LA CORRUZIONE ROMANA - I GRACCHI; LE LEGGI - CATONE - LA CRISI

CORRUZIONE ROMANA - CATONE CENSORE - DISAGIO ECONOMICO E SUE CONSEGUENZE - LA PRIMA GUERRA SERVILE : EUNO E GLI SCHIAVI DELLA SICILIA - LA FAMIGLIA DEI GRACCHI - CORNELIA - TIBERIO GRACCO - LA LEGGE AGRARIA - MORTE DI TIBERIO - MISTERIOSA FINE DI SCIPIONE EMILIANO - RIVOLTA DI FREGELLE - CAIO GRACCO; SUO PRIMO E SECONDO TRIBUNATO - LE LEGGI GRACCANE - TRAGICA FINE DI CAIO GRACCO
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LA CORRUZIONE DEI ROMANI

Se - come abbiamo visto nei precedenti capitoli- sorprendente, è la rapidità con la quale Roma conquista i vastissimi territori delle sue nove province, con non minore rapidità, tramontano le virtù che sono state la sua forza maggiore e si corrompono i suoi severi costumi.
Un aumento territoriale di così vaste proporzioni in pochi anni con le conquiste del Mediterraneo e dell'Oriente, e i contatti con popolazioni tanto diverse per vita e costumi avevano trasformato in pochi anni la società romana, portandola ad assumere, in diversi campi della vita, aspetti problematici che, come esamineremo in queste pagine, provocarono grandi mutamenti politici oltre che sociali.

Prima, l'identità dei Romani era legata alle leggende, e nonostante gli avvenimenti che si erano succeduti fin dalla fondazione, quella Romana era comunque rimasta una civiltà contadina; con qualche commercio in più all'interno della penisola, ormai alla fine del 200 a.C. tutta conquistata, ma sempre civiltà contadina era rimasta. Nonostante i contatti con gli Etruschi, i latini (popolo fiero e autonomo) con le popolazione dell'Etruria non si erano identificati mai, e tanto meno sostanzialmente mutarono le proprie caratteristiche; anzi le imposero, non subendo -se non in minima parte- l'influsso della superiore civiltà etrusca, che, inutile volerlo nascondere (come fecero molti storici posteriori) superiore lo era; anche se decisamente lo era meno politicamente. Gli Etruschi non mirarono mai ad una "unione", nella loro "dodecapoli" (12 stati, ognuno governato dal suo "lucumone") cercarono sempre di mantenere tenacemente la loro reciproca indipendenza, non realizzando mai una vera unità politica. E fu poi questa la prima causa della loro decadenza e infine della loro definitiva scomparsa.

Molto diversa fu la situazione dopo la conquista della Grecia e dell'Oriente; i Romani subirono fortemente l'influsso della superiore civiltà greco-ellenistica.

Il contatto con le più civili popolazioni della Magna Grecia prima (Puglia, Calabria, Sicilia, Campania) e con quelle (a breve distanza) della stessa Grecia e dell'Oriente poi, fu fatale a Roma, e più funeste furono le enormi ricchezze ricavate dai commerci e dalle conquiste.
I severi costumi degli antichi Romani scompaiono e con l'oro, gli agi, il lusso, la corruzione, penetra nelle famiglie, nei templi, nella curia, nell'esercito.
All'operosità di un tempo subentra l'ozio; il lavoro è schivato perché tenuto in "vil conto", e nei cantieri, nelle case, nelle campagne, ogni umana fatica é delegata agli schiavi; con le conquiste, sempre più numerosi; e fra questi, artisti, poeti, storici, letterati, filosofi, tecnici, agronomi, sacerdoti di altri culti.


L'estrema eleganza dell'arte e della cultura greca, contribuirono in modo decisivo ad allontanare i Romani da quella semplicità di costumi che avevano ereditato dagli avi. Forse fu anche un desiderio legittimo dopo tanti anni di guerre e sacrifici per farle.

La semplicità e la sobrietà di un Cincinnato sono un lontano ricordo: le umili case hanno ceduto il posto ai palazzi grandiosi, le modeste suppellettile ai mobili più sfarzosi e ai più costosi e più lussuosi oggetti: la cucina non è più frugale come quella di una volta; è cresciuto il numero dei pasti (dopo il "prandium" del mezzodì, si abituano alla "cena" della sera) e a preparare le più squisite vivande sono chiamati cuochi forestieri che sfoggiano tutta la loro virtuosità utilizzando cibi e ingredienti mai visti. I ricchi, adottarono, esagerandole, tutte le raffinatezze della mensa orientale.
Ai sani ed onesti divertimenti di una volta succedono spettacoli superbi e dispendiosi, che sono tutti inviti al dolce far niente ma anche ai vizi; teatri dove si applaude ai mimi, agli istrioni, alle sfrontate ballerine; o nei circhi dove si scannano le belve o si assiste già da una decina d'anni -dopo la conquista della opulenta Capua, città più ricca di Roma- con gioia all'agonia dei gladiatori.

I panni tessuti in casa delle casalinghe sono sostituiti con stoffe ricchissime giunte dall'oriente, di finissima seta, tinte di indaco, di verdi smeraldo, di porpora o intrecciate a fili d'oro e d'argento; ai modesti ornamenti cedono il posto gioielli di altissimo prezzo; alle poche ancelle ed all'esiguo numero di servitori, fanno riscontro nelle case dei patrizi e dei ricchi, schiere di schiavi di ogni lingua, deportati da tutte le parti del mondo al seguito degli eserciti vittoriosi.
I giovani non si esercitano più al maneggio dell'arco, della lancia e della spada, ma passano il tempo in sciocchi divertimenti, ubriacandosi con vini squisiti, frequentando le case delle meretrici, sperperando le loro sostanze nel gioco.

Fenomeni questi che non passavano inosservati ai conservatori, agli esponenti dell'oligarchia romana. Uno dei quali - come figura più rappresentante- PORCIO CATONE, che pur consapevole dell'importanza degli apporti greci, avrebbe voluto contenerli per non "snaturare le caratteristiche della tradizione romana". Ma Catone "il censore" non poteva da solo frenare il contatto fra culture, da cui la civiltà romana uscì, e nonostante gli aspetti negativi, certamente arricchita.
Abbiamo parlato, di arte, vesti, ornamenti, cibi, ma c'è dell'altro. A Roma fino alo sbarco in Africa e in Grecia si scriveva poco e si scriveva solo sulle pietre e tavolette d'argilla. Ora si è scoperto il papiro, e nel più ricco e fiorente regno ellenico, Pergamo, che Attalo ha donato nel 133 a Roma, i romani oltre che i tesori hanno scoperto la pergamena; sopra la quale POLIBIO - anche lui prigioniero a Roma- inizia a scrivere i quaranta volumi di "Storie", e lui che è greco, nello stile epico greco. Che prosegue l'opera iniziata da un altro prigioniero a Roma, da Taranto nel 272: LIVIO ANDRONICO. è lui a scrivere le prime opere letterarie redatte in lingua latina, lui a tradurre e a far conoscere le tragedie, le commedie greche, e l'Odissea di Omero.

E oltre ai costumi, anche la religione perse i suoi caratteri originali ed assimilò quelli ellenici, introducendo in Italia dalla Grecia i nuovi culti. Ma una delle conseguenze della trasformazione religiosa fu che, mentre il popolo si mantenne legato alle vecchie superstizioni (a quelle del "pagos" cioè del villaggio = paganesimo), nelle classi sociali più ricche e colte, cominciarono ad apparire lo scetticismo e l'indifferenza verso tutti gli altri culti sino allora noti a Roma.
I Romani scoprono in questi fatidici anni (delle conquiste) i mitici Dei greci, che salvo alcuni, molti durarono poco; dopo l'"abbuffata" e con le prime grandi crisi nella repubblica, scopriranno quelli orientali; uscendo dal concetto politeistico della loro originaria religione italica, per elevarsi a quello monoteistico di un'unica divinità (fra pochi anni a quella egiziana di Iside, poi a quella Persiana di Mitra; si appoggiano non più a quella religione grossolana del popolo, ma a quella più affine al bisogno di novità di gente diventata raffinata, più colta, e sempre più matura per una vera religione dello spirito, quale fu il successivo Cristianesimo. Per soddisfare al bisogno insito nell'uomo di conoscere la ragione prima di tutte le cose; soprattutto quando, in uno stato d'angoscia, vedranno crollare attorno a loro ogni cosa, chiedendosi "perche", e "come è stato possibile" dopo tanta gloria.

