ANNI dal 1498 al 1504 

IL DOMINIO STRANIERO IN ITALIA - I BORGIA
FRANCESI E SPAGNOLI IN ITALIA - IL DUCA VALENTINO

 

LUIGI XII SUCCEDE A CARLO VIII - ACCORDO DEL RE DI FRANCIA-VENEZIA-PAPA - NUOVA GUERRA TRA VENEZIA E I TURCHI: CODARDIA DELL'AMMIRAGLIO GRIMANI; GLI OTTOMANI NEL FRIULI; IMPRESE DI BENEDETTO PESARO; LA PACE - I FRANCESI IN LOMBARDIA - LUIGI XII A MILANO - LUDOVICO IL MORO RICUPERA IL DUCATO - TRADIMENTO DEGLI SVIZZERI DEL MORO, POI PRIGIONIERO DEI FRANCESI - IL VALENTINO OCCUPA IMOLA E FORLÌ POI A ROMA - ASSASSINIO DEL DUCA DI BISCEGLIE - CESARE BORGIA CONQUISTA PESARO, RIMINI E FAENZA, ASSEDIA PIOMBINO - I FRANCESI E SPAGNOLI A NAPOLI - FINE DINASTIA ARAGONESE A NAPOLI - POTENZA DEI BORGIA: MATRIMONIO DI LUCREZIA CON ALFONSO D' ESTE; CESARE BORGIA OCCUPA URBINO E CAMERINO - RIBELLIONE DEI CONDOTTIERI DEL VALENTINO - II TRADIMENTO DI SINIGALLIA - GUERRA FRANCESI-PAGNUOLI IN MERIDIONE - LA DISFIDA DI BARLETTA - SCONFITTA FRANCESE A FIUMESECCO E CERIGNOLA - GLI SPAGNUOLI PADRONI A NAPOLI - MORTE DI ALESSANDRO VI - PIO III. - SFACELO DELLO STATO DEL VALENTINO - GIULIO II - FINE DI CESARE BORGIA

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IL TRATTATO DI BLOIS
 NUOVA GUERRA TRA VENEZIA E I TURCHI


Il 1° aprile del 1498, il medesimo giorno in cui a Firenze doveva aver luogo la prova del fuoco tra Domenico Buonvicini e Giuliano Rondinelli, moriva in Amboise, a soli ventotto anni, CARLO VIII ed estinguendosi con lui il ramo primogenito dei Valois, gli succedeva sul trono di Francia, sotto il nome di LUIGI XII, il duca d'Orléans.

Il nuovo re aveva trentasei anni ed era dotato di smodata ambizione, la quale per gli Italiani doveva essere più pericolosa di quella che animava Carlo. Luigi XII infatti non solo faceva sue le pretese del suo predecessore sul Napoletano, ma, quale discendente di Valentina Visconti, accampava diritti sul ducato di Milano.
Appena salito al trono, Luigi XII volse il pensiero all'impresa della Lombardia. Volendo assicurare la Francia dai suoi nemici, stipulò un trattato di pace con il re di Spagna FERDINANDO il CATTOLICO e prolungò la tregua con MASSIMILIANO, poi pensò a stringere alleanze in Italia.

Un primo alleato lo trovò in Papa ALESSANDRO VI. Questi desiderava l'appoggio del re di Francia per far acquisire un principato al figlio Cesare, il quale con il consenso paterno aveva rinunziato alla porpora cardinalizia. Dal canto suo Luigi aveva bisogno del Pontefice, desiderando divorziare dalla moglie per sposare Anna di Borgogna, vedova di Carlo VIII. 
Non fu quindi difficile al re e al Papa intendersi. Cesare Borgia il 1° ottobre del 1498 partì da Roma per la Francia, portando a Luigi XII la bolla che autorizzava il divorzio e il cappello cardinalizio a Giorgio d'Amboise, arcivescovo di Rouen e primo consigliere del sovrano. 
In compenso il Borgia ricevette il titolo di DUCA del VALENTINOIS e nella primavera del 1499 la mano della principessa Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra e parente di Luigi che gli promise di aiutarlo a formarsi un principato dopo l' impresa in Lombardia.

Altra e più importante alleanza fu quella che Luigi XII strinse con la repubblica di Venezia. Essa venne pubblicata a Blois il 15 aprile del 1499 e costituì un gravissimo errore politico pei Veneziani:

 «perocchè - come scrisse il Machiavelli - uno stato deve avvertire di non far mai compagnia con uno più potente di sè per offendere altri, perché vincendo lui, tu rimani a sua discrezione ».

 Col TRATTATO di BLOIS Venezia riconosceva i diritti del re di Francia sul ducato di Milano e si obbligava ad aiutarlo contro LUDOVICO il MORO fornendogli un certo numero di milizie e anche partecipando alle operazioni di guerra. Dal canto suo il re si impegnava di cedere ai Veneziani Cremona e, ad eccezione di Lecco, tutto il territorio alla sinistra dell'Adda. 
I fiorentini, sollecitati da Luigi ad allearsi con lui, dichiararono di rimaner neutrali, non volendo provocarsi fastidi con il Moro che li aveva aiutati nella guerra di Pisa.

Ludovico il Moro contro nemici così poderosi non poteva contar sull'aiuto di alcuno. Suoi naturali alleati erano l' impèratore Massimiliano e Federico re di Napoli, ma il primo era impegnato in una guerra contro gli Svizzeri, il secondo, minacciato dalla Francia, doveva pensare alla propria difesa. Spinto della necessità di creare fastidi ai Veneziani, lo Sforza si rivolse ai Turchi, aizzando segretamente il sultano Baiazet a prendere le armi contro la repubblica di Venezia.

Così, mentre Luigi XII si preparava a scendere in Italia, una nuova guerra scoppiava tra l'Impero Ottomano e Venezia. Questa, armata una flotta di circa settanta navi, l'affidò al comando di ANTONIO GRIMANI, il quale nell'estate del 1499 andò contro l'armata turca che si trovava a Portolongo, nell'isola della Sapienza. Qui, il 12 agosto, tre navi veneziane comandate da VINCENZO POLANI e ANDREA LOREDANO attaccarono arditamente il nemico, ma....

...scrive il Battistella: «... gli altri comandanti di galee, vigliacchi e traditori, con la più gran parte della flotta e con il Grimani medesimo se ne stettero spettatori lontani, e quando videro che le cose volgevano al peggio, presero il largo. Inaudito esempio di codardia e disorganizzazione che offuscò la fama navale di Venezia e che giustamente al MALIPIERO, che a questa battaglia fu presente parve atto di gran poltroneria e di assassinamento contro la Signoria, poiché se tutte le nostre galee investivano, potevano avere a man salva i legni turcheschi come Dio è Dio. E la viltà fu quasi generale, come lasciano arguire le parole dello stesso cappellano del Grimani riferite dal Sanudo che cioè se si dovessero impiccare i colpevoli, se impiccare quattro quinti dell'armata nostra (Battistella) ».

Dopo questo fatto d'armi increscioso la flotta turca riuscì a ritirarsi a Zonchio senz'essere molestata dal Grimani, alla cui flotta il 20 agosto si unirono venti navi francesi. Se l'ammiraglio veneziano fosse stato meno irresoluto e le sue ciurme più disciplinate, la flotta ottomana avrebbe potuto essere sconfitta ; invece in tre scontri il Grimani non seppe o non volle impegnarsi a fondo, suscitando col suo agire lo sdegno dei Francesi, i quali, abbandonati gli alleati, se ne andarono a Rodi.

Nello stesso tempo i Turchi avevano cinto d'assedio Lepanto, la quale, non vedendosi soccorsa dal Grimani, si arrese. Poco dopo, un tentativo fatto dall'ammiraglio d'impadronirsi di Cefalonia fallì e il Grimani si ritirò con la flotta a Corfù, dove trovò MELCHIORRE TREVISANI che la repubblica aveva mandato con l'Ordine di sostituire l'ammiraglio e di arrestarlo. Condotto in catene a Venezia, il Grimani venne processato e condannato all'esilio in un' isola del golfo del Carnaro.
Le medesima pena fu inflitta ad ANDREA ZANCANI, provveditore dell'esercito veneziano del Friuli, il quale nel settembre del 1499 rimase chiuso a Gradisca lasciando che un esercito turco di settemila cavalli, comandato da SCANDER, pascià della Bosnia, passasse l' Isonzo e si spingesse fino alla Livenza saccheggiando e bruciando centotrentadue villaggi ed uccidendo o traendo prigionieri circa diecimila abitanti.
Al principio del 1500 Venezia, preoccupata dagli avvenimenti d'Italia, cercò di avviare trattative con i Turchi e a tale scopo mandò degli ambasciatori a Costantinopoli, ma BAIAZET chiese che la repubblica rinunciasse a tutte le terre che teneva in suo potere nella Morea a pagasse un tributo annuo di diecimila ducati. Queste pretese sembrando esagerate, le trattative vennero troncate e la guerra continuò.

I Turchi, dopo avere invano assalito Nauplia, Malvasia e Zonchio, rivolsero tutte le loro forze di terra e di mare contro Modone che venne cinta d'assedio. Inutilmente cercò di soccorrerla GIROLAMO CONTARINI, successo nel comando della flotta a Melchiorre Trevisani. Modone il 3 agosto del 1500, dopo aspro combattimento sostenuto eroicamente dalla guarnigione, fu espugnata e di lì a poco caddero in potere degli Ottomani anche Corone e Navarino.
A prendere il comando della flotta fu allora mandato BENEDETTO PESARO. Questi occupò Egina, saccheggiò Metilene e Tenedo e catturò molte navi turche, poi, insieme con una flotta spagnola comandata da Consalvo di Cordova, assalì Cefalonia che venne espugnata il 1° di novembre. Anche Zonchio fu ricuperata e forse anche Modone sarebbe stata ripresa  ai Turchi se gli Spagnoli non avessero fatto ritorno nei porti di Sicilia.
Rimasto solo, il Pesaro sorprese e distrusse a Prévesa parecchi vascelli ottomani ed occupò Alessio. Di più avrebbe fatto se una flotta francese ed un'altra portoghese venute in suo aiuto non si fossero mostrate indisciplinate e poco desiderose di combattere. Cooperarono attivamente con lui invece due flotte inviate da Alessandro VI e dai Cavalieri di Rodi, con l'aiuto delle quali nel 1502 assali e conquistò S. Maura.

Fu questa l'ultima azione di quella guerra. Sul finire del 1502 Baiazet avanzò proposte di pace. I Veneziani incaricarono ANDREA GRITTI di negoziare a nome della repubblica e nel maggio del 1503 fu firmato un trattato di pace, in virtù del quale Venezia conservava Cefalonia, Nauplia e Malvasia, ma rinunziava a Lepanto, Modone e Corone, ottenendo in cambio la restituzione dei beni dei cittadini veneziani che il sultano aveva fatto confiscare al principio della guerra.

CONQUISTA FRANCESE DELLA LOMBARDIA
FINE DI LUDOVICO IL MORO


LUIGI XII  prima di iniziare la guerra per la conquista della Lombardia, concluse un trattato d'amicizia con  FILIBERTO II duca di SAVOIA, che era successo nel 1497 al padre Filippo II; e cominciò il re francese ad inviar truppe nel Piemonte. Intorno ad Asti, sotto il comando di GIAN GIACOMO TRIVULZIO, si raccolsero nell'estate del 1499 circa venticinquemila uomini tra cavalieri e fanti; contemporaneamente ai confini orientali del Milanese i Veneziani andavano radunando le loro milizie per muovere su Cremona.

In difesa del suo stato LUDOVICO il MORO allestì due eserciti: uno fu mandato a fronteggiare, sotto il conte di CAIAZZO, le truppe di Venezia; l'altro, comandato da GALEAZZO da SANSEVERINO, fu inviato ai confini occidentali con l'ordine di non impegnarsi in battaglia campale e di tirare le cose in lungo, perché lo Sforza sperava nella discesa di Massimiliano.

Il 13 agosto del 1499 il Trivulzio assali ed espugnò facilmente la rocca d'Arazzo sulla riva del Tanaro, poi mosse contro il vicino castello di Annone, che fu preso d'assalto ed ebbe la guarnigione passata a fil di spada. A questi primi successi altri ne seguirono e in breve i francesi furono padroni di Tortona, di Voghera, di Valenza, di Castelnuovo e di altre piccole terre.
Alla notizia della rapida e facile avanzata del nemico, Ludovico Sforza cercò di correre ai ripari e poiché sapeva che i suoi sudditi erano malcontenti di lui per le eccessive imposte da cui erano gravati, per il suo orgoglio e per la sua tortuosa politica, tentò di ingraziarseli abolendo alcuni dei più odiosi balzelli, quindi adunò un consiglio dei più ragguardevoli cittadini milanesi presso i quali giustificò la sua condotta passata impostagli più dalle circostanze che dalla cupidigia. Egli inoltre disse che nessuno poteva rimproverarlo di crudeltà o di ingiustizia e consigliò tutti di mantenersi fedeli a lui per opporsi all' invasione dei Francesi sotto la cui tirannide i Milanesi avrebbero sicuramente rimpianto il suo mite governo. L'abolizione di alcune imposte, le esortazioni e le promesse, anziché conciliargli i sudditi, valsero soltanto a mostrare tutta la gravità della situazione.

Intanto gli avvenimenti precipitavano: nella notte del 25 agosto Galeazzo da Sanseverino, per viltà o per intesa col Trivulzio, abbandonava Alessandria; questa città il giorno dopo veniva occupata e saccheggiata dal nemico che, passato il Po, si  impadroniva di Mortara e Pavia; i Veneziani, infine, presa Caravaggio e passato l'Adda, spingevano le loro avanguardie fino a Lodi.
Quando l'annuncio di questi avvenimenti giunse a Milano, il popolo, istigato dai malcontenti, si levò a tumulto e uccise ANTONIO da LANDRIANO, tesoriere del duca. Vedendo lo Sforza che non era possibile resistere al nemico mentre la rivolta scoppiava nella capitale, pensò a mettere in salvo la famiglia, il suo tesoro e sé stesso. I primi a partire furono il cardinale ASCANIO, e i figli di Ludovico il Moro, Francesco e Massimiliano, che presero la via della Germania. Quando la famiglia fu in salvo, Ludovico affidò la difesa del castello di Milano a BERNARDINO da CORTE cui diede il comando di tremila fanti ed abbondanti vettovaglie; quindi, il 2 settembre del 1499 con una piccola scorta partì per Como e di là per la Valtellina si recò ad Insbruck, presso l'imperatore MASSIMILIANO.

 Prima di partire egli aveva esortato la duchessa Isabella, vedova di Gian Galeazzo, di andare con il figlio Francesco a Genova per imbarcarsi sulle navi del re di Napoli. Ma la duchessa non partì, temendo più gli amici che i nemici del Moro; doveva però pentirsi di non aver dato ascolto ai consigli di Ludovico perché il giovane figlio più tardi fu condotto in Francia, dove nel 1511 morì nel convento di Marmontier.
Quattro giorni dopo la partenza del duca, i Milanesi aprirono le porte della città a Gian Giacomo Trivulzio, il quale vi entrò il 6 settembre e il 17 di quello stesso mese indusse per denaro Bernardino da Corte a cedere il castello. L'esempio di Milano fu seguito dalle altre città del ducato; Cremona, che era assediata dalle milizie veneziane, chiese di arrendersi ai Francesi, ma questi tennero fede ai patti stabiliti con il trattato di Blois e così i Cremonesi dovettero darsi ai Veneziani; anche Genova apri senza resistenza le porte ai Francesi e tutti, senza distinzione di partito, i cittadini fecero a gara per ingraziarsi i nuovi padroni.

Avuta notizia dell'accoglienza ricevuta dalle sue truppe in Lombardia, Luigi XII, che si trovava a Lione, scese in Italia e il 6 ottobre entrò solennemente a Milano, ricevuto con grandissimi onori dalla popolazione. A Milano vennero ad ossequiarlo gli ambasciatori di tutti gli stati italiani, eccettuati quelli del re di Napoli, e da tutti si fece dare grosse somme, specie da Giovanni Bentivoglio, dal duca di Ferrara e dai Fiorentini. Questi ultimi anzi si impegnarono di prestare al re un aiuto di cinquecento lanceri e di dargli cinquecento ducati per l'impresa di Napoli, e Luigi dal canto suo promise di aiutarli a riconquistare Pisa e Montepulciano.

Luigi XII non si trattenne a Milano che poche settimane; nel novembre egli se ne tornò in Francia, lasciando come vicerè in Lombardia GIAN GIACOMO TRIVULZIO. Ma il sovrano non fu felice nella scelta del suo luogotenente, perché il Trivulzio, se era un valentissimo capitano, non era però l'uomo adatto a governare Milano. Qui aveva molti nemici, che sarebbe stata ottima politica conciliarsi. Invece il Trivulzio, lasciandosi guidare dalla passione di parte, cominciò a favorire i propri amici e a far pesare sugli antichi nemici la sua autorità. All'odio di questi ultimi si aggiunse il malcontento del popolo che vide deluse le speranze, riposte nel nuovo governo, di esser alleggerito dalle imposte. Per di più, i modi burbanzosi, usati dai soldati francesi, indignarono talmente i Milanesi da far loro desiderare il ritorno di Ludovico Sforza.

Questi frattanto non rimaneva inoperoso. Con il tesoro che si era portato dietro, era intento ad assoldar milizie nella Svizzera e nella Germania e si preparava a scendere in Italia per ricuperare il suo ducato. I suoi preparativi, conosciuti in Milano, misero in allarme il Trivulzio, il quale chiese ai Veneziani di avanzare verso l'Adda e richiamò dalla Romagna - dov'era andato a spalleggiare CESARE BORGIA - un corpo di milizie francesi comandate da IVE d'ALEGRE; ma Ludovico il Moro non diede tempo al nemico di riunirsi e prepararsi alla difesa: nei primi di febbraio del 1500 passò le Alpi ed occupò Como, festosamente accolto dalla popolazione, poi si pose in marcia dirigendosi verso la capitale.

Alla notizia dell'avvicinarsi dello Sforza i Milanesi non nascosero la loro gioia, e il Trivulzio, temendo lo scoppio di una rivolta, si chiuse precipitosamente nel castello, poi, lasciatovi un presidio, uscì dalla città e si ritirò verso il Ticino. Partito il vicerè, entrò in Milano il cardinale Ascanio Sforza e il 5 febbraio i Milanesi accolsero giubilanti Ludovico il Moro, che tornava tra loro dopo cinque mesi dalla fuga.
Con la stessa facilità con cui aveva perso il ducato ora Ludovico Sforza lo riacquistava. Una dopo l'altra le città della Lombardia seguirono l'esempio di Como e della capitale; il presidio di Milano capitolò; a stento le truppe veneziane impedirono che Lodi e Piacenza alzassero le insegne del duca; i signori di Mirandola, di Carpi e di Correggio, Filippo dei Rossi e i conti Dal Verme radunarono le loro truppe e le condussero al servizio di Ludovico e questi, lasciato a Milano il fratello cardinale, passò il Ticino, prese Vigevano e Novara e costrinse i Francesi a ritirarsi verso Mortara.

Ma i successi dello Sforza furono di breve durata. Luigi XII si affrettò a mandare rinforzi al suo esercito che si trovava in Italia - millecinquecento lance e seimila fanti francesi e diecimila Svizzeri - e il Trivulzio, ripreso coraggio dopo il giungere di queste truppe, passò all'offensiva ed andò ad assediare Ludovico il Moro in Novara.
Ottomila Svizzeri militavano sotto le insegne dello Sforza. Questi, comprati dall'oro francese e sobillati dai loro compatrioti che stavano al servizio di Luigi XII, prima cominciarono a tumultuare sotto il pretesto che non erano state loro corrisposte le paghe, poi dichiararono che non avrebbero combattuto contro i loro connazionali dell'altro campo.

Vani riuscirono tutti i tentativi fatti da Ludovico per indurre gli Svizzeri a combattere, né risultato migliore ottenne la sua richiesta di condurlo in salvo prima di lasciarlo o di aspettare almeno che gli giungessero le milizie italiane chieste al cardinale Ascanio. Gli Svizzeri gli concessero soltanto di mescolarsi con loro per tentare in questo modo di sfuggire al nemico.
Ludovico il Moro si travesti da fante o, come altri vuole, da frate, ma uscito da Novara, il 10 aprile del 1500 fu riconosciuto dai Francesi e fatto prigioniero. I suoi Svizzeri presero la via delle loro montagne, e passando per Lugano e Bellinzona, che dipendevano dal ducato milanese, le occuparono.

Subito dopo la loro partenza il Trivulzio entrò a Novara. Il cardinale Ascanio Sforza, disperando di potersi resistere a Milano, fuggi con i più ragguardevoli tra i suoi fautori, ma presso Piacenza cadde nelle mani dei Veneziani dai quali fu poi consegnato ai Francesi. Egli fu chiuso nel castello di Bourges, donde più tardi venne liberato. Diversa fu invece la sorte di LUDOVICO  il MORO. Da Novara venne condotto a Lione, i cui abitanti accorsero in folla a vedere l' illustre prigioniero; chiese ma non ottenne di essere ricevuto dal re e due giorni dopo fu chiuso nella torre di Loches, dove finì miseramente la vita il 27 maggio del 1508.

«Trista fine di un principe - osserva il Battistella - che per parecchi anni era stato l'arbitro delle cose d'Italia e a cui la troppo sottile e spregiudicata abilità politica aveva procurato malamente il trono e malamente gliel'aveva tolto. Intorno a lui diversi furono i giudizi: chi lo levò alle stelle, chi lo coperse di vituperi; probabilmente non meritava né l'una cosa né l'altra, poiché se ebbe gravi colpe e difetti, ebbe anche notevoli doti di mente e di animo di cui bisogna tener conto nel giudicarlo. 
La principale accusa che gli si mosse è avere per primo chiamati i Francesi in Italia. Ma in questo la colpa più che sua è della politica italiana di allora di cui egli con la sua astuta doppiezza non fu che il campione più in vista, benchè nulla gli dovessero invidiare Ferdinando I e Alfonso II di Napoli, Lorenzo il Magnifico, i Veneziani e i Pontefici stessi di quel periodo. 
Certo, in quell'avvenimento sciagurato lui ebbe rilevante parte, ma una forse maggiore responsabilità spetta ad altri, specialmente a Venezia interessata come lui e più di lui nel perfido giuoco di vicendevoli sopraffazioni che rompevano quell'equilibrio che tutti protestavano di voler mantenere ».


IMPRESE DEL DUCA VALENTINO

LUIGI XII, ricevendo la bolla di divorzio, aveva promesso al duca VALENTINO, come comunemente fu poi chiamato CESARE BORGIA, di aiutarlo a formarsi uno stato nella Romagna. Non appena ebbe conquistato il ducato di Milano egli mantenne la promessa e diede al Borgia quattromila Svizzeri e trecento lance comandate da Ivo d'Alégre. Con queste truppe e con altre da- lui assoldate, nel novembre del 1499- il Valentino si accinse a conquistare le Romagne e le Marche, i cui signori Alessandro VI aveva dichiarati decaduti dai loro feudi sotto pretesto che non avevano pagato il censo alla Chiesa. 

La prima città contro la quale Cesare Borgia rivolse le armi fu Imola, che, dopo una breve resistenza, il 9 dicembre capitolò. Subito dopo il Valentino mosse contro Forlì, dove col figlio Ottaviano si era ritirata la valorosa CATERINA SFORZA. L' intrepida donna si chiuse in quella medesima rocca che undici anni prima aveva coraggiosamente salvata dagli assassini del Riario e vi resistette fino al 12 gennaio del 1500. Quel giorno, avendo le artiglierie nemiche distrutte le mura e il terrapieno, la Sforza riparò con i suoi nella più alta torre, ma insieme con la guarnigione forlivese vi entrarono le truppe del Valentino, le quali, dopo una breve mischia, fecero prigioniera Caterina, che venne condotta a Roma e chiusa a Castel Sant'Angelo, da dove un anno dopo (30 gennaio del 1501) fu liberata per intercessione di Ive d'Alégre. Da Roma Caterina Sforza si ritirò a Firenze e qui si dedicò tutta all'educazione del figlio avuto dal suo terzo marito GIOVANNI dei MEDICI - che doveva diventare il più grande capitano del suo tempo.

Dopo Imola e Forlì venne la volta di Cesena; ma qui le operazioni dovettero essere sospese, essendo avvenuta la restaurazione di Ludovico il Moro nel ducato di Milano ed avendo il Trivulzio richiamato le truppe francesi dalla Romagna. Allora il duca Valentino si recò in Roma, dove si celebrava il Giubileo e dove fece il suo ingresso solenne, come un conquistatore, il 26 febbraio del 1500.

 ""... Lo seguivano- scrive il Bertolini - un lungo codazzo di cavalieri e un grosso corpo di milizie di ogni nazione comandate da VITELLOZZO VITELLI di Città di Castello. I cardinali e gli ambasciatori gli erano andati incontro, e si erano subito messi al suo seguito. 
Il Papa, a vedere suo figlio in mezzo a tanta pompa, provò tale commozione che piangeva e rideva nello stesso tempo, come riferisce il Capello che fu presente a quella scena. La quale ebbe la sua apoteosi in piazza Navona con la rappresentazione del trionfo di Giulio Cesare fatta in occasione dei giuochi cavallereschi. Il Borgia comparve assiso sull'ultimo carro che era l'undicesimo e recava scritto il motto di Giulio Cesare trionfatore: Victoria Julii Caesaris qui sedit in ultimo carro. In premio delle gesta compiute il Valentino ebbe dal Papa le insegne di gonfaloniere della Chiesa e la rosa d'oro » .

Il VALENTINO si trattenne a Roma per tutta l'estate del 1500 e durante il suo soggiorno romano una fosca tragedia insanguinò la casa dei Borgia, che ai pellegrini fece ricordare l'assassinio del duca di Gandia. Questa volta la vittima fu il duca ALFONSO di BISCEGLIE, figlio naturale del re Alfonso II, che LUCREZIA BORGIA, figlia del Papa, divorziata dal signore di Pesaro Giovanni Sforza, aveva sposato nel giugno del 1498. 
La sera del 15 luglio, mentre usciva dal Vaticano, il duca di Bisceglie venne assalito da cinque individui mascherati e gravemente ferito. Chi aveva armato la mano degli assassini non poteva certo rimanere contento di quel risultato e poiché il duca di Bisceglie, dopo un mese di letto, accennava a guarire, il misterioso mandante incaricò altri sicari che il 18 agosto strangolarono l' infelice marito di Lucrezia.

Anche di questo secondo delitto la voce pubblica disse che l'autore era Cesare Borgia, il quale non solo non smentì le dicerie, ma le confermò indirettamente col dire che il cognato meditava di uccider lui. Intanto egli raccoglieva truppe, per continuare le sue conquiste. Il 10 di ottobre del 1500 il Valentino partì da Roma conducendo con sé un esercito di diecimila uomini, fra cui erano parecchi capitani delle case Orsini e Savelli e Giampaolo Baglioni di Perugia. La prima città che in questa seconda spedizione assalì fu Pesaro, di cui era signore Giovanni Sforza, il primo marito di Lucrezia Borgia: questi cercò di far resistenza, ma la città si ribellò ed allora fuggi a Venezia, poi si recò a Mantova, lasciando libero campo al Valentino che il 27 ottobre prese possesso di Pesaro.
Padrone di questa città, il duca Valentino mosse su Rimini, dove comandava PANDOLFO IV, figlio naturale di Roberto Malatesta e genero di Giovanni Bentivoglio. Rimini cacciò il suo signore ed aprì le porte a Cesare Borgia, il quale rivolse poi le armi contro Faenza, sotto le cui mura si presentò il 20 novembre, dopo avere ridotto alla sua obbedienza la Val di Lamone.

Era signore di Faenza il sedicenne ASTORRE III MANFREDI, il quale, sebbene abbandonato dai Fiorentini e dal nonno Giovanni Bentivoglio, mostrò di volere opporre accanita resistenza. Il Valentino tentò un assalto con tutte le sue truppe il 25 novembre; ma venne violentemente respinto. Incoraggiati da questo primo successo, i Faentini eseguirono frequenti sortite, infliggendo rilevanti perdite al nemico, il quale, in un secondo assalto, sferrato ai primi di gennaio 1501, venne nuovamente ributtato indietro.
All'inizio della primavera il Valentino strinse in maggior misura la città, convergendo sulle mura numerose artiglierie. Il 18 aprile mandò le sue truppe all'assalto, ma queste furono respinte; tre giorni dopo Vitellozzo Vitelli e Paolo e Giulio Orsini ne sferrarono un altro, ma neppure questa volta le milizie del Valentino ebbero fortuna.

Però i Faentini, malgrado questi loro successi, comprendevano che non sarebbe stato possibile continuare ancora nella resistenza. Essi erano ormai decimati ed esauriti dopo circa sei mesi di assedio; le mura, battute quotidianamente dalle artiglierie, erano in gran parte distrutte e i difensori non erano in numero sufficiente per impedire che dalle brecce il nemico penetrasse nella città.
Tra gli assediati e gli assedianti erano state verso la, metà di aprile iniziate trattative per la capitolazione. I Faentini chiedevano, come condizioni di resa, che il loro signore conservasse i suoi beni e potesse liberamente andarsene dove più gli piacesse. Non potendo impadronirsi con la forza della città, dopo l'ultimo assalto respinto il Valentino accolse le richieste degli abitanti e il 22 aprile gli furono aperte le porte di Faenza ; ma appena ebbe occupata la città, non tenne fede ai patti giurati e, fatto arrestare Astorre, lo mandò prigioniero a Roma. Il giovinetto fu chiuso a Castel Sant'Angelo, dove rimase circa un anno e dovette subire gli oltraggi dei suoi nemici; poi nel giugno del 1502 fu strangolato e gettato nel Tevere.

Con la presa di Faenza, CESARE BORGIA aveva completato la conquista della Romagna. ALESSANDRO VI suo padre costituì questa regione in un ducato e ne diede l' investitura al figlio, il quale, volendo ristabilire l'ordine nelle Romagne, ne diede il governo a RAMIRO dell'ORCO, uomo energico e crudele, che, assolto il suo compito, fu dal suo duca poi fatto uccidere a Cesena il 23 settembre del 1502.
Conquistate le Romagne, il Valentino volse l'avido sguardo al Bolognese, alla Toscana, alle Marche e al ducato d'Urbino. Per poter impadronirsi di Bologna egli cominciò a tramar segretamente con la famiglia dei MARESCOTTI e avanzò poi fino a Castel San Pietro; ma Luigi XII, sotto la cui protezione il Bentivoglio si era messo, gli proibì di andare oltre.
Allora Cesare Borgia pensò di mettere in attuazione i suoi disegni sulla Toscana. Dopo  aver mandato a Pisa alcune milizie comandate da OLIVEROTTO da Fermo, dal Bolognese scese in Toscana con parecchie migliaia di armati e, giunto a Barberino, mandò ambasciatori a Firenze chiedendo che fosse rimesso al potere Piero de' Medici, che venissero consegnati gli autori della condanna di Paolo Vitelli, e infine che i Fiorentini non inviassero aiuti al signore di Piombino che egli si preparava ad assalire.

 Poco dopo però, conoscendo di non aver forze abbastanza per sostenere le sue pretese, non insistette sulle due prime richieste e si accontentò che la repubblica si disinteressasse di Piombino e corrispondesse a lui, Cesare Borgia, per tre anni l'annuo soldo di trentaseimila ducati.
- Il 4 giugno del 1501 il duca Valentino entrò col suo esercito nel territorio di Piombino, si impadronì facilmente di Suvereto e Scarlino, delle isole d' Elba e Pianosa e pose l'assedio al castello di Piombino dove Giacomo d'Appiano si era chiuso con un gruppo di milizie: ma pochi giorni dopo, chiamato dal padre, lasciava a continuar l'assedio Vitellozzo Vitelli e Giampaolo Baglioni e partiva alla volta di Roma per unirsi all'esercito francese e partecipare con esso alla conquista del Napoletano.

I FRANCESI E GLI SPAGNOLI ALLA CONQUISTA DEL NAPOLETANO
FINE DELLA DINASTIA ARAGONESE DI NAPOLI


L'impresa contro il regno di Napoli era stata disegnata da Luigi XII d'accordo con il re di Spagna Ferdinando il Cattolico. L' 11 novembre del 1500 i due sovrani avevano concluso un trattato segreto col quale avevano stabilito di assalire contemporaneamente il regno. Luigi avrebbe dovuto tener per sé Napoli, la Terra di Lavoro e gli Abruzzi, Ferdinando invece la Calabria e la Puglia. Più tardi i due re avrebbero ricevuto dal Pontefice l' investitura di quelle province.
Nella primavera del 1501 il re di Francia mandò contro il Napoletano un esercito di quindicimila uomini circa comandato dal d'AUBIGNY e una flotta con truppe da sbarco al comando di FILIPPO di RAVENSTEIN. Il re di Napoli Federico, che non conosceva il trattato di Granata, confidava nell'aiuto del re di Spagna e, senza immaginare di tirarsi in casa il nemico, aveva consegnate alcune fortezze della Calabria a Consalvo di Cordova. 
Solo il 15 giugno del 1501, quando ALESSANDRO VI pubblicò la bolla contro di lui, il re di Napoli comprese di essere stato giocato e  tradito da Ferdinando il Cattolico.

Rimasto solo e minacciato da due potenti nemici, Federico non si perse d'animo e, poiché le truppe che aveva al suo soldo non erano sufficienti a contrastare il passo agli eserciti francese e spagnolo, stabilì di difendere Aversa, Napoli e Capua. Nella prima si chiuse egli stesso, nella capitale mandò PROSPERO COLONNA e nella, terza città pose FABRIZIO COLONNA.
Il d'Aubigny, senza incontrare seria resistenza in brevissimo tempo si rese padrone di tutto il territorio napoletano fino al Volturno, passò questo fiume a monte di Capua, occupò Aversa da dove Federico si era  ritirato a Napoli, si impadronì di Nola ed altre terre e infine mosse contro Capua. 
Questa città si difese valorosamente per qualche tempo, poi, disperando di poter continuare nella resistenza, il 24 luglio si arrese. L'esercito vincitore la trattò barbaramente. L' infelice città venne orribilmente saccheggiata, i templi e i monasteri non vennero rispettati, le donne furono lasciate in balia della libidine delle soldatesche e Cesare Borgia scelse quaranta fanciulle tra le più belle e le mandò nel suo palazzo di Roma.

Caduta Capua, anche Gaeta aprì le porte ai Francesi ed evitò il saccheggio pagando una taglia di sessantamila ducati. Il 19 agosto Napoli si arrese e sei giorni dopo Federico, che si era chiuso a Castelnuovo entrava in trattative con Luigi XII, gli cedeva la capitale, la Terra di Lavoro e gli Abruzzi e si ritirava ad Ischia, da dove più tardi, lasciata l' isola al marchese del Vasto, si recò in Francia, ricevendo da Luigi il ducato d'Angiò ed un assegno annuo di trentamila scudi.
Non così rapida fu la conquista spagnola dell'altra parte del regno sia per le deboli forze di cui disponeva CONSALVO di CORDOVA, sia per la resistenza opposta da Manfredonia e da Taranto. Breve fu la resistenza della prima; lunga invece quella di Taranto, dove si era chiuso il giovane principe FERDINANDO, primogenito di Federico.

La difesa di questa città era stata affidata a GIOVANNI di GUEVARA, conte di Potenza, il quale, provvisto di abbondanti vettovaglie e favorito dalla posizione, seppe tener testa lungamente all'esercito spagnolo, evitando le sortite per non indebolire la guarnigione; ma quando gli assedianti assalirono la città con una flotta dal Mar Piccolo, il conte che non aveva munito abbastanza Taranto da quella parte si decise a capitolare a patto però che il principe Ferdinando fosse lasciato libero.

CONSALVO giurò i patti sull'Ostia consacrata, ma, appena fu padrone della città, Ferdinando lo fece arrestare e lo inviò su una galea in Spagna. 
Così fini la dinastia aragonese di Napoli che aveva regnato per sessantacinque anni. Federico morì in Francia il 9 settembre del 1504; Ferdinando si spense in Spagna nel 1550; il secondogenito Alfonso finì i suoi giorni nel 1515 a Grenoble non senza sospetto di veleno; Cesare, ultimo figlio dell'ex-re di Napoli, morì a Ferrara diciottenne. Delle figlie di Federico, Carlotta sposò il conte Niccolò di Laval da cui ebbe una figlia, Anna, che fu maritata a Francesco de la Trémouille.


ALTRE IMPRESE DI CESARE BORGIA


Il duca Valentino aveva partecipato all' impresa di Napoli con il d'Aubigny. Ritornato a Roma nel settembre del 1501, ricevette l'annuncio che il 3 di quel mese Piombino si era arreso a Vitellozzo Vitelli e che la lotta tra il Pontefice da una parte e i Colonna dall'altra volgeva favorevole al primo il quale aveva già occupato i loro castelli del Lazio.
Non contento di questi risultati, Alessandro VI, con bolla del 20 agosto 1501, scomunicava i Colonna e i Savelli a causa degli aiuti prestati al re Federico e confiscava i loro beni, e con un altra bolla del 17 settembre costituiva in ducato Sermoneta, dandolo, con Ninfa, Norma, Albano, Nettuno, Ardea e Nemi, a RODRIGO, figlio di Lucrezia Borgia (figlia del papa) e di Alfonso di Bisceglie, ed altrettanto faceva di Nepi dandola, con Palestrina, Olevano, Pallano, Frascati ed Anticoli, al nipote  GIOVANNI BORGIA, figlio naturale del Valentino.

Mentre lo stato pontificio si procurava vasti domini, la casa Borgia cercava di consolidare la sua posizione con cospicui parentadi. Nel settembre del 1501 Alessandro VI riusciva a combinare un matrimonio tra la figlia Lucrezia e Alfonso d' Este, figlio del duca di Ferrara e....
""  il 9 dicembre partì da Ferrara il corteo della sposa, e il 23 fece il suo pomposo ingresso a Roma. Lo componevano il cardinale Ippolito d' Este con altri cinque membri della famiglia ducale, e con un seguito di cinquecento cavalieri. Il 30 dicembre fu celebrato per procura lo sposalizio in Vaticano, e il 6 gennaio 1502 Lucrezia lasciò Roma per andare nella sua nuova residenza a raggiungere il nuovo marito ALFONSO d'ESTE.

A questo punto comincia un nuovo periodo nella vita di quella donna; periodo più chiaro e più conosciuto del precedente del quale, ad onta delle ricerche e degli studi più accurati e coscienziosi, molti fatti sono rimasti in una specie di penombra. 
E sono i fatti sopratutto che riguardano la moralità di Lucrezia. Comunque, ad ogni modo quale fosse stata la sua vita romana, rimane fuori d'ogni dubbio che la vita di Ferrara fu immune da ogni macchia: sia nel tempo che fu principessa ereditaria, sia dopo che diventò duchessa (1505), essa seppe cattivarsi l'amore del marito e la stima del suo popolo. Morì di malattia puerperale il 24 giugno del 1519""  (Bertolini)

Cinque mesi dopo della partenza di Lucrezia da Roma, il 13 giugno del 1513, partiva il duca Valentino alla testa di numerose truppe. Si diceva che andasse a cacciare fuori da Camerino Giulio Cesare da Varano che il Pontefice, il 1° maggio dell'anno precedente, aveva spogliato del suo feudo. Quando fu giunto ai confini del territorio di Perugia, Cesare Borgia mandò Oliverotto da Fermo e il duca di Gravina, suoi luogotenenti, a logorare il territorio di Camerino; contemporaneamente richiese GUIDOBALDO di MONTEFELTRO, duca d' Urbino, di prestargli tutte le truppe e l'artiglieria che aveva. Guidobaldo, che aveva fino allora mantenuto buoni rapporti con i Borgia, di nulla sospettando, aderì alla richiesta, ma il Valentino, quando con quell' inganno lo ebbe disarmato, invase le sue terre indifese e senz'armi. Guidobaldo, travestito, fuggì a Ravenna poi passò a Mantova, e Cesare Borgia riuscì così facilmente a impadronirsi di tutto il ducato di Urbino.

Nel medesimo tempo Vitellozzo Vitelli, capitano del Valentino, spalleggiato da Gianpaolo Baglioni, da Fabio Orsini e da Pandolfo Petrucci, prendeva Arezzo (18 giugno del 1502), dopo occupava Cortona, Anghiari e Borgo San Sepolcro. Firenze, vedendosi minacciata, si rivolgeva però al re di Francia e nell'agosto di quello stesso anno otteneva la restituzione di Arezzo. Nel frattempo anche Camerino era caduta in potere del Borgia, il quale, fatto uccidere GIULIO CESARE da Varano e fatti strangolare anche i suoi due figliuoli, assumeva il titolo di duca di Romagna, di Valentinois e d'Urbino, principe d'Andria, signore di Piombino e gonfaloniere e capitano generale della Chiesa.

Ora il Valentino rivolse nuovamente il suo pensiero a Bologna, della quale aveva sempre sognato di fare la capitale del suo stato. E ci sarebbe riuscito se una rivolta dei condottieri del Valentino non avesse costretto costui a distogliere per qualche tempo i suoi cupidi sguardi da Bologna. 
Questi condottieri, che erano in gran parte signorotti dell'Italia centrale, conoscendo la perfidia e la cupidigia del Borgia, temevano di fare la fine degli altri (vedi Guidobaldo). Per impedire che il Valentino li spogliasse delle loro terre, essi decisero di stringersi in lega e di resistere insieme a Cesare Borgia.

Una riunione importante ebbe luogo il 9 ottobre del 1502 alla Magione, nel territorio perugino. Vi convennero alcuni ORSINI (il cardinale Giambattista, Francesco duca di Gravina, Carlo bastardo di Virginio, e Paolo figlio del cardinale Latino), Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello; Gianpaolo Baglioni signore di Perugia, Ermes Bentivoglio a nome del padre Giovanni, Antonio da Venafrio a nome di Pandolfo Petrucci, signore di Siena, e Oliverotto da Fermo.
Nello stesso mese di ottobre scoppiò la rivolta, che ebbe inizio nel ducato d' Urbino con la sollevazione di San Leo. Il 15 ottobre Paolo Orsini entrava a Urbino e vi rimetteva in signoria Guidobaldo da Montefeltro, che in breve riusciva a ricuperare il suo stato. Poco dopo, i ribelli si scontravano a Fossombrone con alcune milizie del Valentino, comandate dagli spagnuoli don UGO MONCADA e don MICHELE CORIGLIA, e le sconfiggevano: il Moncada cadeva prigioniero e il Coriglia riusciva a fuggire a stento riparando prima a Fano e poi a Pesaro. 

Dopo questa vittoria i ribelli ponevano sul trono di Camerino GIOVAN MARIA da VARANO, l'unico superstite di questa famiglia.
Pareva, che tutto l'edificio innalzato dal Valentino stesse per crollare; e in verità sarebbe crollato in poco tempo se i ribelli fossero stati più concordi e risoluti, se le repubbliche di Firenze e di Venezia si fossero schierate con loro e se Luigi XII non avesse prontamente soccorso Cesare Borgia che, a Imola, dove si trovava, si affannava ad assoldare milizie.
Gli aiuti del re di Francia gli furono condotti da CARLO d'AMBOISE, signore di Chaumont. L'esempio di Luigi non fu senza effetto sull'orientamento della politica di Firenze. La Signoria era stata sollecitata dai ribelli a prender le armi contro Cesare Borgia. Essa invece credeva opportuno di accostarsi al Valentino e gli mandò NICCOLÒ MACHIAVELLI per assicurarlo dell'amicizia dei Fiorentini ed informarlo che essi avevano rifiutato di far causa comune coi confederati.

I soccorsi di Luigi XII, l'ambasceria del Machiavelli, la mancanza. di denari e il contegno di Venezia che, già in guerra col Turco, non desiderava entrare in una pericolosa avventura, fecero cader l'energia dei ribelli, che cercarono di riconciliarsi con Cesare Borgia. 
Il 25 ottobre Paolo Orsini si recava a Imola e tre giorni dopo stipulava con il Borgia una convenzione. Il Valentino perdonava ai ribelli e li manteneva al suo soldo; essi si obbligavano di aiutarlo a recuperare Urbino e Camerino. A questa convenzione tenne dietro un accordo tra il Borgia e il Bentivoglio, che fu firmato il 2 dicembre. Questi accordi portarono lo spavento nell'animo di Guidobaldo che, fuggito da Urbino, riparò a Venezia. Anche Giovan Maria da Varano abbandonò Camerino e cercò rifugio nel Napoletano.
Il 10 dicembre il Valentino, alla testa di numerose milizie, lasciò Imola e si diresse alla volta di Cesena. Ma la sua meta era Sinigallia, dove, a nome del figlio giovinetto Francesco Maria della Rovere, governava la madre, che era sorella di Guidobaldo da Montefeltro. Questa, all'annuncio che il Borgia avanzava, lasciava nella fortezza un presidio e  fuggiva per mare a Venezia. Allora le milizie del Vitelli e degli Orsini occuparono Sinigallia e  poiché il comandante della rocca non voleva consegnarla che al Valentino questi fin invitato a recarsi in città.

Cesare Borgia, che si trovava a Fano, avanzò il 31 dicembre verso Sinigallia, Gli andarono incontro per ossequiarlo Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini e il duca di Gravina, che furono accolti da lui amorevolmente. Oliverotto, che era rimasto coi suoi soldati in Sinigallia, consigliato da don Michele Coriglia, raggiunse gli altri compagni e tutti e quattro i condottieri insieme con il Valentino entrarono in città e smontarono da cavallo davanti la casa destinata al Borgia. 
Ma avevano appena messo piede nel palazzo quando, ad un cenno del duca, i quattro capitani furono arrestati. Impadronitosi dei suoi condottieri, il Valentino corse con le sue truppe ad assalire le milizie di Oliverotto, poi si rivolse contro quelle del Vitelli e degli Orsini, ma queste avvertite in tempo, si ritirarono. 
La stessa notte Vitellozzo e Oliverotto da Fermo venivano strangolati. Gli altri due furono al momento risparmiati perché prima di farli uccidere, il Borgia voleva sapere se Alessandro VI avesse imprigionato gli altri membri della famiglia Orsini rimasti in Roma.

Il giorno dopo il duca Valentino partiva alla volta dell' Umbria. Il 4 gennaio del 1503 ricevette per via ambasciatori da Città di Castello, i quali gli annunziarono che la famiglia Vitelli era fuggita e che gli abitanti si davano a lui. Il giorno 5 gli si presentarono messi di Perugia per informarlo che Giampaolo Baglioni si era rifugiato a Siena e che i Perugini si sottomettevano alla Santa Sede.
Avuta notizia della sottomissione di Città di Castello e di Perugia, il Valentino mosse contro Pandolfo Petrucci signore di Siena. Il 18 gennaio, a Castel della Pieve, fece strangolare Paolo Orsini e il duca di Gravina. 
Dieci giorni dopo il Petrucci e il Baglioni con le reliquie delle milizie del Vitelli si rifugiavano a Lucca. Cesare Borgia non osò assalire Siena, che si era messa sotto la protezione della Francia, e prima che finisse il mese di gennaio partì per Roma.

A partire dalla Toscana lo avevano spinto le notizie giuntegli dal Lazio: tutti quegli Orsini, che erano riusciti a sfuggire ai Borgia, alleatisi ai Savelli e ai Colonna, avevano prese le armi e si erano preparati a fare resistenza nei loro castelli. All'avanzarsi delle milizie del duca Valentino, che commettevano saccheggi e terribili atrocità durante il loro cammino, gli Orsini non osarono contrastargli il passo di modo che in breve Cesare Borgia si impadronì di quasi tutti i loro possedimenti ad eccezione di Bracciano che resistette coraggiosamente. Dopo il duca entrò in Roma, dove il 22 febbraio era morto, prigioniero a Castel Sant'Angelo, il cardinale Orsini.

« ALESSANDRO VI e suo figlio - scrive l'Orsi - potevano ormai lusingarsi di aver condotto a buon punto la loro opera; e con la prosperità crescevano ogni giorno nell'anima loro gli ambiziosi progetti e l'audacia brutale di servirsi di ogni mezzo pur di raggiungerli. Il denaro era uno dei coefficienti essenziali per le imprese che essi meditavano; perciò si creavano uffici nuovi nella curia semplicemente per venderli; venivano innalzati al cardinalato uomini indegni pur di ottenere da essi una buona somma di denaro; ma tutto questo era nulla; pur di far denaro non si aveva riguardo a commettere persino degli infami delitti. Così nell'aprile del 1503 mori avvelenato il cardinale veneziano Giovanni Michiel, nipote di Paolo II, che aveva fama di essere molto ricco, e subito la sua casa fu svaligiata per ordine del Papa, che, secondo l'ambasciatore veneziano Antonio Giustinian, tra denari, argenti ecc. prese più di 150 mila ducati. Pochi mesi dopo moriva pure, quasi improvvisamente, il cardinale Giovanni Borgia, nipote del Papa, anche lui ricchissimo; e la voce pubblica accusò di nuovo i Borgia di avvelenamento. - "Nostro Signore - scriveva l'ambasciatore veneto con una frase poco rispettosa verso i cardinali - nostro Signore suole prima ingrassarli per far poi loro la festa" .

Con l'avidità e le ambizioni di Alessandro VI e del Valentino crescevano di giorno in giorno le paure non solo nell'animo dei loro nemici, ma in quello degli stessi partigiani e perfino dei loro sgherri più devoti. In mezzo a queste paure però una cosa confortava tutti ed era il pensiero che, data la sua età, il Pontefice non sarebbe vissuto a lungo e che, morto il padre, Cesare Borgia difficilmente avrebbe potuto conservare il principato. I fatti dimostreranno che tutti coloro i quali pensavano così non si ingannavano.

GUERRA FRANCO-SPAGNOLA NEL NAPOLETANO
LA DISFIDA DI BARLETTA -
MORTE DI ALESSANDRO VI - 
PIO III E GIULIO II - 
SFACELO DELLO STATO DEL VALENTINO

I FRANCESI e gli SPAGNOLI, secondo quanto i loro monarchi avevano pattuito a Granata, si erano appena impadroniti del Napoletano quando discordie nacquero tra le due nazioni per il possesso dei paesi di confine, le quali diedero origine ad una guerra che doveva finire con la cacciata dei primi dall'Italia meridionale. Le ostilità cominciarono nel giugno del 1502. CONSALVO di CORDOVA, generalissimo dell'esercito spagnolo, essendo inferiore di forze ai Francesi, distribuì parte delle sue truppe in varie fortezze e con il grosso dei suoi si chiuse in Barletta per aspettarvi i soccorsi dalla Spagna e far sì che il nemico perdesse tempo e si logorasse negli assedi.

Comandava le forze francesi nel Napoletano LUIGI d'ARMAGNAC, duca di Nemours, che mandò parte del suo esercito in Calabria al comando del d'Aubigny, il quale in brevissimo tempo si impadronì della regione costringendo le guarnigioni nemiche a riparare in Sicilia; con l'altra parte dell'esercito il Nemours andò ad assediare Barletta. Né l'uno né l'altro però dei due generali nemici avevano voglia di impegnarsi a fondo. Consalvo, sotto le cui bandiere militavano alcune compagnie italiane di Prospero e Fabrizio Colonna, aveva tutto l' interesse di non uscire a battaglia campale in attesa dell'arrivo dei rinforzi; il francese dal canto suo, uomo irresoluto e di non grande ingegno guerresco, sperava di costringere il nemico a capitolare per fame.

Così l'assedio andava per le lunghe e poiché le sortite e le scaramucce erano rare e di lievissima entità, dall'una parte e dall'altra si cercava d'ingannare il tempo con duelli e tornei. Famoso rimase il combattimento avvenuto presso Trani fra undici cavalieri francesi e altrettanti spagnoli. 
Al primo scontro sette francesi furono posti fuori combattimento, ma gli altri quattro, tra cui era il valorosissimo BAIARDO soprannominato il cavaliere senza macchia e senza paura, si difesero con tale bravura che, al tramonto del sole, i giudici del campo fecero cessare lo scontro non assegnando la vittoria a nessuna delle due parti. Tra i duelli rimase celebre quello combattuto tra il Baiardo e Alonzo di Sotomajor, nel quale quest'ultimo rimase ucciso.


LA DISFIDA DI BARLETTA


Essendo terminata la buona stagione, il duca di Nemours stabilì di condurre l'esercito ai quartieri d'inverno; prima però volle sfidare a battaglia il nemico. Come era da prevedersi, Consalvo non accettò. Allora il generale francese si ritirò verso Canosa, ma durante la marcia, effettuata con lentezza e disordine, Diego di Mendoza e Prospero Colonna con alcune schiere spagnole e italiane assalirono la retroguardia francese e fecero moltissimi prigionieri che vennero condotti a Barletta.
Era tra questi un superbo cavaliere, CHARLES de LA MOTTE, il quale in un banchetto espresse parole ingiuriose contro gli Italiani, che chiamò privi di coraggio e di valore. 

Le oltraggiose parole del francese diedero luogo ad una sfida che rimase famosa. Spagnoli e Francesi stipularono una breve tregua e i due eserciti avversari vennero il 13 febbraio del 1503 a schierarsi tra Barletta, Quadrata ed Andria per assistere al combattimento che tredici italiani dovevano sostenere contro altrettanti Francesi.

La SFIDA doveva essere all'ultimo sangue; i campioni che venivano cacciati fuori del campo dovevano dichiararsi vinti e non potevano più tornare a combattere; inoltre ciascuno, prima che si iniziasse la lotta doveva depositare presso i giudici cento scudi d'oro da servire per il proprio riscatto nel caso rimanesse vinto e prigioniero. I Francesi erano tanto sicuri della vittoria che nessuno di loro portò la somma del riscatto.
 
La storia tramandò a noi i nomi dei ventisei guerrieri. I tredici campioni italiani furono: Ettore Fieramosca, capuano; Giovanni Capaccio, Giovanni Brancaleone ed Ettore Giovenale, romani; Marco Carellario di Napoli; Mariano da Sarni, Romanello da Forlì, Ludovico Aminale da Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte, siciliani; Miale da Troia Riccio da Parma e Fanfulla da Lodi, tutta gente che militava - al comando dei Colonna.

La battaglia-confronto che fu accanitamente combattuta da entrambe le parti, finì con una strepitosa vittoria italiana. Dei francesi uno venne ucciso, gli altri dodici, in grande difficoltà uno dopo l'altro, dopo ostinata resistenza, si arresero tutti agli Italiani, i quali li fecero prigionieri e, poichè i vinti non avevano portato la somma stabilita, dovettero seguire i vincitori che entrarono in città accolti trionfalmente dalla popolazione. Tra i prigionieri era il La Motte, il borioso oltraggiatore, cui i nostri tredici cavalieri avevano mostrato con le armi in pugno come gli Italiani per valore e coraggio di gran lunga fossero superiori ai Francesi.

La vittoria degli Italiani fu di buon augurio per le armi spagnole, le quali, giunta la primavera, ripresero con successo l'offensiva. Il 13 aprile del 1503 un esercito spagnolo venuto dalla Sicilia al comando di Ferdinando d'Antrades sconfisse al passo di Fiumesecco, tra Gioia e Seminara, i Francesi del D'Aubigny; il 28 di quello stesso mese, Consalvo di Cordova, uscito da Barletta, ingaggiò battaglia presso Cerignola con l'esercito del duca di Nemours e sanguinosamente lo ruppe. Circa quattromila Francesi rimasero morti sul campo tra cui lo stesso duca.

Dopo queste sconfitte, i Francesi persero in brevissimo tempo una dopo l'altra le province napoletane. Gli Abruzzi furono occupati da Fabrizio Colonna; Prospero Colonna, presa Capua e Sessa, ricacciò il nemico oltre il Garigliano; le Puglie, la Capitanata e la Calabria caddero in potere degli Spagnoli; Consalvo marciò su Napoli in cui fece il suo ingresso il 14 maggio e fece porre l'assedio a Castel Nuovo e a Castel dell' Ovo in cui si erano chiusi i Francesi. La prima di queste due fortezze cadde l' 11 giugno, la seconda il 2 luglio. E così tutto il regno di Napoli si trovò in potere degli Spagnoli tranne Gaeta, Venosa e Santa Severina che vennero assediate.

Luigi XII non si rassegnò alla perdita del Napoletano e, allestito un forte esercito, lo inviò in Italia sotto il comando di Ludovico de La Trémouille e di Gian Francesco Gonzaga. Quest'esercito, verso i primi d'agosto, ingrossato dagli aiuti delle città alleate della Francia, penetrò in Toscana. Procedeva lentamente perchè il La Trémouille, prima di inoltrarsi verso l'Italia meridionale, voleva esser sicuro del contegno di Alessandro VI e del Valentino, la cui condotta in verità non ispirava molta fiducia.

 Infatti Cesare Borgia prima offriva al generale francese di unirsi alla spedizione contro il reame di Napoli purché, gli si concedesse libertà di azione contro Siena, poi proponeva di restare neutrale ma armato; nel frattempo si metteva in relazione con Consalvo di Cordova. Dal canto suo il Pontefice, mentre trattava con la Francia, spingeva Venezia, il re di Spagna e l' imperatore a formare una lega contro i Francesi.

Ma questi erano gli ultimi intrighi di Alessandro VI, che il 18 agosto del 1503 cessava di vivere dopo pochi giorni di malattia. La voce pubblica attribuì la morte del Pontefice al veleno e, poiché la sera del 5 agosto era andato col figlio Cesare a cenare nella villa del cardinale Adriano da Corneto e tutti e tre si erano ammalati, si disse che il veleno doveva esser dato per ordine dei Borgia al cardinale e che per errore era stato propinato a tutti. Sembra che essi siano stati colpiti da violentissime febbri malariche, delle quali solo il Papa era rimasto vittima per la sua età avanzata.

Cesare Borgia, sorpreso dalla morte del padre mentre si trovava lui stesso infermo, mandò in Vaticano il suo fedele don Michele Coriglia, il quale si fece consegnare i denari, le gioie e l' argenteria del Pontefice, che costituivano un valore di trecentomila ducati; ma non riuscì a opporsi ai disordini che scoppiarono a Roma.

LA DECADENZA DI VALENTINO E LA SUA FINE


Tutto egli aveva previsto nel caso caso della morte del Papa - come tre mesi dopo dichiarò al Machiavelli - ma non aveva immaginato che avrebbe potuto -lui- trovarsi ammalato; dovette quindi assistere impotente all'anarchia del popolo e trattare con i Colonna, restituendo a loro Capo d'Anzio Frascati, Roccadipapa e Nettuno di cui Alessandro VI li aveva spogliati.
Ma intanto tutti i nemici dei Borgia rialzavano il capo, specie gli Orsini, e a Roma la situazione era diventata  molto pericolosa per il Valentino. 

Gravi avvenimenti nel frattempo mandavano in sfacelo lo stato del duca: Gian Paolo Baglioni, unitosi a Bartolomeo d'Alviano, rientrava in Perugia e cacciava da Viterbo la fazione dei Galli e da Todi quella dei Chiaravalle; Fabio Orsini con i Savelli perseguitava nel Patrimonio tutti i partigiani del Valentino; i Vitelli tornavano a Città di Castello, Giacomo d'Appiano a Piombino e i signori d'Urbino, di Pesaro, di Camerino e di Sinigaglia riacquistavano le signorie che avevano perdute.

Mentre queste cose succedevano, l'esercito francese giungeva nelle vicinanze di Roma dove entrava il cardinale di Rouen in compagnia di Ascanio Sforza ch'egli aveva liberato dalla prigionia. Il cardinale francese, desiderando di ottenere la tiara, concluse il 1° di settembre un trattato con il Valentino. Contava sull'appoggio del duca nell'elezione pontificia e sull' influenza, che lui poteva esercitare sui diciotto cardinali spagnoli creati da Alessandro VI. 
Invece il conclave, il 22 settembre, innalzò al trono il cardinale FRANCESCO PICCOLOMINI, che prese il nome di PIO III e per la sua età e la sua salute piuttosto malconcia dava speranza che avrebbe brevemente pontificato (durò infatti 27 giorni)

Dopo l'elezione del Pontefice l'esercito francese continuò la sua marcia verso l' Italia meridionale. Il Valentino, che si era trasferito a Nepi, sebbene ammalato, ritornò a Roma e si rafforzò nel Borgo con alcune migliaia di cavalli e di fanti. Anche gli Orsini, che prima del conclave erano usciti da Roma, rientrarono con le loro milizie  ed occuparono un quartiere, dove poco dopo chiamarono Gian Paolo Baglioni e Bartolomeo d'Alviano.
Quelli che cercavano di trarre profitto dalle circostanze erano i Veneziani, i quali non solo concentravano truppe ai confini delle Romagna di cui desideravano impadronirsi, ma si adoperavano a pacificare i Colonna e gli Orsini e fare schierare questi ultimi in favore degli Spagnoli. 

Intimorito da questi maneggi il Valentino pensò di uscire da Roma, ma non fece in tempo per un improvviso assalto degli Orsini e del Baglioni che prima gli dispersero le milizie poi lo costrinsero a riparare nel palazzo del Vaticano, infine a rifugiarsi nella fortezza di Castel Sant'Angelo.

Erano a questo punto le cose quando il 18 ottobre in età di sessantaquattro anni, dopo soli ventisette giorni di pontificato, cessò di vivere Pio III. 
Il 31 ottobre i cardinali si riunirono in conclave e il 1° novembre elessero il cardinale GIULIANO DELLA ROVERE che prese il nome di GIULIO II. 
Il neo papa  si era assicurati i suffragi dei cardinali spagnoli promettendo al Valentino di crearlo gonfaloniere della Chiesa, di assicurargli i domini e di unire in matrimonio il nipote Francesco della Rovere con una figlia del duca; il Valentino - che non si era mai fidato di nessuno - aveva riposto cieca fiducia proprio nel Papa che era stato il nemico più accanito della famiglia Borgia.

Ma ciò non ci deve recare meraviglia. Le condizioni di Cesare Borgia erano tali da indurlo ad accettar l'amicizia di chi lo aveva sempre avversato. Egli aveva difatti perduta gran parte del suo stato, e le stesse Romagne che gli si erano mantenute fedeli, ora gli sfuggivano. 
Pandolfo Malatesta aveva ceduto Rimini ai Veneziani; in potere di questi ultimi erano cadute Faenza, Montefiore, Sant'Arcangelo, Verucchio, Porto Cesenatico e parecchie altre terre;  al Valentino non rimanevano che le rocche di Forlì, Cesena, Forlimpopoli e Bertinoro.

Animato dal proposito di soccorrere le fortezze della Romagna, Cesare Borgia ordinò a Michele Coriglia di andare in loro aiuto con settecento cavalli; quindi parti da Roma alla volta di Ostia dove aveva deciso poi di imbarcarsi per la Spezia e recarsi di là in Romagna. 
Ma i suoi disegni dovevano fallire. Giulio II, temendo che le sorti del Valentino potessero rialzarsi o che i Veneziani riuscissero a impadronirsi delle quattro fortezze del duca, mandò ad Ostia due cardinali, i quali chiesero in nome del Pontefice a Cesare Borgia là consegna delle rocche. 

Il Valentino essendosi rifiutato, venne tratto in arresto e il 29 novembre del 1503 condotto a Roma, dove alcuni giorni dopo finì per cedere al Papa le fortezze. In quello stesso tempo don Michele Coriglia veniva sconfitto presso Perugia da Gian Paolo Baglioni ed era finito anche lui prigioniero a Roma.

Mentre avvenivano questi fatti, l'esercito francese giungeva presso il Garigliano e tentava, ma invano, di espugnare Roccasecca. Non credendo possibile di forzare il passo di San Germano, difeso da Consalvo di Cordova, per la via di Fondi andò a porre gli alloggiamenti presso la foce del fiume.
I due eserciti nemici. rimasero inoperosi, l'uno di fronte all'altro, circa cinquanta giorni. Il primo credeva che sino alla fine dell' inverno nessuna operazione si sarebbe fatta: Colsalvo invece nella notte dal 27 al 28 dicembre passò con il suo esercito il Garigliano e piombò improvvisamente sui nemici costringendoli a ritirarsi. 

Ben presto la ritirata si mutò in fuga. Un gran numero di Francesi rimase ucciso, altri caddero prigionieri o, dispersi per le campagne, furono disarmati dai contadini; i superstiti riuscirono a riparare a Gaeta. Piero de' Medici, che si trovava al campo francese, cercò scampo sopra una barca, ma questa si capovolse e tutti coloro che vi si trovavano, miseramente perirono nelle acque del Garigliano.

Consalvo di Cordova, senza indugiare, andò ad assediare Gaeta, la quale il 10 di gennaio capitolò. Poco tempo dopo gli ultimi Francesi che resistevano ancora in Venosa, Troia e San Severino sotto il comando di Luigi d'Ars furono costretti a partire e così in brevissimo tempo tutto il reame di Napoli cadde in potere della Spagna, la quale, l' 11 febbraio del 1504, concluse a Lione una tregua di tre anni con la Francia.

Il 19 aprile di quell'anno il Valentino lasciava lo stato pontificio e si recava a Napoli. Consalvo lo accolse onorevolmente, ma, ricevute istruzioni dal suo sovrano, il 27 maggio lo fece arrestare e lo mandò in Spagna, dove da re Ferdinando fu chiuso a Medina del Campo. 
Più tardi Cesare Borgia riuscì a fuggire e si recò presso il re di Navarra, di cui era cognato. 
Morì nel 1507 in una banale battaglia sotto le mura del castello di Viana contro proprio un ribelle del cognato. 

Così finiva, e quasi nell'oscurità i suoi giorni questo principe che con ogni mezzo era riuscito a costituirsi in Italia uno stato potente. La sua sorte provava chiaramente come fossero di durata effimera quegli stati acquisiti col il nepotismo delle famiglie papali, le affrancate nefandezze e con la forza e la minaccia delle armi i facili crimini.

Terminato il periodo dei BORGIA, quello di Papa GIULIO II non é meno

turbolento del precedente;  con la Lega Cambriai e la Lega Santa

ed è il periodo che va dal 1504 al 1513 > > >

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - 
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
GUICCIARDINI, Storia d'Italia - Ed. Raggia, 1841
LOMAZZI - La Morale dei Principi -  ed.
Sifchovizz 1699

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