcivescovo di Bordeaux e il 5 giugno del 1305, dopo una vacanza di dieci mesi e ventotto giorni, egli venne eletto Pontefice. 

I cardinali, notificandogli l'elezione, lo pregavano di recarsi subito in Italia per l'incoronazione; ma egli che ormai era in balia del rè e che sapeva che difficilmente avrebbe potuto esercitare la sua autorità in Roma senza appoggi e in mezzo alle turbolenze delle fazioni, aveva già deciso di risiedere in Francia e, rispondendo ai Cardinali che accettava la tiara e prendeva il nome di Clemente V, ordinò loro di recarsi a Lione dove voleva essere incoronato. I cardinali, loro malgrado, dovettero ubbidire e l' 11 novembre del 1305 ebbe luogo in Lione l'incoronazione. Ma la cerimonia fu funestata da un luttuoso incidente che dal popolo venne interpretato come un castigo di Dio per l'abbandono di Roma: mentre la processione attraversava le vie della città, un muro cedendo forse al peso della gente che vi era sopra, crollò proprio nel momento in cui passava il Pontefice su un cavallo tenuto per le briglie da Filippo il Bello e da Carlo di Valois. Un fratello di Clemente e un cardinale perirono sotto le macerie; Carlo di Valois e molti altri rimasero feriti e lo stesso Pontefice fu sbalzato a terra. 

Tre anni dopo un terribile incendio che distrusse il Laterano pareva ai Romani la conferma dell'indignazione divina prodotta dall'abbandono della sede naturale del Papato. Clemente V non tardò a rivelarsi un servo devoto del re di Francia: ridiede un mese dopo la sua incoronazione la porpora a Giacomo e a Pietro Colonna, creò dieci nuovi cardinali francesi, assolse dalla scomunica Filippo e tutti i suoi complici, concesse al sovrano le decime ecclesiastiche, lo autorizzò a scacciare dal reame tutti gli Ebrei e a confiscare i loro beni e infine bandì una crociata che, sotto la guida di Carlo di Valois, doveva conquistare l'impero bizantino, togliendolo ad Andronico Paleologo accusato di non sapersi opporre ai progressi d'un nuovo nemico della Cristianità: il Turco.

 Sollecitato dal Valois, che, essendo sposo di Caterina di Fiandra, vantava diritti su Costantinopoli, scrisse nel marzo del 1307 all'arcivescovo di Ravenna e ai vescovi della Romagna, della marca di Ancona e dello stato di Venezia perché bandissero la crociata contro i Greci; minacciò la scomunica a quei principi cristiani che osassero sostenere il Paleologo; tentò di far partecipare all'impresa Federico di Sicilia e invitò anche le repubbliche di Genova e di Venezia affinché fornissero le loro flotte. Ma la crociata non ebbe luogo perchè in quel frattempo Caterina venne a morte, le risorse finanziarie del Valois si esaurirono, Federico III faceva comprendere di voler per sé parte dei profitti dell' impresa e Veneziani e Genovesi, sebbene in pace dal 1299, si guardavano sempre in cagnesco e gli uni promettevano aiuti ai crociati, gli altri invece al Paleologo. 

Anche nelle cose di Toscana Clemente V seguì una politica opposta a quella di Bonifazio mostrando di voler favorire più i Bianchi che i Neri per far piacere ai Colonna che  erano ghibellini e al cardinale da Prato che non era rimasto contento del contegno dei Neri. Per incarico di Benedetto XI — come si è accennato — questo cardinale era andato in Firenze il 10 maggio del 1303, era riuscito a farsi dar dal popolo pieno potere di riformar la repubblica, di nominare il podestà e gli altri magistrati e di mettere pace tra le famiglie nemiche, ed aveva ammesso in città, per iniziar trattative, alcuni ambasciatori dei Bianchi, tra cui si trovava il padre di Francesco Petrarca. 
Ma ad ostacolar l'opera del cardinale avevano posto mano i più ricchi tra i Neri, i quali, a nome di Matteo da Prato, avevano chiesto ai fuorusciti Bianchi ed ai Ghibellini bolognesi di marciare su Firenze. All'avvicinarsi di costoro, il popolo fiorentino, credendo di essere stato tradito, si era aspramente sdegnato col cardinale e questi, avendo visto crollare l'opera sua felicemente iniziata ed essendo stato perfino minacciato durante una sommossa, aveva lasciato Firenze, lanciandole l'interdetto (4 giugno del 1304). 


FIRENZE NUOVAMENTE IN GUERRA


Dopo la partenza del cardinale, Firenze era ripiombata nel disordine, provocato dalle discordie dei Neri, divisi in due fazioni, una dei nobili capeggiati da CORSO DONATI, l'altra del popolo grasso guidato da ROSSO DELLA TOSA, PAZZINO DE' PAZZI e GERI SPINI. Quasi quotidianamente avvenivano scaramucce nelle vie tra gli avversari e in una di queste, avendo un Neri Abati appiccato il fuoco in due punti diversi della città, si era sviluppato un incendio terribile che aveva distrutto mille e settecento case fra le quali le loggia di Or San Michele, i palazzi degli Amieri, dei Cavalcanti, dei Gherardini, dei Pucci, degli Amidei e tutte le abitazioni della via Calimala, del Mercato Nuovo e della Via Por Santa Maria. 

Consigliati dal cardinale da Prato a trarre profitto da queste discordie, i fuorusciti fiorentini insieme coi Bianchi e i Ghibellini di Pisa, d'Arezzo, di Pistola e di Bologna avevano deliberato di tentare un colpo di mano su Firenze. La Lastra, a due miglia dalla città, era stata designata come punto di raduno di tutte le forze, le quali dovevano concentrarvisi il 23 luglio del 1304. Ma già due giorni prima erano giunti alla Lastra i fuorusciti fiorentini coi Bolognesi e gli Aretini, forti di milleseicento cavalli e novemila fanti. BASCHIERA dei TOSINGHI, capo dei fuorusciti di Firenze, impaziente ed ardito, invece di aspettare il conte Fazio partito da Pisa con quattrocento cavalli e Tolosato degli Uberti che doveva giungere con altri trecento da Pistola, aveva deliberato di assalire quel giorno stesso coi suoi la città e, penetrato senza trovare resistenza per la porta di San Gallo era pervenuto fino in Piazza San Marco. Di là egli aveva inviato un manipolo ad occupar la porta degli Spadai e questo, dopo una scaramuccia, si era spinto verso il Duomo, ma, assalito lungo la via dai Neri, era stato costretto a fare ritorno in San Marco. 

Di questo breve insuccesso era giunta alla Lastra la notizia cosi deformata che i Bolognesi, credendo distrutta tutta la schiera del Tosinghi, volte le spalle a Firenze, si erano diretti verso Bologna, né era valso l'incitamento di TOLOSATO degli UBERTI, il quale, incontratili durante la ritirata, li aveva esortati a marciare con lui su Firenze. Così Baschiera, rimasto solo, aveva dovuto abbandonare il quartiere occupato e, molestato dal nemico, ritirarsi con gravi perdite.
 Le conseguenze di questo infelice tentativo su Firenze furono fatali a Pistoia, dove governavano Bianchi e Ghibellini e si erano ridotti molti fuorusciti. Dopo il fatto d'armi del luglio del 1304 Firenze non pensò che a trarre vendetta contro i Pistoiesi e per raggiungere questo scopo strinse alleanza con Lucca e chiese aiuti a Carlo II d'Angiò, il quale mandò il figlio Roberto, duca di Calabria. Questi giunse in Firenze nella primavera dell'anno seguente con trecento cavalli e una forte compagnia di mercenari almugaveri, che dopo la guerra del Vespro, licenziati da Federico di Sicilia, parte erano passati al soldo degli Angioini e parte erano andati in Grecia. 