E con la religione in questi anni di rapide e ricche conquiste, si modifica perfino la famiglia. La donna non è più il sorriso della casa, la compagna casta e fedele dell'uomo, l'ispiratrice di alti sensi, la virtuosa educatrice della prole. Da schiava, è vero, è divenuta libera; ma la libertà ha rallentato in lei il freno morale; essa è ora una creatura frivola, che si perde dietro al lusso ed alle pompe, che ama i gioielli e i ninnoli più del marito guerriero, che non si cura più del suo onore. Roma pullula di cortigiane, la voluttà e la libidine imperano sovrane, i vincoli familiari s'indeboliscono, i matrimoni diventano rari e il celibato trionfa.
Le mollezze e l'ozio, sfibrando il corpo, fanno scemare l'entusiasmo guerriero e indeboliscono la disciplina militare. Siamo lontani dai tempi - e che abbiamo letto- in cui un console condanna a morte il proprio figlio solo perché ha disubbidito ai suoi ordini; ora più di una volta i cittadini non rispondono alla chiamata alle armi (Mario nel 104 a.C. sarà costretto ad accettare nell'esercito anche i nullatenenti se vuole allestire un esercito) o se vanno ad arruolarsi è perché sono costretti; e spesso abbiamo visto in questi anni, come i veri coscienziosi generali, assumendo il comando delle truppe, sentissero come prima cosa il bisogno di restaurare la disciplina se volevano ottenere qualche decisiva vittoria.
Ma che dire dei soldati di questi ultimi tempi, se sono gli stessi loro superiori a dare il cattivo esempio non osservando le leggi? Senza deliberazione del Senato il console MANLIO VOLSONE porta la guerra contro i Galati; POPILIO contro i Liguri; LUCULLO contro i Vaccei; METELLO contro i Balearici; e che invece di essere puniti (e lo abbiamo visto nel precedente riassunto) ottengono lodi ed onori.
Lo sfarzo della nuova vita mette a tutti, nei capi e nei gregari, una sete straordinaria di guadagni. I soldati eccedono nei saccheggi e questi sono sempre accompagnati da inaudite violenze: nessuno delle province conquistate uscì immune da un saccheggio, da una spoliazione, da una distruzione totale.

Sono rarissimi i generali che tornano dalla guerra a tasche vuote; come ad esempio in questi anni, PAOLO EMILIO il Macedone, MUMMIO, il distruttore di Corinto, e SCIPIONE EMILIANO. Quasi tutti devastano, saccheggiano e se ne tornano a casa carichi di bottino.
L'Oro è diventato il più potente dio di Roma; esso toglie la sobrietà ai soldati, la pudicizia alle donne, la rettitudine ai consoli e ai senatori, l'equità ai giudici. I magistrati diventano avidi e venali: abbiamo visto Lucullo e Galba comperare con l'oro arraffato in Spagna, l'assoluzione; e vedremo ancora (nel prossimo capitolo della "Guerra Giugurtina") l'oro di Giugurta comperare facilmente capitani e senatori, che come disse lo stesso Giugurta, tutti erano in "vendita", compresa la stessa intera Roma.

La corruzione è una lebbra dalla quale i sacerdoti neppure si salvano, perché neppure i templi restano immuni. Se da un lato ai vecchi numi di Roma si dà la compagnia di tutte le divinità dell'Asia e dell'Africa e il semplice, austero, solenne culto degli avi s'imbastardisce con i fastosi culti orientali (che ai romani piacciono, e ai nuovi ciarlatani piombati a Roma da ogni parte, rendono), da un altro canto si fa strada in questi anni l'ateismo (quelli antichi sono dimenticati, e quelli spirituali devono ancora arrivare), il tempio si muta in bottega e la religione è pretesto di oscenità infami come le orge notturne dei baccanali.
Il Senato sa che la decadenza delle antiche istituzioni politico-religiose, è in gran parte dovuta all'influsso delle dottrine esotiche e ricorre ad energici provvedimenti: espelle nel 161 i retori greci e proibisce nel 155 che CARNEADE, DIOGENE e CRITOLAO diffondano la loro filosofia.
Tutto è inutile: la Grecia ora è provincia romana, e impone la sua lingua, la sua moda, le sue dottrine; né grande efficacia ha l'opera di MARCO PORCIO CATONE detto il "censore".
Quest'uomo ammirevole spende la sua vita per la rigenerazione dei costumi romani. Lui discendente da un'illustre famiglia di Tuscolo, e in un secolo di decadenza è uno dei pochi, genuini rappresentanti dei Romani antichi. Soldato, si distingue per onestà, disciplina, valore, nelle guerre contro Annibale; combatte a Capua, a Taranto, al Metauro e nella guerra asiatica, meritandosi le altissime lodi del console; è nella guerra di Sicilia sotto Marcello e nella guerra ispanica. Tuttavia è amante del vivere sobrio e frugale.
Trascorre la sua adolescenza in un podere paterno della Sabina, lavora con i servi nei campi e si fa strenuo patrocinatore degli oppressi. Giunto a Roma, inizia una guerra spietata contro tutto ciò che sa di nuovo e di straniero, sostenendo strenuamente il ritorno alle antiche virtù. Riscuote plausi e si procura inimicizie; ma i primi non lo commuovono e le seconde non lo spaventano. Non esita a schierarsi contro la potentissima famiglia di CORNELIA -che in quanto a sobrietà non era inferiore allo stesso Catone- accusando i fratelli SCIPIONI, di cui Publio va in esilio e Lucio è condannato, "per aver favorito la cultura ellenistica".

Nominato censore, fa veramente il suo mestiere, combatte spietatamente e con tenacia i vizi, il lusso, le mollezze, gli abusi, prendendo come bersaglio dei suoi fierissimi colpi, delle sue terribili accuse, delle sue roventi orazioni, patrizi e plebei, uomini e donne, uomini di governo e pubblicani. Fa cacciare dalla curia sette senatori che conducono vita scostumata, cancella dalla lista alcuni senatori per immoralità, perfino il fratello di Flaminino, vincitore di Filippo il macedone; toglie il cavallo a molti cavalieri, impone una tassa in ragione del tre per mille sul lusso eccessivo delle matrone, ristora le finanze, cura l'igiene della città, caccia dalla Sardegna gli usurai e diminuisce le imposte delle quali i pretori avevano gravato quei poveri isolani; difende gli innocenti, i calunniati, gli oppressi, cita in giudizio tribuni. Dove c'è scandalo lì implacabilmente c'è Catone, "il censore".

Ma l'opera di un solo uomo è incapace di arginare la corruzione. Alla decadenza dei costumi ora si aggiunge il disagio economico e quella e questo sono causa di gravi disordini e che iniziano ad arrecare gravi danni a Roma.

E fra questi mali, si sta profilando una frattura all'interno della società romana, che anche questa inizia ad avere entro breve tempo gravissime conseguenze.
Una frattura dovuta principalmente ai seguenti fattori:
a)- rivalità fra gli aristocratici, decisi a mantenere il potere, e i cavalieri e i popolani che consapevoli di costituire la maggioranza dei cittadini aspirano a quel potere; uscendo così da quello stato di inferiorità politica in cui si trovavano. Le guerre hanno reso famosi soggetti (spesso con natali plebei) dentro non solo l'ambiente militare (che inizia con i suoi generali a diventare sempre più potente) ma anche nel popolo che li porta in trionfo anche quando il Senato a loro lo nega.
b) - rivalità di Roma con gli alleati (Sanniti, Piceni, Marsi, Peligni, Apuli, Lucani ecc.) che consapevoli di aver concorso alla potenza di Roma, non hanno ricevuto nulla in cambio delle loro fedeltà, né miglioramenti alle condizioni economiche che aspiravano, né il pieno diritto alla cittadinanza.
c) - rivalità con gli uni e gli altri, di quella massa d'avventurieri, affluiti a Roma da paesi e regioni vicine e lontane, per trarre vantaggio dalle situazioni più torbide, e sempre pronte a mettersi al servizio delle varie fazioni in lotta.

DISAGIO ECONOMICO E SUE CONSEGUENZE

Dell'antico patriziato pochissime famiglie hanno potuto mantenere gli aviti agi. Un nuovo spregiudicato patriziato che patriziato non è, ha sostituito il vecchio; alla nobiltà legata alle virtù subentra la nobiltà dei ricchi, la plutocrazia dei mercanti, degli usurai e degli speculatori, che si servono dei loro tesori per ottenere o mantenere il potere. Ma Roma, con il suo splendore, attira non solo gli avventurieri accennati sopra, ma anche un'infinità di gente dalla penisola e dalle province, che nella capitale non trova il benessere agognato, ma la disoccupazione e la fame; masse di scontenti -suggestionabili perché ignoranti- che possono trasformarsi da un momento all'altro in un potenziale esplosivo se con la demagogia queste masse le utilizzano le opposte fazioni solo per creare disordini (come vedremo più avanti).

La piccola proprietà terriera si è quasi tutta ridotta in mano di pochi, essendo stati i piccoli proprietari costretti a cedere i loro poderi agli usurai per soddisfare i debiti contratti durante le guerre.
Con il formarsi dei latifondi decade l'agricoltura. Sul mercato di Roma i ricchissimi prodotti delle province diminuiscono di pregio e svalutano i prodotti d'Italia, e i proprietari dei latifondi per sopportare spese minori, violando impunemente le leggi Licinie, trasformano in pascoli i campi e, poiché il libero (ma capace) lavoratore costa più dello schiavo, preferiscono la (bassa) mano d'opera degli schiavi a quella degli uomini liberi, anche se producono poco e male.
Ne deriva che gli agricoltori, non trovando più lavoro nelle campagne, affluiscono numerosi a Roma, accrescendovi spontaneamente il numero dei disoccupati e dei poveri; e lo stato deve provvedere al sostentamento di questa folla d'affamati, ma, invece di dare loro da lavorare, vende a bassissimo prezzo il grano o lo distribuisce gratuitamente, innalzando a regola ciò che per eccezione, nei casi di carestia, era fatto per generosa solidarietà.

Ed ecco che la repubblica favorisce con i suoi stolti provvedimenti la disoccupazione e l'ozio, nutrendo un numero rilevante di persone che a poco a poco cadono nell'abbrutimento e nei vizi e costituiscono elemento di disordine.

Altro elemento pericolosissimo è quello dei "liberti" che SCIPIONE EMILIANO chiama "figliastri d'Italia". Figli di schiavi, e schiavi un tempo essi stessi, che anziché per le loro virtù si sono guadagnati la libertà per le iniquità commesse in pro e a servizio dei loro tristi padroni. Privi di occupazione, non amanti del lavoro, i liberti vivono, nelle taverne e nei postriboli, di lenocini, di ricatti, di furti, pronti sempre a favorire le ribalderie dei ricchi e a prestare la loro opera malvagia, in compenso di denaro ai loro ex padroni.

Ai disoccupati ed ai liberti vanno aggiunti gli schiavi, che costituiscono un elemento non meno pericoloso alla sicurezza pubblica.
Con l'estendersi delle conquiste romane cresce il numero degli schiavi. Noi non sappiamo con precisione a quanti assommavano al principio del II sec. a.C. il numero di questi disgraziati. Certo dovette essere considerevole e non debbono considerarsi come esagerazioni le affermazioni di certi statisti e storici del tempo, che affermano che vi erano tre schiavi per ogni cittadino.
Si pensi, infatti, che in Epiro centocinquantamila schiavi furono venduti quando in questi anni questa regione fu sottomessa, che a Delo - secondo Strabone - diecimila schiavi in un solo giorno furono imbarcati per l'Italia, che nella sola Sicilia presero parte alla rivolta dell'anno 135, duecentomila schiavi, che nel 104, nella Bitinia, - secondo le dichiarazioni di qualche re - non si trovavano più uomini adulti essendo stati presi tutti come schiavi dagli esattori romani, che Crasso aveva sotto di sé cinquecento schiavi muratori, che il figlio di una vedova n'ereditò quattrocento e che un certo Claudio Isidoro, morendo, ne lasciò ai parenti quattromilacentocinquanta !

Agli schiavi si faceva fare qualsiasi lavoro: erano addetti alla coltivazione dei campi, alla costruzione delle case, delle vie, degli acquedotti, dei monumenti, ai cantieri, agli arsenali; facevano i fabbri, gli spazzini, i falegnami; servivano da ciurma e rematori nelle navi, erano impiegati nei servizi delle case private, presso lo stato e nelle province come carcerieri, corrieri, carnefici; o facevano i suonatori, gli istrioni e perfino i pedagoghi.
Misere erano le loro condizioni: di giorno lavoravano con la catena ai piedi sotto la sorveglianza di guardiani spietati, di notte erano condotti in celle sotterranee che erano chiamate "ergastoli".
Se ai tempi dell'antica Roma la schiavitù era sopportabile, con l'andar del tempo divenne intollerabile. Gli schiavi erano tenuti in minor conto degli animali e considerati come cose; non avevano diritti di proprietà, neppure sui figli e sulle spose, e su di loro il padrone esercitava un potere senza limiti.
Maltrattati, seviziati, torturati, gli schiavi spesso ad una vita di tormenti preferivano la morte in un tentativo di liberazione e, poiché a nessuno potevano appellarsi affinché fosse migliorata la loro sorte, consapevoli del loro numero che rappresentava una grande forza, cercarono di porre fine al loro stato miserando ribellandosi.

LA PRIMA GUERRA SERVILE

La prima rivolta di schiavi, che provocò la guerra chiamata servile, scoppiò in Sicilia nel 135 a.C.
Gli schiavi della Sicilia erano trattati peggio che quelli delle altre regioni; erano perfino marchiati con un ferro di cavallo arroventato.
Un ricchissimo signore di Enna di nome ANTIGONO aveva tra gli altri uno schiavo, certo EUNO, nato in Apamea di Siria, il quale si spacciava per divinatore del futuro. Parlava al volgo tenendo in bocca una noce piena di zolfo e di stoppa accesa, diceva di essere invaso dallo spirito di Apollo ed asseriva di avergli la dea Cibele annunciato che un giorno sarebbe stato re.

Nella stessa città abitava un altro ricco signore di nome DAMOFILO, crudele verso gli schiavi, sposato ad una certa Megallide che in crudeltà non era per nulla inferiore al marito.
Partì dagli schiavi di Damofilo la prima scintilla della rivolta. Capitanati da EUNO, in numero di quattrocento entrarono improvvisamente a Enna compiendo una strage di abitanti. Un manipolo di rivoltosi, recatosi nella casa di campagna del crudele signore, s'impadronì di Damofilo e Megallide e li condusse in città alla presenza degli altri schiavi che si erano radunati nel teatro. Damofilo cercò di scusarsi e d'impietosire i suoi giudici, ma uno schiavo chiamato ERMEA lo passò da parte a parte con la spada, e un altro, di none ZEUSI, lo decapitò con una scure. Megallide fu consegnata alle sue serve schiave, che prima la seviziarono poi la precipitarono in un burrone. Solo una figlia di quella triste coppia, che sempre si era mostrata buona con gli schiavi, ebbe salva la vita.
EUNO, fattosi proclamare re, prese il nome di ANTIOCO, ordinò che fossero uccisi gli abitanti superstiti di Enna e, sceltosi come consigliere un certo ACHEO, alla testa di seimila schiavi si mise a fare scorrerie, saccheggiando le vicine campagne.
L'esempio degli schiavi di Enna trascinò alla rivolta i compagni dei paesi vicini, guidati da un certo CLEONE di Cilicia e in breve tempo EUNO ebbe sotto i suoi ordini ventimila schiavi.

Prima il pretore MANILIO poi CORNELIO LENTULO marciarono contro gli insorti, ma furono sconfitti; un corpo di cavalleria romana comandata da C. TIZIO fu accerchiato; L. IPEO, inviato con truppe da Roma, fu battuto. Il numero dei ribelli nel frattempo era diventato di duecentomila, che mise allo sbaraglio un altro esercito romano comandato da L. PLANICO.
Dopo Enna, anche Tauromenio cadde in potere degli schiavi, che marciarono su Messana (Messina) e la cinsero d'assedio.
A domare la rivolta fu inviato dal Senato in Sicilia il console LUCIO CALPURNIO PISONE. Questi inflisse ai ribelli una durissima sconfitta e li obbligò ad allontanarsi da Messana, dopo aver lasciato sotto le mura della città ottomila morti.
La repressione della rivolta fu continuata dal console PUBLIO RUTILIO che cinse l'assedio con un numeroso esercito Tauromenio. Nonostante mancanti di viveri, gli schiavi resistettero disperatamente e si narra che si cibassero della carne dei cadaveri. La città cadde in potere dei Romani per il tradimento dello schiavo siriaco SERAPIONE. Si racconta che COMANO, fratello di CLEONE, catturato mentre fuggiva e condotto alla presenza del console, per non rivelare il piano dei suoi compagni si suicidò.

Tutti gli schiavi catturati furono fatti precipitare dall'alto delle rocce. Caduta Tauromenio, il console decise di assediare Enna, dove si trovavano EUNO e CLEONE. Quest'ultimo, vedendo che non c'era speranza di salvezza, affrontò coraggiosamente gli assedianti in una disperata sortita e trovò morte in battaglia; Euno invece, dopo che la città era caduta per tradimento, riuscì a fuggire con seicento schiavi e si rifugiò sopra un monte, dove, circondato dalle truppe romane fu poi catturato (132 a.C.).
Condotto in prigione a Murganzia, o, come altri narrano, morì a Roma.

Con la morte dei due capi e la resa delle due città i rivoltosi si persero d'animo e ben presto furono debellati. Ventimila schiavi - secondo Diodoro Siculo - li uccisero per dare un salutare esempio ai compagni: mentre gli altri schiavi videro peggiorate le proprie condizioni.
Avendo rivelato i libri sibillini, che la rivolta era dovuto allo sdegno di Cerere, furono fatti solenni sacrifici nel tempio della dea ad Enna; ma nessuno comprese cosa volesse significare lo sdegno di Cerere, per placare il quale occorreva soltanto migliorare la sorte degli schiavi, che erano addetti alla coltivazione della terra, ma ricevevano un trattamento inumano.
Cosicché le ingiustizie e le crudeltà dei pretori romani continuarono.
Il pretore PORCIO CATONE, accusato dagli abitanti di Messana di concussione, fu, è vero, condannato a pagare diciottomila sesterzi; ma questo non servì a far smettere l'avidità dei dominatori e non mutò in meglio le condizioni dell'isola, che anzi, peggiorando sempre di più, ventiotto anni dopo, vi scoppiò un'altra rivolta ancora più grave della prima.

TIBERIO SEMPRONIO GRACCO

Alla repressione della rivolta degli schiavi di Sicilia seguirono- anche se minori- le insurrezioni in Grecia e in Campania. Ma il rimedio non era nelle repressioni; il male andava estirpato dalle radici. Occorreva lenire senza indugio i dolori, alleviare la miseria, sanare la minacciosa piaga della disoccupazione e risollevare la sorte degli schiavi.
A Roma non mancarono uomini autorevoli che si resero conto della gravità della situazione sociale e compresero pure quali potevano essere i rimedi. Questi uomini erano: SCIPIONE EMILIANO e CAIO LELIO. Il primo, per la fama che aveva e per l'autorità che gli era venuta dalle gloriose imprese, era forse l'uomo più adatto a far cessare il disagio economico, ma, se vide in anticipo le conseguenze che sarebbero derivate alla repubblica dalla continuazione di quello stato di cose, nulla poi fece per evitarle.
Il secondo, ancora durante il suo consolato del 140 aveva proposto di distribuire fra gli agricoltori l'agro pubblico della penisola, ma ritirò subito la sua proposta quando si accorse che non era per nulla gradita al Senato, dove sedeva la maggior parte di coloro che di quei terreni erano i proprietari. Gran parte di tali terre erano per legge proprietà dello Stato (agro pubblico), ma erano state date in affidamento quasi esclusivamente agli aristocratici, con la conseguente formazione d'immensi latifondi, lasciati per lo più a bosco e a prato o coltivati da masse di schiavi che continuavano ad arrivare a decine di migliaia a Roma dalle terre conquistate.
I piccoli contadini proprietari, prima delle numerose guerre in Spagna, Africa, Macedonia, Grecia, c'erano ed erano molti, e nella produzione di derrate alimentari, rappresentavano il pilastro per l'economia romana, ma con le continue coscrizioni per allestire sempre nuovi eserciti, e la lontananza dalle loro case per molti anni, quando poi tornavano, non avendo potuto provvedere alle loro terre (peggio ancora per i familiari di quelli che non tornavano, e che dovevano pensare a pagare anche le tasse nonostante la bassa produzione) queste piccole proprietà erano gravate da debiti fatti con gli usurai (che poi erano gli stessi aristocratici dell'ordine senatorio) e finivano inesorabilmente assorbite dagli stessi, che accumulavano sempre più ricchezze sia con i prestiti sia allargando i loro latifondi, spesso come detto sopra non sempre coltivati.
Le conseguenze della mancanza di produzione, essendo la domanda sempre più alta -per l'incremento demografico e le inarrestabili migrazioni in città- era l'aumento di prezzo delle derrate alimentari che il popolo non si poteva più permettere di acquistare; e paradossalmente neppure gli ex contadini che vivevano nelle campagne ma senza lavoro, e senza un metro di terra per coltivarci l'indispensabile per vivere.

Nel concepire una riforma, più audace, molto più concreto di Emiliano e Lelio, si mostrò TIBERIO SEMPRONIO GRACCO.
Era questi figlio di quel Sempronio che era stato console nel 177 e nel 163 a.C. e censore nel 169; sua madre era CORNELIA, nobilissima matrona, figlia di Publio Cornelio Scipione l'Africano.
Questo matrimonio era stato concluso per rappacificare due grandi famiglie che erano poi gli esponenti dei due grandi partiti politici di Roma. Più tardi, per completare la pacificazione, altri vincoli di parentela furono stretti tra le due famiglie: SCIPIONE EMILIANO sposò SEMPRONIA, la figlia di Cornelia. Ma a nulla valsero l'uno e l'altro matrimonio: i dissidi non prendevano origine da questioni personali né quelli dei due partiti, ma da opposte concezioni politiche e il contrasto prodotto da queste cause non poteva di certo essere sanato con delle semplici nozze siano pure contratte tra membri di famiglie molto influenti.
Rimasto privo del padre in giovanissima età con il fratello CAIO, minore di nove anni, Tiberio Sempronio Gracco restò affidato alle amorevoli e sapienti cure della madre Cornelia.
In un secolo di tanta corruzione, CORNELIA era il vero tipo della donna romana antica; amava la semplicità e giustamente disprezzava il lusso; era buona con i suoi sottoposti, pia e devota, scrupolosamente onesta. Erano tante le sue virtù che, rimasta vedova, la chiese in sposa TOLOMEO VII, re di Cirene; ma lei rifiutò e volle rimanere regina della sua casa.
Ad una matrona romana, recatasi in casa della virtuosa figlia di Scipione, dopo averle mostrati i suoi preziosi gioielli, le chiedeva che mostrasse i suoi; si narra che Cornelia, fatti entrare i suoi figlioletti, esclamasse: "I miei gioielli sono questi !".

Dei suoi dodici figli sopravvissero solo una femmina, e dei maschi Tiberio e Caio; che poi morirono tragicamente prima della madre.

I due Gracchi ebbero per maestri i filosofi Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma, ma la maestra migliore fu la madre, la quale li educò nella virtù degli avi, all'amore della patria, allo sprezzo della vita e al culto della libertà, narrando loro le imprese che il padre aveva compiute nella Sardegna, nella Spagna e nella Tracia, magnificando le gesta gloriose del nonno in Africa, in Spagna e in Asia e facendo loro sapere che il tempio alla Libertà che sorgeva sull'Aventino era stato innalzato a spese e per volontà di uno dei loro illustri antenati.
Ben presto TIBERIO SEMPRONIO GRACCO si rese degno dei suoi maggiori e fece parlare di sé: appena diciassettenne partecipò con Scipione Emiliano alla terza guerra punica e, all'assalto di Megara fu lui il primo a scalare le mura; pochi anni dopo, 25 enne, nominato questore, accompagnò in Spagna il console CAIO Mancino nel 137 ed, essendo l'esercito caduto nella trappola dei Numantini, seppe lui strappare ai vincitori quel trattato che, se non era onorevole per i Romani, salvava però la vita a ventimila uomini.

Quando tornò dalla Spagna in Italia, era salito in gran fama di guerriero e di uomo politico. Attraversando l'Etruria, sensibile com'era fu addolorato nel vedere dei validissimi agricoltori che, per la disoccupazione, languivano nella miseria, e non meno rattristato nel vedere che le terre o non erano coltivate o se lo erano dagli schiavi, queste erano mal coltivate.

Pieno l'animo dell'ardente desiderio di lenire tante miserie e di ovviare ai gravissimi disagi economici che affliggevano la sua patria, Tiberio Gracco conseguì il tribunato.
Entrò in carica il 10 dicembre del 133 e, messosi d'accordo con APPIO CLAUDIO, suo suocero, con PUBLIO LICINIO CRASSO MUCIANO, pontefice massimo, e con il nuovo console P. MUCIO SCEVOLA, insigne giureconsulto, propose che fosse rimessa in vigore la legge agraria "Licinia-Sestia"
Secondo tale legge - che da tempo era stata messa in abbandono - nessun cittadino poteva possedere più di cinquecento jugeri (misura equivalente a un quarto di ettaro) di agro pubblico, e che dovevano esser coltivati da un certo numero di lavoratori, e non di servi.
Quell'antica legge però non si adattava più ai tempi nuovi e Tiberio Gracco molto opportunamente la modificò temperandola proponendo che, oltre ai cinquecento jugeri prescritti dalla legge ogni cittadino potesse possedere altri cinquecento purché dividesse questi ultimi in parti eguali fra due suoi figli (il totale per una famiglia era quindi il massimo di 1000 jugeri.

Propose inoltre che lo stato pagasse ai cittadini per le terre sottratte in virtù della legge le spese fatte nei miglioramenti o in case fabbricate nei fondi. Le terre tornate in proprietà dello stato dovevano, in lotti di trenta jugeri ciascuno, essere distribuite ai bisognosi, i quali dovevano pagare un simbolico canone alla repubblica. Le terre erano cedute in usufrutto perpetuo, ereditario e inalienabile.
Se molti e non lievi erano le modifiche alla legge Licinia-Sestia, non poche erano le difficoltà per la sua attuazione. Da moltissimi anni non si erano più fatti acquisti di agro pubblico in Italia e non era cosa facile identificare tra le private proprietà quelle che un tempo erano state terre demaniali e -come detto già sopra- soltanto affidate ai latifondisti.
Oltre a questo, molti avevano acquistato legalmente terre da coloro che le avevano avute alle condizioni d'affidamento ma le avevano alienate come loro proprietà. Sarebbe stato quindi ingiusto, ora sottrarle a chi le aveva pagate in buona fede, come sarebbe stato un onere gravissimo per lo stato pretendere con i denari dell'erario pubblico risarcire i danneggiati.

Ma la più gran difficoltà proveniva dai ricchi proprietari che decisero di combattere con tutti i mezzi la legge.
Uno degli avversari più accaniti era SCIPIONE NASICA.
Il giorno in cui i comizi tributi dovevano votare la legge, le aspettative erano grandi. Da ogni parte della penisola era convenuta a Roma una folla di persone, alla quale TIBERIO GRACCO, rivolse un discorso caloroso.
Parlò dei bisogni del popolo, della legge votata dai patrizi, delle usurpazioni dei ricchi; disse dell'onta della nazione e del danno che essa subiva, condannando le nuove generazioni alla miseria; parlò dei vasti latifondi affidati alle mani degli schiavi che non coltivavano con amore la terra dei loro crudeli ed avari padroni; rimproverò con asprezza i ricchi che con la loro rapacità portavano alla rovina la patria e la coprivano di disonore; ricordò i prodi che avevano difeso con il loro sangue Roma e che come ricompensa erano stati abbandonati alla povertà più squallida e concluse: "Non dicono il vero i capitani quando spronano i soldati a lottare per le are degli dei e per i sepolcri degli avi. Fra i soldati romani, non c'è nessuno che ha altari e sepolcri aviti. Loro si battono e muoiono solo per procurare ad altri agi e mollezze; sono chiamati i dominatori del mondo ed invece non possiedono neppure una zolla di terra. Precipiterà nel baratro della rovina la patria se a questi mali non si metterà riparo".

Parlò con tale fervore che nessuno dubitò dell'esito della votazione. Ma questa purtroppo non avvenne. Fra i tribuni della plebe era MARCO OTTAVIO CECINA, il quale, essendo un ricco proprietario terriero, si oppose alla votazione e il suo veto impedì che la vittoria fosse del popolo e del tribuno che aveva proposto la legge riparatrice.
La riprovevole condotta del collega irritò TIBERIO GRACCO, il quale ricorse alle rappresaglie, sospese i magistrati e chiuse l'erario dichiarando che né questo sarebbe stato aperto né quelli avrebbero esercitate le loro funzioni fino il giorno della nuova votazione.

Riunitisi nuovamente i comizi, si era in procinto di votare, quando il partito dei ricchi sottrasse furtivamente le urne. A questa prepotenza insorsero i partigiani della legge e sarebbe nato un violento e sanguinoso conflitto se Tiberio non avesse placato gli animi.
Il fiero e ostinato tribuno si recò nella curia per protestare, ma i senatori lo accolsero con ingiurie. Allora Tiberio cercò di rimuovere gli ostacoli pregando MARCO OTTAVIO di desistere dall'opposizione; ma vane furono le preghiere, vana fu l'offerta che fece al collega di pagargli i danni che riceveva dall'attuazione della legge. Ottavio non si piegò; in maggiore misura irritato, Tiberio convocò i comizi affinché si decidesse se si poteva lasciare in carica un tribuno che invece di difendere i diritti del popolo li combatteva.
Le prime diciassette delle trentacinque tribù avevano già votato la destituzione di Ottavio; mancavano quindi i voti di una sola tribù perché Tiberio ottenesse la maggioranza.
TIBERIO generosamente si decise a fare un ultimo tentativo per persuadere il collega, ma OTTAVIO rifiutò ancora una volta di ritirare il suo veto e la votazione continuò.
L'esito finale fu nettamente contrario ad OTTAVIO, che fu cacciato dalla ringhiera tribunizia e sarebbe stato malmenato dal popolo inferocito se non fosse intervenuto in suo favore proprio TIBERIO.
Dopo la destituzione di Ottavio, rimessa la legge ai voti, fu approvata e, seduta stante, fu nominata una commissione di tre membri per metterla in esecuzione. Risultarono eletti, TIBERIO, il suocero APPIO CLAUDIO e il fratello CAIO GRACCO che allora era assente da Roma trovandosi con Scipione Emiliano all'assedio di Numanzia.
La vittoria era stata del popolo; ma non fu facile dare esecuzione alla legge.
Tutta l'oligarchia senatoria era impegnata a ostacolarla
Era una faccenda molto complicata distinguere i patrimoni terrieri dello stato dai privati, tuttavia con della buona volontà non era difficile risolverla con una commissione di esperti agronomi. Ma il Senato si rifiutò di fornire i denari del pubblico erario per formare questa commissione di esperti.

Pochi mesi dopo (e siamo nel 132 a.C.) era morto ATTALO III, re di Pergamo, lasciando erede del regno non Roma ma "il popolo romano". Tiberio Gracco, non tenendo conto della costituzione che dava facoltà solo al Senato di governare gli affari esteri e disporre dei nuovi acquisti, propose audacemente che i tesori del defunto re lasciati in eredità al popolo della repubblica fossero distribuiti fra i cittadini ai quali erano state assegnate le terre pubbliche affinché potessero acquistare gli arnesi agricoli, semenze e quant'altro, per far fronte alle prime spese.
A questo temerario annuncio, ad arte dalle file senatorie scoppiarono tumulti, imprecazioni, sdegno nel sentire che si voleva distribuire il "Tesoro di Attalo" alla plebaglia.

Non contento di questo, per conservarsi il favore del popolo, Tiberio propose altre leggi, di cui non abbiamo precisa notizia; alcune delle quali avevano lo scopo di diminuire sensibilmente l'autorità del Senato.
Sempre più inaspriti dall'opera del tribuno, i nobili e i ricchi decisero di abbatterlo. Cercarono anzitutto di metterlo in cattiva luce presso il popolo stesso che lo sosteneva insinuando che Tiberio Gracco aveva in animo di farsi tiranno di Roma e per avvalorare queste insinuazioni il senatore POMPEO sosteneva che il tribuno teneva in casa il diadema di Attalo; QUINTO METELLO invece lo accusava d'ipocrisia, che difendeva i poveri ma poi come un re si faceva accompagnare a casa con le fiaccole accese dai poveri.

Ma il popolo non prestò fede a queste banali malignità dei grandi, anzi consigliò e raccomandò il suo difensore di fare molta attenzione ai suoi nemici.
Inefficace ogni trama il partito avverso tentò allora d'impedire che il tribuno fosse rieletto.
L'elezione avvenne nei primi di luglio del 132, e gli oligarchi contavano sull'assenza di moltissimi elettori favorevoli a Tiberio trattenuti fuori di Roma dai lavori dei campi e mietitura del grano.
Tuttavia TIBERIO GRACCO ai voti si presentò al Campidoglio pieno di fiducia e le elezioni lo avrebbero confermato nella carica se gli avversari, protestando che i voti assegnati a Gracco erano illegali perché non poteva un tribuno essere rieletto. Riuscirono così a far sospendere la votazione.

Il giorno seguente furono riconvocati i comizi per riprendere la votazione e Tiberio Gracco si trovava al Campidoglio tra la folla dei suoi elettori quando il senatore FLAVIO FLACCO, suo amico, lo raggiunse per comunicargli, che i suoi oppositori, riuniti nel tempio della Fede, avevano deciso di troncare con la violenza le operazioni elettorali in corso.
La grave notizia causò grande agitazione fra coloro che, trovandosi vicino al tribuno, riuscirono a sentire le parole del senatore. Iniziarono ad infiammarsi e a rumoreggiare; i piccoli assembramenti più vicini e la folla lontana non conoscendo la causa del trambusto voleva sapere di che cosa si trattasse.
Non potendo Tiberio farsi intendere a parole e volendo far capire che gli avversari volevano la sua testa, indicandola fece un gesto con la mano sul capo.
Questo gesto gli fu fatale. I nemici, che erano presenti, corsero in Senato a riferire che Tiberio Gracco aveva chiesto all'assemblea che gli fosse data la corona di re.
A quella notizia, furono le teste dei senatori ad accendersi di ostentato sdegno, e SCIPIONE NASICA, l'accanito avversario del tribuno, chiese ad alta voce al console che si ordinasse di mettere a morte Tiberio.
MUZIO SCEVOLA disse che non poteva condannare un uomo contro il quale dai giudici non era stata pronunciata alcuna sentenza, ed allora Scipione, infuriato, urlò: "Poiché i1 console tradisce Roma, chi vuole la salvezza della repubblica mi segua !".
Non pochi dei senatori lo seguirono; a loro si unirono lungo la via altri nemici del tribuno e la turba, capitanata da SCIPIONE NASICA, si recò al Campidoglio urlando e roteando i bastoni che avevano in mano.
Sorpresi dall'improvvisa irruzione, i partigiani di Gracco si diedero alla fuga trascinandosi dietro Tiberio.
Si narra che il tribuno scivolò lungo il pendio capitolino e, che travolto e calpestato dai fuggiaschi, rimase ucciso; ma, la sua morte si deve senza dubbio ai colpi di bastone ricevuti dalla turba di Nasica. Tiberio non fu la sola vittima dell'insano furore degli oligarchi: quel giorno rimasero uccisi trecento suoi partigiani e i loro cadaveri, insieme con quello di Tiberio, furono gettati nel Tevere.

MORTE DI SCIPIONE EMILIANO

Dopo la morte di Tiberio Gracco e la strage dei suoi sostenitori, l'eccitazione del popolo fu grande. E poiché tutti sapevano che la causa di quel sangue versato era SCIPIONE NASICA, il Senato per sottrarlo alla vendetta popolare lo spedì lontano, in Asia.
Gli oligarchi cercarono in un primo tempo di tener testa ai sostenitori del defunto tribuno, iniziando un processo contro i partigiani di Tiberio, sopra i quali si faceva cadere la responsabilità dei fatti; ma non si tardò a desistere dalle persecuzioni di fronte al contegno minaccioso del popolo e non si osò nemmeno toccare la legge agraria, ma morì lungo la procedura della sua applicazione, poi si esaurì del tutto. Come leggeremo più avanti, la legge fu ripresa ed ampliata dall'altro figlio di Cornelia, cioè dal fratello minore di Tiberio, CAIO GRACCO eletto tribuno della plebe nel 123 a.C.

Nella commissione dei tre membri il posto occupato da Tiberio fu dato a PUBLIO LICINIO CRASSO MUCIANO, suocero di Caio Gracco, che però ucciso due anni dopo dai soldati di Aristonico in Asia, fu eletto il senatore MARCO FULVIO FLACCO. Nel frattempo anche Appio Claudio cessò di vivere e fu nominato CAIO PAPIRIO CARBONE.
Quest'ultimo un ardente fautore di Tiberio e valentissimo oratore in lui il popolo ripose tutte le sue speranze.
Nominato tribuno del 131, Caio Papirio Carbone propose che le leggi fossero votate a scrutinio segreto e la sua proposta fu approvata ("lex Papiria tabellaria"); propose inoltre una legge in forza della quale i tribuni uscenti potevano venire rieletti; ma questa rogazione incontrò l'opposizione della nobiltà e fu solo accettata quando fu ripresentata in altra forma. Si concesse, cioè, che un tribuno uscente poteva essere rieletto soltanto nel caso in cui il numero dei candidati alla carica tribunizia fosse incompiuto.
Uno di quelli che più degli altri avevano osteggiato la seconda rogazione di Papirio Carbonene "de tribunis plebis reficiendis" era stato SCIPIONE EMILIANO.
Quando Tiberio Gracco era stato ucciso, lui, il distruttore di Cartagine si trovava all'assedio di Numanzia. All'annuncio di quel tragico avvenimento si narra che il grande capitano esclamasse con Omero: "Perisca così chiunque oserà imitarlo".
Con queste parole Scipione non intendeva alludere, come qualcuno crede, alle mire di tirannide attribuite a Tiberio, né, come credono altri, voleva proclamarsi avversario della legge agraria, perché anzi era molto sensibile ai bisogni del popolo, di cui godeva il favore, ma, rigido osservatore delle leggi della repubblica, condannava il metodo violento ed illegale con il quale il cognato aveva voluto far trionfare le sue idee.
Ritornato a Roma, per lo stesso motivo per il quale aveva disapprovato i metodi di Tiberio, si schierò contro la rogazione di Papirio. Riuscì -come abbiamo detto- a non farla approvare, ma si attirò l'odio del fiero tribuno, il quale, allo scopo di alienargli il favore del popolo, durante un'assemblea popolare, lo invitò ad esprimere il suo giudizio sulla fine di Tiberio.

Scipione confermò quello che aveva detto a Numanzia ed essendo state le sue parole accolte dalle grida ostili dei presenti aggiunse fieramente che "chi tante volte non era stato atterrito dal clamore dei nemici armati non poteva essere scosso da quello di gente cui l'Italia era matrigna", alludendo ai numerosi liberti presenti all'assemblea e a tutti i disoccupati che al sano lavoro dei campi, che la legge agraria assicurava, preferivano l'ozio della città.
Scrisse CICERONE che, messosi in urto con il partito popolare, Scipione mirava a fare il dittatore per salvare la repubblica dalle fazioni.
Può darsi, ma non è certo. Noi sappiamo solo che da allora il vincitore di Numanzia si sforzò di giovare alla causa del popolo, e quindi dello stato, sfrondando la legge agraria di alcune norme che erano la causa dei contrasti dei due partiti e perché fosse imparzialmente applicata propose che non la commissione, formata da elementi notoriamente militanti nel partito popolare, dovesse giudicare le controversie che sorgevano, ma il console.

Erano consoli quell'anno (129) CAIO SEMPRONIO TUDITANO e MANIO AQUILIO. Trovandosi quest'ultimo in Asia, fu dato a Sempronio l'incarico di risolvere le liti provocate dalla legge agraria; ma il console, non volendo attirarsi l'odio dell'uno e dell'altro partito, si fece dal Senato mandare in Gallia Cisalpina con il pretesto di reprimere una ribellione di Giapidi.
Per la partenza del console, la legge proposta da Scipione così rimase lettera morta. Allora il grande generale rivolse tutto il suo studio a epurare la legge agraria da tutte le ingiustizie che conteneva.
Questa legge accordava, condizioni di privilegio ai cittadini romani e danneggiava enormemente gli interessi dei Latini e degli altri popoli italici, ai quali gli emendamenti apportati da Tiberio alla "Licinia-Sestia" non recavano alcun beneficio. Latini e Italici, infatti, non solo erano esclusi dalla clausola per mezzo della quale i cittadini con prole ottenevano cinquecento jugeri di terreno in più, ma non avevano neanche il diritto di partecipare alla distribuzione dell'agro pubblico sottratto ai ricchi. Questo ingiusto trattamento aveva sollevato molte dure proteste e Scipione Emiliano si era saggiamente preoccupato delle gravissime conseguenze che senza dubbio potevano provocare il malcontento degli alleati.
Decise quindi di difendere la causa di questi ultimi e annunciò che avrebbe parlato al popolo in loro favore; ma la mattina del giorno stabilito, quando tutti erano impazienti di sentire cosa avrebbe detto, SCIPIONE EMILIANO fu trovato morto nel suo letto.
La morte dell'illustre capitano rimase avvolta nel più fitto mistero.
Alcuni dissero che Scipione - aveva allora 56 anni - era morto di malattia; altri ch'era stato vittima del partito popolare. Cadde il sospetto su PAPIRIO CARBONE, su FLAVIO FLACCO e su CAIO GRACCO e qualcuno giunse perfino a sospettare della moglie SEMPRONIA e di CORNELIA.
Ma nessuno osò indagare e così il più grande romano di quel tempo scomparve senza che le autorità e gli stessi suoi amici ed ammiratori si curassero minimamente di chiarire le cause di quella sua misteriosa morte.

Durante i funerali il suo feretro fu portato dai figli di Q. Metello Macedonico, ai quali -si narra- che il padre rivolgesse le seguenti parole che fanno onore al vivo e mettono in giusta luce i meriti grandissimi del defunto: "Andate, e celebrate i funerali. Voi non vedrete mai esequie d'un cittadino più illustre".

RIVOLTA DI FREGELLE

Morto SCIPIONE EMILIANO, i Latini rimasero senza un valido difensore; molti di loro si erano trasferiti a Roma, ma la loro presenza era causa di continue agitazioni e un "tribuno della plebe", M. GIUNIO PENNO, il quale, nonostante la carica di cui era rivestito, favoriva il partito degli aristocratici nemici della plebe, chiese lo sfratto da Roma dei Latini e l'ottenne.
CAIO GRACCO, che allora era questore, aveva parlato in difesa dei Latini, ma il popolo che li vedeva come dei concorrenti, non ascoltò le parole del fratello di Tiberio e i Latini furono espulsi.
Vi era fra questi il padre dell'ex-console PERPENNA che fu costretto a ritornare nel suo natio Sannio (era l'anno 126 a.C.).

L'anno seguente (125) M. FULVIO FLACCO, uno dei tre membri della commissione per l'esecuzione della legge agraria, nominato console presentò una rogazione con la quale proponeva che si desse facoltà ai latini sfrattati di appellarsi al popolo; ma la sua proposta incontrò l'ostilità del popolo stesso, né miglior fortuna ebbe l'altra proposta da lui avanzata di concedere la piena cittadinanza romana a tutti gl'Italici (città di diritto latino) i cui interessi erano lesi dalla legge agraria.
FULVIO FLACCO partì poco dopo per recare soccorso ai Massilioti contro i Salluvi, e CAIO GRACCO dal Senato fu mandato in Sardegna al seguito del console AURELIO ORESTE.
Erano gli ultimi due difensori dei Latini, i quali con la partenza di quelli, da quel momento non avevano più nessuno. E poiché non vi era nessun mezzo legale per fare valere le proprie ragioni, decisero di ricorrere alla violenza.

Fortuna per Roma che il malcontento degli Italici non generò un'azione concorde e contemporanea; fu invece isolata
Fregelle, la ricca città posta sulle rive del Liri tra il Lazio e la Campania, insorse prima del tempo e fu vittima del suo sdegno e della impulsiva imprudenza. Marciò sulla città, il pretore LUCIO GIUNIO al comando di un grosso contingente di truppe. Queste e il tradimento, in breve tempo, repressero la resistenza dei ribelli e Fregelle cadde in potere dei Romani.
Il Senato trattò molto duramente l'infelice città affinché l'esempio non fosse imitato dalle altre città della penisola.
A Fregelle furono distrutte le mura; fu privata dei diritti e, come Capua, fu cancellata dal novero delle città; deportati tutti gli abitanti nella colonia di Fabrateria Nova.

CAIO GRACCO

Mentre si svolgono questi avvenimenti entra nella scena tumultuosa della vita politica romana CAIO GRACCO, e vi entra compiendo un atto d'insubordinazione.
Ad AURELIO ORESTE è stato prolungato il comando con il titolo di proconsole e nessuno è stato mandato a sostituire il fratello di Tiberio nella carica di questore. Ma Caio Gracco, nel 124, senza aver chiesto e ottenuto l'autorizzazione del Senato, ritorna a Roma e gli oligarchi, che l'odiano e lo temono, lo accusano di diserzione presso i censori L. CASSIO LONGINO e GNEO SERVILIO CEPIONE.
Nel processo seguito all'accusa, CAIO si difende appassionatamente: ricorda ai giudici ciò che ha fatto in Sardegna in occasione di una carestia, si vanta altamente della sua onestà, dicendo che dalla Sardegna è tornato a mani vuote mentre gli altri erano soliti tornare a Roma con le anfore colme d'oro e d'argento, dopo che n'avevano bevuto il vino, infine sostiene che non può essere considerato disertore chi come lui ha fatte dodici campagne, due in più cioè di quante la legge ne impone ai cavalieri.
Il popolo manda assolto Caio, che da quel processo anziché la condanna e il disonore, ci guadagna in popolarità e simpatie, e da quel momento si lancia con foga nella politica deciso a vendicare la morte del fratello del quale vuole seguire le orme.
Caio era il fratello minore di Tiberio assassinato, e aveva 30 anni

Invano la madre, Cornelia, memore della sorte toccata al figlio maggiore, lo esorta di rimaner fuori delle competizioni, invano gli scrive: "Quando dunque il delirio si allontanerà dalla nostra casa? Non abbiamo forse noi sufficiente motivo di vergognarci per aver suscitato il disordine e il tumulto nella repubblica?" invano lo prega che aspetti la sua morte, prima di chiedere il tribunato.
CAIO GRACCO è insensibile alla voce materna e sebbene sappia che il partito contrario farà tutto il possibile perché lui non la spunti, presenta nel 123 la sua candidatura al tribunato della plebe e nel luglio dello stesso anno riesce ad essere eletto.
Appena tribuno, CAIO GRACCO inizia con passione e con decisione la sua opera che mira a rialzare le sorti della plebe e a ridurre la prepotente autorità del Senato.
La prima legge da lui proposta è che nessun magistrato destituito può coprire un'altra carica, legge evidentemente rivolta a colpire l'ex tribuno Marco Ottavio, ma non incontra il favore del popolo e viene ritirata.
Una seconda legge stabilisce la perdita dei diritti civili e la confisca dei beni ai magistrati che, senza il giudizio del popolo, hanno inflitto pene corporali ad un cittadino, è invece approvata, e POPILIO LENATE, che era console al tempo dell'assassinio di Tiberio, prima che la nuova legge sia applicata contro di lui se ne va in esilio a Nuceria; ritornerà a Roma per intercessione del tribuno CALPURNIO BESTIA, ma solo dopo la morte di Caio Gracco (che ha i giorni contati)

A queste due leggi, che sono come il preludio della sua riforma, GRACCO nel suo primo consolato, ne fa seguire altre quattro; sono leggi rivoluzionarie, tutte rivolte a rialzare le condizioni dei poveri; la legge agraria, la frumentaria, la militare e la giudiziaria.

CON LA LEGGE AGRARIA Caio richiama in vita quella del fratello, abolendo la riforma introdottavi da Scipione Emiliano che dava al console presente a Roma, il potere sottratto ai triumviri della commissione.
Forse in questa legge, Caio, nell'intento di togliere i dissidi che tenevano divisa Roma dai suoi alleati, aveva stabilito di distribuire anche ai Latini poveri l'agro pubblico.
In questa legge è prevista la fondazione di centri urbani nelle province, per creare o riattivare dei centri produttivi e commerciali, in modo da far sfollare la capitale da gente senza lavoro diventata accattona.

CON LA LEGGE FRUMENTARIA fu fissato il prezzo del grano e regolate le distribuzioni pubbliche di frumento. Questo è dato dai magazzini dello Stato ai poveri residenti in Roma a prezzo bassissimo che, secondo certi storici, era meno della metà del prezzo corrente. La legge che ha lo scopo di alleviare la miseria, si rivelerà invece dannosa, perché attirerà a Roma una moltitudine di bisognosi dai comuni rurali, favorendo l'ozio.

LA LEGGE MILITARE richiama in vigore la disposizione secondo la quale era esonerato definitivamente dal servizio chi avesse militato nell'esercito per vent'anni. Inoltre, stabilisce che nessuno può essere ammesso nell'esercito se non ha compiuto il diciassettesimo anno d'età e mette a carico dello Stato le spese di vestiario che prima si prelevavano dalla paga dei soldati.

LA LEGGE GIUDIZIARIA ha lo scopo preciso di abbattere fin dove è possibile la potenza del Senato. Il Senato è composto degli ottimati (discendenti da famiglie patrizie o da famiglie che hanno dato edili curuli, pretori, consoli o censori) e da magistrati maggiori usciti dalla carica e rappresenta un'assemblea oligarchica gelosa delle proprie prerogative.
CAIO Gracco stabilisce in un primo tempo che l'albo dei giudici, al quale fino allora sono iscritti i senatori soltanto, comprenda trecento senatori e trecento cavalieri, in un secolo tempo cancella dall'albo i senatori e lascia ai soli cavalieri il governo della giustizia.
Chiarissimo quali scopi vuole conseguire Caio con la sua riforma giudiziaria. Lui sa che il popolo non è più la plebe di una volta, sa che non è possibile con questa massa popolare combattere con successo contro il Senato e, per abbattere l'oligarchia senatoriale gli contrappone astutamente la classe dei ricchi (ceto dei commercianti, uomini d'affari e medi proprietari terrieri, detti "cavalieri" perché in possesso del censo necessario per militare nella cavalleria), non perché abbia fiducia nell'opera di costoro, che anzi sono peggiori dei primi ma perché spera che nella lotta, entrambi i ceti, quello dei senatori e quello dei cavalieri, si logorino ed al popolo rimanga la forza per arrivare al potere.

Il primo anno del suo tribunato non è ancora trascorso e CAIO sembra l'arbitro dei destini della repubblica. Rieletto ad umanità di voti, lui prosegue nella via delle riforme senza incontrare ostacoli da parte degli avversari che sembrano rassegnati a non intralciare l'opera del tribuno.

Proseguendo nel cammino delle riforme, modifica pure il sistema elettorale, stabilendo che la centuria "praerogativa" non sia scelta più tra la prima classe, ma a sorte tra le cinque e che queste non votino più per numero d'ordine ma tutte a sorte finché non sia raggiunta la maggioranza.
Questa riforma mira a render più facile l'elezione di consoli democratici; ma i consoli sono sempre soggetti al Senato, che ha la facoltà di attribuire a loro la provincia ad elezione avvenuta.
Per sottrarli all'influenza dei senatori e renderli indipendenti CAIO Gracco fa approvare una legge con la quale si stabilisce che la scelta delle province consolari debba esser fatta prima dell'elezione dei consoli. Né qui si ferma l'opera di Caio Gracco. Si accorge che la sua legge frumentaria ha avuto, com'effetto, l'aumento degli oziosi danneggiando non poco la legge agraria, sa quanto pericoloso per la repubblica sia il gran numero di proletari e di liberti e insieme col collega RUBRIO propone e fa approvare la "legge coloniale" ("legge Rubria") che autorizza e ha subito la sua applicazione con l'invio di coloni a Taranto, a Capua, a Squillace e nel territorio della distrutta Cartagine dove è fondata la colonia Giunonia. (siamo sempre nell'anno 123 a.C.)
Cecilio Metello nello stesso anno conquistate le Baleari, vi fonda la colonia Palma nell'isola di Maiorca.

Con il secondo tribunato nel 122, CAIO GRACCO, propone infine la "lex de sociis" che è legge tendente a riparare l'ingiustizia con la quale sono stati trattati i Latini e gli Italici, dando a questi la possibilità di conseguire la piena cittadinanza romana.
Ma la legge non incontra il favore di quello stesso popolo che è stato tanto beneficiato da Caio, e che sta cadendo con la sua ignoranza nella trappola populista che sta preparando l'oligarchia. Contro questa legge -tratteggiando a tinte fosche la concessione della cittadinanza agli "stranieri" (ma non lo sono quando fanno le coscrizioni)- parla il console C. FANNIO, e il tribuno MARCO LIVIO DRUSO, creatura del Senato, collegato a potenti gruppi nobiliari, pone il suo veto, e il popolo applaude.
Da questo momento la fortuna di GRACCO comincia a tramontare e il Senato, rimasto fino ad ora passivo, con abili manovre, inizia la sua offensiva.
A guidare il partito oligarchico, è L. OPIMIO. La guerra a Caio inizia!

CAIO GRACCO va combattuto con le sue stesse armi: con i discorsi alla plebe. Occorre con proposte demagogiche alienargli il favore popolare; poi quando la plebe abboccherà e il tribuno sarà rimasto solo sarà facilissimo ridurre all'impotenza il popolo, informe, vile accozzaglia di gente senza coscienza e volontà, così tanto diversa dall'ubbidiente e servile antica plebe, e la cui forza quella d'ora è riposta soltanto nel suo capo.
CAIO GRACCO si reca in Africa per inaugurare la nuova colonia Giunonia e il Senato approfitta dell'assenza del tribuno per combatterlo.
Chi deve soppiantarlo nel cuore del popolo è LIVIO DRUSO e questi mette a servizio del Senato la sua opera, che è altro non è: proposte demagogiche finalizzate a screditarlo.
DRUSO propone che i cittadini poveri tra cui sono state distribuite le terre pubbliche non paghino all'erario il tributo annuo di cui li ha gravati CAIO, e propone che invece di colonie romane nelle province lontane, volute dal collega, si fondino in Italia dodici colonie di tremila cittadini ciascuna; poi propone che il popolo nomini una commissione che dia esecuzione a quest'ultima legge, della quale -con studiata modestia- dichiara di non voler far parte.
L'opera dell'astuto LIVIO DRUSO, appare agli occhi del popolo ignorante più liberale di quella di Gracco e l'antico idolo è subito dimenticato per il nuovo. Cioè il popolo è caduto nella grande trappola demagogica tesa.

Nel 121 a.C., tornato a Roma, CAIO GRACCO chiede per la terza volta il tribunato; ma la sua stella è definitivamente tramontata; il popolo non gli dà i necessari suffragi. Né questa del popolo è la sola stoltezza che la sua ceca ignoranza gli suggerisce. Nell'elezione consolare i voti popolari convergono su L. OPIMIO, nemico accanito del popolo, che nel 122 non era uscito eletto perché avversato da CAIO GRACCO. Ed è proprio lui come capo a guidare il partito oligarchico alla riscossa.

Ora comincia apertamente il lavoro di demolizione dell'opera del riformatore.
L. OPIMIO convoca i comizi per proporre la revoca della legge graccana che decretava la fondazione della colonia Giunonia.
CAIO GRACCO si reca all'adunanza per combattere la proposta del console. Numerosi aderenti lo seguono e, temendo che il partito avverso voglia commettere contro di loro delle prepotenze e si ripeta l'aggressione subita da Tiberio, si recano armati all'assemblea. Sul Campidoglio sta L. Opimio, il quale attende al rituale sacrificio di propiziazione, assistito da QUINTO ANTULLIO che tiene in mano le viscere della vittima.
Si narra che quest'ultimo, alla vista dei graccani, dicesse loro di sgombrare da quel luogo chiamandoli cittadini indegni.
A quelle parole i partigiani di Gracco, accesi d'ira, si levano a tumulto ed uno di loro si avventa su Quinto Antullio e l'uccide.

È il segnale della lotta che costerà la vita a numerosi popolani e allo stesso Caio. Il console Opimio ordina che il Campidoglio sia circondato dalle truppe fra cui pone un corpo d'arcieri cretesi; i senatori si armano e si raccolgono nella curia e qui è conferita all'istante al console l'autorità dittatoriale.

La bara con il cadavere di ANTULIO è deposta presso la curia, i senatori la circondano, imprecano contro gli assassini, compiangono la sorte del morto. Ma non è la vendetta dell'uccisione di Quinto Antulio che si vuole; agli oligarchi preme la testa di CAIO GRACCO; che è accusato di avere sul Campidoglio, durante il tumulto, interrotto il tribuno che parlava, rendendosi reo di lesa maestà tribunizia.
Il giorno trascorre senza altri incidenti. I partigiani di Gracco hanno sgombrato il Campidoglio, che è stato occupato dai senatori e dalle truppe della repubblica, e si sono recati sull'Aventino, guidati da Caio e da Fulvio Flacco.
Il giorno dopo, forse per consiglio di Caio Gracco, che vuole evitare un conflitto armato ed uno spargimento di sangue, Marco Fulvio manda sul Campidoglio il minore dei suoi figli con proposte di pace; ma i senatori rispondono chiedendo prima la resa dei ribelli senza condizioni e intimando ufficialmente ai capi di costituirsi.

CAIO CRACCO è disposto ad ubbidire all'ingiunzione del Senato, ma FULVIO FLACCO lo sconsiglia e rimanda il figlio con altre proposte.
A quel punto, il dittatore mette a prezzo d'oro la testa dei capi ribelli, promette l'amnistia a coloro che abbandoneranno il colle sul quale i sediziosi si sono rifugiati, poi muove con le milizie all'assalto dell'Aventino, che, abbandonato nel frattempo dalla maggior parte dei graccani, è difeso da un esiguo manipolo di uomini.
La mischia già all'inizio è furiosa, ma nell'impari lotta, le milizie della repubblica, hanno in breve ragione del disperato valore dei difensori. Duecentocinquanta graccani cadono uccisi e l'Aventino è preso a forza. Flacco e il figlio maggiore rifugiati in un nascondiglio, sono scoperti ed uccisi. Rimane CAIO GRACCO. Riuscito a chiudersi nel tempio di Minerva, vuole uccidersi per non cadere nelle mani dei nemici, ma, persuaso da PUBLIO LETORIO, fugge sull'opposta riva del Tevere, mentre Letorio sul ponte e Marco Pomponio alla porta Trigemina cercano, trattenendo i soldati, di dar tempo all'ex tribuno di salvarsi.
Ma Caio Gracco, nella corsa, si è slogato un piede. Incalzato dagli inseguitori e vedendo che non gli restava più nessuna via di scampo, giunto nel bosco sacro alla dea Furrina, ordina ad un fedele schiavo di dargli la morte. Lo schiavo ubbidisce, poi con la stessa arma con la quale ha spento il padrone si toglie la vita pure lui.
Ma neppure Caio Gracco cadavere ha pace, raggiunto da un certo LUCIO SETTIMULEJO, costui pensa all'oro promesso da Opimio e, staccata la testa dell'ex tribuno, corse a portarla al Senato che la pagò, come aveva, promesso, a peso d'oro.

Dopo la morte di Caio, gli avversari non vollero distruggere con la repressione solo il partito graccano, ma l'opera del fiero tribuno. Fu demolita la casa di Gracco e sempre sotto il consolato di L. OPIMIO furono condannati a morte e giustiziati più di tremila partigiani di Caio; ma se fu facile dare sfogo alle vendette non fu altrettanto facile demolire le leggi graccane, delle quali una sola fu ritoccata, l'agraria, quella che più interessava i latifondisti.
La commissione dei Triumviri incaricati di distribuire le terre fu sostituita dai censori e ai censori e ai pretori fu affidato il compito di risolvere le liti.

La legge agraria, la cui esecuzione fu così affidata all'oligarchia (cioé ai proprietari delle terre), si trascinò fino al 111. Anno che cessò di aver valore dopo l'approvazione della legge, proposta dal tribuno C. Bebio, con la quale le terre pubbliche occupate furono costituite in proprietà privata.

Nel 106 a.C., per opera del console QUINTO SERVILIO CEPIONE, anche la legge giudiziaria fu soppressa, ma il Senato non rientrò in possesso dei suoi persi diritti per soli tre anni, perché nel 103 il tribuno C. SERVILIO GLAUCIA propose e fece approvare dai comizi il ripristino della legge di Gracco.
Anni in cui (riforma di Mario anni 106-105) con il declino dei piccoli contadini, che fino allora avevano costituito il nerbo dell'esercito, si è costretti per fare le guerre, a reclutare pagati dallo stato, i proletari, i nullatenenti, gli oziosi. Che al soldo, sono sempre disponibili per quei capi politici o militari che offrono migliori condizioni. Deprimendo così lo spirito civico. Più avanti si recluteranno gli ex nemici; più avanti ancora i "barbari", fino a mettere a capo dell'esercito romano, gli stessi capi barbari. Di modo che, in mano ai barbari finirà l'impero di Roma.

Il partito dell'oligarchia, spegnendo CAIO GRACCO e i suoi principali aderenti, aveva creduto di assicurarsi per lungo tempo il dominio. Per indebolire maggiormente la plebe, si era poi messo d'accordo con il ceto dei "cavalieri". Ma era un accordo più formale che sostanziale. Permanevano fra l'aristocrazia e i neo-ricchi, quella del sangue e quella del censo, sempre vivi le rivalità, gli odi e il profondo disprezzo della prima per i secondi.

Poi il popolo che non si era rassegnato alla sconfitta. Purtroppo si era accorto troppo tardi quanto male si era fatto da solo con l'abbandonare all'ira dei naturali nemici il suo benefattore; tuttavia si era accorto e la memoria di Caio Gracco affettuosamente venerata gli fu di sprone alle future lotte.
Da questo stato di cose non era possibile sperare un lungo periodo di pace; la guerra civile era inevitabile. A ritardarla contribuì la "pericolosa minaccia" dei nemici esterni; ma, cessata questa, le lotte intestine dovevano ineluttabilmente scoppiare e passare come un ciclone sull'immenso corpo della repubblica.

Prima di questo ciclone, occupiamoci proprio della "pericolosa minaccia";
della GUERRA GIUGURTINA nel prossimo riassunto..

…il periodo dall'anno 118 al 105 a.C. > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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