ANNI 1405 - 1420

DA PAPA BONIFACIO IX A PAPA MARTINO V

MORTE DI BONIFAcIO IX ED ELEZIONE D' INNOCENZO VII - IL RE LADISLAO A ROMA - TUMULTI ROMANI E FUGA DEL PAPA - SUO RITORNO E SUA MORTE - ELEZIONE DI GREGORIO XII - TRATTATIVE DI GREGORIO XII E BENEDETTO XIII PER LA CESSAZIONE DELLO SCISMA - CONCILIO DI PISA - ELEZIONE DI ALESSANDRO V - LEGA TRA FIRENZE, IL PONTEFICE E LUIGI II D'ANGIÒ CONTRO LADISLAO - ASSEDIO DI ROMA - INSURREZIONE DI GENOVA CONTRO I FRANCESI - MORTE DI ALESSANDRO V - ELEZIONE DI GIOVANNI XXIII - SPEDIZIONE ANGIOINA A NAPOLI - ROMA NUOVAMENTE OCCUPATA DAL RE DI NAPOLI - GUERRA TRA VENEZIA E L' IMPERATORE - MORTE DI GIOVANNI MARIA VISCONTI - SIGISMONDO IN ITALIA - CONCILIO DI COSTANZA - GIOVANNA IL REGINA DI NAPOLI. - PANDOLFO ELIO ALOPO E MUZIO ATTENDOLO SFORZA - MATRIMONIO DI GIOVANNA CON GIACOMO DELLA MARCIA - PRIGIONIA DELLO SFORZA E MORTE DI PANDOLFELLO - BRACCIO DA MONTONE A PERUGIA E A ROMA - DEPOSIZIONE DI GIOVANNI XXIII - ELEZIONE DI MARTINO V - IL PIEMONTE E AMEDEO VIII DI SAVOIA - FILIPPO MARIA VISCONTI E IL DUCATO DI MILANO - MARTINO V A FIRENZE - PACIFICAZIONE DEL PONTEFICE CON LA CORTE DI NAPOLI E CON BRACCIO DA MONTONE - OCCUPAZIONE DI BOLOGNA. - MARTINO V A ROMA

 

DALLA MORTE DI BONIFACIO IX 
ALL’ELEZIONE DI ALESSANDRO V


Nello stesso mese che la duchessa Caterina Visconti, in prigionia,  forse avvelenata, si spegneva a Monza, moriva Bonifacio IX (1° ottobre 1404) e Roma, che per quindici anni era stata sotto il duro governo papale, si levava a tumulto. Il popolo, guidato dai Colonna e dai Savelli, percorreva in armi le vie della città al grido di libertà e la chiesa di Santa Maria d’Aracoeli veniva occupata e trasformata in fortezza. Mentre Roma tumultuava, i cardinali, riuniti in conclave, eleggevano il nuovo Pontefice. Questi fu COSIMO MIGLIORATI di Sulmona, che prese il nome di INNOCENZO VII. 
I tumulti però non accennavano a finire dal momento che i Romani si rifiutavano di riconoscere il nuovo Papa se esso non rinunziava al potere temporale.
 
Capitò allora a Roma il re Ladislao di Napoli, il quale, mirando ad estendere il suo regno a spese dello stato pontificio, cercava di trarre vantaggio dai tumulti. Ma sondati gli umori dei Romani, comprese che non ancora giunto il momento di attuare i suoi disegni e, interpostosi come paciere, riuscì a riconciliare il Pontefice con la popolazione.

Al Papa fu lasciato il diritto di nominare il senatore; la città però doveva essere amministrata da un consiglio di dieci membri, di cui tre scelti dal Pontefice e sette dal popolo. Innocenzo, grato a Ladislao, lo nominò per cinque anni rettore della Campagna e della Marittima, e il re, che nel suo soggiorno a Roma si era procurato molti aderenti, il 5 novembre partì per Napoli. 

Egli lasciava Roma apparentemente calma, ma sotto la cenere covava il fuoco, tenuto acceso forse dai Colonna, dai Savelli ma anche dai partigiani dello stesso Ladislao. Segno di nuovi torbidi fu l’esclusione dal consiglio dei tre membri scelti dal Papa: gli altri presero il titolo significativo di rettori della libertà
Da allora il popolo cercò di limitare sempre di più il potere del Pontefice, col quale i rapporti si facevano di giorno in giorno sempre più tesi. Questa condizione di cose non poteva non produrre incidenti. Uno gravissimo si verificò nei primi d’agosto del 1405. Pretendendo la cittadinanza di avere  il presidio di ponte Milvio, assalì la guarnigione che vi teneva il Papa. Si accese una sanguinosa zuffa e il popolo ebbe la peggio; ma la cosa non finì li. 
I Romani si levarono in armi e marciarono a bandiere spiegate verso la basilica Vaticana. Il sopraggiungere della notte e le milizie pontificie schierate presso Castel Sant’Angelo impedirono una nuovo e più terribile scontro. Nei giorni seguenti si cercò di ristabilire la pace e si sarebbe senza dubbio venuti ad un accordo se LUIGI MIGLIORATI, nipote del Papa, non avesse fatto uccidere undici cittadini che uscivano dal Vaticano dove si erano recati per parlamentare col Pontefice. 

Era il 6 agosto 1405. Alla notizia di questo eccidio la città furibonda prese di nuovo le armi e la situazione si fece in breve così minacciosa che Innocenzo VII, impaurito, fuggì a Viterbo. 
Subito dopo la fuga del Papa, i Colonna e i Savelli chiamarono Ladislao, il quale entrò in Roma alla testa di alcune schiere e chiese la signoria della città. Ma i Romani gliela negarono, anzi tennero un contegno così ostile che alla fine il re se non voleva guai più seri fu costretto ad abbandonare Roma. Il tentativo di Ladislao di impadronirsi della città tornò di vantaggio a Innocenzo VII che, chiamato insistentemente, si decise a ritornare a Roma. Ciò avvenne il 13 marzo del 1406. Ma otto mesi dopo, il 6 novembre, cessava di vivere. 
La morte di Innocenzo porgeva una nuova occasione per far cessare lo scisma; ma neppure questa volta i cardinali vollero astenersi dall’eleggere un nuovo Pontefice e forse, date le turbolenze che affliggevano Roma e le mire palesi di Ladislao, non avevano torto. Pertanto si unirono in conclave, giurando, prima, solennemente che chiunque venisse eletto avrebbe fatto di tutto per porre termine allo scisma, che non avrebbe nominati nuovi cardinali ed avrebbe deposto, se necessario, la tiara. Ma questo giuramento altre volte era stato fatto e mai era stato mantenuto.
 
Dal Conclave, il 30 novembre del 1406, venne eletto il cardinale veneziano ANGELO CORRER, che prese il nome di GREGORIO XII. Era molto avanzato negli anni e pareva animato da un desiderio vivissimo di dar pace alla Chiesa. Diede prova dei suoi sentimenti proponendo al suo rivale Benedetto XIII una scambievole abdicazione. Si trovava questi a Marsiglia, dove si era ritirato dopo alcuni mesi di soggiorno a Genova e a Savona. Ricevuta la lettera di Gregorio, rispose nel gennaio del 1407 accettando. Fra i due pontefici corsero delle trattative e fu stabilito che si sarebbero incontrati a Savona, dove ciascuno sarebbe stato accompagnato da otto galee e scortato da duecento armati.
 Carlo VI re di Francia, che aveva la signoria di Savona, fu lieto di potere offrire ospitalità ai due rivali, e tutta la Cristianità credeva veramente che la fine dello scisma era finalmente vicina. 

Presto però chi aveva sperato nella pace doveva disilludersi. Forse né l’uno né l’altro Papa erano decisi a mantener le promesse; ma Benedetto XIII, più abile, mostrava grande voglia di risolvere la grande contesa; l’altro, meno astuto o forse aizzato dai parenti, cominciò a sollevar alcune difficoltà, dicendo che i Veneziani si rifiutavano di mettere a sua disposizione le otto galee, proponendo che si scegliesse come luogo del convegno un’altra città, poichè Savona, essendo sotto l’obbedienza del rivale non offriva garanzia di sicurezza. Sentendosi poco sicuro a Roma per il contegno ostile dei Colonnesi, Gregorio XII nel 1407 se ne andò a Viterbo e di là nel settembre a Siena.
In quello stesso mese Benedetto XIII andò a Savona e, fingendosi animato dal proposito di metter fine allo scisma, andò a Genova e di là a Portovenere poi alla Spezia. 
A sua volta Gregorio fece un altro passo avanti, recandosi a Lucca; ma tutti i tentativi per farli avvicinare di più fallirono, fino al punto da far dire  Lionardo Bruni che  «l’uno come animale acquatico non voleva mai abbandonare il lido, l’altro come terrestre non si voleva avvicinare ».

Mentre i due Pontefici rimanevano fermi nelle loro posizioni, re LADISLAO seguitava a meditare come impadronirsi di Roma. I suoi disegni vennero messi in atto nella primavera del 1408. Con dodicimila cavalli ed altrettanti pedoni entrò nello stato pontificio ed assediò la capitale. Contemporaneamente fece occupare la foce del Tevere da quattro galee e investì Ostia, che, dopo accanita resistenza, venne espugnata nell’aprile. Paolo Orsini, che comandava le milizie pontificie, d’accordo con il re, aprì le porte di Roma e la città dovette arrendersi. Anche Perugia, assalita dalle truppe del re di Napoli, si arrese. 

Conquistando Roma, Ladislao aveva mandato a monte un disegno di BENEDETTO XIII: anche questi difatti aveva tramato di occupare Roma, certamente per risolvere a suo vantaggio la questione dello scisma, e ottenute dal Boucicaut tredici galee le aveva mandate alla foce del Tevere; ma quando queste vi giunsero già il re di Napoli si era impadronito della città. 
Saputo il tentativo del suo rivale, Gregorio XII ruppe i negoziati con lui, vietò alla propria corte di aver relazione con quella dell’antipapa, proibì ai suoi cardinali di allontanarsi da Lucca e, contravvenendo alla promessa fatta, nel maggio del 1408 creò quattro nuovi cardinali. 
Irritati da questo fatto, i cardinali, in numero di nove, abbandonarono il Pontefice e si recarono a Pisa; tre, ammalati, rimasero a Lucca. 

Nello stesso mese il re di Francia, sdegnato per la condotta dì Benedetto XIII, dichiarava di non volerlo più riconoscere e invitava i cardinali dell’una e dell’altra corte pontificia a riunirsi in un dato luogo per deliberare intorno alla composizione dello scisma. Abbandonato dai suoi cardinali, che si recarono a Livorno, Benedetto XIII il 17 giugno partì da Portovenere e passando per Marsiglia si ritirò a Perpignano dove indisse un concilio per il 1° di novembre. Anche Gregorio XII si allontanò da Lucca e dopo una breve dimora a Siena si recò a Rimini presso Carlo Malatesta e convocò anche lui per la Pentecoste del 1409 un concilio da tenersi nel Friuli. 
Dal canto loro i cardinali delle due corti, abboccatisi a Livorno, indicevano anche loro per il marzo del successivo anno un concilio generale che doveva aver luogo a Pisa. Questo riuscì benissimo e fu numerosissima la partecipazione: vi arrivarono ventidue cardinali, quattro patriarchi, dodici arcivescovi, ottanta vescovi, quarantun priori, ottantasette abati, più di un centinaio di rappresentanti di vescovi assenti, i proposti generali di molti ordini di monaci e gli ambasciatori dei re di Francia, d’Inghilterra, di Polonia, di Portogallo, di Cipro e di Boemia, di Vinceslao, di Roberto di Baviera, di Ladislao, di Luigi d’Angiò, pretendente alla corona di Napoli, e infine quelli di Castiglia e di Aragona.

 Nell’ottava sessione i prelati dichiararono di essere riuniti in concilio ecumenico e considerandosi giudici supremi incominciarono il processo contro i due Papi, i quali nella quindicesima sessione del 5 giugno 1409, furono dichiarati colpevoli di scisma e di eresia ed esclusi dalla comunione dei fedeli. Il soglio pontificio venne dichiarato vacante. Il 15 giugno i cardinali si riunirono in conclave. Fu offerta la tiara al cardinale BALDASSARRE COSSA, legato di Bologna, uomo astuto e violento; ma, giudicando che non fosse ancor giunto per lui il momento opportuno, indicò il vecchio cardinale PIETRO FILARGO di Candia, arcivescovo di Milano, che il 26 giugno venne eletto Pontefice e prese il nome di ALESSANDRO V. 
Credeva la cristianità che lo scisma fosse finito. Invece era stato inasprito, perché al posto di di due papi ora ce n’erano tre. Benedetto XIII aveva tenuto il suo concilio a Perpignano; lo stesso aveva fatto Gregorio XII a Cividale, entrambi condannando tutti gli atti del Concilio che si era svolto a Pisa. Al primo aderirono la Castiglia, l’Aragona e la Scozia, al secondo Roberto di Baviera, l' Ungheria, Malatesta di Rimini e Ladislao. Così l'Europa cristiana che prima era divisa in due campi ora fu divisa in tre.


LADISLAO DI NAPOLI E LUIGI Il D’ANGIÒ 
GIOVANNI XXIII


Ambizioso più del padre, LADISALO di Napoli, dopo di avere invano tentato di mettersi sul capo la corona d’Ungheria, aveva vagheggiato il disegno di  impadronirsi di tutta l' Italia. Aut Caesar aut nihil era il suo motto e questa iscrizione si leggeva sulle bandiere quando egli ridusse alla sua obbedienza il Lazio e l' Umbria. L’ambizione di Ladislao non poteva non preoccupare Firenze, la quale veniva ora minacciata dal sud come poco prima, con il Visconti, era stata minacciata dal nord. Essa nella primavera aveva veduto re Ladislao avanzarsi alla testa d’un esercito nella Toscana e impadronirsi di Cortona, mentre una flotta di dodici galee napoletane infestava il mare di Pisa, dava la caccia alle navi mercantili e toglieva a Gherardo d’Appiano l’isola d’Elba; ed era stata una fortuna  che le milizie del re non fossero capitanate da Alberico da Barbiano, morto il 17 maggio di quell’anno presso Perugia, e che avesse trovato per il proprio esercito quel prode condottiero che rispondeva al nome di BEACCIO da MONTONE.
 Ladislao, messo alle strette da questo, aveva dovuto ritirarsi dalla Toscana; ma non avendo abbandonati i suoi propositi di conquista e proteggendo apertamente Gregorio XII, che aveva trovato rifugio a Gaeta, costituiva sempre un serio pericolo non solo per Firenze, ma anche per il nuovo Papa Alessandro V e per il cardinale Baldassarre Cossa, legato di Bologna.

Fu per allontanare questo pericolo che venne costituita una lega tra la repubblica di Firenze, Siena e il Cardinale. Papa Alessandro scomunicò Ladislao e invitò a scendere in Italia LUIGI Il d’ANGIÒ, che giunse alla fine di luglio a Pisa con cinque galee e millecinquecento cavalli e fu investito dal Pontefice del regno di Napoli e del titolo di gonfaloniere della Chiesa. 
Le truppe della lega, nelle quali militavano Muzio Attendolo Sforza, Braccio da Montone, Malatesta da Pesaro e Agnello della Pergola, si concentrarono sul finire della estate del 1409 a Chiusi e di là poco dopo entrarono nello stato pontificio. Orvieto, Viterbo, Montefiascone ed altre terre aprirono le porte; Paolo Orsini che, in nome di Ladislao, aveva il comando di Roma, passò al nemico con duemila cavalli. 
Nell’ottobre l’esercito dei collegati giunse a Roma e vi occupò il quartiere di Trastevere, ma invano tentò di espugnare tutto il resto della città. Sfiduciato, Baldassarre Cossa se ne tornò a Firenze, lasciando all’assedio di Roma il Malatesta, l’Orsini e Braccio da Montone; anche Luigi d’Angiò se ne partì e, imbarcatosi a Pisa, fece ritornò in Provenza per raccogliervi altre forze. 

Intanto Ladislao faceva l’acquisto d’un importante alleato: Genova. Questa città mal sopportava il giogo francese. Approfittando dell’assenza del Boucicaut, che era partito alla volta di Milano in soccorso di Giovanni Maria Visconti, i Genovesi si levarono in armi (3 settembre) e fecero strage di tutti i Francesi che si trovavano in città, poi aprirono le porte a FACINO CANE e al marchese TEODORO di MONFERRATO e nominarono quest’ultimo capitano con l’autorità che in altri tempi avevano avuta i dogi. Conseenza di questi, fatti fu l’alleanza di Genova col re di Napoli. 

Questi però non seppe sfruttare la situazione e lasciò senza soccorsi Roma, che, stanca dell’assedio, cacciò la guarnigione napoletana e il 2 gennaio del 1410 aprì le porte agli assedianti. Presa Roma, furono assalite e conquistate Ostia e Tivoli dal Malatesta e dall' Orsini; ma, escluse queste operazioni e qualche tentativo su Perugia, l’esercito dei collegati non compì imprese degne di rilievo sia perché si era nel cuor dell’ inverno, sia perché si aspettava l'arrivo dell’Angioino. 
Luigi II partì dalla costa della Provenza a primavera inoltrata. Quattordici galee numerosi vascelli carichi di cavalli e soldati formavano la sua flotta. Giunto non molto lontano dai lidi di Toscana avvistò una forte flotta di navi napoletane e genovesi, che incrociavano in quel mare per tagliare la via all’Angioino, e non volendo compromettere con una battaglia l’esito della sua spedizione, evitò il nemico, dirigendosi a vele spiegate verso Porto Pisano. Sei delle sue galee però vennero raggiunte e furono impegnate in un furioso combattimento nel quale ebbero la peggio: due navi provenzali vennero affondate, tre prese e condotte a Portovenere; una sola riuscì a porsi in salvo a Piombino (8 maggio del 1410). 

Sbarcando a Porto Pisano, Luigi II vi apprese la notizia che papa Alessandro V il 3 maggio era morto a Bologna e che gli era successo il cardinale Baldassarre Cossa col nome di GIOVANNI XXIII. Sbarcato il suo esercito, l’Angionio mandò la sua flotta nelle acque di Napoli per spargere il terrore su quelle coste e spingersi poi verso la  Calabria dove NICOLA RUFFO sollevava le popolazioni contro Ladislao. 
Si sperava che con la venuta di Luigi II si sarebbe portata la guerra nel reame di Napoli; poi anche per la mancanza di denaro e per i dissidi sorti tra i vari capitani, il resto dell’anno trascorse senza che si iniziassero le operazioni e verso la fine del 1410 l'angioino partì da Roma ove era giunto il 24 settembre e se ne andò a Bologna per prendere accordi con il nuovo Pontefice circa la spedizione che era stata rimandata alla primavera successiva. 

La lentezza con cui veniva condotta la guerra indusse i Fiorentini a prestare orecchio alle proposte di pace avanzate da re Ladislao che si diceva disposto a cedere Cortona e i castelli di Pierli e Mercatali; e a questi patti il 7 gennaio del 1411, tra Firenze, Siena  e il re di Napoli fu conclusa la pace. Solo Luigi d’Angiò e Giovanni XXIII rimasero in guerra con Ladislao. Il Papa, nell’aprile di quell’anno, si trasferiva in Roma, dove entrò l'11 accolto trionfalmente dalla popolazione. Pochi giorni dopo Luigi d’Angiò alla testa del suo esercito partiva alla volta del Napoletano. 
Giovanni XXIII aspettava nella capitale notizie della spedizione, quando seppe che Bologna l'11 maggio si era ribellata, aveva assaltato la fortezza, scacciato il presidio e restaurato il regime comunale. Dovette rassegnarsi alla perdita di quella città e per intercessione dei Fiorentini ne riconobbe la libertà. Qualche giorno dopo, riconfortarlo, gli giunse la notizia che il 19 maggio Luigi d’Angiò aveva a Roccasecca riportato una notevole vittoria sulle truppe del re di Napoli. 

Questa vittoria poteva avere gravissimo conseguenze per re di Napoli, invece Luigi ne seppe trarre profitto e diede tempo a Ladislao di riorganizzare l’esercito e di chiudere al nemico i passi. In breve le sue milizie cominciarono a difettare di vettovaglie e a essere travagliate dalle malattie e come se questo non bastasse si aggiunsero il malumore i soldati per le paghe non ricevute e le rivalità dei condottieri. Impossibilitato ad avanzare, il 12 luglio fece ritorno a Roma e ai primi d’agosto s’imbarcò sul Tevere e fece vela per la Provenza dove poi lì rimase e lì vi morì sei anni dopo. 

Partito Luigi, Giovanni XXIII si trovò solo contro Ladislao, il quale, passato al difensiva, avanzava verso Roma, favorito dai baroni della Campagna. Il momento era critico per il pontefice: il Prefetto di Vico, aiutato dai Napoletani, si impadroniva di Civitavecchia, Forlì si ribellava dandosi agli Ordelaffi, il figlio di Astorre Manfredi, spalleggiato da Carlo Malatesta, occupava Faenza; Muzio Attendolo Sforza, venuto a contrasto con Paolo Orsini, si metteva al soldo del re di Napoli. 
In queste condizioni il Pontefice non poteva sperare di competere con il nemico; iniziò quindi, con l’intercessione dei Fiorentini, trattative con Ladislao e il 14 giugno del 1412 fu conclusa la pace. Giovanni XXIII abbandonava completamente la causa di Luigi II d’Angiò, pagava al re centomila fiorini, gli concedeva l' investitura del reame e lo nominava gonfaloniere della Chiesa. 
Dal canto suo Ladislao riconosceva legittime le decisioni del concilio di Pisa e l’elezione di Giovanni e prometteva di abbandonare Gregorio XII. Il quale, ricevuto l’ordine di lasciare Gaeta, con i tre cardinali che gli erano rimasti fedeli si imbarcò su navi veneziane e andò prima in Dalmazia, poi a Porto Cesenatico e infine a Rimini dove trovò asilo presso Carlo Malatesta. 

Cessata la guerra, il Pontefice fu in grado pensare anche alle cose della Chiesa. Alessandro V aveva promesso di convocare un concilio per riformare la Chiesa e combattere le eresie di WYCLEFF, che si diffondevano in Inghilterra e prendevano piede in Boemia per opera di GIOVANNI HUSS; ma la morte lo aveva colto prima di indirlo. Per attuare la promessa del suo predecessore, il 3 marzo del 1413 indisse il concilio. Erano appena passati due mesi dalla pubblicazione della bolla con la quale veniva indetto il concilio quando Ladislao, il quale non aveva abbandonato i suoi sogni di conquista e da solo aveva concluso la pace per meglio prepararsi alla guerra, scese nuovamente in campo e alla testa di un numeroso esercito marciò su Roma mentre alcune sue galee occupavano la foce del Tevere. 

Il Pontefice si trovava allora privo delle milizie di Paolo Orsini, assediato a Rocca, nelle Marche, dal suo nemico Sforza; chiamò quindi alle armi il popolo e per indurlo a combattere abolì alcune imposte; ma l' 8 giugno l’esercito regio, comandato da ANGELO LAVELLO, detto TARTAGLIA, entrato per una breccia presso S. Croce penetrò a Roma e Niccolò XXIII riuscì a stento fuggire a Viterbo, poi attraverso Montefiascone e Siena andò a rifugiarsi a Firenze. 
Roma fu saccheggiata e i beni dei Fiorentini che vi erano residenti non vennero rispettati, anzi Ladislao promise alle sue milizie il sacco della stessa Firenze. I Fiorentini, preoccupati da queste minacce, ristabilirono il consiglio dei Dieci della guerra, presero al loro servizio come capitano il Malatesta di Pesaro e si allearono con GUIDO ANTONIO, conte di Montelfeltro ed Urbino, con LUIGI ALIDOSI d’ Imola, con UGOLINO TRINCI di Foligno e GIACOMO APPIANO di Piombino, ma nello stesso tempo cercarono di venire ad accordi con Ladislao, che intanto sottometteva con le armi tutte le città del patrimonio di San Pietro. 

Mentre duravano queste trattative giunse l’inverno e il re, che non era riuscito a trarre dalla sua parte Niccolò d Este con l'intenzione di fargli assalire Bologna che si era data nuovamente al Pontefice e vi aveva posto la sua sede, rientrò nel suo regno. Ma al principio del 1414 egli mise in armi un nuovo esercito, forte di quindicimila cavalli, e lo condusse a Roma, donde si proponeva di passare in Toscana:
Alla nuova minaccia, Firenze riprese i negoziati e pur fidandosi poco di Ladislao riuscì a stipulare con lui ad Assisi il 22 giugno del 1414 un trattato di pace. Questa certamente sarebbe stata di brevissima durata se Ladislao, colto da una malattia dovuta alle sue dissolutezze, non fosse stato costretto a deporre ogni pensiero di far guerra. Lasciata Perugia, si fece condurre a Roma e di lì a Napoli, ma appena giunto nella sua capitale vi morì (6 agosto del 1414).
 
Con lui — scrive Pietro Orsi — « sparì quel sogno di un REGNO d’ITALIA, che a pochi anni di distanza era stato accarezzato da due principi, ben diversi però di carattere e d’ingegno: l’uno dei quali vivendo chiuso nel suo castello di Pavia aveva affidato in particolare modo le sue speranze alla finezza della sua mente ed all’astuzia delle trame diplomatiche, mentre il re napoletano aveva guidato egli stesso i suoi eserciti e confidato specialmente nel suo valore militare. Entrambi cadevano per morte immatura nel più bel fiore delle loro speranze ».

GUERRA TRA VENEZIA E SIGISMONDO
GIOVANNI MARIA VISCONTI
SIGISMONDO IN ITALIA


Mentre l' Italia centrale e meridionale era travagliata dalla guerra suscitata dall’ambizione di Ladislao e dallo scisma, non meno turbata era l'Italia settentrionale. Una guerra era sorta tra l' imperatore SIGISMONDO e la repubblica di Venezia perchè questa si rifiutava di cedere a quello Zara ed altre città della Dalmazia che le aveva vendute alcuni anni prima Ladislao. 

Nel 1411 mandò nel Friuli un esercito di dodicimila cavalli comandato dal condottiero fiorentino FILIPPO degli SCOLARI, detto comunemente PIPPO SPANO, che costrinse il Patriarca d’Aquileia a rifugiarsi a Venezia, ma fu trattenuto ai confini del Trevigiano dalle milizie veneziane comandate da TADDEO Dal VERME. Facendosi gli imperiali sempre più minacciosi, Venezia diede il comando del suo esercito a CARLO MALATESTA. Questi, il 9 agosto del 1412, fu sorpreso dal nemico a Motta di Livenza e lo respinse gravemente, ma lui uscì così malconcio dalla mischia che dovette cedere il comando al fratello Pandolfo. La guerra durò per tutto quell’anno e parte del successivo, ma senza vantaggi né da una parte né dall’altra. Una diversione la tentò Sigismondo per penetrare nel Veronese e nel Vicentino, ma non gli riuscì nè esito migliore ebbero gli assedi da lui intrapresi in parecchi castelli dell’Istria e neppure i tentativi fatti per procurare insurrezioni a Verona e a Padova sostenendo la causa di BRUNORO della SCALA e di MARSILIO da CARRARA; Cosicchè, falliti tutti i suoi sforzi contro i territori veneziani della terraferma e premendogli di scendere in Italia per cingere la corona ferrea e per accordarsi con Giovanni XXIII circa la sede del concilio, accettò la mediazione del conte di Cilly suo suocero e il 18 aprile del 1413, a Trieste, dopo laboriose trattative stipulò una tregua di cinque anni con la repubblica. 

Sigismondo approfittò di questa tregua per passare in Lombardia. Questa contrada — scrive il Sismondi — «era stata in preda ai più funesti rivolgimenti; i condottieri dei due fratelli Visconti, non contenti di avere usurpata la tirannide nelle città affidate alla loro custodia, volevano anche dominare i loro antichi padroni e si contendevano con le armi il favore del duca di Milano o del conte di Pavia e le cariche che questi principi erano ancora in grado di conferire. Chiunque fosse il capitano vittorioso, la vittoria era sempre seguita dal saccheggio di una città, e le sostanze, l’onore e la vita dei cittadini — i quali nulla avevano da fare con le contese dei condottieri — erano lasciati in balia ai soldati come premio del loro valore; i capitani permettevano ogni eccesso e quegli uomini bestiali e feroci che esercitavano il mestiere delle armi, e erano avvezzi a costringere con orribili tormenti i cittadini catturati e solo per riscattare enormi taglie ». 

Dei due Visconti odiatissimo era il primogenito GIOVANNI MARIA; pareva che in lui si fossero riuniti tutti gli istinti più malvagi della sua stirpe. Di animo perverso, il suo maggior diletto era quello di fare sbranare le persone da grossi e feroci mastini appositamente ammaestrati e il suo favorito era il capocaccia Squarcia Giramo. Fra le numerose vittime di quest’orribile giuoco si contavano uomini di alta condizione: Antonio e Francesco Visconti e Giovanni Pusterla. Anche contro il dodicenne figlio di questo ultimo egli lanciò i suoi mastini e poichè, quasi impietositi dalle sue suppliche, i cani si rifiutarono di addentarlo, il capocaccia lo squartò col suo coltello.

L’amministrazione degli stati viscontei era tutta nelle mani di FACINO CANE, signore di Alessandria, che poteva considerarsi il vero padrone; ma nel maggio del 1412 egli si ammalò mortalmente, e alcuni gentiluomini milanesi, temendo a ragione che, morto il condottiero, Giovanni Maria prendesse le redini del governo e le tenesse con la sua abituale ferocia, decisero di sopprimerlo. Il 16 di quello stesso mese, poche ore prima che Facino spirasse, GIOVANNI MARIA VISCONTI fu assalito mentre ascoltava la messa nella chiesa di San Gottardo e trucidato. 

ASTORRE VISCONTI, figlio bastardo di Bernabò, e GIOVANNI PICCININO, figlio di Carlo Visconti, chiamati dai congiurati accorsero a Milano e il primo si fece proclamare duca; ma, saputo questo, Filippo Visconti che si trovava a Pavia seppe agire con tanta avvedutezza ed energia da far fallire il colpo di stato. Si assicurò anzitutto il presidio del castello e l’obbedienza della famiglia Beccaria, poi per trarre dalla sua parte tutti i soldati di Facino Cane sposò Beatrice Tenda, vedova del condottiero, venendo così in possesso delle immense ricchezze che costui aveva accumulate. Con queste egli riuscì a pagare i mercenari e a marciare su Milano dove entrò il 16 giugno, costringendo alla fuga Astorre e il Piccinino. Il primo si rifugiò a Monza e dopo qualche mese di resistenza morì di ferite. Continuò a resistere la moglie di lui chiusa nel castello fino a quando, nel giugno del successivo anno (1413), ottenuti patti onorevoli, si arrese a FRANCESCO BUSSONE detto il CARMAGNOLA, giovane condottiero che presto doveva salire in gran fama. 

FILIPPO MARIA VISCONTI vendicò la morte del fratello e in breve consolidò la sua autorità sopra la Lombardia. Tutti coloro che erano fuggiti da Milano trovarono buona accoglienza presso l'imperatore Sigismondo, il quale pensava di servirsene per una sua futura azione sull'Italia settentrionale. Per questo suo contegno destò molti sospetti  del Visconti e, avendo capito che questi forse non l’avrebbe ricevuto in Milano, accantonò il pensiero di cinger la corona ferrea nella città lombarda e pensò invece di scendere nella penisola per abboccarsi con il Pontefice. 
Tuttavia nell’autunno del 1413 l' imperatore si recò a Lodi, che allora dipendeva da Giovanni di Vignate e lì il Papa gli mandò incontro da Firenze tre ambasciatori che convennero  quello che aveva già deciso Sigismondo, cioè di scegliere come sede del concilio la città di Costanza. Questa scelta dispiaceva molto a Giovanni XXIII, il quale avrebbe desiderato che il concilio avesse luogo in una città italiana per potervi esercitare maggiore influenza; stabilì quindi di recarsi dall’imperatore per tentare di far cadere la scelta sopra un’altra città. 

Nello stesso novembre del 1413 si recò a Bologna, che da poco era tornata alla sua obbedienza, poi andò a Piacenza dove trovò Sigismondo. Con lui si portò a Lodi e non avendo potuto indurlo a cambiar la sede stabilita, fece buon viso a cattiva sorte e pubblicò una bolla con la quale fissava Costanza come sede del concilio che si sarebbe tenuto il 1° novembre del 1414. 
Dopo questa decisione il Papa e l’imperatore andarono a Cremona, di cui era padrone Gabrino Fondulo che l’aveva tolta ai Cavalcabò da lui fatti uccidere a tradimento in un banchetto. Di lui si narra che avendo accompagnato sul campanile del Duomo i due illustri ospiti gli nascesse il pensiero di precipitarli giù per acquistar fama imperitura, e che, undici anni dopo, sul punto di venir decapitato per ordine del Visconti, dicesse che di una sola cosa era pentito, di non aver cioè quella volta data esecuzione al suo pensiero. Lasciata Cremona, l' imperatore se ne andò in Germania dopo essersi abboccato con Filippo Maria a Como, e Niccolò XXIII, per Ferrara, fece ritorno a Bologna.

GIOVANNA Il DI NAPOLI
MUZIO ATTENDOLO SFORZA E BRACCIO DA MONTONE

A re di Napoli Ladislao succedette nel regno la sorella Giovanna Il, che contava quarantacinque anni ed era rimasta vedova del duca Guglielmo d’Austria. Appena salita al trono, creò gran siniscalco un suo favorito, PANDOLFELLO ALOPO, bello di persona e giovanissimo, il quale, per non perdere il favore della regina, teneva lontano da lei chiunque credeva che potesse entrare nelle grazie di quella donna, lui che la conosceva bene la dissoluta. 
Era intanto tornato a Napoli, dopo avere invano tentato di ridurre all’obbedienza i Romani ribellatisi all’annunzio della morte di Ladislao, il condottiero MUZIO ATTENDOLO SFORZA. 
Pandolfello, temendo che il gran capitano di ventura lo soppiantasse nel favore di Giovanna, accusandolo di trame con gli Angioini di Francia, nel novembre del 1414 lo fece arrestare, provocando vivissime agitazioni fra le truppe che militavano sotto le insegne dello Sforza.
 
Fu consigliato allora alla regina di consolidare il trono vacillante sposandosi, e Giovanna scelse un suo lontano parente, il francese GIACOMO di BORBONE, conte della Marcia, sperando che il suo matrimonio con un principe della casa regnante di Francia la proteggerebbe da un ritorno offensivo di Luigi d’Angiò; tuttavia volle che il marito non assumesse il titolo di re ma quello di principe di Taranto e duca di Calabria. 
Il disegno di queste nozze non fu molto gradito naturalmente dal Pandolfello, il quale per non perdere l’autorità che ormai esercitava nel regno cercò un potente ed ambizioso alleato. Lo trovò in MUZIO ATTENDOLO SFORZA che proprio lui aveva messo in prigione. 
Accordatosi con lui, lo liberò dalla prigione, gli procurò il favore della regina e per legarlo maggiormente a sè gli diede in sposa la propria sorella. 

Nell’estate del 1415, il promesso sposo di Giovanna, giunse a Manfredonia. Giacomo della Marcia, fu ricevuto dal Pandolfello, dallo Sforza e da parecchi baroni del regno. Questi, gelosi della potenza di Pandolfello e del condottiero (o forse anche subdorando qualcosa che non quadrava con i comportamenti precedenti)  suggerirono al francese di sbarazzarsi dei due cognati e di assumere il titolo e l’autorità di re, anzi essi stessi, capeggiati da un ambizioso barone, il conte Giulio Cesare di Capua, lo salutarono re. 
Giunto il futuro sposo di Giovanna col suo seguito a Benevento, il conte di Capua provocò lo Sforza. Ne nacque una zuffa presto sedata ed entrambi vennero arrestati, ma il barone fu poco dopo rilasciato mentre il condottiero fu messo in prigione. Il 10 agosto si celebrarono le nozze della regina e di Giacomo, il quale ottenne da lei il titolo regio e, deciso ad esercitare davvero l’autorità, fece arrestare Pandolfello Alopo, che, sottoposto prima alla tortura, fu poi decapitato sulla piazza del mercato (1° ottobre 1415); inoltre tenne la moglie rigorosamente custodita nel palazzo, tolse le cariche ai cortigiani napoletani e mise al loro posto francesi che lo avevano seguito in Italia. 

L’agire del re a questo punto non poteva riuscire gradito ai baroni che, dopo l’appoggio datogli, aspettavano da lui un contegno ben diverso. Più insoddisfatto di ogni altro era Giulio Cesare di Capua; ma era riuscito un giorno a parlare con Giovanna II, e le promise che se ne avesse avuto da lei il consenso, lui l’avrebbe liberata dall’odioso marito uccidendolo. La regina acconsentì, ma poi pentitasi e temendo di non mantenere il segreto di un sì orribile delitto, rivelò le intenzioni del conte al marito, il quale lo fece mettere a morte. 

La stessa sorte avrebbe senza dubbio subito lo Sforza se il re non avesse temuto di provocare la rivolta dei mercenari affezionati al loro condottiero e guidati, nell’assenza di lui, da Michele Attendolo, cognato del capitano, la cui sorella Margherita, un giorno, si impadronì di quattro ambasciatori del re e, trattenuti  nel campo di Tricarico, fece arditamente sapere al sovrano che li avrebbe trattati nella stessa maniera che lui avrebbe trattato il fratello. 

Intanto cresceva il malcontento dei baroni napoletani. Nel settembre del 1416, approfittando di una festa alla quale il re aveva concesso alla moglie di assistere, essi si levarono in armi, trassero a tumulto il popolo della capitale e condussero la regina al castello di Porta Capuana. Il sovrano si rifugiò in Castel Nuovo, ma poi assediato, venne a patti coi ribelli, rimandando i francesi del suo seguito, deponendo l’autorità regia e mantenendo soltanto i titoli assegnatigli nel contratto nuziale.

Conseguenza di questa rivolta fu la liberazione dello Sforza che riebbe la carica di gran contestabile del regno. Riacquistata con la libertà anche l’autorità, la regina Giovanna ritornò alle sue dissolutezze e si scelse come amante ser GIANNI CARACCIOLO, cui diede la carica di gran siniscalco, quella già tenuta da Pandolfello. 
Geloso al pari com'era un volta quello, e ora dello Sforza, il Caracciolo pensò di allontanarlo da Napoli mandandolo con i suoi mercenari a riconquistare Roma, che era caduta nelle mani di BRACCIO da MONTONE. Era questi salito alla fama di gran capitano; allievo come lo Sforza, di Alberico da Barbiano, si era formato una fortissima compagnia di ventura, addestrandola all’assalto impetuoso ed alla celerità delle mosse, e alla testa di questa aveva fatto parlare di sé, partecipando alla guerra tra Luigi d’Angiò e Ladislao. Giovanni XXIII, che lo aveva avuto al suo soldo, gli aveva ceduto parecchi castelli del Bolognese e, partendo per il concilio di Costanza, gli aveva affidato la difesa dello stato pontificio. Approfittando dell’assenza del Pontefice, anzi vedendolo a mal partito nel concilio, il condottiero si lasciò guidare dal suo personale interesse e con tanti pretesti si diede a depredare alcuni territori delle Romagne e delle Marche e poiché lo Sforza si trovava nel regno di Napoli assalì, d’accordo col Tartaglia, i domini degli Attendolo. 

Ai primi di gennaio del 1416, avuta notizia della deposizione di Giovanni XXIII, i Bolognesi, capeggiati dai Bentivoglio, presero le armi per riacquistare la libertà. Braccio da Montone, forse credendo di non poter vincere la resistenza dei ribelli, o forse anche credendosi sciolto dall’impegno di tenerli soggetti al Pontefice (ora deposto), non si oppose ai Bolognesi anzi trattò con loro: vendette cioè ad essi per trentamila fiorini i castelli che aveva nel territorio, se ne fece dare cinquantaduemila per paghe che disse gli doveva il Papa e abbandonò Bologna.
 
Da tempo egli vagheggiava di rientrare a Perugia, la sua patria, da dove era stato esiliato, e quindi per vendetta farsene signore. Credendo ora giunto il momento, trasse a sè il Tartaglia, che aveva a Frascati una piccola compagnia di seicento cavalli, e, traversata la Romagna, piombò su Perugia alla quale pose l’assedio. I Perugini chiesero aiuto a Carlo Malatesta di Rimini, ad Agnolo della Pergola, al loro concittadino Ceccolino dei Michelotti che si trovava a Spello e a Paolo Orsini che era a Roma. Tutti questi valorosissimi capitani mossero sulla fine di giugno in soccorso di Perugia che intanto resisteva strenuamente ai ripetuti assalti di Braccio. Il quale, concepito il disegno di attaccare i suoi avversari prima che potessero congiungersi, andò incontro alle truppe riunite del Malatesta, del della Pergola e del Michelotti e diede loro battaglia il 7 luglio del 1416 nella piccola pianura tra Sant’ Egidio e il Tevere, sulla strada di Assisi. 

Fu una battaglia oltremodo accanita e sanguinosa nella quale trionfarono i nuovi metodi guerreschi inaugurati da Braccio da Montone che, invece di disporre le sue milizie all’antica, divise cioè in tre schiere — ali e centro — distribuì il suo esercito in numerose bande autonome che avevano il vantaggio della rapidità delle mosse, di prestar meno il fianco alle offese nemiche e di stancare l’avversario immettendo schiere sempre fresche. Dopo un combattimento durato sette ore i soldati di Braccio sconfissero pienamente il nemico. Solo Agnolo della Pergola riuscì a trarsi in salvo con quattrocento dei suoi, il Michelotti fu catturato e più tardi ucciso, e prigioniero cadde il Malatesta con due suoi nipoti e tremila cavalieri, numerosissimi furono i morti. I Perugini, resistettero ancora otto giorni, poi aprirono le porte a Braccio e lo riconobbero signore (19 luglio 1416). 

Braccio da Montone, che durante l’assedio si era impadronito già di Todi, presa Perugia, estese i suoi domini occupando Rieti, Narni ed altre terre dell’Umbria. Paolo Orsini, assalito a Colle Fiorito dal Tartaglia e da Luigi Colonna, venne ucciso in combattimento; Spoleto e Norcia si fecero tributarie dell’illustre condottiero, e Carlo Malatesta e i suoi nipoti, dopo cinque mesi di prigionia, si riscattarono pagando ottantamila fiorini.

Il 3 giugno del 1417, alla testa del suo esercito BRACCIO comparve sotto le mura di  Roma, dove dall’ottobre del 1414 un presidio napoletano si ostinava a resistere chiuso dentro Castel Sant’Angelo. Braccio intimò al cardinale Giacomo Isolani che la governava a nome del Pontefice di cedergli la città volendo -disse- tenerla lui in custodia fino all’arrivo del nuovo Papa; ma il cardinale si rifiutò e poiché i Romani non erano disposti a render le armi, si ritirò nella mole Adriana. 
Braccio da Montone entrò in Roma il 16 giugno, assunse il titolo di defensor urbis, ma in effetto ebbe autorità di signore e si arrogò il diritto di nominare un nuovo senatore. 
Fu allora che la corte di Napoli inviò a Roma MUZIO ATTENDOLO SFORZA. Questi, nell’agosto del 1417 comparve in vista della città; ma non trovò ad aspettarlo Braccio da Montone, che, a corto di viveri e con l’esercito decimato dalle malattie, all’annuncio dell’avvicinarsi del nemico si era ritirato. Il 27 di quello stesso mese, l’indomani della partenza di Braccio, lo Sforza faceva il suo ingresso in Roma e, in nome della Chiesa e di Giovanna Il di Napoli, ne prendeva la signoria.


IL CONCILIO DI COSTANZA
DEPOSIZIONE DI GIOVANNI XXIII ED ELEZIONE DI MARTINO V
IL PIEMONTE E LA LOMBARDIA
MARTINO V A FIRENZE E A ROMA

Giovanni XXIII partì per Costanza il 1° ottobre del 1414. A Trento egli si incontrò col duca Federico d’Austria, che strinse alleanza col Pontefice e gli promise il suo appoggio durante il periodo del concilio. Giunse a Costanza il 28 ottobre con nove cardinali e il 5 novembre apri il concilio. In sul principio l’assemblea non fu molto numerosa perché Sigismondo era stato ad Aquisgrana a farsi incoronare, né tutti i prelati che avevano riconosciuto le decisioni del concilio pisano erano ancora arrivati; ma a poco a poco affluirono da ogni parte vescovi, preti, abati, ambasciatori, principi, curiosi in tal numero che più di centomila persone tra laici ed ecclesiastici si trovarono concentrate a Costanza quando la vigilia di Natale arrivò l’imperatore. 

Giovanni XXIII aveva condotto dall’Italia un seguito numerosissimo per esercitare maggiore influenza sull’assemblea e senza dubbio ogni decisione sarebbe stata a lui favorevole se si fosse votato per testa; ma per semplificare i lavori il 7 febbraio 1415 il concilio stabilì che si votava per nazioni. I rappresentanti delle varie nazioni (Italia, Francia, Germania, Inghilterra e, più tardi, la Spagna) dovevano discutere separatamente sui vari problemi e portare nelle sedute generali i risultati delle particolari discussioni. Così l' Italia non ebbe più il vantaggio della maggioranza e - come le altre- contò solamente un voto.
 
Giovanni XXIII sperava che il concilio, ritenendo valide le deliberazioni di quello di Pisa, avrebbe confermato la deposizione degli altri due pontefici e riconosciuto lui solo Capo della Chiesa; ma si accorse subito di essersi ingannato. Scopo dei partecipanti al concilio era quello di porre fine allo scisma il quale, purtroppo, continuava poiché la Spagna ubbidiva ancora a Benedetto XIII e alcune parti dell'Italia e della Germania a Gregorio XII. Pertanto l’assemblea fu di avviso che tutti e tre i pontefici deponessero la tiara e Giovanni XXIII si trovò costretto il 10 marzo a promettere di deporre la dignità se gli altri due avessero fatto la stessa cosa. 
Questa promessa equivaleva ad una definitiva rinunzia al Pontificato, perché, dati gli umori dell’assemblea e le accuse che si andavano facendo su di lui, Giovanni non poteva sperare di venire rieletto. Unico mezzo di salvezza era lo scioglimento del concilio e, per provocarlo, il 20 marzo, travestito da palafreniere, il Pontefice se ne fuggì a Sciaffusa, terra del duca d’Austria, e lì lo raggiunsero i suoi cardinali.

Ma anche questa volta le speranze di Giovanni andarono deluse: l’imperatore si dichiarò per la continuazione del concilio, Giovanni Berson, cancelliere dell’università di Parigi sostenne eloquentemente che il concilio rappresentava la Chiesa universale e per questo era superiore allo stesso Pontefice, e così il concilio continuò in un’atmosfera di giustificata ostilità a Giovanni XXIII.

 Questi, citato a presentarsi davanti l’assemblea, promise di tornare a Costanza, ma intanto cercava di suscitar la discordia in tutta la cristianità e di mettere in cattiva luce Sigismondo. Non vi riuscì. I suoi  cardinali, impauriti, abbandonarono il Papa e fecero ritorno a Costanza; dal canto suo l’imperatore, volendo privare il Pontefice del suo maggior protettore, pubblicò il bando contro Federico d’Austria, che immediatamente si vide assalito dai baroni vicini, dalle città del Reno e della Svevia e dalla lega elvetica; alla fine, abbandonata la causa del Papa, tornò a Costanza sottomettendosi a Sigismondo. Giovanni XXIII, dopo di essere stato a Lanfenburg, a Friburgo e a Brisac, fu da Federico di Brandeburgo condotto il 17 maggio al castello di Tadolfzell, presso Costanza, dove gli fu annunziato che il concilio lo aveva deposto (29 maggio del 1415) in seguito ad un processo in cui erano state mosse gravissime accuse, in parte giuste in parti false, al Papa. Questi venne chiuso, in perpetua prigionia, nel castello di Gotteben, dove si trovava carcerato l’eresiarca GIOVANNI HUSS. 

Più remissivo e fortunato fu Gregorio XII. Egli mandò a Costanza CARLO MALATESTA, che il 14 luglio, nella quattordicesima sessione conciliare, lesse la rinunzia del suo protetto al pontificato. Ripreso il nome di Angelo Conner, tenne la dignità cardinalizia e si ebbe la legazione delle Marche. Morì in Recanati il 18 ottobre del 1417 in età di novant’anni. 
Non rimaneva che Benedetto XIII. Ma il fiero spagnolo non volle cedere. Invano l’imperatore si recò a Perpignano per persuaderlo a deporre la tiara. Egli sosteneva — e non a torto — che, essendo lui l’unico cardinale vivente nominato avanti lo scisma, mentre gli altri che il concilio aveva condannati erano papi stati eletti dopo, solo questi erano da considerarsi illegittimi, e a lui solo spettava il diritto di scegliere il nuovo Pontefice e lui eleggeva sè stesso. 

Di fronte a tale ostinazione, i suoi stessi sostenitori lo abbandonarono: San Vincenzo Ferreri disertò la sua causa; lo stesso fece il re d’Aragona, che il 6 di gennaio gli tolse l’obbedienza, e il suo esempio fu poco dopo imitato dai re di Castiglia, di Navarra e di Scozia. Benedetto XIII si ritirò a Peniscola, castello inaccessibile della Spagna, alle rive del Mediterraneo, e lì gli giunse la notizia, che il 26 luglio del 1417, nella trentasettesima sessione, il concilio lo aveva deposto. 
Dichiarata vacante la Santa Sede, si decise di procedere all’elezione di un nuovo Pontefice. Il conclave, questa volta, non fu composto di soli cardinali, ma ad essi vennero dal concilio aggiunti sei deputati per ciascuna delle cinque nazioni.

L’ 11 novembre 1417 fu eletto il cardinale romano ODONE COLONNA, che prese il nome di papa MARTINO V. 

Lo scisma si poteva considerare finito. Benedetto XIII continuò a proclamare i suoi diritti fino al 1424, anno in cui cessò di vivere. Aizzati dal re d’Aragona che si era reso ostile con Martino, i quattro cardinali del defunto papa gli diedero un successore che prese il nome di Clemente VIII, ma questi fu soltanto papa di Peniscola e nel 1429 si sottomise al legittimo Pontefice. 
Oltre il compito di comporre lo scisma, il concilio di Costanza si era proposto di combattere le eresie e di riformare la Chiesa nel capo e nelle membra. Per raggiungere il primo scopo, furono condannati al rogo GIOVANNI HUSS, che peri il 6 luglio del 1415 e GIROLOMO DA PRAGA che venne arso il 20 maggio del 1416. 
Quanto alla riforma della Chiesa, se ne fece un gran parlare, ma non si concluse nulla di positivo e si stabili di riparlarne nei futuri concili. 
Nella sua quarantacinquesima sessione, il 22 aprile del 1418, il concilio di Costanza di sciolse.

Nel maggio del 1418 Martino V lasciò Costanza e per Berna e Ginevra si rifugiò a Torino. In Piemonte — scrive l’Orsi — « la situazione politica si andava semplificando. Appunto in quell’anno moriva il principe Ludovico d’Acaia e con lui si estingueva questo ramo della famiglia; i suoi possessi naturalmente passavano ad AMEDEO VIII, rappresentante il ramo principale di Savoia. Così questa dinastia raccoglieva ormai nelle sue mani una tale distesa di paesi al di qua e al di là delle Alpi da non avere più tra i principi vicini chi potesse eguagliarla. Del resto anche prima di questa riunione di domini Amedeo VIII era riuscito ad imporre la sua autorità ai vicini, ed il marchese Tommaso III di Saluzzo, che aveva come al solito tentato di sottrarsi al vassallaggio dei Savoia, si vide assalito nella sua stessa capitale (1413) e costretto a prestare l’omaggio dovuto; alla sua morte poi (1416), essendogli succeduto il figlio Ludovico ancora fanciullo, la dipendenza del marchesato di Saluzzo verso Amedeo VIII rimase ancora meglio assicurata. 

"Il marchese Teodoro II di Monferrato aveva bensì acquistato grande potere specialmente dopo che aveva ottenuto la signoria di Genova; ma nel marzo del 1413, il popolo genovese, indignato contro di lui perché aveva arrestato Giorgio Adorno e aveva tentato di fare altrettanto con Tommaso di Campofregoso, cioè i due personaggi più influenti della città, si levò a rumore e cacciò gli ufficiali del marchese, ricostituendo il suo libero governo e dando di nuovo origine ad una serie intricata di guerre civili. Teodoro tentò invano di rientrare in città e dovette contentarsi di una  indennità pagatagli dalla repubblica perché cessasse le sue ostilità. Egli si trovava anche in guerra col duca di Milano, Filippo Maria Visconti, che desiderava rioccupare le terre perdute; anche qui venne ad un accordo, ed il marchese si contentò di conservare Casale e restituì Vercelli dietro un certo compenso in denaro (1417). Teodoro morì nel 1418, lasciando i suoi domini al figlio Gian Jacopo, che aveva sposato una sorella di Amedeo VIII e che si tenne poi in buoni rapporti con lui. 
« Quindi anche da questa parte la casa di Savoia si sentiva più sicura di prima. Amedeo VIII era anche riuscito a sottomettere molti dei minori baroni della regione, e quasi a solennizzare la sua crescente autorità aveva nel 1416 ottenuto dall’ imperatore Sigismondo il titolo di Duca di Savoia ».

 Dal Piemonte l'ex papa Martino V passò in Lombardia. Qui Filippo Maria Visconti era intento a ricostituire lo stato paterno. Come il padre non era uomo d’armi, ma al pari di lui era ambizioso, simulatore e crudele. Nell’opera di ricostituzione del ducato tre persone gli furono di grandissimo aiuto: i due capitani FRANCESCO BUSSONE detto il Carmagnola, FILIPPO ARCELLI e la moglie Beatrice di Tenda. Il CARMAGNOLA era stato all’assedio di Monza contro Astorre Visconti e vi aveva dato tali prove di valore che Filippo Maria gli aveva dato il comando del suo esercito e per affezionarselo lo aveva colmato di onori, lo aveva creato conte di Castel nuovo, e gli aveva concesso in moglie una Visconti, vedova di Francesco Barbavara. 

L’Arcelli, indispettito pel trattamento usato dal Visconti al Carmagnola, gli ribellò Piacenza e il 25 ottobre del 1415 si proclamò lui signore. Non  contento, costituì una lega di piccoli signori lombardi, Pandolfo Malatesta, signore di Brescia e di Bergamo, Gabrino Fondulo di Cremona, Lotario Rusca di Como, Giovanni Vignate di Lodi, i Beccaria pavesi e Tommaso di Campo Fregoso di Genova; ma la lega non ebbe la capacità di servire il disegno dell’Arcelli; infatti il Malatesta dovette correre a difendere i possessi del fratello Carlo, prigioniero di Braccio da Montone, e gli altri alleati, minacciati nelle proprie terre, dovettero pensare alla loro difesa. 
Nella repressione dei ribelli preziosissima fu l’opera del Carmagnola. I Beccaria, Castellino e Lancillotto, furono presi e messi a morte; Giovanni Vignate fu arrestato, chiuso nel castello di Pavia e poi ucciso; Lodi fu assalita e riconquistata; Lotario Rusca riconsegnò Como, tenendo per sè solo Lugano; Tommaso di Campo Fregoso fu seriamente minacciato e Genova e vide le truppe viscontee devastare le valli della Polcevera e del Bisagno ed occupare Ovada e Gavi; alla fine toccò all’Arcelli che fu cacciato da Piacenza e, riparato a Venezia, si mise al servizio di quella repubblica. 

Non meno utile del Carmagnola,  al Visconti gli era stata la moglie Beatrice che gli aveva portato i tesori di Facino, le città di Tortona, Novara, Vercelli ed Alessandria e un numeroso esercito. Ma essa aveva il torto di aver vent’anni più del marito e di non avergli dato figliuoli. Risoluto a disfarsene per dedicarsi liberamente ad Agnese del Mayno di cui si era innamorato, Filippo Maria l’accusò di aver tradita la fede coniugale col giovane cortigiano Michele Orombello, li fece arrestare entrambi, li costrinse con la tortura a confessare una colpa che non avevano commessa e la notte dal 13 al 14 settembre del 1418 li fece decapitare a Binasco.
 
In questo stesso mese giungeva a Milano Martino V, e dopo una breve dimora in città, si recava a Brescia per tentare di conciliare Pandolfo Malatesta e il Visconti. Da Brescia il Pontefice passò a Mantova presso Gianfresco Gonzaga, e vi rimase per tutto il resto dell’anno, poi andò a Ferrara, di cui era signore Niceolò III d’ Este e il 26 febbraio del 1419, evitando la ribelle Bologna, giunse a Firenze ben accolto. 

Questa repubblica, da quando Ladislao era morto, viveva nella più grande tranquillità. Padrona di molta parte della Toscana, viveva in pace con i vicini, non si curava di intromettersi nelle vicende che tenevano agitati gli altri stati, aveva stretta amicizia con Giovanna di Napoli, dal 1413 si era pacificata con Genova, si teneva caro Braccio da Montone ed aveva riconosciuto subito Martino V offrendogli dimora dentro le sue mura. L’oligarchia guelfa vi dominava e tra le famiglie era sempre potentissima quella degli ALBIZZI. Maso però era morto nel 1417 e nel maneggio delle cose pubbliche gli erano succeduti Nicola d’ Uzzano, Bartolommeo Valori, Nerone de’Nigi Diotisalvi, Neri di Gino Capponi e Lapo Niccolini. In basso continuavano a stare gli Alberti e i Ricci, ma cominciava a levar la testa la famiglia dei MEDICI, ricchissimi mercanti, e il componente che godeva maggiore riputazione era GIOVANNI DI BICCI: Quattro volte dopo il 1402 era stato priore, l’ultima volta nel 1416; aveva fatto parte dei Dieci della Guerra, e sapendosi abilmente destreggiare, godeva ad un tempo il favore del popolo e del partito dominante.

Giunto a Firenze, il Pontefice, temendo che Giovanni XXIII prigioniero in Baviera riuscisse ad evadere per le molte aderenze che là aveva, lo fece tradurre in Italia, volendo assegnargli come sede un carcere a Mantova. Ma durante il viaggio il deposto Pontefice fuggì, ma dopo un breve soggiorno in Liguria, andò a Firenze e si gettò il 13 maggio del 1419 ai piedi di Martino riconoscendolo Papa legittimo. 
Questi gli lasciò la dignità cardinalizia e Giovanni XXIII, ripreso il nome di Baldassarre Cossa, si sta- bili in Firenze dove morì sette mesi dopo. Venne sepolto nel Battistero e più tardi Cosimo dei Medici gli fece erigere un monumento sepolcrale con una statua di bronzo, opera di Donatello. 

Durante il suo soggiorno a Firenze, Martino V rivolse la sua politica al riacquisto dello stato pontificio.  Per raggiungere questo scopo si accostò alla corte di Napoli, dove inviò il nipote Antonio Colonna. La missione di costui fu molto proficua: difatti, in cambio del riconoscimento di Giovanna II quale regina di Napoli, il Pontefice ottenne che la regina gli consegnasse Roma, Civitavecchia, Ostia e tutte le altre terre della Chiesa occupate da Ladislao; che Giacomo della Marcia fosse lasciato libero e che lo Sforza con le sue milizie lo aiutasse a strappare a Braccio di Montone, Perugia e le altre conquiste. Il re Giacomo, lasciato libero, disperando di riacquistare l’autorità perduta, fece ritorno in Francia, dove, fattosi francescano, morì vent'anni dopo nel 1438; Giovanna Il fu con grande solennità incoronata a Napoli il 28 ottobre del 1419 alla presenza di Giordano ed Antonio Colonna; MUZIO ATTENDOLO SFORZA fu creato gonfaloniere della Chiesa e con gran gioia di ser Gianni Caracciolo che vedeva allontanare un rivale — marciò contro BRACCIO. 

Una sanguinosa battaglia venne combattuta tra i due celebri condottieri tra Montefiascone e Viterbo e la fortuna arrise a Braccio da Montone che, fatti prigionieri duemila e trecento cavalieri, inseguì il suo nemico fino alle porte di Viterbo dove questi a stento riuscì a salvarsi. 
La sconfitta dello Sforza tornò gradita più che a qualunque altro al Caracciolo, il quale - imbaldanzito- indusse la regina a rifiutarsi alle richieste del Pontefice che voleva fossero da lei somministrati aiuti per ricostituire il suo esercito. 
Sdegnato da questo rifiuto e vista svanire la speranza di vedere il nipote Antonio adottato dalla regina, Martino V concepì il disegno di vendicarsi; prima però volle terminare la guerra che aveva intrapresa contro Braccio e, accettata la mediazione dei Fiorentini, si pacificò con lui. 
BRACCIO DA MONTONE andò di persona a Firenze per trattare con il Papa nel febbraio del 1420. 
Solenne fu il suo ingresso nella capitale toscana: quattrocento cavalieri scelti e dalle lucidissime armature lo seguivano, lo accompagnavano i suoi capitani montati su superbi cavalli e gli facevano scorta i signori di Foligno e di Camerino e i deputati di Perugia, Todi, Orvieto, Narni, Rieti e Assisi; il popolo fiorentino applaudiva per le vie al condottiero che sì era acquistato grande fama con le sue vittorie. 
Braccio cedette al Pontefice, cui prestò giuramento di fedeltà, le città di Narni, Terni, Orvieto ed Orte e tenne per se, ma col titolo di vicario della Chiesa, Perugia, Todi, Assisi, Spello, Jesi ed altre terre; inoltre si mise al servizio del Papa e dietro suo ordine  marciò contro Bologna, di cui si era insignorito, il 26 gennaio di quell’anno, Antonio Galeazzo Bentivoglio. 

In poco tempo i castelli del Bolognese caddero in mano del condottiero perugino, che li occupò in nome della Chiesa; Bologna, non potendo resistere alle milizie di Braccio, il 15 luglio del 1420, aprì le porte. 
Dopo questi successi, Martino V lasciò Firenze e mosse alla volta di Roma, 
dove fece il suo solenne ingresso il 29 settembre del 1420.

Ma l' influenza di Martino V non finisce qui; sarà per altri 15 anni sulla scena.
Ed è il periodo degli Aragona, dei d'Angiò, delle guerre di Firenze con Venezia contro i Visconti, e sono anche i 15 anni di grande fama per il Carmagnola

siamo al periodo che va dall'anno 1420 al 1434 > > >


Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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