Roberto partì da Firenze alla testa delle sue milizie e quelle della repubblica  il 22 maggio del 1305 e, unitesi per via con le truppe lucchesi, andò a cinger d'assedio Pistoia. Essendo questa città troppo forte per esser presa d'assalto, gli assedianti deliberarono di averla per fame; ma i Pistoiesi resistettero gagliardamente per molto tempo, né quando cominciarono a scarseggiar le vettovaglie pensarono di arrendersi, anzi, per prolungare la resistenza, fecero uscire dalla città i vecchi, i fanciulli e le donne, i quali, caduti nelle mani del nemico, vennero orribilmente trattati, specie le donne, su di loro i Neri ci sfogarono le loro vendette. La notizia di tali crudeltà giunse all'orecchio del cardinal da Prato, il quale indusse il Papa a soccorrere l'infelice Pistoia. 

Clemente V infatti mandò dalla Francia un ordine a Roberto e ai Fiorentini di levar l'assedio. Il primo ubbidì, ma gli altri non tennero conto delle ingiunzioni papali e, in luogo del duca di Calabria, nominarono loro capitano Cante de' Gabrielli da Gubbio. 
Allora il Pontefice mandò come suo legato in Toscana il cardinal Napoleone Orsini; ma i Fiorentini, allo scopo di ostacolar l'azione del cardinale e di impadronirsi prima della sua venuta di Pistoia, da un canto offrirono patti onorevoli agli assediati promettendo loro salvi i beni e le persone e intatte le libertà cittadine se la città apriva le porte, da un altro canto, temendo che Bologna dominata dai Bianchi e sobillata dal cardinale Orsini, mandasse aiuti a Pistoia, fecero sparger tra il popolo bolognese la voce che la città si era alleata coi Ghibellini della Lombardia e riuscirono a provocare una sommossa popolare che finì con la cacciata dei Lambertazzi e dei fuorusciti bianchi di Firenze dove si erano rifugiati.
 
L'Orsini, che si trovava a Bologna, insultato dalla plebaglia, che vedeva in lui un fautore dei Ghibellini, si ritirò precipitosamente ad Imola, lanciando sulla città l'interdetto e privandola dell'Università.  Intanto i Pistoiesi, ingannati dalle proposte degli assedianti, si arrendevano: era il 10 aprile del 1306 e dieci mesi e mezzo era durato l'assedio. 
I Fiorentini e i Lucchesi avevano ottenuto quello che desideravano; ma non mantennero i patti promessi. Appena entrati in città abbatterono le mura e le torri dei Ghibellini, colmarono i fossati, divisero tra loro il territorio, si riservarono l'elezione dei rettori e imposero all'infelice Pistoia un podestà e un capitano scelti fra i cittadini delle città vittoriose. 

Quando il cardinale Napoleone Orsini giunse in Toscana, Pistoia era già stata sacrificata. Egli avrebbe potuto ridarle la libertà e si diede da fare. Ad Arezzo, dove era andato nel 1307, raccolse mille e settecento cavalli e un forte nerbo di fanti, ma non seppe adoperare queste milizie e, perduta ogni autorità, fu richiamato in Francia. 

La vittoria su Pistoia aveva rafforzata formidabilmente la posizione della fazione nera in Firenze, ma non le aveva dato la pace. La città, sebbene in potere dello stesso partito, era dilaniata dalle gelosie tra i grossi borghesi e i grandi. Con questi ultimi, capeggiata da CORSO DONATI, era la plebe. Uomo violento ed ambiziosissimo, Corso avrebbe voluto dominar solo nella città e, per raggiungere il suo intento, da una parte si procacciava il favor popolare, censurava l'opera dei principali cittadini e si collegava coi Bordoni e coi Medici, dall'altra, sebbene guelfo, stringeva rapporti coi Ghibellini di fuori, sposando in terze nozze la figliuola di uno di essi, allora potentissimo, UGUCCIONE della FAGGIUOLA, che in quel tempo era capitano diArezzo. 
Ma i numerosi nemici che si era fatti con il suo contegno e le sue mire dovevano procurargli il fallimento dei suoi disegni e la perdita della vita. Accusato di tramare per abbattere le libertà repubblicane e farsi signore di Firenze, Corso perdette a un tratto il favore che si era procacciato tra la plebe, e i suoi numerosi nemici decisero di sopprimerlo. 

