ANNI 1383 - 1402

L'ITALIA ALLA FINE DEL SEC.XIV - L'APOGEO DEI VISCONTI

TEMPESTOSE VICENDE DI GENOVA - FINE DEL DOGATO DI NICCOLÒ DI GUAREO - ELEZIONE DI LEONARDO DI MONTALDO - DOGATO DI ANTONIOTTO ADORNO: IMPRESE CONTRO I MORI - RIDDA DI DOGI - SAVONA OCCUPATA DAL DUCA D'ORLEANS - GENOVA OFFRE LA SIGNORIA AL RE CARLO VI DI FRANCIA - PRIMI ANNI DEL GOVERNO FRANCESE A GENOVA - VICENDE DEL PIEMONTE: MORTE DEL CONTE ROSSO; MINORITÀ DI AMEDEO VIII; GUERRE DEI SAVOIA CONTRO I MARCHESI DI SALUZZO E DI MONFERRATO - MARTINO D'ARAGONA E LA SICILIA - LADISLAO RE DI NAPOLI - CONTINUAZIONE DELLO SCISMA - MORTE DI CLEMENTE VII - BONIFAZIO IX E BENEDETTO XIII - GLI STATI D' ITALIA NEGLI ULTIMI ANNI DEL TRECENTO - POTENZA DI GIAN GALEAZZO VISCONTI - GUERRA CONTRO I GONZAGA - PISA VENDUTA AL VISCONTI - GIAN GALEAZZO SIGNORE DI SIENA E PERUGIA - INFELICE SPEDIZIONE DI ROBERTO DI BAVIERA - IL VISCONTI OCCUPA BOLOGNA. - MORTE DI GIAN GALEAZZO

 

GENOVA IL DOGATO DI NICCOLÒ DI GUARCO 
ALL’ INIZIO DELLA SIGNORIA FRANCESE

Dopo la pace di Torino, Genova che aveva estremo bisogno di tranquillità e di stabile e saggio governo per rifarsi dei gravi danni subiti dalla terribile guerra di Chioggia, cadde in balia delle discordie civili, che dovevano più tardi costarle la perdita della libertà. Questa volta non erano i nobili che si agitavano per riconquistare l’egemonia perduta, ma la plebe, che, sostenuta da alcune famiglie della media borghesia, alzava audacemente il capo contro il popolo grasso e la nobiltà nelle cui mani era il potere. 
Il 13 marzo del 1383, al suono delle campane, un improvviso tumulto provocato dai beccai, malcontenti per l’aumento delle imposte, mise a soqquadro la città. Era a quel tempo doge NICCOLÒ di GUARCO: per far cessare le agitazione egli promise che avrebbe escluso dai Consigli della repubblica i nobili, abolite alcune gabelle, soppressa la guardia al palazzo ducale e richiamati gli esiliati. Queste concessioni parvero calmare il popolo minuto, ma essendo di lì a poco rientrati in città dall’esilio alcuni elementi turbolenti, rinacque il fermento e la sera del 5 aprile, al grido di Viva il popolo e Antoniotto Adorno la plebe assalì il palazzo del doge. Niccolò di Guarco, disperando di contenere e vincere la furia popolare, fuggì da Genova e trovò asilo a Finale che apparteneva ai marchesi del Carretto. 

La plebe avrebbe voluto come doge ANTONIOTTO ADORNO, ma la media borghesia fece eleggere da una commissione di quaranta cittadini LEONARDO di MONTALDO che, avendo promesso di tener la carica per solo un semestre, fu riconosciuto doge.
Il Montaldo formò il suo consiglio con i popolani, alleviò le imposte e rimise l’ordine nella città, ma trascorsi i sei mesi non si dimise e sarebbe rimasto in carica chi sa per quanto tempo se l' 11 giugno del 1384, colpito da una terribile epidemia che infieriva su Genova, non fosse morto. 
A lui successe Antoniotto Adorno col quale il governo della repubblica si ridusse completamente in mano della plebe. Il dogato dell’Adorno è degno di nota per due fatti: il soggiorno di URBANO VI a Genova e l' impresa di Tunisi. 
Abbiamo visto altrove che il Pontefice, liberato dall’assedio di Nocera, imbarcatosi nelle Puglie e toccate Messina e Corneto, si rifugiò a Genova, dove mise a morte cinque suoi cardinali e dimorò più di un anno per passare poi a Lucca. L’impresa di Tunisi ebbe luogo nel 1388 e fu provocata dagli atti di pirateria che i Mori commettevano a danno delle navi mercantili italiane. Dodici galee genovesi al comando di Raffaele Adorno, fratello del doge, alle quali se ne unirono tre siciliane e cinque pisane, occuparono l’isola delle Gerbe, presso la costa africana, che molti anni prima era stata conquistata dall’Ammiraglio Ruggero di Lauria, e la diedero in signoria ad un potente barone siciliano, MANFREDI di CHIARAMONTE, che pagò trentotto mila fiorini d’oro. Nel 1389 l’Adorno mandò una numerosa flotta contro Tunisi, ma questa città, assediata, resistette e i Genovesi dovettero cacontentarsi della libertà concessa agli schiavi cristiani e della promessa che i Mori non avrebbero più molestato le navi mercantili. 

Il dogato dell’Adorno durò fino all’estate del 1390. Essendosi, nell’agosto di quell’anno, allontanato da Genova, i nobili e la grassa borghesia acclamarono doge GIACOMO da CAMPO FREGOSO; ma nell’aprile dell’anno seguente Antoniotto Adorno rientrò in città alla testa di una numerosa schiera e riconquistò il potere che mantenne fino al 1392 malgrado l’ostinata opposizione dei nobili e stroncando con le armi un tentativo fatto dal vescovo di Savona per rovesciarlo.
 L’Adorno si era fino allora sostenuto col favore della plebe e della media borghesia: venutogli a mancare l’appoggio di quest’ultima, nel giugno del 1392 abbandonò la città e al suo posto fu messo Antonio, figlio di Leonardo da Montaldo, che però non durò in carica più di un anno. 
Ora noi assistiamo ad un rapido succedersi di dogi che ci mostra quanto aspri fossero i contrasti delle fazioni nella infelice Genova, martoriata dalle lotte. Nel giro di pochi mesi cinque si susseguono: Antonio di Montaldo cede il potere a Pietro da Campo Fregoso, che se lo vede strappato da Clemente da Promontorio, il quale a sua volta è sostituito da Francesco Giustiniani. Essendo questi stato costretto a rinunziare al dogato, lo riacquista il 10 settembre del 1393 Antonio di Montaldo dopo una fiera battaglia contro Antoniotto Adorno. Non meno burrascoso è il 1394: il Montaldo, riperso il potere, si rifugia a Savona, insofferente della servitù di Genova e rifugio dei malcontenti e dei vinti; gli succede Antonio di Guarco, ma anche lui poco tempo dopo è costretto ad abbandonare il dogato che ricade ancora una volta in mano di Antoniotto Adorno. 

Dilaniata dalle discordie, Genova è considerata facile preda dai bramosi vicini. Su di essa aveva messo gli occhi negli ultimi anni della sua vita, Amedeo VI di Savoia, cui alcuni nobili genovesi avevano offerto nel 1382 la signoria della città; più tardi l’offerta era stata ripetuta ad Amedeo VII. Ora guardavano a Genova, avidi di venirne in possesso, GUAN GALEAZZO VISCONTI e il genero di lui LUIGI d'ORLEANS. Ma né l’uno né l’altro poterono mettervi piede: quest’ultimo riuscì, è vero, con l’aiuto di alcuni nobili a far occupare (novembre del 1394) da Enguerrando di Coucy Savona, ma di fronte alla resistenza dell’Adorno abbandonò il pensiero di impadronirsi di Genova; Gian Galeazzo, che aveva prestato aiuti ad Antoniotto Adorno per ricuperare il potere, lo sollecitò perché gli fosse offerta la signoria della città, sicuro di ottenerla sia per la riconoscenza del doge sia per l' impossibilità in cui questi si trovava di mantenersi in carica. 

Per dar pace alla sua patria l’Adorno era venuto nella determinazione di sottoporla al dominio d’un signore straniero, che potesse metter fine allo rivalità cittadine, ma per la città voleva trovare un signore che per la sua lontananza lasciasse a Genova quasi intera la sua libertà, e questo signore non poteva essere né Gian Galeazzo né il duca d’Orléans. Un sovrano c’era in Europa che faceva proprio al caso: CARLO VI di Francia. 
Antoniotto Adorno lo propose a nobili e popolani e, ottenuto il consenso di essi, gli offrì la signoria che venne accettata. Il contratto venne stipulato il 25 ottobre del 1396: con esso il re s’impegnava di non trasmettere ad altri la sovranità, di non mutare le leggi, di non stabilire nuove imposte, di far governare la città da un vicario, di rispettare l’integrità del territorio e di lasciare liberi i Genovesi di prestare obbedienza all’uno o all’altro Papa. Savona doveva tornare — e tornò — alla dipendenza di Genova. Due giorni dopo l’Adorno depose le insegne ducali, ma per alcuni mesi continuò ad esercitare il potere col titolo di governatore regio. 

Nel 1397 Antoniotto Adorno cedette il potere al conte di S. POLO mandato dalla Francia, poi colpito di peste morì. Uscito di scena  Polo, nel 1398, le fazioni dei Montaldo e dei Guarco riaccesero la lotta a Genova e con tal furore che trenta dei migliori palazzi vennero dati alle fiamme, parecchi altri edifici pubblici e privati distrutti e la città patì danni superiori al milione di fiorini. Le lotte durarono fino all’arrivo del governatore COLARD de CALLEVILLE (21 settembre del 1398), che rimise l’ordine; ma di lì a poco le discordie tornarono a funestare la repubblica e presero tali proporzioni da indurre il governatore a ritirarsi nella vicina Savona (1400) e i Genovesi nominarono uno dopo l’altro due rettori, BATTISTA BOCCANEGRA e BATTISTA DEI FRANCHI.
 Un po' d’ordine lo si ebbe soltanto quando, nell’ottobre del 1401, giunse il maresciallo di BOUCICAT, che, munito di pieni poteri, governò con il massimo rigore. Vittima della severità del nuovo governatore fu il Boccanegra che venne preso e decapitato: il Franchi invece riuscì a salvarsi con la fuga.


IL PIEMONTE DOPO LA MORTE DEL CONTE ROSSO
MARTINO D’ARAGONA E LA SICILIA
LADISLAO PADRONE DEL REAME DI NAPOLI 
CONTINUAZIONE DELLO SCISMA


Mentre Genova era dilaniata dalle lotte civili che dovevano condurla sotto il dominio francese, altre lotte insanguinavano il vicino Piemonte. Nel 1391 moriva il conte AMEDEO VII di Savoia e gli succedeva il figlio AMEDEO VIII dell’età di appena otto anni. Per qualche tempo se ne contesero la reggenza la madre BONA di BERRY e la nonna BONA di BORBONE, poi, essendo quella nei 1393 andata in Francia dove passò a seconde nozze col conte d’Armagnac, rimase unica tutrice quest’ultima. 
In questo tempo, essendosi Federico di Saluzzo rifiutato di prestare omaggio ai Savoia, contro di lui mosse AMEDEO di ACAIA, che lo sconfisse il 6 aprile del 1394 presso Monasterolo, facendo prigioniero il primogenito del marchese, Tommaso, che rimase chiuso nei castello di Torino circa due anni, fino a quando cioè, morto il padre e pacificatosi con la casa sabauda, entrò in possesso del marchesato. 

Più accanite furono le lotte che, durante la minorità del figlio del Conte Rosso, sostenne Amedeo d’Acaia contro il marchese TEODORO di MONFERRATO, il quale, assoldata la compagnia di ventura di FACINO CANE, fece devastare il territorio di Chieri, ma perse — e invano si sforzò di ricuperarla —  Mondovì (luglio del 1396). Una tregua fu conclusa nel 1397; ma nel 1399, avendo Gian Galeazzo Visconti — al quale dai belligeranti era stata rimessa la decisione delle loro contese — sentenziato che Mondovì doveva essere restituita a Teodoro, Amedeo VI si rifiutò e la guerra fu ripresa. 

L’anno medesimo che moriva il Conte Rosso, MARTINO d’ARAGONA, che l’anno prima aveva sposato Maria, figlia di Federico III, si disponeva ad andare in Sicilia; ma i baroni siciliani, che non tolleravano un re ed erano contenti dell’anarchia dell’isola ed avevano spinto il Pontefice BONIFACIO IX a dichiarar nullo quel matrimonio, riunitisi a Castronovo dichiararono che avrebbero accolta Maria come regina ed avrebbero respinto l’Aragonese. 
Il Papa, considerando la Sicilia come un feudo della Chiesa, volendo far valere la propria sovranità, divise l’isola in quattro parti e di ciascuna di esse concesse l'investitura rispettivamente a quattro dei più potenti feudatari siciliani, Andrea CHIARAMONTE, Manfredi ALAGONA, Antonio VENTIMIGLIA e Guglielmo PERALTA; ma poco dopo Martino sbarcò a Trapani e, tratti dalla sua parte alcuni baroni, pose l’assedio a Palermo e la prese (1392). 
L’anno seguente però i successi dell’Aragonese furono arrestati da una indomabile ribellione, alla quale non era estraneo il Pontefice; ma le sue sorti si rialzarono quando, nel 1395, suo padre Martino I, salito al trono di Aragona, riuscì a spedire un aiuto al figlio. Allora i baroni siciliani si convinsero che era inutile persistere nell’opposizione e riconobbero Martino.
 
Nel Napoletano, scrive l'Orsi « continuava la guerra tra i Durazzesi e gli Angioini; il giovane Ladislao dalla fortezza di Gaeta, dove si era rinchiuso, aveva dovuto per parecchi anni limitarsi a tener viva in qualche modo la lotta contro il rivale LUIGI II, padrone della capitale e di molte province del regno. Ma egli aveva dalla sua parte il favore di papa Bonifacio IX e quello di gran parte della popolazioni, che non voleva aderire all’antipapa sostenuto dagli Angioini. Poco per volta quindi le sorti cominciarono a volgersi in suo favore; molti baroni aprirono trattative con lui e nell’anno 1399, essendo Luigi andato a combattere contro il conte di Lecce, Ladislao riuscì ad occupare Napoli.
Allora Luigi perdutosi d’animo rinunciò a proseguire la lotta ed abbandonato il regno se ne tornò in Provenza. Riuscì quindi facile a Ladislao domare gli ultimi avanzi della fazione angioina; quei pochi baroni, che non vollero aderire al suo governo, furono cacciati dai loro possessi (Orsi) ».

LO SCISMA


Intanto lo scisma continuava; ma in Europa c'era un grande desiderio che la pace tornasse in grembo alla Chiesa; d’altro canto l’antipapa cominciava a perder terreno in Francia. Nel 1393 l' Università di Parigi propose che i due papi rinunziassero alla tiara; ma né Bonifazio IX né Clemente VII accolsero la proposta. Quest’ultimo cessava di vivere poco dopo, il 16 novembre del 1394. Sperò allora il mondo cattolico che lo scisma potesse aver fine, ma i cardinali d’Avignone, nello stesso mese, elessero papa il cardinale spagnuolo Pietro de Luna, che prese il nome di BENEDETTO XIII. 
Nel 1395 si riunirono a Parigi numerosi prelati e teologi per discutere intorno al modo di far cessare lo scisma. Tornò in campo la proposta d’invitare i due Papi alla rinuncia, ma anche questa volta l’Avignonese si rifiutò; anzi meditò di servirsi dei non pochi nemici che aveva Bonifacio in Italia, primi fra tutti i Prefetti di Vico, per farlo prigioniero e costringerlo a rinunciare alla tiara; ma il tentativo, essendo stata scoperta in tempo la trama, andò a vuoto e Benedetto XIII perdette molte delle simpatie che aveva in Francia. 

Se Benedetto XIII perdeva terreno in Francia in migliori condizioni non si trovava Bonifazio IX in Italia. Costretto dal bisogno di denaro, dietro il pagamento di tributi annui egli aveva finito col riconoscere le signorie che si erano venute formando nello stato pontificio, aveva perduto Perugia che nel 1393 era caduta in potere di Biordo dei Michelotti e si era ridotto a costituire in vicariati parecchie terre. Solo a Roma, ma dopo essere stato in grave conflitto coi banderesi, di esserne rimasto lontano per oltre un anno e di aver corso pericolo della vita, aiutato da Lathslao aveva potuto affermare pienamente nel 1398 la sua autorità.

GLI STATI D’ ITALIA NEGLI ULTIMI ANNI DEL TRECENTO
APOGEO DELLA POTENZA VISCONTEA


Il secolo XIV tramontava. Dopo tanti rivolgimenti ecco qual'era l’assetto dell'Italia alla fine del Trecento. Buona parte della Corsica era sotto la sovranità genovese, il resto in mano dei signori del luogo; la Sardegna era degli Aragonesi, ma quasi indipendente, sebbene tributario di essi il giudicato di Arborea; sotto lo scettro di Martino la Sicilia, in cui però grande era la potenza dei feudatari; degli Angioini il reame di Napoli; lo stato pontificio era diviso in numerose signorie, quelle dei Montefeltro, dei Varano, dei da Polenta, dei Malatesta, degli Alidosi, dei Manfredi, degli Ordelaffi, risorte dopo la vana restaurazione del cardinale d’Albornoz; era finita quella dei Prefetti di Vico, ma un’altra ne era sorta a Perugia, quella di Biordo dei Michelotti che veniva assassinato nel 1398; in Toscana Pisa era sotto Gherardo d’Appiano, successo al padre Giacomo nel 1398; Lucca sotto la famiglia dei Guinigi; nel Piemonte troviamo ancora i Savoia, i Saluzzo e i Monferrato cui si era aggiunto il duca d’Orléans; avevano resistito alle bufere che intorno a loro s’erano scatenate, i Carraresi, i Gonzaga e gli Estensi; ma gli Scalieri erano scomparsi. 

Delle repubbliche marittime Genova si era data alla Francia, Venezia manteneva un lembo di terraferma, aveva acquistato Corfù, Durazzo, Argo e Napoli di Romania, ma aveva perduto la Dalmazia ed assisteva atterrita al progresso dei Turchi nella penisola balcanica. Firenze manteneva sempre fieramente la sua libertà e il suo governo democratico; ma Bologna, dopo avere acquistata l’indipendenza, stava per perderla e per ridursi sotto una nuova signoria. La libertà e gli ordinamenti repubblicani, come si vede, erano stati in grandissima parte sommersi sotto la marea delle signorie e queste se scemavano di numero guadagnavano in estensione e tendevano a trasformarsi in principati.

 Un vero e proprio principato era divenuta la signoria viscontea, la più potente d’Italia. Lo stato di Gian Galeazzo comprendeva i territori di Milano, Pavia, Como, Brescia, Bergamo, Lodi, Cremona, Novara, Vercelli, Alessandria, Valenza, Tortona, Verona, Feltre, Belluno, Piacenza, Parma, Reggio, ricchissimi territori le cui entrate ordinarie oltrepassavano il milione di fiorini d’oro, con cui il duca poteva mettere al suo soldo le più potenti compagnie di ventura. 
Sul principiare del 1397, quando i Savoia e i Monferrato rimettevano la decisione delle loro contese a Gian Galeazzo, questi era in pace con tutti, ma meditava di estendere la sua autorità in Toscana, dove aveva dalla sua parte Siena e Pisa, e di tentare un colpo grosso contro i Gonzaga di Mantova. Essendo questi alleati coi Fiorentini, contemporanea doveva essere l’azione contro Firenze e Mantova. In Toscana egli infatti mandò con un forte esercito ALBERICO da BARBIANO, il quale, evitando abilmente BERNARD de SERRES, capitano dei Fiorentini, (l’Acuto era morto nel 1394), mandato nel territorio di Pescia, dopo avere invano tentato d’impadronirsi di San Miniato, corse e mise a sacco Val di Greve e Vai d’Arno inferiore; nel Mantovano, il 31 marzo, mandò UGOLOTTO BIANCARDi e GIACOMO Dal VARME. 

In aiuto di Francesco Gonzaga, che strenuamente difendeva i suoi domini, corsero FRANCESCO NOVELLO da Carrara e la repubblica di Firenze: il primo spedì una flottiglia noleggiata a Venezia e comandata da Francesco Bembo, la seconda mandò tre capitani di ventura, Carlo Malatesta, Paolo Orsini e Filippo di Pisa, con alcune migliaia di cavalli. Una furiosa battaglia venne combattuta il 28 agosto del 1397 a Governolo, alla confluenza del Mincio e del Po; qui le truppe viscontee subirono una grave disfatta nella quale persero ottomila tra fanti e cavalieri. 

Questa sconfitta consigliò il Visconti ad accettare la mediazione offerta da Venezia e l' 11 maggio del 1398 stipulò con i suoi nemici una tregua di dieci anni; ma questa non valse a farlo desistere dai suoi propositi di conquista. Contravvenendo all’impegno, assunto col trattato di Genova del 1392, di non ingerirsi nelle faccende della Toscana, nel febbraio del 1399 comperò per duecentomila fiorini, da Gherardo d’Appiano, Pisa e il suo territorio lasciandogli Piombino e le isole d’Elba, Pianosa e Montecristo. 
Messo così stabilmente piede in Toscana, rivolse il suo sguardo e i suoi intrighi a Siena e a Perugia. Mentre Siena sfinita dalle discordie e dalle guerre, — mentre schiere di flagellanti, vestiti di cappe bianche, percorrevano il Piemonte, la Liguria, la Toscana, il Lazio e il Napoletano, quasi per placare l’ira divina che si manifestava con le preoccupanti vittorie dei Turchi-  si dava a Gian Galeazzo l'11 di novembre del 1399. E Perugia spossata non meno dalle discordie interne che dai saccheggi degli avventurieri, si sottometteva spontaneamente al Visconti il 21 gennaio del 1400, che più tardi occupava Assisi e Spoleto e nello stesso anno (ottobre) vedeva un suo devoto, PAOLO GUINIGI, proclamato signore di Lucca. 

L’accresciuta potenza del Visconti non poteva non preoccupare Firenze. Essa per giunta in Italia non poteva contare più su tanti amici quanti l’avevano aiutata contro Gian Galeazzo. Difatti Venezia, allarmata dalla situazione d’Oriente, nella primavera del 1400 aveva convertito in pace l’armistizio col Visconti; con questo si era riconciliato l’anno successivo alla guerra Francesco Gonzaga; il marchese Nicolò di Este aveva stretto patti d’amicizia col duca di Milano; Bologna era il 28 marzo del 1401 caduta sotto la signoria di Giovanni Bentivoglio, il quale, anziché aiuti in caso di guerra prometteva ai Fiorentini neutralità. 

Non rimaneva a Firenze che l’amicizia di Francesco Novello da Carrara, ma era ben poca cosa contro un nemico così potente come Gian Galeazzo. Allora i Fiorentini si rivolsero a ROBERTO di WITTELSBACH, che il 20 agosto del 1400 in luogo del deposto Venceslao era stato eletto imperatore, e lo invitarono a scendere in Italia contro il duca di Milano promettendogli di dargli subito duecentomila fiorini ed altrettanti dopo sei mesi. Roberto accettò e ordinò che l’esercito dell’impero si radunasse a Trento; poi intimò a Gian Galeazzo di restituire tutte le terre che indebitamente aveva occupate. Il Visconti rispose ch’era stato investito del ducato dall’imperatore Venceslao e si preparò a respingere l’assalto del Tedeschi assoldando i più famosi condottieri italiani: Alberico da Barbiano, Facino Cane, Ottobuono Terzo da Parma, Galeazzo ed Antonio Porro di Milano, Taddeo Dal Verme, Carlo Malatesta e Francesco Gonzaga.

 Tredicimila cavalli e dodicimila fanti furono in poco tempo raccolti e vennero messi al comando di Giacomo Dal Verme. - L’ imperatore scese per la via di Trento nel territorio di Brescia, dove si unì a lui Francesco Novello con le sue milizie. Era il mese d’ottobre del 1401 e dopo tanti anni un esercito italiano si trovava di fronte ad un esercito tedesco che se non lo superava di numero certo gli era uguale. Giacomo Dal Verme non aspettò di essere assalito in Brescia e diede battaglia al nemico, il quale, al primo urto della cavalleria italiana, fu sbaragliato. Questa vittoria influì molto sulle sorti della campagna: i Tedeschi, demoralizzati, se ne tornarono in Germania; l'imperatore, dopo di essersi trattenuto qualche tempo a Padova e a Venezia per strappare ai Fiorentini il resto della somma pattuita (centodiecirnila formi li aveva ricevuti prima di passare le Alpi), nel l’aprile dei 1402 lasciò l'Italia.

 Sbarazzatosi dell’imperatore, Gian Galeazzo si rivolse contro Bologna. Nel maggio del 1402 un esercito milanese, comandato da Alberico da Barbiano, andò ad accamparsi a poche miglia dalla città. Era questa difesa da alcune truppe di Francesco Novelio e da un esercito che i Fiorentini avevano inviato sotto il comando di Bernardo de Serres, il quale, conoscendosi forse inferiore al nemico, si era prudentemente trincerato a Casalecchio. Qui il 26 giugno venne assalito da Alberico e dopo una fiera battaglia sconfitto. Egli stesso con due figli di Francesco da Carrara fu fatto prigioniero. 

GIOVANNI BENTIVOGLIO si trincerò a Bologna, nella speranza di potersi difendere, ma la notte prima del  giorno della battaglia la fazione avversaria dei Gozzadini si levò in armi contro di lui e aprì una porta alle milizie di Alberico. Ne seguì una furiosa zuffa; accanita fu la resistenza delle scarse truppe dei Bentivoglio, ma esse dovettero cedere quando videro il loro capo cadere nelle mani dei nemici. Il Bentivoglio fu messo a morte e Bologna riconobbe la signoria di Gian Galeazzo. Conquistata Bologna, non restava ai Visconti che di debellare Firenze, la sua grande nemica; poi egli sarebbe stato padrone di quasi mezza Italia, vicino a raggiungere quello che si crede fosse il suo sogno: l’unificazione della penisola sotto il suo scettro. 

Firenze, rimasta sola con il Çarrarese, credeva giunta l’ultima ora per la sua libertà. Non volendo perdere l’indipendenza alla quale teneva più che a se stessa, spedì ambasciatori a Bonifazio IX per indurlo a sostenerla nella lotta contro il Visconti. 
Ma non dal Pontefice doveva venire la salvezza. La pestilenza nell’estate del 1402 infieriva in tutta la Lombardia. Per sfuggire il morbo Gian Galeazzo lasciò Milano e si ritirò a Melegnano, dove credeva di esser immune dal contagio; ma il 3 settembre, pochi giorni dopo del suo arrivo, cessò di vivere, segnando con la sua scomparsa dalla scena del mondo il ritorno di quell’equilibrio politico che in quindici anni di lotte era riuscito a turbare profondamente in suo favore.

nel prossimo capitolo  assisteremo alla decadenza dei Visconti;
assieme a quella dei Carraresi.

E' il breve periodo che va dal 1402 al 1405 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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