ANNI 1512 - 1517

FRANCIA E VENEZIA CONTRO LOMBARDIA

 

LEGA DELLA FRANCIA CON VENEZIA - PREPARATIVI DI GUERRA - I FRANCESI E I VENEZIANI OCCUPANO LA LOMBARDIA - ASSEDIO DI NOVARA - GLI SVIZZERI SCONFIGGONO I FRANCESI E MASSIMILIANO SFORZA RICUPERA LA LOMBARDIA - OTTAVIANO FREGOSO DOGE DI GENOVA - OPERAZIONI DI RAIMONDO DI CARDONA CONTRO I VENEZIANI. - MESSAGGI DIPLOMATICI DI LEONE X CON L' IMPERO E LA FRANCIA - PACE TRA IL PONTEFICE E LUIGI XII - CONTINUAZIONE DELLA GUERRA TRA L' IMPERATORE E VENEZIA - MORTE DI LUIGI XII E SUCCESSIONE DI FRANCESCO I - I FRANCESI IN ITALIA - BATTAGLIA DI MARIGNANO - LA PACE DI VITERBO TRA LEONE X E FRANCESCO I - MORTE DI BARTOLOMEO D'ALVIANO - CONVEGNO DI BOLOGNA - MORTE DI FERDINANDO IL CATTOLICO - DISCESA DELL'IMPERATORE MASSIMILIANO IN ITALIA - PACE DI NOYON -LORENZO DE' MEDICI DUCA D'URBINO - DECADENZA DI VENEZIA

-------------------------------------------------------------------------------

LEGA DELLA FRANCIA CON VENEZIA - 
FRANCESI E VENEZIANI OCCUPANO LA LOMBARDIA
I FRANCESI SCONFITTI A NOVARA
 OPERAZIONI DI RAIMONDO DI CARDONA CONTRO I VENEZIANI
MORTE DI LUIGI XII E SUCCESSIONE DI FRANCESCO I


Un mese dopo la morte di GIULIO II e precisamente il 23 marzo del 1513 veniva a Blois firmato un trattato d'alleanza tra il re di Francia e la repubblica di Venezia. Con esso, LUIGI XII si impegnava di restituire ai Veneziani, non appena le avesse riconquistate, la Ghiara di Adda e Cremona, Venezia si obbligava di entrare in campagna verso la metà di maggio con ottocento uomini armati, millecinquecento cavalli e diecimila fanti. Bartolomeo d'Alviano veniva posto in libertà.

I preparativi per la nuova guerra vennero iniziati subito dopo la firma del trattato, Gian Giacomo TRIVULZIO e il La TREMOUILLE, cui era stato affidato il comando dell'esercito francese, cominciarono a radunare a Susa fanti e cavalli con  mille e duecento uomini armati, ottocento cavalleggeri, ottomila lanzichenecchi ed altrettanti avventurieri francesi. L'adunata delle truppe veneziane venne fatta a S. Bonifacio, presso Verona; nel frattempo una flotta francese si recava a Genova, dove gli Adorni e i Fieschi si preparavano ad aiutarla.
Contro tanti nemici il debole MASSIMILIANO SFORZA non poteva contare che sull'aiuto degli Svizzeri, mentre RAIMONDO di CARDONA, accampato sulla Trebbia, dove aveva chiamato i presidii di Tortona ed Alessandria, pareva incerto se dovesse prender parte o no alla difesa del ducato. Gli Svizzeri scesero in gran numero dalle loro montagne e, giunti in Lombardia, avanzarono verso Tortona dove lo Sforza andò a raggiungerli. Avendo il Cardona rifiutato di unirsi a loro, andarono a chiudersi con Massimiliano a Novara.

Le ostilità ebbero inizio nel maggio. Quasi senza colpo ferire l'esercito francese occupò Alessandria ed Asti e avanzò nel cuore della Lombardia. Milano all'avvicinarsi del nemico innalzò la bandiera francese, lo stesso fecero Soncino e Lodi, mentre l'Alviano si impadroniva di Valeggio, Peschiera e Cremona e mandava Lorenzo di Ceri su Brescia.
Nel frattempo una flotta francese giungeva davanti a Genova e ANTONIOTTO ADORNO, che Luigi XII aveva nominato suo luogotenente, sconfiggeva tra le montagne di Liguria le truppe di GIANO FREGOSO, lo costringeva a riparare alla Spezia ed entrato a Genova vi si faceva eleggere doge.

A Massimiliano Sforza non rimanevano che Como e Novara. Qui egli si trovava chiuso con gli Svizzeri e qui venne ad assediarlo il La Trémouille, il quale scriveva al suo sovrano che in breve avrebbe fatto prigioniero il figlio nello stesso luogo dove era stato catturato il padre, cioè Ludovico il Moro. Questi era caduto in potere dei Francesi per il tradimento degli Svizzeri, i quali però questa volta si mantennero fedelissimi. La mattina del 6 giugno assalirono improvvisamente il campo francese e dopo un'accanitissima lotta durata circa due ore ebbero completamente ragione del nemico. Cinquemila francesi caddero in combattimento, altrettanti vennero uccisi, fuggendo, dai contadini; ventidue pezzi d'artiglieria con i cavalli da tiro e tutte le salmerie vennero condotti in trionfo a Novara.
Questa clamorosa sconfitta annullò tutti i vantaggi ottenuti dai Francesi, i quali furono costretti a rivalicare le Alpi. Le città che avevano innalzato la bandiera di Luigi XII si affrettarono a tornare all'obbedienza di Massimiliano Sforza, e Raimondo da Cordona, che fino allora era rimasto spettatore, mandò a Genova il marchese di Pescara con Ottaviano Fregoso e tremila fanti per cacciare fuori i Francesi. Non ci fu bisogno però di usare le armi: da sola la flotta francese si ritirò, gli Adorni abbandonarono la città e il 17 giugno Ottaviano Fregoso si fece eleggere doge.

Rimasti soli, i Veneziani deliberarono di ritirarsi. Bartolomeo d'Alviano che si trovava a Cremona si allontanò rapidamente verso Verona e, riuscito infruttuoso un tentativo di prender d'assalto questa città, si ritirò nel territorio vicentino, da dove poi verso la metà di luglio andò a chiudersi a Padova. Davanti a questa città giunse il 28 luglio Raimondo da Cardona con un esercito composto di soldati suoi e di milizie dell' imperatore. Padova venne assediata, ma il 16 agosto, molestato dalle artiglierie della città e minacciato dalla malaria, il Cardona tolse l'assedio e si ritirò a Vicenza.

Dopo avere devastato il territorio di questa città, il generale spagnolo si spinse fino a Mestre, che mise in fiamme,  poi fino a Marghera da dove fece tirare alcuni colpi di cannone contro Venezia. Era questa una bravata che poteva riuscirgli fatale. Privo di viveri e in mezzo a popolazioni ostili, il Cardona fece la cosa migliore, prese subito la via del ritorno. Tentò durante il cammino di impadronirsi di Cittadella, ma venne respinto; allora affrettò la ritirata, inseguito dall'Alviano, il quale il 7 ottobre gli diede battaglia presso Vicenza. I fanti tedeschi vennero sgominati, ma la fanteria spagnola resistette mirabilmente e finì col respingere i Veneziani, che subirono perdite non lievi.
Questa fu l'ultima azione di guerra di qualche importanza del 1513. Avvicinandosi la stagione delle piogge, gli Spagnoli posero i loro quartieri d'inverno tra Este e Montagnana, mentre il d'Alviano si ritirò a Padova, occupandosi a ricostituire il suo esercito.
 
Ma se i generali riposavano, non altrettanto facevano i diplomatici, specialmente quelli del Pontefice. Leone X aveva interesse che alla guerra succedesse la pace sia per la minaccia che veniva dall'Oriente, dove a BAJAZET II era succeduto SELIM, sultano sanguinario e bellicoso, sia perché il deterioramento della Francia lasciava l'Italia in balia degli Spagnoli, dei Tedeschi e degli Svizzeri. Tentò pertanto di conciliare l' imperatore con i Veneziani e nello stesso tempo avviò per conto suo trattative con LUIGI XII. Queste ebbero esito felice: con atto firmato nell'ottobre e pubblicato nel dicembre  il re di Francia sciolse il concilio che da Pisa e da Milano si era ridotto a Lione e riconobbe quello del Laterano; vano riuscì invece il tentativo del Papa di riconciliare MASSIMILIANO con la repubblica di Venezia e poichè nel 1514 la Francia si era pacificata con la Spagna, con l'Inghilterra e con l' Impero, e si erano arresi i suoi presidi delle fortezze di Milano, di Cremona e di Genova, altra guerra non rimase in Italia che quella tra l'Imperatore e i Veneziani.

Era una guerra però condotta senza vigore dai vassalli imperiali, guerra fatta di scorrerie, di saccheggi e di assedi di piccoli castelli. Fra gli assedi è degno di menzione quello del castello di Osoppo per la bella difesa di GIROLAMO SAVORGNAN contro le milizie di CRISTOFORO FRANGIPANE. 
Le battaglie campali mancarono, ma BARTOLOMEO d'ALVIANO tormentò continuamente gli Spagnoli ai quali riprese Este e inflisse uno scacco fulmineo a Rovigo. 
Oltre l'Alviano in questo anno di guerra si distinse LORENZO di CERI, il quale non solo resistette valorosamente a Crema, ma occupò anche se per poco, Bergamo e recò gravi molestie alle truppe dello Sforza.
Questi oramai si credeva sicuro del possesso del ducato di Milano, quando a scuotere questa sua sicurezza venne la morte di LUIGI XII avvenuta il 15 gennaio del 1515. 
Non avendo figli maschi, gli successe sul trono di Francia il nipote FRANCESCO I, duca d'Angouleme, che l'anno prima aveva sposata Claudia, figlia del re. 
Quali fossero le intenzioni del nuovo sovrano rispetto all'Italia tutti le conobbero ben presto. Assumendo il titolo di re di Francia e "duca di Milano" egli mostrava chiaramente la via della sua politica e la mèta delle sue future azioni.


FRANCESCO I IN ITALIA - BATTAGLIA DI MARIGNANO 
PACE TRA IL RE DI FRANCIA E IL PONTEFICE 
MORTE DI FERDINANDO IL CATTOLICO 
SPEDIZIONE DI MASSIMILIANO IN ITALIA
 PACE DI NOYON - DECADENZA DI VENEZIA

Animato dal proposito di vendicare la morte di Gastone di Foix e la sconfitta di Novara e desideroso di riacquistare la Lombardia, Francesco I il 24 marzo stipulò un trattato d'amicizia con l'Arciduca CARLO dei Paesi Bassi, un altro ne firmò il 5 aprile con ENRICO VIII d' Inghilterra e infine, il 27 giugno, concluse un'alleanza con la repubblica di Venezia. 

In favore di Massimiliano Sforza si schierarono: il re di Spagna, il cui esercito comandato da Raimondo di Cardona era concentrato a Verona; il Pontefice, che mandò il fratello Giuliano eletto gonfaloniere della Chiesa a radunar truppe tra Piacenza e Reggio; l' imperatore e gli Svizzeri. Questi ultimi, in numero di circa ventimila, spalleggiati da un corpo di cavalleria al comando di PROSPERO COLONNA, non tenendo conto della neutralità del duca CARLO III di SAVOIA, andarono ad accamparsi presso Susa per impedire ai Francesi di scendere in Italia dai passi del Moncenisio e del Monginevro.
 
La lega degli Italiani, degli Spagnoli e degli imperiali inoltre faceva assegnamento sul doge di Genova OTTAVIANO FREGOSO; ma questi, sollecitato dal conestabile di Borbone, si alleò segretamente con il re di Francia, cui promise di aprire la Liguria ai Francesi, di aiutarli con un certo numero di fanti e di assumere il titolo di governatore di Genova in nome di Francesco I.
Intanto l'esercito francese si andava concentrando nel Delfinato: erano duemila e cinquecento lancieri francesi, ventiduemila lanzichenecchi e diecimila Baschi, i quali vennero posti sotto il comando di PIETRO NAVARRO che, fatto prigioniero a Ravenna e in contrasto con FERDINANDO il CATTOLICO perché non lo aveva riscattato, era entrato al servizio di Francesco I e si era offerto di addestrare la fanteria basca allo stesso modo di quella spagnola.

Tentar di passare le Alpi per le consuete vie del Moncenisio e del Monginevro con la guardia ai valichi che facevano gli Svizzeri sarebbe stata una follia. Consigliato dal Trivulzio, Francesco I deliberò di far passare l'esercito dal colle dell'Argentera, che si trovava incustodito perché nessuno pensava che da quel valico angusto e difficile potesse passare un esercito numeroso trascinandosi dietro i bagagli e le artiglierie.

Quest'impresa, che doveva meravigliare il mondo intero, venne compiuta in cinque giorni, nell'agosto del 1515. Superando gravissimi ostacoli, l'esercito francese il 15 agosto giunse nelle valli del marchesato di Saluzzo. Una schiera, che proteggeva la sinistra francese, comandata dal La PALISSE e dal BAIARDO, quel giorno stesso entrò improvvisamente a Villafranca e vi sorprese PROSPERO COLONNA, che fecero prigioniero.

La notizia della discesa dei Francesi e della prigionia del generale italiano scoraggiò talmente il Pontefice, da indurlo a dare ordini alle truppe che si radunavano nell' Emilia di non muoversi. Avrebbe voluto il Cardona andare ad unirsi in Piemonte con gli Svizzeri per opporsi all'avanzata francese, ma non poteva lasciare il Veronese perché qui stava aspettando le milizie imperiali, oltre che essere trattenuto dall'esercito di Bartolomeo d'Alviano che, occupato il Polesine di Rovigo, minacciava ora gli Spagnuoli proprio nel veronese.. 

Rimasti soli, gli Svizzeri tentarono dapprima di liberar Prospero Colonna e si mossero verso Pinerolo costringendo il La Palisse a ripiegare su Fossano, ma quando seppero che tutto l'esercito francese aveva valicate le Alpi, si ritirarono verso Novara, saccheggiando, durante il cammino, Chivasso e Vercelli, tuttavia iniziarono trattative col nemico per ritornarsene in patria dietro il compenso di una grossa somma di denaro, ma poco dopo, raggiunti a Monza - dove si erano già trasferiti - da altri ventimila loro connazionali; credendosi superiori di forze ai Francesi, ruppero le trattative.

Intanto Raimondo da Cardona, lasciati dei presidi a Verona e a Brescia, andava ad unirsi all'esercito del Papa e dei Fiorentini a Piacenza con lo scopo di minacciare da questa parte i Francesi; ma contemporaneamente anche Bartolomeo d'Alviano si spostava con le sue truppe e andava a porsi tra Cremona e Piacenza per tenere sotto la sua minaccia gli Spagnoli e permettere al re di Francia di attaccare gli Svizzeri.
Francesco I, sostenuto da un corpo di quattromila fanti di Ottaviano Fregoso, era avanzato fino a Vercelli e a Novara, quindi, passato il Ticino, era andato ad accamparsi nelle vicinanze di Abbiategrasso, mentre faceva occupare Pavia e mandava verso Milano il Trivulzio; da ultimo, per assicurare le sue comunicazioni con l'Alviano e per interrompere quelle degli Spagnoli con gli Svizzeri, si era spinto fino a Marignano.

Il 13 settembre, avuta notizia dell'avanzata dei Francesi, gli Svizzeri uscirono da Milano, in cui si erano portati da Monza, e nel tardo pomeriggio assalirono impetuosamente l'avanguardia del re. In breve la battaglia divenne generale. Invano la cavalleria francese cercò di sgominare la fanteria svizzera, invano le artiglierie francesi tentarono di arrestare il nemico con un nutritissimo tiro, invano Francesco I caricò più volte alla testa dei suoi uomini, gli Svizzeri non cedettero di un palmo, raddoppiarono anzi il loro slancio e riuscirono ad impadronirsi di sette cannoni.

Tramontato il sole, la mischia continuò sanguinosa per qualche tempo, al lume della luna; alla fine l'estrema stanchezza fece sospendere la battaglia. Questa fu ripresa all'alba con maggiore accanimento, e di nuovo gli Svizzeri attaccarono con impeto; ma questa volta il fuoco delle artiglierie, appostate in un modo migliore, fece orribile scempio delle schiere svizzere, le quali inutilmente tentarono di impadronirsene.

 Martoriati dal fuoco dei cannoni, assaliti di fronte e dai fianchi dalla cavalleria e dai lanzichenecchi del re di Francia, gli Svizzeri continuarono a combattere con magnifico valore, quando all'improvviso grida di San Marco ! San Marco ! risuonarono improvvisamente sul campo. Era l'esercito veneziano comandato da BARTOLOMEO d'ALVIANO che giungeva da Lodi, da dove si era precipitosamente mosso durante la notte per venire in aiuto degli alleati. L'arrivo dei Veneziani indusse gli Svizzeri a ritirarsi a Milano e la loro ritirata fu compiuta con ordine così perfetto che i nemici non tentarono neppure di ostacolarla.

Gian Giacomo Trivulzio, che di battaglie se ne intendeva, chiamò questa di Marignano battaglia di giganti. In essa perirono circa diciottomila uomini e i Francesi piansero la perdita di illustri personaggi tra i quali il fratello del duca di Borbone, il signor d' Imbercourt, il conte di Santerre, il signor di Bussy, Giovanni di Muy, il principe Carlo di Talmont, il signor di Roye e il conte di Pitigliano.
La sera del 14, terminata la battaglia, Francesco I si fece armare cavaliere sul campo dal famoso Boiardo e a sua volta armò cavalieri di sua mano molti gentiluomini francesi che si erano distinti in combattimento.

Il 15 settembre gli Svizzeri abbandonarono Milano, lasciandovi millecinquecento fanti, che si chiusero nel castello con Massimiliano Sforza, col ministro Girolamo Morone, con Giovanni Gonzaga e cinquecento armati italiani. Francesco Sforza, fratello del duca, parti per la Germania per sollecitare i soccorsi dell'imperatore. Ma la sorte del ducato era ormai decisa. Tutte le terre si affrettarono ad aprire le porte ai Francesi, liete di essere state liberate dalla rapacità svizzera, e a Massimiliano non rimasero che i castelli di Cremona e di Milano. Lo Sforza però non aveva intenzione di resistere: il 4 ottobre, venti giorni dopo la battaglia di Marignano, cedette a Francesco I le due fortezze, rinunziò in suo favore i suoi diritti sul Milanese e si ritirò in Francia, dove visse con una pensione di trentamila scudi annui fino al 1530.

I successi dei Francesi produssero tale sgomento nell'animo di Leone X da indurlo a iniziar trattative con Francesco I, le quali si chiusero con un trattato di pace, firmato a Viterbo il 13 d'ottobre, con cui il Pontefice cedette Parma e Piacenza e il sovrano si obbligò a garantire l'autorità dei Medici a Firenze. A Raimondo di Cordona venne concesso di ricondurre l'esercito spagnuolo, senz'esser molestato, nel regno di Napoli attraverso lo stato della Chiesa.

La guerra nell' Italia settentrionale non era però terminata: rimanevano ancora sul piede di guerra l'imperatore,  e i Veneziani volevano ridurre in loro potere Bergamo, Brescia e Verona. La prima di queste tre città cadde subito in mano delle milizie della repubblica, che, guidate da Bartolomeo d'Alviano, si recarono quindi ad assediar Brescia. All'assedio di questa città, il 7 ottobre del 1515 cessò di vivere, in età di sessant'anni, il d'Alviano, che si era reso famoso per la sua audacia e per la celerità delle sue mosse. I suoi soldati ne piansero la morte, ne tennero per venticinque giorni la salma sotto la tenda e l'accompagnarono attraverso il territorio nemico a Venezia, dove con molti onori essa venne sepolta nella chiesa di Santo Stefano.

In aiuto dei Veneziani Francesco I mandò a Brescia il Trivulzio e il Navarro con settecento lancieri francesi e cinquemila fanti Baschi. Il Navarro ordinò che fossero scavate delle gallerie sotto le mura per porvi delle mine;  i lavori procedevano con grande alacrità quando la guarnigione assediata fece una coraggiosa sortita, sottrasse dieci cannoni al nemico, uccise i minatori e distrusse le gallerie. A rincuorare gli assediati più che questo successo valse l'aiuto di uomini e vettovaglie portato da un barone tedesco del Tirolo, e i Veneziani che speravano di prender Brescia con la fame dovettero rassegnarsi a tenere solo bloccata la città.

Intanto Francesco I si preparava a recarsi a Bologna, dove tra lui e il Pontefice era stato fissato un incontro informale. Leone X, con un seguito di diciotto cardinali, giunse a Bologna il 7 dicembre; il re vi arrivò alcuni giorni dopo. Il Papa confermò la cessione di Parma e Piacenza e promise di restituire ad Alfonso d' Este Modena e Reggio; Francesco I confermò a sua volta le promesse di difendere la Chiesa e Firenze e si lasciò indurre a stabilire le basi di un concordato col quale doveva essere abolita la prammatica sanzione che garantiva la libertà della Chiesa Gallicana. 

Dopo il convegno di Bologna, Francesco I lasciò il principe Carlo di Barbone a governare la Lombardia e se ne tornò in Francia.

Circa un mese dopo l'abboccamento del re di Francia e del Pontefice, e precisamente il 15 gennaio del 1516, si spegneva a Madrid FERDINANDO il CATTOLICO, lasciando tutti i suoi vasti domini al nipote CARLO; appena sedicenne, orfano di FILIPPO il BELLO re dei Paesi Bassi. 
Il giovane Carlo aveva iniziato negoziati con Francesco I, di cui voleva procurarsi l'amicizia prima di recarsi in Spagna, quando l' imperatore MASSIMILIANO, suo avo, segretamente sussidiato dal re d'Inghilterra, con un esercito di circa trentamila soldati tra, Tedeschi, Svizzeri, Spagnoli e Italiani, scese per la via di Trento in Italia con il proposito di soccorrere Brescia e Verona e di scacciare i Francesi dalla Lombardia (marzo 1516).

All'avvicinarsi dell' imperatore l'esercito franco-veneziano che assediava Brescia al comando di Teodoro Trivulzio e di Odet di Foix si ritirò prima sul Mincio poi nel Cremonese. Massimiliano, dopo di aver tentato invano di espugnare il castello di Asola valorosamente difeso dal provveditore veneziano FRANCESCO CONTARINI, marciò su Milano, dove si erano chiuse tutte le forze nemiche, ma giunto nei pressi della città, poiché i suoi Svizzeri non pagati cominciavano a tumultuare, temendo che essi lo tradissero e facessero causa comune con i loro connazionali che militavano sotto le bandiere di Francia, se ne tornò frettolosamente in Germaniá.

Dopo la partenza di Massimiliano, Carlo di Borbone, richiamato da Francesco I, se ne andò in Francia, e fu nominato luogotenente generale Odet di Foix. Questi allora condusse le sue milizie in aiuto dei Veneziani che avevano ricominciato l'assedio di Brescia e, dopo che la città, il 23 marzo, si fu arresa, andò insieme con l'esercito alleato ad assediare Verona.
Ma oramai la guerra volgeva al suo termine; tutti erano stanchi e desideravano la pace, specialmente Carlo, il quale voleva conciliarsi con i suoi nemici per raccogliere senza ostacoli l'eredità di Ferdinando il Cattolico. 
Non fu quindi difficile ai plenipotenziari del re di Francia e del re dei Paesi Bassi, Arturo di Boissy e Antonio di Croy, di stipulare il 13 agosto del 1516 a Noyon un trattato per cui Carlo si fidanzava con una figlia di Francesco I, allora in fasce, la quale gli portava in dote i pretesi diritti francesi sulla corona di Napoli.

Cinque giorni dopo, il 18 agosto, veniva firmato tra la Santa Sede e Francesco I, il concordato che aboliva la prammatica sanzione e i privilegi della Chiesa Gallicana e lo stesso giorno Leone X dava l'investitura del ducato d' Urbino al nipote Lorenzo, figlio del fratello Piero de' Medici, che il 30 maggio di quell'anno, alla testa delle truppe pontificie e fiorentine era entrato a Urbino da dove poco prima era fuggito, riparando a Mantova il Francesco Maria della Rovere.

La pace tra Carlo e Francesco I e tra quest'ultimo e il Pontefice indusse Massimiliano ad accettare; il trattato di Noyon, in cui erano stati fissati i patti per la conciliazione tra Venezia e l'imperatore.
 Secondo questi patti Massimiliano doveva conservare Riva, Rovereto e tutte le conquiste fatte nel Friuli dai suoi vassalli e, dietro il compenso di duecentomila ducati, doveva rendere Verona ai Veneziani. 
Il 23 gennaio del 1517 Odet di Foix ricevette in consegna dai Veneziani un acconto della somma stabilita e dall'imperatore (per mezzo del vescovo di Trento) le chiavi delle città e quel medesimo giorno il vescovo diede i denari e consegnò le chiavi ai provveditori Veneziani Andrea Gritti e Gian Paolo Gradenigo, i quali, entrati con quattrocento uomini armati e duemila fanti a Verona, andarono in Duomo, a render grazie a Dio della fine della guerra e del ristabilimento dell'autorità della repubblica in tutto il Veneto.

Più di otto anni era durata la guerra che aveva avuto origine dalla lega di Cambrai e più di una volta la repubblica veneziana si era trovata all'orlo del precipizio. La fortuna più che le armi e in special modo il coraggio, la costanza e l'abnegazione del governo e del popolo e l'abilissimo giuoco dei suoi diplomatici avevano salvato Venezia, la quale dopo tante vicende era riuscita, alla fine della guerra, a conservare quasi intatto il suo dominio di terraferma.

Ma la lunga guerra le aveva logorato le forze né era più oramai in grado di risollevarsi, cominciando a mancarle il cespite principale della sua ricchezza. La sorgente di questa ricchezza era stato il traffico intenso con i porti dell'Oriente mediterraneo, quello che era detto il commercio delle Indie quasi tutto nelle mani dei Veneziani. 
La guerra contro i Turchi, prima, aveva dato un fiero colpo a questo traffico, la nuova via, poi, scoperta da Vasco De Gama lo aveva quasi paralizzato.

Venezia aveva tentato di impedire che questo commercio prendesse le nuove rotte. 
Messo da parte il disegno di riaprire il canale che anticamente metteva, in comunicazione il Nilo con il Mar Rosso, aveva aiutato i Mamalucchi d'Egitto ad armare una flotta: per assalire le navi portoghesi nell'Oceano Indiano, ma questa flotta, intorno al 1509, era stata sbaragliata e distrutta dal viceré Francisco d'Almeyda.

La guerra originata dalla lega di Cambrai e la conquista, dell' Egitto da parte dei Turchi avevano finito con il rovinare tutto il commercio di Venezia. Ora tutto il traffico delle Indie faceva capo a Lisbona e in questa città le maggiori ditte commerciali d'Italia e d'Europa mandavano i loro rappresentanti e istituivano i loro banchi e i loro fondachi.
 Venezia incominciava a decadere. «Ormai - scrive l'Orsi - tutta la sua attenzione doveva essere rivolta a conservare quello che aveva; anzi, avendo molto da perdere, essa si accontenterà di perdere poco per volta. Così anche questo Stato, che era il più forte d' Italia, non si trovava più in grado di sostenere la lotta contro le due potenze straniere che erano riuscite a porre saldo il piede in Italia ».

Più che a porre saldo il piede in Italia gli stranieri presero la penisola come un proprio campo di battaglia; i due nuovi re, lo spagnolo Carlo e il francese Francesco sono infatti i due protagonisti sulla scena italiana del prossimo

periodo che va dal 1517 al 1525 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI