ANNI 1300

LA CIVILTA' COMUNALE - IL LAVORO, IL COMMERCIO, I VIAGGI

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LA COSTITUZIONE POLITICA DEI COMUNI - LA COSTITUZIONE SOCIALE E MILITARE - ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E COMMERCIO - I VIAGGIATORI: FRATE ASCELINO; GIOVANNI DEL PIAN DEL CARPINE; I FRATELLI VIVALDI; MATTEO, NICOLÒ E MARCO POLO; IL MILIONE
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LA COSTITUZIONE POLITICA DEI COMUNI

Il precedente capitolo, lo abbiamo chiuso affermando che con la morte di papa Bonifacio VIII si è chiusa un'epoca: finite le lotte tra l'impero e i comuni italiani, cessati i conflitti tra il Papato e l'Impero, ed è fallito il tentativo di unire l'Italia, che anzi appare più disunita che mai e non ha più all'inizio del 1300 alcun legame di dipendenza con l'Impero.Ma già con la morte di Federico II era terminato il periodo eroico della lunghissima guerra tra l'impero e i comuni italiani, com'era finito pure l'unione del Regno d'Italia alla Germania.

L'Italia non è più che un nome e non ha più alcun legame di dipendenza dall'impero; di fatto l'Italia centrale e settentrionale è indipendente e in essa le città svolgono una vita autonoma che matura nuove forme politiche e sociali e i cui aspetti organizzativi, durante l'ultima metà del secolo XIII, è utile ripercorrere.Consolare fu la prima costituzione che ebbero i comuni: i cittadini - poiché la costituzione aveva forma repubblicana - formavano l'assemblea generale ("parlamentum, arengum") in cui erano discussi gli affari più importanti del comune e promulgati gli statuti; emanazione dell'assemblea erano i "consoli", il cui numero variava da città a città. La permanenza dei consoli nella carica variava da sei mesi ad un anno; essi costituivano la suprema magistratura, erano i capi delle milizie, amministravano la giustizia ed erano a capo dell'amministrazione finanziaria e della politica estera.
Con l'andar del tempo queste mansioni che erano esercitate da tutto il corpo consolare furono ripartite e si ebbero i "consules de communi", che avevano il potere esecutivo, i "consules justitiae" o "de placitis" che amministravano la giustizia, e i "consules mercantorum" che sovrintendevamo alle finanze.Entrando in carica, i consoli s'impegnavano con giuramento di attenersi a certe norme contenute in documenti che a Venezia avevano il nome di "promissione ducale", altrove quella di "breve consulum", ed erano come un compendio della costituzione. Nel disbrigo degli affari essi erano aiutati e, in certo qual modo, controllati dal "consiglio di credenza", che in certi comuni era chiamato anche "senato".Ampliatosi il territorio del comune e scoppiate le guerre civili, allo scopo di frenare l'azione dei consoli, divenuti capi di fazione, furono istituiti altri consigli minori o "balìe" e, non essendo questi sufficienti a limitare il potere dei consoli, si ricorse - come altrove abbiamo accennato - ad una nuova magistratura, quella del "podestà", e al regime consolare successe il "regime podestarile".
Perché il podestà non parteggiasse per una delle fazioni, in un primo tempo fu scelto fra i più autorevoli e probi cittadini notoriamente estranei ai partiti; poi fu, per maggior garanzia, preferito un "forestiero" che non avesse nella città vincoli di parentela; inoltre, per impedirne gli abusi, si limitò la sua carica ad un semestre e si vietò che contraesse amicizie, che sedesse a mensa con persone estranee al suo seguito e ricevesse visite da solo.Ma tutto questo non giovò. I podestà così scelti non potevano ristabilire la calma nelle città agitate da tanti partiti che avevano interessi contrastanti. Essi erano investiti di grandi poteri, ma non avevano sufficiente autorità appunto perché forestieri ed estranei alla vita locale. Tuttavia la strada ormai era tracciata all'ulteriore evoluzione politica. Tutto portava: la violenza e la passionalità delle lotte di parte, l'accrescimento della ricchezza, la pressione delle classi inferiori che cercavano di salire, l'ampliarsi del dominio dei Comuni, che era anche una necessità economica, la lotta fra Papato e Impero, l'affermarsi della personalità umana. Perché l'evoluzione si compia è necessario che l'ufficio di Podestà sia conquistato da uomini di forte personalità, da cittadini viventi della vita agitata della città, e sia reso stabile. Questo comincia a verificarsi nel periodo podestarile.
È da allora che dopo una lunga lotta fra Salinguerra, Adelardi ed Estensi, OBIZZO, appartenente a quest'ultima famiglia, è proclamato dall'assemblea generale del popolo a Ferrara signore perpetuo della città e del distretto.
È da allora che i PELAVICINO affermano il loro dominio oltre che nella Lunigiana, nella valle del Po, accumulando nelle proprie mani la carica di Podestà di Pavia, Cremona, Parma, Piacenza.
È da allora che EZZELINO IV da ROMANO, vicario di Federico II nella Marca Trevigiana, con l'astuzia, con la frode, con le lusinghe, con la violenza riesce ad usurpare o a farsi conferire dal popolo il governo di numerose città venete come Belluno, Bassano, Treviso, Vicenza, Padova.
È da allora che, finalmente, appaiono al governo di Milano come podestà o come Capitani del popolo i DELLA TORRE e i VISCONTI, questi Ghibellini, quelli Guelfi, i quali si alternano al potere tentando di renderlo ereditario.
I nomi delle grandi famiglie che fonderanno le dinastie signorili ormai sono già apparsi e la trasformazione del regime da podestarile in signorile, cioè monarchico ereditario, è in cammino (Pernice)".
LA COSTITUZIONE SOCIALE E MILITARE DEI COMUNI
In tre classi possiamo considerare divisa la società comunale: nobiltà, borghesia, colonato, che non sono però nettamente distinte come nel periodo feudale. I "milites", detti anche "cives maiores", quelli cioè che costituiscono la cavalleria nell'esercito comunale, formano l'aristocrazia. Fanno parte di questa i nobili del contado, i discendenti dei valvassori e valvassini, domiciliati nelle città e i borghesi (nati, cresciuti e arricchiti nel "borgo") che formano quasi una nuova nobiltà. Costoro, secondo la parentela e gli interessi, sono riuniti in "consorterie", ciascuna delle quali ha statuti e magistrati propri.
L'insieme di tutte queste consorterie forma il "commune militum" retto da propri consoli, organizzazione potente per forze e ricchezze che, quasi sempre ghibellina, cerca di impadronirsi della suprema magistratura comunale.Di fronte alla nobiltà, contro la quale hanno lottato per la conquista della libertà, stanno i "cives minores" o "milites", cioè il popolo (da non confondere con la plebe), quelli che nell'esercito comunale formano la fanteria. Questi, secondo il lavoro, dell'arte o del commercio che esercitano, sono raggruppati in "corporazioni", per mezzo delle quali tutelano i loro diritti politici e i loro interessi economici. Fra i "cives minores" primeggiano le persone più ricche e più colte, che parteggiano per la fazione guelfa e sostengono una politica d'espansione per fini commerciali. Ad essi si deve il trionfo della borghesia che ha portato al passaggio dal regime consolare al podestarile. Le arti che costituiscono le corporazioni si distinguono in maggiori, medie e minori; mentre al popolo minuto (la plebe) si nega il diritto di riunirsi in associazioni.
E proprio per questo motivo hanno origine nuove lotte sociali; se prima è la grassa borghesia mercantile che lotta con successo, contro la nobiltà terriera, in seguito è il basso popolo che si agita per conquistare parità di diritti con le altre due classi sociali suddette. Ma poiché la plebe è ignorante, influenzabile e manovrabile, abbordabile alla bassa demagogia, al populismo, non deve destare meraviglia se la troviamo spesso schierata o con una o con l'altra classe.Anche coloni nel secolo XII, non sono più, come durante il regime feudale, servi della gleba, ma uomini liberi. Con la libertà essi hanno acquistato un certo benessere economico, prendendo in affitto dai proprietari fondi rurali o lavorando questi col sistema della mezzadria. Anche i coloni si riuniscono in associazioni e sorgono così comuni rurali retti da propri magistrati.
Il moto associativo del contado è in un primo tempo favorito dalle città rette a comune perché da esso queste traggono profitto nella lotta contro la nobiltà terriera; in seguito però i coloni sono spogliati dei diritti politici e si trovano di fronte ai cittadini del "borgo" in condizione d'inferiorità.Come gli abitanti del contado così quelli delle città hanno l'obbligo del servizio militare. Soldati sono tutti gli uomini validi dai quindici ai sessant'anni. Ogni cittadino si arma a proprie spese e solo quando la guerra è di lunga durata riceve il soldo. Al suono della campana del Comune che chiama alle armi, i cittadini si radunano nei propri quartieri intorno ai gonfaloni, e delle milizie assumono il comando i consoli o, finito il regime consolare, i "capitanei militum". La cavalleria ha il posto d'onore nelle battaglie ed è la prima a dar l'assalto; ma chi decide delle sorti del combattimento e forma la spina dorsale degli eserciti comunali è la fanteria, lasciata in disparte nell'epoca feudale, e giustamente tornata in onore nel periodo di cui stiamo parlando.
Essa può essere considerata come la milizia democratica, la milizia della libertà comunale; valga per tutti la famosa giornata di Legnano, attorno al Carroccio milanese; fu la milizia di cittadini a coprirsi di gloria.
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E COMMERCIO
"Uno degli aspetti più interessanti e caratteristici della società comunale - scrive il Pernice - è la sua tendenza verso l'associazione. Tutti si uniscono secondo le affinità d'origine, d'interessi, d'aspirazioni. Il lavoro, naturalmente, non sfuggiva a questa tendenza, tanto più che essa corrispondeva, oltre che ad una necessità economica, ad una tradizione antica in Italia, mantenutasi attraverso tutto il medio evo.
Artigiani, cioè lavoratori autonomi aventi una bottega propria, salariati, contadini, imprenditori, industriali, piccoli bottegai, grossi mercanti, banchieri, si organizzano formando vaste associazioni dette "Corporazioni d'Arte", con lo scopo non solo di tutelare meglio, grazie all'unione, i loro interessi, ma anche di disciplinare, perfezionare e intensificare la produzione medesima".Prima libere e volontarie, diventarono queste corporazioni, in seguito, obbligatorie e in alcune città, come Bologna e Firenze, furono imposte dagli statuti comunali. A Firenze solo quelli che facevano parte di una corporazione d'Arte potevano partecipare alla vita pubblica. Era tanta l'importanza delle corporazioni e fu tale il loro sviluppo che, nel Trecento, cinquantotto se ne contavano a Venezia, trentasei a Padova, trentatrè a Genova, venticinque a Pavia, ventuno a Mantova e a Firenze, venti a Bologna e diciotto a Bergamo.Quelle di Firenze erano divise in tre gruppi: Arti maggiori, medie e minori

Le MAGGIORI erano sette: 1° Giudici e notai; 2° Arte di Calimala; 3° Cambiatori; 4° Arte della Lana; 5° Arte di Por Santa Maria; 6° Medici, speziali, merciai orafi; 7° Pellicciai.
Le MEDIE erano cinque: 1° Macellai; 2° Calzolai e calzaiòli; 3° Fabbri; 4° Maestri di pietra e legname; 5° Rigattieri e linaioli.
Le MINORI erano nove: l° Vinai; 2° Albergatori grossi; 3° Oliandoli, salaioli e caciaioli; 4° Cacciatori; 5° Corazzai e scudari; 6° Chiavaioli e calderai; 7° Correggiai; 8° Legnaioli grossi; 9° Fornai.Ogni corporazione aveva il suo statuto ed era retta da magistrati detti "consoli" o "rettori" o "priori". I componenti ogni corporazione d'Arte erano distinti in due categorie: maestri e alunni. Per poter esercitare un mestiere occorreva fare un tirocinio più o meno lungo (alunnato), dopo del quale l'alunno sostenendo un esame o facendosi rilasciare un certificato da chi lo aveva istruito, diventava maestro.
Elettivi erano i consoli delle Arti. Essi avevano il compito di far rispettare i regolamenti, di comporre i conflitti fra gli organizzati, di stabilir le multe a carico di coloro che erano venuti meno ai loro doveri, di amministrare i beni della comunità, di rappresentare la corporazione. Avevano anche facoltà di modificare gli statuti e di introdurre nuove disposizioni intese a migliorare la tecnica dell'arte. I consoli erano assistiti da due consigli, eletti fra i membri della corporazione, e, uscendo dalla carica, dovevano render conto del loro operato all'assemblea generale degli organizzati.
La corporazione era una personalità giuridica; essa possedeva beni immobili, aveva i suoi magazzini, la sua cappella, a volte la sua chiesa, il proprio stemma, il proprio gonfalone.
Grandissimi furono i benefici che dalle corporazioni ebbero l'industria e il commercio. Ad esse è legata tutta la vita economica italiana dell'ultimo medioevo, per merito di esse i comuni italiani conquistarono i mercati del mondo e le industrie, specie quelle della lana, della seta, dell'oro, dell'argento e del vetro, raggiunsero uno sviluppo e un'eccellenza mai visti prima del secolo XIII.
Al progredire delle industrie è connesso lo sviluppo del commercio. Questo fu favorito dall'abbattimento di molti castelli (con annessi territori) feudali, che liberò le vie dai balzelli dei signori, dal progresso della tecnica navale, dai banchi commerciali di Genova e Venezia che avevano succursali ed agenti in tutte le città d'Europa e in molte dell'Asia e dell'Africa, dalla coniazione del fiorino d'oro a ventiquattro carati (1252) che divenne la moneta più ricercata, dall'istituzione delle lettere di credito e dalle colonie italiane stabilite in tutti i porti del Mediterraneo orientale e del Mar Nero.Nel Duecento gl'Italiani non solo esportano i prodotti delle industrie nazionali, ma hanno nelle loro mani quasi tutto il commercio d'Europa, di cui sono i banchieri più ricchi e meglio organizzati, ai quali sovente ricorrono per prestiti perfino il Pontefice e i sovrani. L'Italia non esiste come stato e sono ben lontani i tempi in cui dominò il mondo; ma gl'Italiani sono padroni delle vie di comunicazione e dominano il Mediterraneo, che economicamente, è ritornato il "mare nostrum".
I VIAGGIATORI
Il Duecento è il secolo in cui iniziano i grandi viaggi d'esplorazione, fatti per ragioni commerciali o per motivi religiosi e, non di rado, per puro spirito d'avventura. È dello scorcio della prima metà del secolo l'audace tentativo di Innocenzo IV di stringere rapporti con i Mongoli per mezzo di due ambascerie. Una, diretta dal frate lombardo ASCELINO, che giunge in Persia all'accampamento di Baku Khan; l'altra con a capo il frate francescano GIOVANNI del PIAN del CARPINE, partita nei 1245, per Kiew, oltrepassati il Don, il Volga e le steppe dei Ghirghisi, giunge a Caracorum nel luglio del 1246, ne riparte il 13 novembre e, rifacendo la medesima via, è di ritorno l'anno seguente. Col viaggio dell'ardito frate italiano la più lontana Asia comincia, a rivelare i suoi misteri all'Europa.
Da necessità commerciali fu causata -sul finire del secolo, un'audacissima impresa destinata ad aprire nuove vie al commercio con le Indie. L'impresa è ideata da Genovesi, e tentata con navi, capitali ed equipaggi di Genova. Poiché quasi preclusa è la via dell'Egitto e della Siria, e lunga e dispendiosa è quella dell'Asia Minore e dell'Armenia per giungere alle Indie, e gli intermediari musulmani chiedono prezzi esagerati per le spezie del lontano Oriente, si cerca di arrivare "ad partes Indiae per mare oceanum", circumnavigando l'Africa ed affrontando pericoli e difficoltà d'ogni sorta.
I fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi sono gli arditi navigatori che tentano l'impresa nel maggio del 1291, e l'Allegranza e la Sant'Antonio le navi che s'avventurano oltre lo stretto di Gibilterra, per l'Oceano sconosciuto che la fantasia ha popolato di mostri.

Ecco come il Caddeo ricostruisce l'audace spedizione: "Le galee dei Vivaldi partono da Genova e toccano Majorca: costeggiando la Spagna, sboccano attraverso lo Stretto di Gibilterra nell'Atlantico e puntano risolutamente verso il Sud. La loro presenza è segnalata nella zona desertica di Gazora. In una località imprecisata, forse tra il Senegal e il Gambia, una delle due navi dà in secca in un bassofondo e non può disincagliarsi, l'altra, raccolti uomini e merci, prosegue cautamente lungo la costa, mettendosi all'ancora la notte, riprendendo la navigazione durante il giorno, approdando per far acqua o per provvedere ai viveri se vi è la possibilità, evitando gli incontri con la selvaggia popolazione costiera, tuttavia piuttosto scarsa e generalmente priva di navi di grande stazza ma solo di piccoli natanti. Così passano i mesi, forse gli anni. Nuove costellazioni scintillano nel cielo; il sole sorge e tramonta in direzione inconsueta; venti diversi spingono la nave su un vergine Oceano in latitudini insospettate. Gli esploratori procedono senza che il loro coraggio ceda un istante; sanno che finiranno con l'avvistare terre ospitali e che concittadini li attendono sull'altra parte dell'Africa, o presso le Indie agognate.
Chiamati dal Can mongolo di Persia, Argun, e dal suo ministro delle finanze, l'ebreo Soad-Ad-Daula, alcuni costruttori genovesi allestiscono e varano a Bagdad galee che debbono bloccare Aden e tagliare il commercio dell'Egitto con l'India; Argun, è lo stesso con il quale Marco Polo arrivando per mare dalla Cina, gli condusse una principessa chiesta in moglie a Kublai.

BUSCARELLO GHISOLFI, genovese, e il pisano ISOLI godono molta autorità presso la corte persiana, mercanti Italiani si trovano sparsi su tutti quei floridi mercati; missionari sono ospitati presso il PRETE GIANNI, nella cristiana Etiopia; non mancheranno dunque agli intrepidi navigatori, che giungeranno in Oriente per una via tanto diversa dalla solita, con cordiali accoglienze e buoni affari .... Finché, pervenuta lacera e sdrucita tra Mogadiscio e il capo Guardafui o Socotra, la galea, genovese è avvistata da navi arabe, circondata e catturata .... La grande navigazione è finita! E i Genovesi, ridotti di numero dalle fatiche e dalle malattie, furono presi e condotti al re sacerdote dell'Etiopia, che però ama e ricerca gli Europei e li accoglie amorevolmente.... Ad Agum, sono trattenuti per sempre, e vanno ad ingrossare la schiera dei bianchi che lavorano per il re e per le sue fabbriche .... Ma invano chiedono di essere liberati; essi dovranno chiudere gli occhi lontani dai loro cari, ed a mala pena riusciranno a far arrivare notizie delle loro traversie ai parenti ed ai soci dell'amata patria lontana".
Importanza maggiore, per i risultati, hanno i lunghi viaggi dei POLO. Nel 1261 i fratelli NICCOLÒ e MATTEO Polo, figli del patrizio veneziano Andrea, raggiunta Sudac, sul Mar Nero, si spingono, per ragioni commerciali, fino a Bolgar, sul Volga, residenza di BARCA KHAN, dove dimorano parecchi mesi. Impedito il loro ritorno da una guerra scoppiata ai confini meridionali del Kapciac, vanno fino a Bokkara, dove vi rimangono tre anni, e di là, al seguito di un'ambasceria tartara, giungono in Cina, alla corte del GRAN KHAN KUBLAI, principe liberale e figlio di madre cristiana, il quale li accoglie gentilmente e dopo un anno circa, accordata la licenza di partire, incarica i due fratelli di chiedere al Papa l'invio in Cina di cento uomini dotti allo scopo di diffondere in quel lontano impero la religione cristiana. Dopo tre anni di penoso viaggio attraverso l'Asia, i due Polo giungono al porto di Lajazzo e, nell'aprile del 1269, ad Acri, dove s'imbarcano per Venezia. Ma papa Clemente è morto e la cattedra di S. Pietro è vacante. Per ben due anni i fratelli Polo aspettano a Venezia l'elezione del nuovo Pontefice; stanchi dell'attesa e desiderosi di tornare alla corte del Gran Khan, vanno ad Acri, dove ricevono lettere per il sovrano dei Mongoli da TEBALDO di PIACENZA, legato pontificio, poi si recano a Lajazzo, ma qui giunti sono richiamati ad Acri dal legato che nel frattempo è stato eletto Papa col nome di Gregorio X e che li munisce di credenziali per Kublai e li fa accompagnare da due frati, NICOLA di Vicenza e GUGLIELMO di Tripoli.

Insieme con i due fratelli c'è un giovinetto diciassettenne, MARCO, figlio di Nicolò Polo, che, insieme col padre e lo zio, per ventiquattro anni soggiornerà in Asia, percorrendola quasi tutta.
Abbandonati, poco dopo, dai due frati, i Polo proseguirono soli per la lunga e difficile via: attraversarono l'Armenia e la Persia; per l'altipiano di Kirman, il Korassan e il Badakscian giunsero nella regione del Pamir e poi, attraversata la val del Tarim e il deserto di Gobi, giunsero a Clemenfu, residenza estiva del Gran Khan, dopo circa tre anni e mezzo di viaggio. Alla corte del sovrano mongolo, MARCO POLO imparò i costumi e la lingua del paese e tanto entrò nelle grazie e nella stima del Gran Khan che questi lo mandò in missione speciale nelle province della Cina Meridionale. E così MARCO POLO ebbe occasione di viaggiare ancora, di veder paesi nuovi, ignoti perfino allo stesso imperatore, ed arricchire il suo già vasto corredo di cognizioni durante un anno di peregrinazioni. Rivelatosi viaggiatore audace e resistente alle fatiche e ai disagi, osservatore acuto di uomini e cose, conoscitore delle lingue e dei costumi e, forse, abile diplomatico, ed acquistata per questi motivi la fiducia dell'imperatore, Marco Polo fu nominato governatore di Jang-ceu, carica che ricoprì per tre anni, dal 1278 al 1280; visitò in lungo e in largo l'Asia orientale, fu in India e nel Turkestan; rese preziosi servizi al sovrano in spedizioni militari e non trascurò di chieder notizie di paesi e popoli lontani.Poi nacque nei tre Veneziani la nostalgia della patria; chiesero ed ottennero licenza di ritornare al loro paese, ma a condizione che accompagnassero al re Argon di Persia, pronipote di Kublai, la principessa tartara Cocacin.
Furono fatti preparativi imponenti per il viaggio: si allestirono quattordici navi a quattro alberi, si caricarono viveri per due anni, furono date ai Veneziani due tavole d'oro come passaporto, ricchissimi doni e messaggi per i principi tributari, ai quali il Gran Khan ordinava di fornire gratuitamente l'ambasceria e il suo seguito di quanto abbisognassero, e quando ogni cosa fu pronta, al principio del 1292, la piccola flotta con a bordo seicento persone oltre gli equipaggi, partì da un porto vicino a Pechino. L'armata costeggiò le rive del Mar Giallo e del Mar Cinese Orientale, toccò Ciang-ciou, i porti dell'Annam, della Cocincina, l'isola di Bintang, Malacca e, dopo tre mesi di navigazione, giunse all'isola di Sumatra. Per ben cinque mesi i venti contrari costrinsero la flotta a rimanere all'ancora in uno dei porti della costa settentrionale, e quando il vento propizio tornò a gonfiare le vele, i viaggiatori salparono; toccarono prima le isole Nicobare, poi le Andamane; di qui iniziarono la traversata del Golfo del Bengala e giunsero all'isola di Ceylon, indi, toccata Kael e doppiato il capo Comorin, giunsero a Quilon, sulla costa del Malabar, poi costeggiando la provincia di Canara e la penisola del Guzerat, arrivarono a Cambay.

Dopo diciotto mesi di navigazione nell'Oceano Indiano, giunsero finalmente nel porto di Ormuz.
Molte cose durante tutto questo tempo erano accadute, vicende certamente dolorose - forse combattimenti con selvaggi, epidemie, tempeste, naufragi - tanto che di quattordici navi probabilmente una sola gettò l'ancora nel porto di Ormuz e di seicento e più uomini solo diciotto riuscirono a giungere in Persia. Ma quando l'ambasceria giunse finalmente alla sua meta il re Argon era morto e in sua vece regnava il fratello Acatu, il quale così pare - consigliò Marco Polo e i suoi compagni di portare la principessa al principe Cazar, figlio di Argon, che si trovava allora nel Khorassan.
Di ritorno da questa missione i tre Veneziani presero commiato da Acatu. L'ultima parte del loro viaggio fu compiuta attraverso luoghi sconosciuti della Persia e dell'Armenia fino a Trebisonda, da dove poi veleggiarono per Costantinopoli. Nel 1295, dopo aver toccato Negroponte, giungevano a Venezia.
Ventiquattro anni di assenza, l'aspetto, mutato, la strana foggia del vestire e l'ibrido linguaggio avevano resi i tre Poli irriconoscibili; ma i parenti si affrettarono a riconoscerli quando, in un banchetto, furono loro mostrate le moltissime pietre preziose portate dai viaggiatori; e la Corte di Sabbionera, dove sorgevano le case, dei Polo, diventò la meta dei curiosi; di tanti Veneziani che desideravano saper notizie dei lontani paesi dell'Oriente. Pochissimi però credevano vere le meraviglie raccontate da Marco Polo ed i più stimarono il grande viaggiatore un fantasioso narratore di un milione di favole, ed infatti, questo nomignolo gli fu affibbiato: messer Milione.Tre anni dopo il suo ritorno a Venezia, e precisamente nel settembre del 1298, nella battaglia navale di Curzola (che abbiamo già narrata nelle precedenti pagine) Marco fu fatto prigioniero, condotto a Genova e chiuso nel Palazzo del Capitano del Popolo, dove fu compagno di prigionia di messer RUSTICHELLO, scrittore pisano, anche lui catturato dai Genovesi alla famosa battaglia della Meloria. A Rustichello, Marco Polo iniziò a narrare i suoi famosi viaggi e il suo lungo soggiorno nei paesi del Levante. Nel maggio del 1299, conclusasi la pace tra le due repubbliche rivali, MARCO POLO ritornò a Venezia dove morì più che settantenne tra il 1325 e il 1330.
Dall'amicizia con Rustichello da Pisa nacque il libro che prese il titolo dal nomignolo del suo narratore: "Il Milione"; una relazione concisa e rapida di tutte le cose che il Polo ebbe occasione di vedere e di osservare nei suoi viaggi, e di tutte le altre cose di cui da altri ebbe notizia. Non è un vero e proprio racconto delle vicende occorsegli durante le sue peregrinazioni, perché anzi lo scrittore evita di proposito di parlare di se stesso e solo nei pochi capitoli che aprono il libro dà alcune notizie sommarie dei viaggi dello zio e del padre e del suo, ma è una miniera preziosa, ricca, inesauribie di osservazioni esposte con ordine e diligenza, ed il dettato è così facile e schietto e sono così grandi le novità e il numero delle cose mostrate che la mancanza della narrazione dei casi personali non si avverte e non diminuisce per nulla l'interesse del lettore. Marco Polo non è un letterato né uno scienziato; ma un mercante desideroso di sapere, un osservatore acuto e diligente cui non sfugge nulla, che nota, confronta, s'informa, che ha acquistato, con i suoi viaggi e al contatto di tante e così diverse genti, grandissima esperienza, che con le numerose relazioni al Gran Khan delle sue ambasciate ha imparato la difficile arte del riferire, che non si perde nelle minuzie e non si lascia fuorviare dalle cose di poco conto, ma sa con occhio sicuro trovare e mostrarci le caratteristiche di un popolo e di un paese e dare il necessario rilievo alle cose. Non è uno zoologo né un botanico, pur tuttavia piante ed animali destano costantemente la sua attenzione e ce ne offre accurate descrizioni, consapevole senza dubbio che potrà essere di grande interesse ai suoi concittadini la conoscenza della fauna e della flora di quei lontani paesi; e quando lascia la Cina per far ritorno in patria non pensa solo a cucire sotto la fodera del suo saio pietre preziose, ma porta con sé dei semi di piante che spera di far nascere in Italia. Da buon mercante mostra molto interesse per le industrie e i commerci, e dei prodotti di quelle e dell'organizzazione di questi ci parla abbondantemente; e inoltre nota il linguaggio dei diversi popoli, i culti delle varie genti asiatiche, i costumi strani delle diverse regioni, e descrive scene, meraviglie e paesi che tengono avvinto il lettore.
"Il Milione" di MARCO POLO, scritto - come dai più si ritiene - in francese antico, ebbe larghissima diffusione nel Trecento e continuò ad averne nel Quattrocento. Fu tradotto in Italiano, in Latino, in Tedesco, in Spagnolo, in Catalano, in Irlandese, e sicuramente fu molto letto se oggi quest'opera, nelle varie edizioni, è citato in 150 codice del tempo.

Purtroppo pur contenendo l'opera, a suo modo, moltissime notizie geografiche, etnografiche, dati statistici, accenni di isole, regioni, fiumi e mari sconosciuti, non esercitò in quei secoli nessuna influenza sui dotti d'Europa, ritenendo tutto il contenuto del libro un piacevole romanzo, o delle fantasiose favole, e non modificarono per nulla le loro dotte dottrine. Solo i cartografi catalani, nella seconda metà del secolo XIV, prestando più fede alle notizie del Polo, cominciarono a disegnare le loro carte secondo le notizie fornite dal grande viaggiatore. Ma se negativa fu l'opera di Marco Polo sulla conoscenza geografica, se piuttosto che attingere a lui i dotti rimasero fedeli alle vecchie dottrine, grande fu l'influsso emotivo che il Milione esercitò sui mercanti e i navigatori del Mediterraneo, i quali, per i rapporti che già avevano con gli scali del Sol Levante, non potevano non credere alle ricchezze - pur sempre enormi, anche se sfrondate le presunte esagerazioni - di cui parlava il Polo; e non potevano non sentirsi irresistibilmente attratti verso i lontani paesi dell'Oriente che nel loro interno (e questo era nella coscienza atavica, da Alessandro in poi) racchiudevano inestimabili tesori. Per questo motivo, MARCO POLO oltre che essere stato il più grande dei viaggiatori terrestri di tutti i secoli, come l'Humboldt lo definì, si deve il merito di aver dato con il suo esempio e con la narrazione l'impulso ai viaggi degli Europei nelle misteriose regioni dell'Asia, di avere additato, percorrendole, le vie del lontano Oriente, di avere infine rivelato all'Europa un mondo sconosciuto, verso il quale dopo di lui molti spiriti irrequieti, avidi di guadagni e di sapere, iniziarono sempre di più a muoversi.
E non soltanto coloro i quali dovevano incamminarsi verso i paesi dell'estremo Levante per la via più breve, cioè la terrestre, ma Marco Polo ispirò anche coloro che dovevano, due secoli dopo, tentar di raggiungere le Indie circumnavigando l'Africa o puntando verso ponente attraverso l'Atlantico tenebroso. Per cui anche questo merito - che non è certo il minore di MARCO POLO - si può dare al grande viaggiatore veneziano: di essere stato cioè l'ispiratore delle imprese dei Portoghesi e del Colombo, che segnano la fine del Medioevo e il luminoso principio di un'era nuova nel cammino dell'umanità.
Per i "Mercanti" vedi non la storia di una grande città, come Firenze, Pisa, Milano o Genova ma la storia di una piccola e laboriosa città:

I MERCANTI DI LUCCA > > >
Segue poi affacciandosi ai primi anni del 1300
con i continui contrasti e le lotte tra le fazioni rivali che qui sopra abbiamo appena accennato, e che stanno portando alla formazione delle Signorie e Principati.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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