Un giorno, il 6 ottobre del 1308, al suono della campana del comune si radunò in armi il popolo fiorentino davanti al palazzo della Signoria e qui i priori delle arti accusarono al tribunale del podestà il Donati di condurre trame segrete per farsi tiranno di Firenze. 
Citato a comparire, Corso si rifiutò ben comprendendo la sorte che gli era riservata, e con numerosi amici, clienti e servi si rafforzò nella sua casa e fece sbarrare e difendere le vie del suo quartiere, mentre mandava corrieri al suocero perché accorresse in suo aiuto. Condannato Corso, come traditore e ribelle, alla pena capitale, i priori uscirono dal palazzo, preceduti dal gonfaloniere e seguiti dal podestà, dal capitano del popolo, dall'esecutore di giustizia, dagli arcieri e dalle compagnie armate, diedero l'assalto alle case dei Donati. Per alcune ore fu accanita la resistenza dei partigiani di Corso e non poco sangue fu sparso. Quando il Donati vide che i soccorsi di Uguccione tardavano a venire e che già le milizie del comune facevano irruzione dalle barricate e dalle case adiacenti, pensò alla salvezza personale. In compagnia di Gherardo Bordoni e alla testa di un manipolo dei suoi, fece impeto contro i nemici e, apertosi un varco, fuggì da Firenze per la Porta alla Croce, inseguito da alcuni drappelli di Catalani al soldo della Signoria. Gherardo fu raggiunto presso l'Affrico e ucciso da Boccaccio Cavicciulli, Corso riuscì a spingersi fino a Rovezzano, ma qui, raggiunto e circondato, venne fatto prigioniero. 
Secondo quel che narrano i cronisti, mentre lo portavano a Firenze, volendo sfuggire all'onta e alle torture che gli erano riservate, Corso Donati si buttò da sella a capo in giù, rimanendo gravemente ferito. I soldati catalani lo finirono con le alabarde. Più tardi i monaci di San Salvi raccolsero il cadavere e lo seppellirono senza onori. 


Mentre questi avvenimenti accadevano a Firenze altre discordie avevano luogo  in altre città dell'Alta Italia. Lo stesso anno in cui veniva ucciso Corso Donati, i DORIA venivano cacciati fuori di Genova dagli SPINOLA, i quali, alla loro volta, l'anno dopo, ne dovevano essere espulsi dai GRIMALDI, dai FIESCHI e da altri guelfi fuorusciti alleati dei Doria. Nel gennaio del 1308 moriva AZZO d' ESTE, lasciando la signoria di Ferrara al figlio naturale Fresco, contro cui subito si levò Francesco, fratello del defunto marchese, che sI impadronì di Rovigo. Non sentendosi abbastanza forti, i due contendenti ricorsero all'aiuto di altri: il primo chiese il soccorso di Venezia, il secondo quello di Clemente V. Sia il Pontefice che la repubblica accolsero volentieri l'invito. 
« II Papa, infatti,— scrive il Battistella, uno degli ultimi ed accurati storici di Venezia — erede legittimo di tutti i beni della contessa Matilde di Toscana, tra cui Ferrara, intendeva profittare dell'occasione per ridurre questa città sotto il proprio dominio diretto. Venezia che da oltre tre secoli si affaticava per assoggettarsela anche territorialmente, giudicò che questa era una buona occasione. 
Iniziando in tal modo trent'anni prima di quel che comunemente si creda, la sua politica di terraferma". 

Ma i due nunzi mandati dal Pontefice per far valere i propri diritti, appoggiandosi alle milizie bolognesi riuscirono ad occupare Ferrara e a instaurarvi il dominio della Chiesa, mentre Fresco contro cui avevano spiccato un bando per la cattura, fuggiva e si rifugiava presso i Veneziani; poi il 10 ottobre, per amore o per forza, rinunziava alla signoria della medesima città a favore dei veneziani

 Ed ecco pertanto la repubblica di fronte al Pontefice accingersi ad un impari lotta nella quale le armi spirituali, onnipotenti nell'ambiente morale di que' tempi, conseguiranno la decisiva vittoria. Si dice che i nunzi tentarono d'indurla ad accordarsi col Papa e a restituirgli i luoghi invasi del ferrarese: ma al punto in cui erano le cose essa reputò impossibile tirarsi indietro. Perciò l'abate Arnaldo di Tulle, offeso anche personalmente per essere stato accolto a Venezia con grida ostili e minacciose e perfino a sassate, il 25 ottobre pronunziò contro Venezia la scomunica se entro dieci giorni non si fosse piegata alle ingiunzioni della Chiesa.



LA SCOMUNICA E GUERRA TRA IL PAPA E VENEZIA


Benché tale minaccia avesse fatto grande impressione, Venezia non si ritrasse, ma seguitò ad armarsi decisa a sottomettere Ferrara ora, che per la scarsezza delle forze papali e i discordi umori dei cittadini non poteva opporre grande resistenza. Di fronte a siffatto atteggiamento i nunzi papali indecisi credettero di sospendere l'attuazione del minacciato interdetto e di mandare al doge alcune proposte per un accomodamento, le quali, essendo parse onorevoli e convenienti, furono accettate e  il 1° dicembre fu firmata  una vera convenzione di pace con dei trattati. 
Clemente V però, prima ancora che giungesse notizia di questi fatti, aveva diretto alla repubblica un minaccia per esortarla a restituire Ferrara, pena l'interdetto; quando poi  conobbe i patti di pace, non ne volle sapere e il 27 marzo 1309 con una nuova bolla l'ammonì che se entro un mese non gli avesse dato piena soddisfazione sarebbe incorsa nei castighi più terribili che la Chiesa avesse mai fulminati.

 Quantunque determinato a non recedere da quelle che riteneva le sue giuste pretensioni, il senato veneziano inviò al Papa tre ambasciatori per pregarlo di prendere di nuovo in esame la questione, ma gli ambasciatori non furono nemmeno ricevuti e ogni loro istanza fu respinta; ormai nulla poteva più mutare gli animi e le cose. Il momento era molto grave e nel Maggior Consiglio e nella commissione dei Savi eletti pro factis Ferrarie si discusse a lungo sul partito da prendere, essendo non i soli consiglieri, ma l'intera cittadinanza divisa in due parti, che erroneamente fu dette guelfa e ghibellina; una reputava esser saggio che si dovesse a qualunque costo venire a una conciliazione col Pontefice, mentre l'altra decisa a non cedere di un punto, incitava a non lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare una città tanto importante.

Intanto trascorsi i termini fissati dal Papa, il cardinale Arnaldo di Pelagrua, legato pontificio, pronunziò le censure canoniche comminate con la citata bolla del 27 marzo. Con esse deponeva la Repubblica da ogni potere e dignità e la si abbandonava di diritto a chiunque avesse voluto impadronirsene; si proclamava la confisca di tutti i beni mobili e immobili che essa e i suoi magistrati e cittadini possedevano nella città e in qualsiasi altro luogo; si dichiaravano nulli tutti i trattati e le convenzioni da essa stipulati con chicchessia; si vietava sotto pena di scomunica di portar merci e viveri a Venezia; e  incitavano tutti i popoli e gli stati cristiani ad andare contro di essa.
 
Accadde ciò che vedremo ripetersi di lì a due secoli per un'altra scomunica, quella che aperse la guerra della lega di Cambrai. 
A Venezia, per l'avveduto rigore del governo, la sentenza pontificia ebbe poco o quasi nullo effetto, ma fuori dei suoi immediati confini, tutte le città, ad eccezione di Treviso, le terre e gli stati anche lontani, che per gelosie, per paure, e sopratutto per il suo opprimente predominio marittimo e commerciale nutrivano malanimo contro di Venezia, e si atteggiarono ostilmente, sequestrando mercanzie, navi, fondachi, che essa aveva nelle loro pertinenze, catturando sudditi suoi, chiudendole tutti i porti e gli scali, ribellandole luoghi a lei soggetti, quali Lésina, Curzola, Zara e, per opera del patriarca aquileiese, la stessa Istria iniziò a suo danno violenze soprusi e infamie sotto la giustificazione dell' interdetto; e quando il Pelagrua le predicò contro una crociata, da ogni parte d'Italia accorsero combattenti bramosi di sfogare il vecchio livore, di spartirsi le spoglie della sua decantata opulenza, e di compiere, con la benedizione della Chiesa, quelle vendette che la sua potenza aveva ad essi fino allora vietate. 

Quest' ira di Dio scatenata da un Pontefice con poca carità cristiana si ripercosse su gran parte d'Europa e dalla Francia alla Turchia, dall'Austria alla Sicilia, offese e danni gravissimi vennero a colpire la repubblica nell'onore e negli interessi. In siffatte condizioni non era possibile che l'impresa contro Ferrara avesse un buon esito e, infatti, non l'ebbe: Venezia fu sconfitta sanguinosamente il 28 agosto 1309 a Castel Tedaldo, e dovette rassegnarsi a chieder pace e dopo lunghe e difficili trattative e dolorose umiliazioni, fare un vero atto di dedizione a Clemente V, il quale solo dietro  il pagamento di 50.000 fiorini d'oro per risarcimento dei danni e delle spese di guerra, le restituiva gli antichi privilegi in Ferrara al cui possesso reale essa però rinunziava; e più tardi, nel gennaio 1313, levata la scomunica, l'accoglieva di nuovo nel grembo della Chiesa.

 In questo medesimo anno Alberto Scotto riusciva a rientrare in Piacenza, scacciandone le milizie di Guido della Torre; Pistoia insorgeva contro il capitano del popolo inviato da Lucca riacquistando molte delle perdute libertà, Clemente V fissava la sede pontificia in Avignone, e moriva in Napoli (5 maggio) Carlo II d' Angiò, che negli ultimi anni della sua vita si era dedicato ad abbellire la capitale del suo regno e a favorire l'Università, concedendole privilegi e chiamando ad insegnarvi gli uomini più dotti della penisola.


ROBERTO D'ANGIO' SUL TRONO DI NAPOLI

 
Il trono di Napoli, per diritto, spettava al giovane CARIBERTO, figlio di Carlo Martello, primogenito del defunto sovrano, morto nel 1301 in Ungheria di cui era re; invece gli succedette sul trono il terzogenito Roberto, duca di Calabria (il secondogenito Ludovico era vescovo). 
Siccome Cariberto reclamava per sé il reame, Roberto si recò ad Avignone dal Pontefice affinché questi, come sovrano feudale del regno, lo concedesse a lui. La causa di Roberto fu dottamente e calorosamente perorata da Bartolomeo di Capua, il quale convinse Papa Clemente che sarebbe stato un male dare la corona di Napoli a un giovanotto nato e vissuto in Ungheria, non conosciuto né amato dai  nuovi sudditi e che inoltre avrebbe dovuto governare da lontano. Fu così che il Pontefice, conoscendolo savio e prode in guerra, dichiarò, nell'agosto di quell'anno, Roberto erede legittimo, lo coronò in Avignone con grande solennità, gli condonò i debiti del padre e del nonno  verso la Chiesa e, poiché una grave minaccia per l'Italia sorgeva in Germania col nuovo imperatore Arrigo VII, conferì all'Angioino il vicariato della Romagna e di Ferrara e gli diede l'incarico di organizzare il partito guelfo e la difesa contro il pericolo imperiale. 

ROBERTO d'ANGIO' lasciò Avignone nel 1310; passando pel Piemonte visitò Cuneo, Mondovì, Possano, Savigliano, Cherasco ed Alba, che gli appartenevano, strinse alleanza con Asti ed Alessandria; poi, mandati suoi rappresentanti in Romagna, si recò a Lucca e a Firenze per predisporre alla difesa le due città amiche, e di là si incamminò alla volta di Napoli. 
Nella solerte attività intesa a preparar la resistenza contro la minacciosa ripresa ghibellina andava a iniziare il regno di questo sovrano che dai suoi contemporanei doveva riscuotere tante lodi, non meritate del tutto.

Ora dobbiamo fare un piccolo passo indietro ripartendo dal 1308
A questa data in Germania dopo l'assassinio dell'imperatore Alberto d'Asburgo
saliva su (un conteso) trono ENRICO VII.


Ci attende ora il periodo di Enrico VII in Italia dal 1308 al 1313 > > > 

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI