ANNI 1528 - 1580

EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA
Dalla nascita alla morte

vedi a fondo pagina un'altra biografia
scritta in occasione del IV centenario della sua nascita, a Torino nel 1928

CONDIZIONI DELLO STATO SABAUDO SOTTO CARLO III - EMANUELE FILIBERTO DUCA DI SAVOIA - SUE IMPRESE MILITARI AL SERVIZIO DI CARLO V - GLI AVVENIMENTI DEL PIEMONTE DAL 1553 ALLA PACE DI CATEAU-CAMBRÉSIS - MATRIMONIO DI EMANUELE FILIBERTO CON MARGHERITA DI VALOIS - RESTITUZIONE DELLE TERRE OCCUPATE DAI FRANCESI NELLO STATO SABAUDO - EMANUELE FILIBERTO A NIZZA E IN PIEMONTE - LA "QUISTIONE" DI GINEVRA - IL DUCA DI SAVOIA E I VALDESI - ACCORDO DI CAVOUR DEL 1561 - TRATTATIVE TRA IL DUCA E LA FRANCIA PER LA RESTITUZIONE DELLE CINQUE CITTÀ PIEMONTESI TENUTE DAI FRANCESI - INGRESSO DI EMANUELE FÌLIBERTO A TORINO - LA RICOSTRUZIONE ECONOMICA E FINANZIARIA DELLO STATO SABAUDO: I SERVI DELLA GLEBA, L'AGRICOLTURA, L'INDUSTRIA, IL COMMERCIO, LE FINANZE - RIFORME POLITICHE, LEGISLATIVE E MILITARI - L'ESERCITO E LA FLOTTA - L'ORDINE DEI SS. MAURIZIO E LAZZARO - EMANUELE FILIBERTO E GLI STUDI - LA POLITICA ESTERA DI EMANUELE FILIBERTO: RAPPORTI CON LA FRANCIA E LA SPAGNA; ACCORDI CON GLI SVIZZERI; COMPLETO SGOMBRO DEGLI STRANIERI DAL DUCATO SABAUDO: LA PARTECIPAZIONE SABAUDA ALLA LEGA CONTRO IL TURCO E ALLA BATTAGLIA DI LEPANTO - LA QUESTIONE DI SALUZZO E QUELLA DEL MONFERRATO - MORTE DI EMANUELE FILIBERTO

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LO STATO SABAUDO DAL 1504 ALLA PACE DI CATEAU-CAMBRESIS


Dal 1504 al 1559, dall' inizio cioè del regno di Carlo III alla pace di Cateau-Cambrésis, vita grama ed agitata è quella che conduce lo Stato Sabaudo. Con i domini persi e riconquistati dagli eserciti imperiali e francesi, nell'Italia diventata lo scenario prediletto delle loro guerre - come abbiamo visto nei precedenti capitoli- il povero duca sabaudo, si destreggia faticosamente tra le due grandi potenze contendenti. Dopo la battaglia di Pavia del 1525 per ristabilire l'equilibrio turbato in favore di Carlo V, il Savoia si piega verso la Francia adoperandosi per la liberazione di Francesco I e rinsaldando i legami di parentela con la corte francese fidanzando il suo primogenito LUIGI con Margherita, figlia del re prigioniero; ma dopo il sacco di Roma, l'infelice risultato dell'assedio di Napoli, la battaglia di Landriano e le paci di Barcellona e di Cambrai, è costretto a volgersi dalla parte imperiale sperando di ottenere di più; ma la sua politica ligia all'impero non gli fa ottenere il Monferrato alla morte di Gian Giorgio Paleologo (1533) e non gli procura (troppo lontano dai nuovi amici, troppo vicino agli ex amici ora nemici) una valida protezione contro gli eserciti francesi che nel 1536 invadono il Piemonte. Rischiò anzi di perdere tutto. Di finire come tanti altri duchi che si sono persi lungo la storia d'Italia.

Infatti, con la tregua di Nizza del 1538, le terre invase del Piemonte rimangono alla Francia, che nel 1542 minaccia pure quelle rimaste in potere del duca; nel 1543 Nizza viene occupata dai Francesi; e alcuni anni dopo, al tempo della guerra di Parma, il Piemonte diviene ancora teatro di operazioni di guerra, che si fanno più violente nel 1552. E l'anno dopo Carlo III il 16 agosto del 1553 muore a Vercelli  dopo avere invano sperato di ricuperare il suo ducato che in gran parte è in possesso della Francia e nel rimanente è oppresso dalle esose guarnigioni spagnole della Lombardia, che dovevano essere sue alleate, ma che si dimostrano più devastanti degli stessi nemici.

A Carlo III successe il figlio EMANUELE FILIBERTO. 
EMANUELE era nato a Chambery l' 8 luglio del 1528; alla fine del dicembre del 1536, morto il fratello Ludovico, lui che era già stato destinato alla carriera ecclesiastica, era divenuto Principe di Piemonte, quindi erede del ducato; e dimostrando subito che era di altra natura, non certo con la vocazione di fare il prete, a tredici anni aveva invano pregato lo zio Carlo V (che era fratello di sua nonna) che lo conducesse all'impresa (che abbiamo ricordato in altre pagine) di Algeri; dunque a diciassette anni, persuaso che soltanto con l'offrire i suoi servizi ad uno dei due contendenti (muterà alleato come il padre anche lui due volte) poteva rialzare le sorti della sua casa, aveva abbandonato i francesi e  la misera corte paterna e si era recato a Worms presso lo zio l'Imperatore (23 luglio del 1545); nell'estate del 1546, al comando della guardia imperiale e della cavalleria fiamminga e borgognona, diciottenne appena, aveva ricevuto presso Ingolstadt il battesimo del fuoco; nella primavera del 1547 aveva con altrettanta bravura partecipato alla battaglia di Muhlberg contro la lega Smalkalda comandando la retroguardia dell'esercito imperiale; nell'estate del 1551 era stato in Spagna al seguito dell'Infante Filippo, nel 1552, sotto Ferdinando Gonzaga, aveva combattuto al comando della cavalleria pesante contro i Francesi, occupando Bra, Saluzzo e Cardè, e nello stesso anno si era trovato all'assedio di Metz; il 27 giugno del 1553 era stato nominato luogotenente generale (governatore) in Fiandra e comandante supremo dell'esercito e circa un mese dopo aveva, espugnato Hesdin in Piccardia.

Il 15 luglio 1553, successo al padre, e dalle Fiandre, dove si trovava, Emanuele Filiberto nominò RENATO di CHALLANT luogotenente del suo piccolo ducato, ridotto alle città e ai territori di parte di Vercelli, Ivrea, Asti, Ceva, Fossano e Nizza; ma il  il 18 novembre del 1553 il Challant fu fatto prigioniero da un noto e valido generale francese, BRISSAC; e al posto dello Challant, nominò luogotenente GIOVANNI AMEDEO di VASLPERGA, conte di Masino.

La situazione in Piemonte non accennava però a migliorare, e in peggio era sprofondato il ducato sabaudo; anche Ivrea, il 14 dicembre del 1554 era occupata dai Francesi, e proprio il castello del Masino subiva poco dopo la stessa sorte, seguito da S. Benigno Canavese e Leyni; il 2 marzo del 1555 Casale (che era una potente roccaforte) veniva improvvisamente sorpresa e occupata dal nemico. Avuta notizia di questi fatti, Emanuele Filiberto nel maggio del 1555 lasciò Bruxelles e il 15 dello stesso mese giunse a Vercelli.

Ma il duca non poté che costatare le misere condizioni dei suoi pochi domini e raccomandare di risollevarli al DUCA d'ALBA nuovo governatore spagnolo della Lombardia; quindi se ne tornò in Fiandra. Nulla però riuscì o non volle fare il duca d'Alba: entrato in campagna contro i Francesi, egli costrinse, è vero, il nemico a togliere il blocco a Golpiano, e prese Frassineto e Gabiano, ma quando assalì Santhià venne ripetutamente respinto; e miglior fortuna non ebbe a Moncalieri; più tardi il Brissac lo costrinse ad abbandonare Volpiano e a togliere l'assedio da Santhià.

Successe al duca d'Alba nel governo civile della imperiale Lombardia il cardinale CRISTOFORO MADRUZZO e nel comando militare Francesco FERDINANDO d'AVALOS marchese di Pescara; furono così riprese nel 1556 le ostilità in Piemonte con varie vicende non proprio eclatanti da una e dall'altra parte. Arborio e Castagnole vennero prese dagli Spagnoli, ma Vignale fu rioccupata dai Francesi; e anche Gattinara passò in breve volger di tempo dalle mani degli uni a quelle degli altri e viceversa; poi venne la tregua di Vancelles (5 febbraio del 1556) e le operazioni di questa fiacca guerra in Piemonte ebbero termine.

Ma la tregua per altri motivi tra le due potenze, come in altra parte di questo volume si è detto, durò pochissimo. Rotta da Filippo II per istigazione del Papa, nel 1557 la guerra tornò ad accendersi di nuovo anche in Piemonte (era del resto la porta per entrare in Italia): il duca di GUISA e il BRISSAC assalivano con quindicimila fanti e duemila cavalli Valenza e il 20 gennaio la occupavano; cinque giorni dopo prendevano Bassignana; poi il Guisa si dirigeva verso Roma e lasciava al Brissac la direzione della guerra piemontese. Ma alcuni mesi dopo giungeva la notizia che il 10 agosto, a San Quintino, Emanuele Filiberto, in una memorabile battaglia, aveva sconfitto ed annientato l'esercito francese.
Il sabaudo cosa aveva fatto? Che alla fine non volendo restare con più nulla in mano, il suo ducato se voleva conservarlo doveva pensarci lui di persona a difenderlo. Di esperienza ormai ne aveva, e la sicurezza in se stesso non gli mancava di certo. Aveva trent'anni anni, e da dieci guidava degli eserciti; a quanto pare anche bene; e il coraggio non gli mancava.

La rotta di San Quintino, l'insuccesso ottenuto dal Brissac assediando Cuneo da cui era stato costretto ad allontanarsi, la partenza di gran parte delle truppe francesi, che operavano in Piemonte, per seguire il duca di Guisa, e la sconfitta francese del 13 luglio del 1558 a Gravelines mutarono le sorti delle armi nel Piemonte. Già sul finire del 1557 gli Spagnoli si erano impadroniti di Ponzoner, di Monchiero d'Asti, di Montafia, di Cagliano e di S. Lorenzo, e nei primi mesi del successivo anno i Francesi avevano sgomberato Morano, Balzola e il castello di Masserano; dopo la giornata di Gravelines i Francesi perdettero Centallo, Peveragno, Moncalvo, Roccavione, Roccasparviero, Boves, la Chiusa di Pesio. 
Ma erano queste le ultime vicende della guerra: nell'ottobre di quell'anno si stipulava un armistizio e nell'aprile. del 1559 aveva luogo la pace di Cateau Cambrésis, che restituiva, meno cinque città, al duca di Savoia tutti i domini paterni e gli dava una sposa: MARGHERITA di VALOIS, sorella di Enrico II re di Francia.

MATRIMONIO DI EMANUELE FILIBERTO CON MARGHERITA DI VALOIS
RESTITUZIONE DELLE TERRE OCCUPATE DAI FRANCESI
LA QUISTIONE DI GINEVRA - IL DUCA DI SAVOIA E I VALDESI

Margherita portava in dote il ducato di Berry e trecentomila scudi, di cui un terzo in contanti, un terzo entro un anno e un terzo entro diciotto mesi; il matrimonio doveva celebrarsi entro due mesi e subito dopo al duca sarebbero state restituite le terre occupate.
Emanuele Filiberto partì da Bruxelles il 15 giugno del 1559 e il 21 entrò in Parigi con un numerosissimo seguito di gentiluomini, paggi e servitori, accolto dal re ed ospitato nel palazzo reale.
La sposa aveva compiuto proprio in quel mese trentasei anni; ne aveva perciò tre più del fidanzato; non era veramente bella, ma era dotata di grazia e d'ingegno, coltissima e protettrice di letterati ed artisti (l'unico difetto è che sapeva di essere la sorella del re di Francia).

Nella pace di Cateau Cambrésis, si era combinato un altro matrimonio.
Infatti il 22 e il 23 giugno ebbero luogo le nozze tra Elisabetta e Filippo II, rappresentato da Ferdinando Alvarez de Toledo duca d'Alba; il 27 tra i delegati del sovrano e quelli del duca furono firmati i capitoli matrimoniali del sabaudo, ed il 28, nel palazzo delle Tournelles, fu celebrato il fidanzamento tra Margherita ed Emanuele Filiberto, il matrimonio fu fissato a pochi giorni dopo, per il 10 di luglio 1559.

Cominciarono intanto le feste e lo stesso giorno si diede inizio, nelle vie di Saint-Antoine, ai tornei, che dovevano durare una settimana, fino al 1° di luglio. I migliori cavalieri del regno intervennero a incrociare le loro lance e fra tutti, per la sua bravura fu ammirato il re Enrico II. Ma il 30 giugno una grave disgrazia venne a interrompere le feste: misurandosi con il conte GABRIELE  di MONTMOMERCY, capitano delle guardie scozzesi del re, Enrico II venne colpito malamente alla faccia. Sentendosi morire, il sovrano volle che nella notte dal 9 al 10 luglio, si celebrassero le nozze della sorella con il duca sabaudo. Alcune ore dopo, il sovrano moriva, lasciando la corona a Francesco II, di 15 anni (già sposo della 16 enne Maria Stuart, regina di Scozia - origine di tanti guai dopo la morte di Francesco avvenuta l'anno dopo la sua salita al trono (1560).

La restituzione dei domini sabaudi, cominciata il 7 luglio, ebbe fine entro l'agosto. Emanuele Filiberto, nello stesso giorno, consegnò il governo dei Paesi Bassi nelle mani di una figlia naturale di Carlo V, poi accompagnò Filippo II a Flessinga, il 10 settembre assistette a Reims alle feste del nuovo re di Francia, quindi per Lione si recò a Marsiglia e di là a Nizza, dove sbarcò il 3 novembre e dove il 25 gennaio del 1560 venne a raggiungerlo la duchessa Margherita.

Già da Nizza (nel cui soggiorno sostenne un assalto di pirati algerini comandati da Ulugh-Alì) iniziò l'opera di ricostruzione del suo stato.  Emanuele Filiberto con la consorte ed uno splendido seguito da Nizza parti il 16 settembre del 1560 con le sue tre galee che avevano nome la Margarita, il Sole e la Piemontese. Da Savona, dove sbarcò, la coppia ducale per il colle dell'Altare e Millesimo entrò in Piemonte, quindi per Ceva e Carrù, fra le entusiastiche accoglienze dei paesi, si diresse verso Cuneo, dove giunse, accolta con grandi manifestazioni di gioia, il 29 settembre. 
Le medesime accoglienze le ebbe a Fossano, a Mondovì, a Bene, a Cherasco, a Racconigi, a Pancalieri, a Villafranca, a Vigone, a Barge, a Carignano, a Moncalieri, a Rivoli, a Susa, visitate dal 3 al 28 ottobre; quindi Emanuele Filiberto e Margherita si recarono a Vercelli, che era allora la capitale provvisoria dello Stato Sabaudo.

Durante il suo soggiorno a Nizza e il suo viaggio attraverso le terre del Piemonte Emanuele Filiberto non aveva trascurato di dedicare l'attività ai problemi del suo Stato. Due delle più importanti questioni che lo interessavano erano quella di Ginevra e quella valdese. Ginevra, prima soggetta ai duchi di Savoia, si era nel 1526 ribellata e, conclusa una lega con Berna e Friburgo, aveva scosso il giogo sabaudo. Il duca cercò di ricondurre sotto il suo dominio quella fiorente città anche per spegnere il focolare delle nuove dottrine (di Calvino) che in essa avevano uno dei maggiori centri e da essa si erano diffuse nel ducato; ben presto però dovette abbandonare il proposito di riacquistarla, sia perché gli mancarono gli aiuti francesi, sia perché stimò pericoloso mettersi in lotta con gli Svizzeri quando ancora non era padrone di tutte le sue terre, non si era ancora rafforzato nei suoi domini e non poteva disporre di forze sufficienti.

Più energica, ma altrettanto inefficace, fu l'attività del duca nei riguardi delle popolazioni valdesi, che abitavano nelle valli alpine del Pellice e del Chisone e che dal secolo XII al XV avevano professate le dottrine di PIETRO VALDO, nel 1532 avevano abbracciate quelle di Zuinglio e nel 1555 (cioè in questi anni) quelle di Calvino.

Contro i suoi sudditi eretici, specialmente contro quelli che vivevano fuori delle valli suddette, (ligio all'indirizzo della controriforma) aveva Emanuele Filiberto emanato il 15 febbraio del 1569 un decreto; ed era stata nominata una commissione presieduta dal conte Filippo di Racconigi con l' incarico di indurli all'abiura o di punirli. Molti avevano abiurato, molti si erano rifugiati a Ginevra, nel Delfinato o nelle città piemontesi tenute dalla Francia, ma i valligiani della Germanasca, assaliti dalle milizie di Carlo e Bonifacio Trucchietti, feudatari di Faetto, si erano arditamente difesi con le armi. Pregata dai Valdesi, la duchessa Margherita intercedette in loro favore  presso il marito, il quale propose ai Valdesi un accordo purché essi ammettessero nelle valli il culto e i predicatori cattolici e cessassero la "loro" divergente predicazione evangelica. I Valdesi accettarono la prima richiesta ma rifiutarono la seconda. Allora il duca, spinto anche dalla Curia Romana, decise di muover lotta agli eretici; prima però cercò di convertirli alla fede cattolica mandando fra loro a predicare il dotto gesuita mantovano ANTONIO POSSEVINO.
Riuscita vana l'opera del gesuita, Emanuele Filiberto volle o fu costretto a usare la forza. 

""...A guardare come questa grave risoluzione venne messa in atto - scrive 1'Egidi in un bel profilo del Duca - si resta però dubbiosi se egli avesse un'esatta coscienza delle difficoltà dell' impresa, o se di deliberato proposito cercasse di rimandarne l'esecuzione, o se sperasse vincere le resistenze solo con qualche esempio isolato. Appaiono infatti inadeguati i mezzi preparati nel primo momento per imporre la sua volontà. Poche schiere di soldati accompagnano nelle valli i missionari, organizzati dal Possevino sotto la guida di un prefetto delle missioni, il padre Gerolamo de Nigris; occupano Campiglione e Fenile, arrestano i Valdesi, impongono l'abiura, confiscano i beni dei fuorusciti, imprigionano e processano i renitenti. Ma appena i soldati si allontanano, le forzate abiure sono ripudiate e i fuggitivi ritornano. Il metodo delle singole spedizioni punitive si mostrò inefficace, il solo risultato era, dopo le spedizioni punitive, la desolazione del paese, l'esasperazione degli eretici, il malcontento dei signori, anche cattolici, che nelle valli avevano possedimenti.

 A titolo d'onore ricorderemo tra questi il difensore di Cuneo, CARLO di LUSERNA, partigiano e consigliere instancabile di moderazione al duca e di subordinazione ai valligiani. Per il momento però prevalsero le istanze del Possevino e dei fanatici cattolici, che fecero giocare anche la leva del prestigio ducale offeso dalla resistenza dei valligiani. Il 10 di ottobre a Fossano fu deliberata una spedizione in forza contro le valli; il 13 a guidarla fu nominato capitano GIORGIO COSTA, conte della Trinità, assistito dal gesuita padre GIACOMELLI e dal giudice CURBIS.

Deliberazioni, nonostante ciò che si diceva nei decreti, prese senza alcun entusiasmo. Tratto nell'ingranaggio delle concessioni al papa per ottenere i suoi scopi, costretto a mantenere le promesse fatte al nunzio, che, con sua gran soddisfazione il papa aveva stabilmente assegnato alla corte ducale come fosse una corte regia, il duca non aveva potuto evitarle, ma c'erano segni e dubbi che dicevano che le prendeva a malincuore. A Fossano stesso si rifiutava di far bruciare due eretici condannati al rogo, e dopo aver già dati gli ordini per la spedizione, non rifiutava l' occasione di profferte di mediazione del conte di Lucerna e di Filippo di Racconigi, avvalorate dalle parole della duchessa per ritardare gli inizi dell'impresa militare.

Fallita la mediazione, fu spiccato l'ordine di cominciare le operazioni. Il momento era opportuno, anche perché ai Valdesi gli era venuta meno la speranza di un eventuale aiuto da parte dei correligionari francesi, perché anch'essi in lotta per gli stessi motivi.
 Il conte della Trinità conseguì da principio rapidi successi: senza quasi trovar resistenza, impiegando le minacce insieme con le promesse e gli allettamenti. Fatta Bibbiana base delle operazioni, occupò rapidamente i punti strategici delle valli del Pellice e dell'Augrogna, e, facendo intravedere la possibilità di concessioni magnanime da parte del duca, indusse 17 comuni d'Augrogna a mandare a questo, a Vercelli, 34 deputati, per chieder perdono di aver preso le armi e per invocare la conservazione della libertà di coscienza fino allora goduta (11 novembre).

Pare che stia per tornare la pace. I deputati trovano buona accoglienza dalla duchessa e ascoltano pure delle buone parole dal duca; poi però a tradimento sono consegnati al Possevino che li istruisce nelle cose della fede, perché condizione per trattare e per poter far ritorno nelle loro valli, è che essi si convertano al cattolicismo! Sono costretti a cedere più alle minacce che non alle sue suggestioni.
E nella chiesa di S. Eusebio, presente la corte, pronunciano abiura solenne, discutono i patti imposti dal duca. Il conte della Trinità crede ormai di esser padrone della situazione. 
« Gli ho le mani nel crine » scrive al suo signore, e consiglia che si impongano fortissime taglie, si costringano tutti a convertirsi, e, se rifiutano, « farli disabitar quei luoghi e che mai non se ne trovi più la razza».., Tanto si crede sicuro, che per diminuire la spesa licenzia buona parte del piccolo esercito. Il duca è meno confidente, ed insiste perché convinca quelli delle valli a mandar a Vercelli altri capi, che servano da ostaggi, e si tolga loro ogni sorta di armi: però anch'egli si lascia illudere ed esaltare dalla facilità del successo; più probabilmente vuole illudersi, o vuol mostrare ad altri di aver questa persuasione, lieto di troncar una impresa che così a malincuore si era piegato. Tanto più lieto quanto le condizioni in cui e per cui l'aveva affrontata si erano radicalmente mutate: la lega è ormai fallita completamente; il 5 dîcembre è morto improvvisamente il re di Francia Francesco II, e la regina reggente del fanciullo Carlo IX (10 anni) , Caterina de' Medici, con imperio, ha mutato le direttive politiche della Francia, si é allontanata dal Guisa e dai cattolici e si va avvicinando agli ugonotti.
I deputati Valdesi sono restituiti alle valli con i patti concordati: consegna delle armi, frequenza della messa, libera la predicazione cattolica, vietata la riformata, 8000 scudi per risarcimento delle spese di guerra.."". (Egidi).

Ma i patti, accettati per forza, non vennero osservati: furono anzi cancellati da un'assemblea generale tenuta il 22 gennaio del 1561 nel pianoro di Sibaud, sopra Bobbio Pellice, la cui chiesa dai cattolici venne distrutta, distrutto il castello di Casapiana. Allora la lotta venne ripresa; il conte della Trinità e il capitano Guido Piovene, alla testa delle milizie ducali, assalirono le valli, saccheggiarono gli abitati, devastarono le campagne; ma i valligiani non cedettero: rifugiatisi sui monti, tennero testa ai soldati e nel febbraio e nel marzo, in Valle d'Augrogna li respinsero sanguinosamente per ben tre volte.
Questa resistenza, i consigli di Carlo di Luserna e di Filippo di Racconigi, e le preghiere della, duchessa indussero Emanuele Filiberto ad accettar proposte di trattative inoltrate dai Valdesi e il 5 giugno del 1561, a Cavour, si venne ad un accordo. Con esso il duca perdonava ai ribelli, concedeva nelle valli entro limiti stabiliti, libertà di culto, restituiva ai profughi i beni confiscati, liberava i prigionieri di guerra e confermava ai Valdesi le franchigie, le immunità e i privilegi che fin allora avevano goduto. 
Quindi pur seguendo l'indirizzo della controriforma, applicando i decreti del concilio di Trento, Emanuele Filiberto non rinunciò a difendere i diritti dello stato contro l'ingerenza della chiesa.

Così finiva nel Piemonte la guerra religiosa: nello stesso tempo in cui in tutta Italia l'Inquisizione trionfava sull'eresia, in quelle misere valli alpine si riusciva a conservare la libertà del culto. Questo fu dovuto senza dubbio al valore di quegli intrepidi e tenaci montanari, ma - dobbiamo ammettere- era anche dovuto all'accortezza politica del duca di Savoia, il quale, pur essendo un cattolico, non fu mai un fanatico e seppe non subordinare il sentimento religioso all'interesse dello Stato. Ma dobbiamo anche dire che le condizioni non erano le stesse, quali erano quelle che abbiamo viste nel sud (nel riassunto "Spagnoli In Italia" e "Inquisizione") e in alcune città dove la repressione veniva condotta con la stessa linea già adottata in Spagna: cioè durissima. Né dobbiamo dimenticare che il sabaudo, era già reduce dalle Fiandre e da Smalcalda e conosceva -meglio di ogni altro in Italia- il "fenomeno", quello luterano e quello calvinista.
 Inoltre aveva altro per la testa. Non voleva di certo compromettere l'opera che stava iniziando.

TRATTATIVE TRA IL DUCA E LA FRANCIA PER LA RESTITUZIONE DELLE CINQUE CITTA' DEL PIEMONTE
INGRESSO DI EMANUELE FILIBERTO A TORINO
LA RICOSTRUZIONE ECONOMICA E FINANZIARIA DELLO STATO SABAUDO

La questione valdese e quella di Ginevra non avevano fatto dimenticare al duca l'altra e più importante questione della liberazione del Piemonte dai presidi stranieri. 
Nella pace del 1559 si era, stabilito che entro i sei mesi successivi al matrimonio tra il duca di Savoia e Margherita di Valois si sarebbero esaminati i diritti pretesi dalla Francia sulle cinque piazze fortificate di Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti e che questi luoghi sarebbero stati restituiti entro il termine di tre anni se per colpa della Francia la quistione non fosse stata decisa.

Il duca lasciò passare un anno senza chiedere questi esami, ma rese impossibile l'esistenza alle città possedute dai Francesi con il mettere tasse gravose sulle merci che venivano importate dai suoi stati ducali; nell'agosto però del 1560 egli ricordò alla Francia gli impegni assunti. Finché visse Francesco II non ottenne nulla; ma dopo la morte di questo, Caterina de' Medici si mostrò disposta a trattare e nel novembre del 1561 (quindi dopo la morte di Francesco) furono iniziate trattative e conversazioni a Saint-Just, conversazioni che per i cavilli sollevati dalla Francia furono sospese il 30 gennaio del 1562.
Le trattative furono riprese a Parigi nell'aprile dello stesso anno (nel frattempo, 12 gennaio, la duchessa Margherita aveva dato alla luce un maschio cui era stato dato il nome di Carlo Emanuele), e, dopo laboriose sedute, portarono all' ACCORDO DI BLOIS dell' 8 agosto, col quale la corte francese restituiva Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti, ma conservava Pinerolo e per giunta riceveva le fortezze di Savigliano e di Perosa con promessa però di non incorporare i tre luoghi alla Francia.
Lo sgombero dei Francesi dalle quattro piazzeforti avvenne solo dopo quattro mesi: il 12 dicembre i soldati stranieri lasciavano Torino e due giorni dopo Emanuele Filiberto entrava nella capitale, confermava i privilegi ai cittadini, ne riceveva il giuramento di fedeltà e ripartiva subito per poi ritornarci di lì a due mesi.
L' ingresso ufficiale del duca e della duchessa avvenne infatti il 7 febbraio del 1563 e fu trionfale. Sotto un ricco baldacchino, seguito dai rappresentanti della Spagna, della Francia, di parecchi stati italiani e dal Nunzio pontificio, essi entrarono per Porta Palazzo e tra la gioia della popolazione che faceva ala al loro passaggio, si recarono al Duomo quindi al palazzo arcivescovile che venne  loro assegnato come dimora.

Riavuta Torino, sedate le discordie religiose, e rinunciato al disegno di riconquistare Ginevra, Emanuele Filiberto rivolse tutta la sua attività al riordinamento dello Stato che era davvero in pessime condizioni. Tanti anni di guerre avevano ridotto il Piemonte in un luogo veramente deplorevole: devastati i campi; terreni fertilissimi invasi dalle acque dei fiumi non più trattenute dagli argini, diroccate le fortezze, rovinate le industrie, abbandonati i commerci, interrotti gli studi, violate le leggi, sregolati i costumi. Occorreva (lui che era stato governatore in Fiandra, allora uno dei paesi più ricchi e progrediti d'Europa) rifare tutto da capo,  cercare i rimedi, sanare le piaghe, bonificare le terre, promuovere l'agricoltura, far fiorire le industrie, riattivare i commerci, ricondurre le acque nei loro alvei naturali, scavare canali d'irrigazione, riformare l'amministrazione, rimettere in vigore le leggi, pensare alla difesa nazionale. Progetti dunque grandi e ambiziosi.

Per fare tutto ciò era necessaria prima di ogni altra cosa, la ricostruzione economica e finanziaria, urgeva mettere in sesto le finanze rovinate dello Stato, trovando nuovi cespiti di entrata per accrescere l'erario pubblico. E poiché per accrescere il gettito delle rendite occorreva risollevare le condizioni economiche dei sudditi, il duca molto saggiamente volse il pensiero anzitutto all'agricoltura e all'industria.

Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell'agricoltura in Piemonte era la servitù della gleba. Diverse erano le specie dei servi, retaggio di ataviche precedenti usanze delle autonomie feudali: vi erano quelli a mercè e quelli a misericordia, servi cioè nella persona e nelle sostanze, i quali non potevano disporre di se stessi e dei propri beni, questi ultimi in mancanza di figli maschi tornavano al padrone; vi erano invece in altre zone servi che potevano trasmettere i loro averi alle figliuole; vi erano i cosiddetti ligi o condizionati, che erano liberi come persone, ma servi nelle sostanze; infine vi erano i servi liberi nelle persone ma i cui beni però passavano al padrone se essi morivano senza prole.

Enrico II aveva cercato di abolire nei paesi occupati del Piemonte e della Savoia la servitù della gleba permettendo ai servi di affrancarsi mediante il pagamento di una somma corrispondente alla quinta, alla settima, alla decima e perfino alla ventesima parte del valore dei loro beni; ma, pochi si erano valsi di questa concessione; i più per la mancanza di danaro, altri perché non sentivano il bisogno di uscire da una condizione in cui erano nati, del resto non avevano iniziativa (questa era stata seppellita da secoli)  ed erano quindi rimasti servi, nè sapevano del resto fare altro.

Emanuele Filiberto, persuaso che i servi della gleba erano dei pessimi agricoltori e che l'affrancamento creava dei nuovi proprietari soggetti quindi alle imposte (ci sembra di vedere qui del calvinismo ginevrino), nell'ottobre del 1560 emanò due decreti coi quali concedeva ai servi di affrancarsi mediante il pagamento del 10, del 15, del 20 e del 30 per cento del valore delle terre a seconda delle varie categorie. Ma scarso (per le ragioni dette sopra) fu il risultato dei due decreti, né fu migliore quello ottenuto con altri emanati nel 1562, nel 1565, nel 1568 e nel 1571; anzi la servitù della gleba durò ancora per altri due secoli e finì soltanto nel 1762 sotto Carlo Emanuele III.  Quello che mancava in Piemonte era -come lo chiamavano in Toscana- "il nuovo spirito del tempo"- la "scuola" dell' intraprendenza, che è latente nell'animo umano, ma occorre pur sempre chi da' il "via", che  rimuova il "blocco" che la "rassegnazione" aveva nei secoli bui creato. E questo non lo si poteva fare nell'arco di una sola generazione, e inoltre occorreva una continuità all'opera iniziata da Emanuele Filiberto.

Nè solo con l'affrancare i servi il duca cercò di giovare all'agricoltura. Promise l'esenzione da qualsiasi tributo per un determinato numero di anni a tutti quei forestieri che fossero venuti ad esercitare l'agricoltura nei suoi Stati; (e questo lo avevano fatto già i Fiamminghi, dove con loro lui era vissuto) fece scavare canali d' irrigazione, costruire rogge, prosciugare stagni, dissodar terreni e diede grande impulso alla cultura del gelso per estendere nei suoi domini l'industria della seta.

Per lui difatti la ricostruzione economica del paese andava fatta non solo favorendo l'agricoltura, ma anche le industrie e i commerci. E questi avrebbero poi contribuito in parallelo a creare l'economia indotta, l'artigianato, i servizi, i subordinati alle altre mille attività.
Con un decreto- del 1561 egli cerca di fare affluire nei suoi Stati, concedendo privilegi, oltre che agricoltori, artieri e capitalisti che potessero e volessero impiantare industrie; promosse quindi la bachicoltura, diede impulso all'industria della lana, del sapone e del vetro; concesse agevolazioni ai lavoratori del corallo e dei metalli e ai fabbricatori di carta, riattivò miniere vecchie e cercò nuovi giacimenti metalliferi.

Per far fiorire il commercio si adoperò a migliorare e accrescere le vie di comunicazione. Importante fu l'acquisto della piccola contea di Tenda e delle signorie di Maro e Prelà, cedutegli dalla marchesa Renata d' Urfè, che aprivano al duca di Savoia la via di Nizza e Villafranca, i due soli sbocchi sul mare dello Stato Sabaudo, cui più tardi (1576) si aggiunse Oneglia, comprata per quaranta mila scudi d'oro; e poi feudi di Ciriè e Castellamonte da Giovanni Doria. Inoltre garantì con opportune misure la, sicurezza delle vie interne di comunicazione, e con rettifiche di alvei e scavi di canali favorì la navigazione interna;  e per aiutare la circolazione del denaro inceppata dall'usura promosse i monti di pegno e l'istituzione di una banca che venne affidata ai genovesi MARCANTONIO e GIAMBATTISTA CATTANEO, provvedimento questo di enorme importanza che, insieme alla riforma monetaria, mostra quanto il duca, avesse la mente aperta e quanto si adoperasse per favorire lo sviluppo dei traffici e delle industrie.

Per sanare le piaghe dello Stato il duca -aveva bisogno di molto denaro e invece le rendite erano poche e durante venticinque anni di invasioni e di guerre, quelle che c'erano erano state ipotecate o appaltate a condizioni onerose per anni e anni. Per rimediare a questo stato di cose, oltre al favore dato all'agricoltura, all' industria e al commercio, Emanuele Filiberto distribuì meglio fra le varie classi i balzelli, estese a tutti i suoi domini il monopolio del sale e poiché questa imposta piuttosto gravosa provocò lagne e proteste, non la eliminò ma la diminuì e pose una tassa diretta (tasso) sopra le terre. 
Così non solo riuscì a raggiungere il pareggio nel bilancio ma a poco a poco -creando un'unica corte dei conti- riuscì a segnare notevoli avanzi e infine ottenne delle rendite dello Stato che all'inizio della sua opera calcolate a circa sessantamila scudi d'oro annui giunsero poi alla cifra veramente notevole di ottocentomila.
Fra le altre cose diede impulso anche all'istruzione;  lo Studio che allora esisteva a Mondovì, nel 1566 lo trasferì nella nuova capitale dei Savoia, a Torino, potenziandolo e chiamandovi insegnanti stranieri  (ci ritorneremo su più avanti).

RIFORME POLITICHE, LEGISLATIVE E MILITARI - 
ESERCITO E LA FLOTTA - L'ORDINE DEI SS. MAURIZIO E LAZZARO

Non meno che alla ricostruzione economica e finanziaria dedicò Emanuele Filiberto la sua attività alle riforme politiche, legislative e militari. E per compiere con migliore successo e sicurezza tutte le riforme, che credeva necessarie al suo Stato, Emanuele Filiberto pensava, che non vi potessero essere vincoli di sorta nell'esercizio della sovranità; soppresse quindi i molti poteri locali esercitati dai signori, dai comuni e dalle province, poiché questo decentramento di poteri incagliavano e limitavano l'azione del governo fatta uniformemente su larga scala; ma nel rendere assoluta la sua sovranità fu ben lontano dall'imitare Luigi XI, Ferdinando il Cattolico e gli altri fondatori delle grandi monarchie (assolutiste) moderne. Lo struttura del dispotismo in Piemonte -dobbiamo darne atto - non costò una goccia di sangue e il principe sottomise e disciplinò il suo popolo senza altri mezzi che la sua ferrea volontà. Nè volle imitare quello sfarzo delle corti europee. 

Trascurò la convocazione delle Congregazioni  (Stati) Generali, i quali, anziché rappresentare l'interesse della nazione, non servivano che a tutelare gli ordini privilegiati (ognuno con le proprie antiche autonomie); ricostituì il Consiglio di Stato, e lasciati i titoli ai venticinque membri che lo componevano, li restrinse a pochi, e volle che la sua volontà diventasse legge per tutti, conservando solo ai Senati, cioè alle corti supreme di giustizia, il diritto di registrare le disposizioni sovrane. Soppresse molte cariche, che erano divenute quasi monopolio di potenti famiglie; volle che i nobili scendessero al grado di cittadini e questi fossero liberi da ogni altra soggezione che non fosse quella, del sovrano.

Non poco il duca si impegnò per dare uniformità. all'ordinamento della giustizia; e per ricondurre questa ai suoi sani principi, emanò disposizioni per sopprimere le divisioni di guelfi e ghibellini, per abrogare le leggi statutarie locali intorno alle pene pecuniarie e alle composizioni dei delitti maggiori, represse molti abusi, tolse ai nobili, ai comuni, ai capitoli il privilegio di esser giudicati in prima istanza dal Senato e lo lasciò soltanto ai consiglieri ducali, proibì ai suoi sudditi di rivolgersi ai tribunali di altri Stati, emanò leggi sul diritto e la procedura penale, sulla tenuta dei libri mercantili, sulla denuncia e registrazione delle nascite e delle morti, volle che la giustizia fosse sollecita, che fossero limitati l'arresto preventivo e l'uso della tortura, comminò pene severissime contro i bestemmiatori, contro i ricettatori di banditi e i colpevoli di mancato omicidio, restrinse le pretese dei tribunali ecclesiastici e infine, per evitare che il popolo, ignorante della lingua latina, rimanesse in balia di legali ingordi e disonesti, ordinò che gli atti giudiziari e i contratti notarili venissero stesi in lingua volgare (questo era avvenuto già a Firenze duecento anni prima).

Vissuto quasi sempre in mezzo alle guerre e convinto che nessun principe senza buone e numerose milizie, è rispettato in casa e temuto fuori, Emanuele Filiberto non poteva non dedicare la sua attività all'organizzazione militare del suo Stato. Le milizie paesane non esistevano, si erano disciolte da secoli, male armate erano quelle feudali, disabituati  erano i sudditi all'esercizio delle armi, spento era lo spirito militare, difficile quindi era l'opera alla quale il duca voleva mettere le mani.

Tuttavia non volle abolire le milizie feudali, ma non le curò molto né le tenne in gran considerazione; l'idea sua era che i contadini strappati dalla terra per fare una campagna militare, sempre contadini rimanevano. Ma nello stesso tempo ritenne pericoloso oltre che dispendioso servirsi di truppe esclusivamente mercenarie, anche se non volle del tutto scartare questo genere di milizia e solo in caso di bisogno; tuttavia negli ultimi anni della sua vita riuscì ad ottenere che i cantoni svizzeri cattolici divenuti suoi alleati si obbligassero a fornirgli fino a dodicimila fanti "idonei" alle armi.

Il vero nerbo del suo esercito furono le milizie nazionali permanenti. Emanuele Filiberto proibì il reclutamento tra i suoi sudditi per conto di principi stranieri, concesse privilegi ai soldati e dispose che ogni parrocchia dei domini diretti fornisse un determinato numero di uomini armati, che ovviamente manteneva a sue spese nei periodi d'istruzione e a spese dello Stato in tempo di guerra.

L'esercito Sabaudo, come d'uso, era costituito di fanti e cavalli. La fanteria, reclutata tra il popolo, poteva raggiungere il numero di trentamila uomini. Questi erano ripartiti in colonnelli o reggimenti, che erano formati di sei compagnie di quattrocento soldati, ognuna delle quali era costituita di quattro centurie; la centuria comprendeva quattro squadre di venticinque uomini. I comandanti dei reggimenti e delle compagnie erano nominati dal duca, ma entravano in servizio in tempo di guerra; mentre l'addestramento era affidato a un corpo di sergenti che dipendevano da un sergente maggiore. Per l'istruzione le squadre dovevano riunirsi ogni domenica, le centurie ogni quindici giorni, le compagnie una volta il mese, i reggimenti alle quattro tempora, l'intero esercito due volte all'anno, onde coordinare nuove direttive, far conoscere nuove armi, ma soprattutto far nascere uno spirito di corpo.

La cavalleria, era formata dai nobili a reclutamento volontario e chi vi era iscritto provvedeva a sue spese all'equipaggiamento e al cavallo. Essa era armata alla leggera e comprendeva dodici compagnie, sei reclutate in Piemonte, sei nella Savoia. Queste prestavano servizio presso la corte due alla volta e per due mesi all'anno. Il corpo di cavalleria era rinforzato da due compagnie di archibugieri a cavallo reclutate in tutte le regioni del ducato.

""...Milizia paesana e milizia feudale - scrive l' Egidi - potevano e dovevano servir solo in caso di guerra; tutti i servizi di presidio del tempo di pace erano affidati a soldati di mestiere, mercenari arruolati per lo più tra i sudditi ducali, i quali, sotto castellani, capitani e governatori, guardavano i luoghi fortificati, in schiere proporzionate all'importanza del luogo da custodire: qui 20, là 50, là  250 (in tempi normali questo numero era il massimo). Come è facile intuire, non era fisso né il numero complessivo, né quello delle singole compagnie, né il loro dislocamento: crescevano o diminuivano, affluivano e si ammassavano in una zona o in un'altra, secondo ragioni momentanee di polizia interna, di timori esterni, di pressioni che si vogliono esercitare, di disegni od aspirazioni palesi o nascoste. 
Ma se le minacce di guerra si fanno più gravi, e se finalmente a qualche azione guerresca si debba assolutamente farla, non possono bastare né queste poche schiere presidiarie, né le mediocre milizie paesane, bisogna ricorrere a veri e propri arruolamenti di soldati di mestiere, a capitani esercitati in cui avere fiducia. Per non esser colto alla sprovvista e non dover erogare tutte insieme fortissime somme allo scoppio delle ostilità, Emanuele Filiberto ricorse ad un sistema relativamente economico ed efficace. Tenne a corte con stipendio mediocre ma fisso un certo numero di capitani (per questo furono detti trattenuti) senza soldati. Durante la pace questi poco avevano da fare; tutt'al più qualche ispezione a reparti di milizia e alle fortezze, o per qualche particolare missione; ma si impegnavano, appena ce n'era il bisogno, di arruolare e armare una compagnia di una determinata forza, anticipando tutte le spese necessarie. 
Con soldati così raccolti fu costituito il nucleo centrale di piccoli eserciti mobilitati nel 1560-61 contro i Valdesi, nel 1562 e '67 per le spedizioni in Francia contro gli Ugonotti, nel 1566 per recare aiuto all'Imperatore contro i Turchi.
Questa l'organizzazione militare del ducato. Qualche altro scarso corpo armato che nominalmente obbediva al duca (le compagnie d'onore conferitegli e pagate dai re di Francia e di Spagna, la compagnia conferita dal re di Francia a Carlo Emanuele appena nato) e qualche altro (arcieri, archibugieri, alabardieri, gentiluomini, e più tardi svizzeri) addetti alla custodia della casa ducale, non mi pare siano da includere nell'esercito, essendo destinati a funzioni di parata o tutt'al più di polizia. Sarà invece da ricordare il corpo degli artiglieri o bombardieri addetto alle fortezze o alle truppe mobili. Il duca fu abbastanza ben provvisto di artiglierie: in parte gli provenivano dal padre, in parte le ebbe come bottino nelle campagne di Fiandra; altre le lasciarono i Francesi al momento dello sgombro, poi quelle ritirate dalla Corsici, altre infine le acquistò o le fece costruire nelle fonderie di Vercelli, di Mommeliano, di Bourg-en-Bresse, di Torino, nella quale ultima lavorò talvolta personalmente. Braitòme ricorda di aver visto canne di archibugi, che erano personale opera sua..."" (Egidi).

Anche una marina da guerra volle avere Emanuele Filiberto. Nel 1559-60 costituì il primo- nucleo della sua flotta con tre galee di sua proprietà (la Capitana, la Margarita, e la Piemontesa) e con una assoldata (la Moretta); nel 1561 comprò dal gran priore di Francia dell'ordine di Malta la Delfina e l'anno seguente acquistò la S. Pietro dal signor di Pierrebon, le quali, unite a due galee a lui promesse dal re di Francia all'epoca del fidanzamento con Margherita e ricevute nel 1560, formarono le forze della marina sabauda con base a Nizza e a Villafranca. Ammiraglio della flotta venne creato Andrea Provana di Leynì.

Per avere una buona milizia di mare il duca pensò di rinnovare gli ordini di S. Maurizio e S. Lazzaro: il primo era stato istituito da Amedeo VIII nel suo ritiro di Ripaglia e si trovava in gran decadimento; in peggiori condizioni versava il secondo, sorto nel sec. XII in Terrasanta per curare i lebbrosi, riformato in ordine militare da Pio II e arricchito di beni e privilegi nel 1566 da Pio IV, zio di Giannotto Castiglioni gran maestro dell'ordine stesso.
Emanuele Filiberto stabili di fondere le due istituzioni in un solo ordine militare e di affidare a questo il compito medesimo che aveva, quello di S. Stefano, di guardare cioè le coste del suo stato e di respingere l'audacia dei corsari barbareschi. Con l'aiuto del conte Cicogna, cancelliere dell'ordine di S. Lazzaro, il duca ottenne che il Castiglioni rinunciasse in suo favore, il 13 gennaio del 1571, al gran maestrato, e per mezzo del cardinale Marcantonio Bobba e dell'abate Vincenzo Parpaglia potè avere da Gregorio XIII nel 1572 la concessione di fondere i due ordini a patto che i cavalieri non potessero ammogliarsi che una sola volta e con una zitella, facessero voto di castità coniugale e promettessero di combattere gli eretici e gli infedeli.

Il duca di Savoia fu largo di aiuti alla rinnovata istituzione: le assegnò una rendita di quindicimila scudi annui, le diede l'entrata del banco degli Ebrei a Pinerolo e i beni ecclesiastici dei baliaggi ricuperati in Svizzera, le destinò le sue due migliori galee, la dotò di due case, una a Torino e l'altra a Nizza, di un collegio a Torino dove si addestrassero i giovani all'ordine, e infine affidò ai cavalieri gli uffici principali della sua corte.

Secondo lo statuto i novizi dovevano servire cinque anni e non potevano ottenere la croce se in questo periodo non avessero partecipato a tre carovane o campagne marittime.
Il nuovo ordine. dei SS. Maurizio e Lazzaro esplicò nei primi anni della fondazione la sua attività partecipando insieme con la marina pontificia ad alcune crociere presso le coste italiane, ma in verità esso non diede prova di grande disciplina; prova migliore però diede, e per disciplina e per valore, nella battaglia di Lepanto. Diremo più tardi del contributo che a questa, impresa gloriosa portò la marina sabauda.

EMANUELE FILIBERTO E GLI STUDI

Non solo al risorgimento materiale del suo popolo Emanuele Filiberto pensò, ma anche a quello morale. Né poteva fare altrimenti un principe con un ingegno così sveglio, che aveva ricevuto una discreta educazione umanistica, che scriveva e parlava abbastanza bene, oltre l' italiano, il francese, lo spagnolo, il fiammingo e il tedesco, che amava farsi leggere libri di storia e di filosofia, che si interessava di problemi matematici, di ricerche astrologiche, di ingegneria, di balistica, di alchimia, che proteggeva poeti, letterati e scienziati e col nome di Svegliato era socio dell'accademia pavese degli Affidati; che amava la pittura, la scultura e l'architettura, specie quella militare, e aveva ideato perfino -precorrendo i tempi- di far compilare un'enciclopedia che doveva portare il nome di Teatro Universale di tutte le scienze.

Con il proposito di giovare alla cultura, il duca contribuì alla fondazione di scuole e collegi, alcuni dei quali sorsero per opera dei gesuiti che ne ebbero la direzione; nel 1559 istituì a Nizza un collegio di legisti, nel 1560 aprì l'università a Mondovì e vi chiamò ad insegnare il famoso civilista AIMONE CRAVETTA, l'illustre medico GIOVANNI ARGENTERO, il celebre canonista JACOPO  MenoecMENOCCHIO,  GIOVANNI FRANCESCO VIMERCATI, BERNARDINO PATERNO, ANTONIO BERGA, DOMENICO ed AGOSTINO BUCCI, G. B. GIRALDI CINTHIO, FRANCESCO OTTONAIO, il portoghese ANTONIO GOVEAU e i francesi BENEDETTO BERNAUYS e GIOVANNI  MANUCE.

A Mondovi, in cui aveva fatto venire il valente tipografo toscano LORENZO TOLENTINI, lasciativi i collegi di giurisprudenza, medicina e teologia, nel 1566 Emanuele Filiberto trasferì l'università a Torino, e per attirarvi scolari proibì ai sudditi, sotto gravi pene, di frequentare studi forestieri e concesse agli studenti un certo numero di pensioni, la licenza di portare armi e un foro speciale. A sussidio dell'università torinese, il duca istituì con speciali privilegi un'ottima tipografia, a diriger la, quale fu chiamato NICCOLÒ BEVILACQUA di Trento.

""...L'opera di Emanuele Filiberto - citiamo ancora l' Egidi - nei riguardi della cultura e dello studio, provoca in conclusione un giudizio pienamente favorevole. Scuole primarie a dare gli strumenti necessari per la vita, scuole secondarie a formare la massa del ceto medio, scuole superiori a creare le classi dirigenti, hanno cure amorose. Si ricostituisce per suo merito il tessuto connettivo che forma la realtà dello Stato e della Nazione, si riprende la  tradizione dell'alta culturaa, e si immette nella corrente della scienza internazionale scegliendo insegnanti di ogni nazione e provenienza. Se nelle scuole inferiori si impone un severo freno confessionale, in quelle universitarie, pur senza toglierlo, lo si rende più elastico e flessibile, in modo da non soffocare le libere indagini..."".

LA POLITICA ESTERA DI EMANUELE FILIBERTO: RAPPORTI CON LA FRANCIA E LA SPAGNA.
ACCORDI CON GLI SVIZZERI; PARTECIPAZIONE SABAUDA ALLA LEGA CONTRO IL TURCO E ALLA BATTAGLIA DI LEPANTO. 
LA QUESTIONE DI SALUZZO E QUELLA DEL MONFERRATO  
MORTE DI EMANUELE FILIBERTO

Nella politica estera Emanuele Filiberto usò quasi sempre una oculata prudenza e quella sicurezza d'occhio che egli seppe impiegare nelle sue manovre di guerra. Egli capiva che la neutralità tra la Francia e la Spagna era condizione necessaria di vita per il suo stato e della neutralità ne fece base della sua politica esteriore perché la pace gli occorreva per la ricostituzione del ducato e anche perché, persuaso che prima o poi egli poteva esser costretto in caso di guerra a schierarsi dalla parte dell'uno o dell'altro dei contendenti, voleva prima acquistare una tale forza e una tale preparazione così da far pesare in questo modo molto la sua amicizia. Con un debole tutti si comportano da arroganti.

Al principio del suo regno, egli aveva sperato di trarre vantaggio dalla sua amicizia con la Francia e con la Spagna stimolandole ad una guerra contro i protestanti svizzeri che gli avrebbe fruttato il riacquisto di Ginevra e delle terre perdute presso il Lemano; ma quando si accorse che né i Francesi né gli Spagnoli lo avrebbero aiutato ad ingrandirsi, allora egli smise i disegni di acquisti territoriali e -mettendo da parte le due potenze-  pensò di accordarsi con gli Svizzeri, i quali potevano abbastanza efficacemente impedire, che la neutralità del ducato di Savoia venisse violata.

Fin dal 1560 - Emanuele Filiberto rinnovò l'antica alleanza coi cinque cantoni cattolici di Uri, Schwitz, Unterwalden, Zug e Lucerna; nel 1563 iniziò trattative con Berna, che, interrotte, furono riprese nel 1564 e portarono agli accordi di Nyon e di Losanna, con il primo dei quali si stabiliva di lasciare insoluta la questione ginevrina, con il secondo si conveniva che Berna avrebbe restituito il Genevesato, il Ciablese e il paese di Gex e che il duca avrebbe lasciato agli abitanti libertà di culto. Per l'ostilità della, Spagna e della Santa Sede, che, dovevano con la Francia dare il loro assenso, il trattato di Losanna non fu messo in esecuzione che tre anni circa dopo, cioè nell'agosto del 1567.

Nel 1568 Emanuele Filiberto chiese a Friburgo la restituzione della contea di Romont e ai Vallesani quella di Evian, Saint-Gingolph e Monthey. Friburgo si rifiutò, i Vallesani invece, con l'accordo di Thonon del 4 marzo 1568, restituirono i territori di Évian e di Saint-Gingolph, dietro rinuncia del duca al paese di Monthey. Nel maggio dell'anno seguente, tra il duca e Berna furono stipulati due trattati: con il primo si stabiliva che tra il Sabaudo e Ginevra ci sarebbe stata una pace di ventitré anni, e che Ginevra per la durata di quel periodo avrebbe ceduto al duca il godimento dei possessi del priorato di Saint-Victor, che avrebbe concessa ospitalità ad Emanuele Filiberto e a tutta la corte ogni volta che avesse voluto recarsi in quella città e infine che non avrebbe riconosciuta la sovranità. di nessun altro principe.

Col il secondo, quello di Losanna, si concludeva una lega difensiva per venti anni tra il duca e Berna; questa avrebbe messo a disposizione dell'alleato da tre a cinquemila fanti, mentre il duca l'avrebbe aiutata inviandole da tre a cinquecento cavalli e da due a tremila fanti. Nel 1577 infine Emanuele Filiberto abbandonò ogni pretesa, sulla contea di Romont e rinnovò l'alleanza perpetua con i cinque cantoni cattolici e con Friburgo, i quali si impegnarono di non legarsi con Ginevra finché le sue quistioni col duca non fossero risolte per via giudiziaria e di aiutare il ducato con truppe che potevano raggiungere i dodicimila fanti, mentre il sabaudo a difesa degli alleati doveva mettere in armi mille archibugieri a piedi e trecento a cavallo.

Il felice successo delle trattative con gli Svizzeri e il contegno tenuto con Roma e Madrid per smussarne l'ostilità diedero fama, al duca di Savoia di grande politico; egli difatti metteva nel 1565 la suia flotta a disposizione del Papa e di Filippo Il per soccorrere Malta assalita dai Turchi e nel maggio del 1566 partecipava alla dieta di Augusta che doveva provvedere alla difesa dell'Impero minacciato dagli Ottomani e offriva il suo concorso armato mandando un contingente di milizie che sotto il comando del conte BERNARDINO di PANCALIERI doveva battersi valorosamente in Ungheria.

Aumento poi il suo prestigio quando Emanuele Filiberto partecipò alla lega cristiana contro il Turco e alla campagna del 1571. Aveva però sperato di capitanare la flotta alleata, ma la diffidenza spagnola e forse anche quella dei Veneziani che lo ritenevano un pretendente su Cipro, lo esclusero dal comando supremo e da quello in seconda. Gli fu offerto il titolo di capitano generale delle forze di terra a patto che non avrebbe seguito l'esercito e che avrebbe esercitato le sue funzioni solo tramite un luogotenente; ma il duca giustamente rifiutò.

All'impresa navale di Lepanto egli partecipò con tre galee, la Capitana, la Margarita e la Piemontesa, comandate dall'ammiraglio Andrea Provana di Leynì, che aveva in sottordine Domenico Costantino, Ottaviano Moretto e Giovanni Battaglini. Nello schieramento presso le isole Curzolari, la Capitana e la Piemontesa furono poste la prima al centro, a destra della capitana pontificia comandata da Marcantonio Colonna, la seconda all'ala destra ch'era sotto il comando di Gian Andrea Doria; la Margarita, in non buone condizioni, fu messa nella squadra di riserva.

La Capitana, durante la battaglia, si trovò contemporaneamente impegnata contro due navi turche, le sopraffece e ne catturò una, ma il Provana ebbe un'archibugiata nella testa; la Piemontesa assalita da tre galee nemiche, si difese valorosamente per un'ora; invasa dai Turchi, opposero accanita resistenza le ciurme e i soldati del duca; ma alla poi furono caricati dallo schiacciante numero dei nemici e perirono tutti salvo dodici uomini, fra i quali Francesco Savoia-Racconigi, che, ferito in faccia, cessò poco dopo di vivere. Fra i morti vi furono Francesco Maria della Rovere, figlio del duca d'Urbino, e, quasi tutti i gentiluomini piemontesi che avevano partecipato come volontari alla spedizione. Dopo la vittoria di Lepanto, che a Torino fu festeggiata solennemente, la Margarita, che non poteva più tenere il mare, venne bruciata e sostituita con altra galea avuta -dopo la vittoria- in cambio di quella catturata.

Malgrado le ostilità che gli venivano dal re di Spagna, Emanuele Filiberto gli si mantenne amico, ma volle esser trattato come principe indipendente e nel 1572, quando si temette lo scoppio di una guerra fra Francia e la Spagna, rifiutò al Requesenz governatore della Lombardia, che insistentemente lo richiedeva, di schierarsi con Filippo II.
Con molta abilità riusciva a mantenersi neutrale e intanto cercava di ottener dalla corte di Parigi la restituzione di Pinerolo e Savigliano; e da quella di Madrid lo sgombro dei presidii spagnoli e anelava, leghe contro i protestanti e i Turchi, progettava di cedere alla Spagna i suoi domini transalpini in cambio della Sardegna o di cedere alla Francia la Bresse e il Bugey in cambio di Saluzzo.

Vani progetti! Non furono vani però gli sforzi fatti per liberare dagli stranieri gli ultimi lembi dei suoi domini che rimanevano ancora nelle loro mani. Quando Enrico III, eletto re di Francia alla morte del fratello Carlo IX, dalla Polonia in cui si trovava tornò a Parigi, Emanuele Filiberto andò ad incontrarlo a Venezia, lo accompagnò a Torino, offrendogli ospitalità. e insieme con la duchessa insistette moltissimo perché restituisse Savigliano e Pinerolo. 
Margherita non riuscì a vedere il risaltato di queste trattative: morì pianta dal marito e dai sudditi il 15 settembre del 1574; ma tre mesi e mezzo dopo, il 28 dicembre, la consegna delle due terre era un fatto compiuto. Questa restituzione costrinse gli Spagnoli a consegnar le fortezze che occupavano nel Piemonte, ma ci vollero parecchi mesi e tutta l'abilità del duca prima che la consegna avvenisse; finalmente il 24 settembre del 1575 Asti e Santhià vedevano partire i presidi di Spagna e così la liberazione di tutti i suoi stati poteva dirsi completa.

Due territori del Piemonte rimanevano però in mani non sue, due territori che la casa Sabauda da tempo desiderava possedere: i marchesati di Monferrato e di Saluzzo, il primo in potere del Gonzaga, il secondo in potere della Francia. Specie il possesso di quest'ultimo premeva ad Emanuele Filiberto perché rappresentava una perenne minaccia al Piemonte.

Nel 1576 il duca sperò con poca fatica di metterci le mani: trovandosi Enrico III in urgente bisogno di denaro, Emanuele Filiberto gli offrì una forte somma chiedendo come garanzia una ipoteca sul marchesato. I negozianti erano a buon punto quando il duca ebbe notizia che altre trattative erano in corso per vendere Saluzzo agli Svizzeri protestanti. Egli seppe evitare che la trattativa si concludesse con vigorose proteste presso la Spagna e la Confederazione Elvetica e ribellando alla corte di Francia il maresciallo di Bellegarde, il quale, in segreto accordo col duca e con Filippo II, nel 1579 occupò il marchesato di Saluzzo.

Morto il Bellegarde, il 2 marzo del 1580 il marchesato cadeva nelle mani di un capitano francese ribelle, l'Anselme, ma rimaneva in potere di costui pochi giorni. Il duca di Savoia, che si era conciliato con la corte di Parigi, il 9 marzo mandava Ferrante Vitelli con duemila fanti e duecento cavalli piemontesi e cinquecento francesi ad investire Saluzzo, la faceva occupare a nome del re di Francia e affidava  il governare del  marchesato a degli  ufficiali italiani. Il primo passo era fatto: l'altro avrebbe dovuto farlo Carlo Emanuele I,  suo figlio diciottenne che nello stesso anno con la morte del padre erediterà il ducato ma anche la difficile questione.

Quanto al Monferrato Emanuele Filiberto non risparmiò sforzi per averlo sotto il suo dominio. Nel giugno del 1566, essendosi gli abitanti di Casale ribellati per il malgoverno dei Mantovani, il duca invitò Guglielmo Gonzaga a risolvere amichevolmente la questione. Il Gonzaga mandò a Torino Silvio Calandra con alcune proposte, ma essendo inopportune nessuna di queste poterono essere accolte dal sabaudo; e i Casaleschi furono costretti non pacificamente a fare atto di sottomissione al duca di Mantova, che per reprimere la ribellione venne aiutato dalle milizie spagnole.

Una seconda volta Emanuele Filiberto tentò di ottenere il Monferrato. Era morto ad Alcazar, combattendo contro i Marocchini (5 agosto del 1578) il re Sebastiano del Portogallo. Essendo senza prole, gli succedeva il vecchio zio Cardinale Enrico, di cui si prevedeva prossima la fine. Molti pretendevano alla futura successione e fra questi Caterina di Braganza, Filippo II ed Emanuele Filiberto.
Il duca di Savoia, persuaso che non avrebbe potuto competere con il re di Spagna, pensò di rinunciare ai suoi diritti sulla corona portoghese in favore di Filippo chiedendogli in cambio qualche territorio in Italia. Chiese prima la Sardegna, poi il Monferrato; ma non ottenne né l'una né l'altro. Qualche anno dopo moriva il re Enrico (31 gennaio 1580) e Filippo II si impadroniva del Portogallo facendo tramontare dal cuore del duca la speranza di poter trarre vantaggi dalla cessione dei suoi diritti su quel regno nei suoi ultimi mesi di vita.

Infatti questa del Monferrato fu l'ultima questione alla quale dedicò la sua attività Emanuele Filiberto. Il 30 agosto del 1580, pianto dal popolo, cui aveva ridato la libertà, alla sola  età di cinquantadue anni, cessava di vivere a Torino il vincitore di S. Quintino, il restauratore delle fortune sabaude, un saggio e infaticabile sovrano di una parte di quel territorio che dovevano in seguito i successori decidere i destini dell'Italia. Ma già alla sua morte -come vedremo- il destino incontrò non pochi ostacoli. 

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scritta in occasione del IV centenario della sua nascita, a Torino nel 1928

SU FILIBERTO DI SAVOIA


"Tutto questo tratto di paese, poco fa bellissimo, è ridotto a tale termini che non si conosce più quale sia stato. Incolto, senza gente per le città, senza uomini e senza animali per le ville, imboschito tutto e selvatico. Non si vedono case, che il più furono abbruciate; della maggior parte dei castelli appaiono i muri soltanto; degli abitanti chi è morto di peste o di fame, chi di ferro, chi fuggì altrove, volendo piuttosto mendicare il pane fuori di casa, che in essa sopportare i travagli peggiori della morte ».


Così un ambasciatore di Venezia in Piemonte, descriveva lo stato miserando del ducato sabaudo, intorno alla metà del decimosesto secolo, quando le terre, le città i castelli di Carlo II di Savoia (*) erano occupate, percorse, insanguinate, depredate, dagli eserciti di Spagna e di Francia, che qui si erano dati convegno, allo scopo di conquistare, ciascuno per il proprio sovrano, e di contendere all'avversario, il primato sull'Italia e sull' Europa.

Anni funesti e dolorosi furono quelli per l' Italia.

Dalla fine del decimoquinto secolo, da quando cioè con Carlo VIII si era riaperta la serie delle invasioni straniere nella Penisola, le armi e le ambizioni non si erano più posate. Il Piemonte era stato ripetutamente attraversato dagli eserciti belligeranti; ma, forse, appunto perché era stato soltanto attraversato, il duca di Savoia aveva tollerato la non gradita presenza delle armi straniere. Ciononostante il re Francesco I non ne era ancora soddisfatto e nel novembre del 1515 si espresse duramente, con l'ambasciatore veneziano alla corte di Francia, nei riguardi di Carlo II di Savoia, che il bellicoso re francese chiamava « quel ribaldo di mio Barba », perché Carlo II (che era cognato di Carlo V) aveva pure il privilegio di essere zio di Francesco I. (e "barba" in piemontese, significa appunto zio).
(1) Alcuni autori parlando di questo duca di Savoia, lo designano come Carlo III. Il motivo di questa diversità nella cronologia, dipende dall'avere essi tenuto calcolo anche di un altro Carlo (figlio di Carlo I, il Guerriero), che però, per essere morto in tenera età, non regnò che nominalmente, mentre la reggenza era tenuta dalla madre, Bianca di Monferrato).

Fosse per effetto di queste e d'altre astiose parole; o dell'ultimatun di guerra (poco tempo dopo, il re inviò al duca per reclamare il possesso di Vercelli e di altri territori dello Stato sabaudo) o di un calcolo politico ispirato dalla considerazione della prevalenza che le armi imperiali spagnuole s'erano ormai conquistate; sta di fatto che intorno al 1530 il duca di Savoia si andò avvicinando a Carlo V imperatore, il potente antagonista delle ambizioni francesi; e intervenne a Bologna alle feste seguite all'incoronazione dell'imperatore stesso, insieme alla duchessa Beatrice e al figlioletto, di non ancora due anni, Emanuele Filiberto.

Il duca ottenne, in quest'occasione, da papa Clemente VII, la promessa che il principino avrebbe avuto un vescovado e la porpora cardinalizia; giacché Emanuele Filiberto, secondo dei figli viventi di Carlo e di Beatrice, doveva essere avviato alla carriera ecclesiastica. Tutto ciò accrebbe l'ira del Sire di Francia contro il Duca sabaudo; e quando - morto l'ultimo duca di Milano (1535), e subentrato l'imperatore allo Sforza nel possesso della Lombardia, così come disponeva un precedente trattato - la guerra riarse tra Francia e Spagna e l'esercito francese tornò a campeggiare in Italia, le terre sabaude al di qua e al di là delle Alpi (Torino compresa) furono nuovamente invase e stabilmente occupate dalle armi e dai legati del re francese. Di modo che il Duca Carlo II e la sua famiglia dovettero fuggire a Vercelli « come in terra d'esilio».

Né la guerra né la pace (di Crépy, 1544) valsero a restituire alla dinastia Sabauda il proprio Stato; ché anzi l'uno e l'altro dei belligeranti, solo in apparenza pacificati, si mostravano poco solleciti a reintegrare il Duca nei suoi possessi; entrambi si avvantaggiavano della di lui estrema debolezza e povertà; e presto la guerra fra i due essendosi riaccesa (1551), le terre piemontesi tornarono ad essere teatro di guerra feroce, a subir la violenza d'una duplice prolungata rapina.

La vita di Carlo II si conclude in mezzo a questo sfacelo. Del quale la sua morte medesima é il fatto più sintomatico. Il Molmenti racconta : « Solo, senza i consigli e i nobili conforti di Beatrice (a lui premorta), Carlo II, in mezzo alla malinconia dei disinganni, tra la rovina dello Stato e la sorte avversa dell'armi, finì la vita infelice in Vercelli, la notte del 17 agosto 1553. Un barbiere raccolse l'ultimo respiro del Duca, che, appena morto, fu spogliato dalle genti di casa, le quali strapparono al cadavere le collane degli ordini ed uno smeraldo di gran valore. Neppure il camerlengo fu presente alla chiusura del feretro, né si rogò alcun atto. Fra i tradimenti e gli strepiti della guerra non si pensò ai funerali, e il corpo del pretendente al reame di Cipro (Carlo II) fu lasciato per parecchi anni dentro il feretro, privo di sepoltura, sopra un armadio, nella sacrestia della cattedrale di Vercelli ! ».

Queste, le condizioni del Piemonte e della Casa sabauda, allorché morì il padre di Emanuele Filiberto. Senza aver presente turra questa rande rovina, non é possibile valutare appieno il valore e l'entità della riconquista e della restaurazione compiuta dal figlio di Carlo II.

* * *

Emanuele Filiberto nacque a Chambéry I' 8 luglio 1528: egli era il terzo figlio di Carlo II e di Beatrice di Portogallo, ragion per cui i suoi genitori avevano deciso di far di lui un ecclesiastico, un vescovo, un cardinale. Per alcuni anni al fanciullo fu fatto indossare l'abito ecclesiastico dalla materna pietà : ma poi, essendo morto il primogenito Adriano, e poco dopo anche l'altro fratello Lodovico, Emanuele Filiberto divenne principe ereditario e allora i progetti di carriera religiosa furono naturalmente abbandonati per lui.

Era all'inizio gracile, stento, quasi storpiato di corpo : ma con una disciplina attiva, energica, indefessa, riuscì come corpo ben complessato e sano, di membra proporzionate e ferme, benché gli restassero « le gambe un poco arcuate" e fosse « tutto nervo con poca carne ». Dormiva non più di sei ore sulle ventiquattro e aveva ripartito l'orario della giornata in modo da non star in ozio neppure un'ora e non sentiva né sole, né caldo, né freddo. A suo tempo cavalcatore ardito ed elegante, « andava a piedi la maggior parte e camminava tutto il giorno quanto é lungo, non. sedendo mai, dall'ora che si levava sin che tornava a dormire ». E poteva giocare « quattro e sei ore alla palla o al pallamaglio, nel sole « senza sudare per gran fatica che facesse : poteva cacciare il cervo per cinquanta e più miglia e darsi poi a spaccar la legna e giocar ancora al quadrello, per poi ripigliar fresco fresco il cammino. Al campo, fra i diciassette e i diciott'anni, armato, poteva stare quattordici ore a cavallo e tutti i giorni. Aveva sortito naturale e svegliato ingegno e memoria di ferro; « soprattutto una perspicacia e un'attitudine singolare all'assimilazione e adattamento dello spirito, onde poteva, anche senza una cultura profonda in ogni ramo, seguire ogni sorta di ragionamento e giudiziosamente parteciparvi : vi fu allora chi disse ch'egli pareva nato ad ogni cosa".
Lo sfacelo dello Stato paterno; l'ambasciata di Carlo II, principe leale, pacifico, ma esitante, indeciso nell'abbracciare risolutamente la causa dell'uno o dell'altro potente sovrano, di Francia e di Spagna, che si combattevano anche sul suolo piemontese; le difficoltà d'ogni sorta, comprese quelle pecuniarie, per cui il padre di Emanuele Filiberto dovette prendere denaro a prestito, impegnando i gioielli familiari ; tutto questo complesso di preoccupazioni, di umiliazioni, di avversità, furono vedute, considerate, valutate dal giovane principe, al quale era riservata un'eredità tanto svalutata, un patrimonio tanto oberato d'ipoteche e di debiti. Ed egli, opportunamente consigliato, o generosamente ispirato, decise di prender risolutamente un partito : di abbracciare un'alleanza, di essere tutto e senza esitazioni di Spagna contro Francia, di Carlo V - suo zio - contro Francesco Ie poi contro Enrico II, per non essere spregiato dall'uno e dall'altro dei due rivali, «a Dio spiacente ed ai nemici sui ».

Eccolo, dunque, il giovinetto Emanuele Filiberto, appena tredicenne, presentarsi nel 1541 a Genova, all'imperatore e re, in procinto di partire per l'Africa mediterranea, allo scopo di rintuzzare la prepotenza d'un corsaro mussulmano: e chiedergli di partecipare all'impresa che avrebbe dovuto consacrare il valore guerriero dell'adolescente principe cristiano, dell'alleato fedele. Ma Carlo V non accetta la profferta generosa, quantunque resti preso da quella grazia modesta e forte ad un tempo, da quella « naiveté » che gli fa pensare che il giovine principe non abbia detto cosa suggeritagli da altri, ma tutto quel che sgorgava dal suo animo e dal suo cuore, spontaneamente.

Passano due anni (1543) : il giovane torna ad offrirsi all'imperatore, per combattere in Francia, nell'esercito imperiale-spagnolo : il suo desiderio non viene ancora appagato. Nel 1545 Emamele Filiberto, ottenuto il consenso del padre, superate le non lievi difficoltà d'indole materiale dell'equipaggiamento per sé ed il seguito, parte alla volta della Germania: qui si trovava l'imperatore, alla Dieta di Worms, dalla quale il movimento della riforma religiosa dovrà uscire più ardito, più esuberante, più aggressivo e robusto. Il principe Sabaudo, di appena diciassett'anni, ha tuttavia l'animo più maturo di quel che non consenta l'età : egli deve presentare all'imperatore un memoriale, nel quale sono narrate distesamente le crudeli condizioni nelle quali giacciono il Piemonte e le altre terre sabaude, tra le sevizie dell'occupazione francese e le nequizie dei governatori spagnoli spadroneggianti. Ma se questo é lo scopo manifesto e dichiarato del viaggio, ben altro é il progetto che il giovine principe ha concepito: egli vuole entrare subito al servizio dell'imperatore, conquistarne la fiducia, assicurarsene la simpatia, fargli sentire l'obbligo della gratitudine, per conseguire alfine quella libertà della patria terra, quella reintegrazione dei domini aviti, alla quale il padre suo, da tanti anni, ed invano, aspira; egli si propone di tutto
dare alla causa imperiale, per ottenere in cambio dall'imperatore protezione ed aiuto e libertà.

I suoi primi tentativi, le sue prime sollecitazioni, non sembrano fortunate : ma egli ha appreso dalla pia madre - cresciuta in una corte fatta devota dalla stessa intensità della lotta nazionale-religiosa che la nazione lusitana dové sostenere contro i Mori invasori - ha appreso da lei l'insegnamento della suprema sapienza :
pulsate et aperietur vobis. Egli resta presso l'imperatore pur tra l'asprezza delle difficoltà pecuniarie che gl'impongono di licenziare o rimandare parte del seguito; egli resta ed aspetta ed insiste. Ed ecco divampare la guerra religiosa; ecco la lega dei principi protestanti tedeschi, più o meno indirettamente appoggiata dal re di Francia, cristianissimo ma alleato dei turchi e protestanti quando lo suggerisca l'opportunità politica ; ecco la lega Smalcaldica scendere in guerra contro l'imperatore e re Carlo V (1546).
Emanuele Filiberto è a fianco dello zio, e questa volta il suo desiderio di combattere e di farsi valere vien soddisfatto : il giovane diciottenne ottiene il comando di tutta la cavalleria di Fiandra e di Borgogna. E davanti ad Ingolstadt vuol far vedere che egli non é un guerriero da burla, né un principe pavido od impigrito nelle comodità di una posizione privilegiata. A CarloV, che autorizza i suoi congiunti a ritirarsi per evitare il pericolo, Emanuele Filiberto dichiara arditamente : « Sire, delibero di restare alla testa del mio squadrone e vincere e morire con Vostra Maestà e qual si accadesse qualche sinistro, non vorrei vivo trovarmi n. E restò nelle prime linee, anche sotto il sibilar dei proiettili

L'anno successivo, nell'aprile 1547, riaccesasi la lotta, si dovette all'intervento del principe sabaudo se la battaglia di Muhlberg si decise favorevolmente alle armi imperiali-cattoliche. E Carlo V dovette convincersi che in quel suo giovine nipote c'era la stoffa d'un vero soldato, albergava l'animo d'un capitano valoroso e sagace. Spoliatis arma supersunt!

* * *
Tra il 1547 e il 1551 posarono le armi; e il giovane principe si dedicò al governo di Asti, di cui egli era signore. Nel 1551 accompagnò il figlio di Carlo V, l'erede del trono, in Spagna; e fu appunto in Spagna che Emanuele Filiberto fu sorpreso dalla ripresa della guerra tra il re di Francia e l'imperatore. Torna in Piemonte e ottiene il comando della cavalleria catafratta nell'esercito affidato alla direzione di Don Ferrante Gonzaga. Ma, sia che il principe sabaudo non volesse partecipare
ad azioni di guerra nella sua patria -che egli vedeva percorsa, straziata, dilaniata, da amici e nemici -sia che non corressero i migliori rapporti tra lui e il Gonzaga, Emanuele Filiberto
preferì di andar a combattere a fianco dell'imperatore, che in quel momento aveva intrapreso l'assedio della fortezza di Metz. E tra l'universale sorpresa, l'imperatore, poco dopo, nominò il principe piemontese « capo e capitano generale dell'esercito" dei Paesi Bassi, con pieni poteri sulla condotta della cavalleria, della fanteria e sulla artiglieria e le munizioni. Generalissimo, a venticinque anni!
Emanuele Filiberto, prima di assumere il comando, va a passare la notte in un convento, in devoti esercizi spirituali. Indi va a raggiungere l'esercito. Conquista la piazza di Hesdin, penetra in Piccardia, s'impadronisce di alcune guarnigioni e fortezze nemiche. La guerra intanto si affievolisce, per riprendere l'anno venturo : e in quest'intervallo, durante il quale Emanuele Filiberto si sofferma nei paesi del Belgio spagnolo, egli apprende la notizia della morte del padre, nelle condizioni penose che noi abbiamo già ricordate : egli non può accorrere in Piemonte, perché il dovere lo chiama presso l'esercito, e quindi si limita ad esortare i piemontesi a stringersi intorno alla bandiera della sua Casa, di cui egli é ormai il capo, di cui sarà presto il restauratore.

La campagna di quell'anno (1554) non dette risultati definitivi : solo dev'essere ricordato un episodio, che rivela l'energia, che conferma lo spirito risoluto e volitivo del principe e dell'uomo. Egli aveva ordinato a tutti i suoi ufficiali e soldati di evitare le non necessarie crudeltà, di astenersi dalle violenze, dalle distruzioni, dalle efferatezze contro le popolazioni. Ma un conte di Waldeck, comandante d'un corpo di 4000 "raitri", tedeschi, non tenendo conto di queste disposizioni, aveva condotto i suoi uomini a saccheggiare e a depredare le campagne: il duca di Savoia - ché tale era ormai, dopo la morte del Padre, Emanuele Filiberto - mosse incontro al Waldeck e lo rimproverò aspramente : e poiché il tedesco fece l'atto d'impugnare un arma, il principe sabaudo, senza esitazione, uccise il conte ribelle, in presenza delle sue truppe alemanne.

Nel 1555, Emanuele Filiberto fece un breve soggiorno in Piemonte: ma poi dovette ripartire, per assistere alla esaltazione al trono di Filippo lI, divenuto re in seguito all'abdicazione del padre Carlo V; e perché, dal nuovo re, egli fu nominato governatore dei Paesi Bassi, ufficio delicatissimo in
quegli anni in cui ardevano le guerre religiose, in cui il calvinismo - che già aveva conquistato l'Olanda - batteva alle porte del Belgio spagnolo, eccitandone i fieri spiriti d' indipendenza, l'orgogglio nazionale, l'amor della propria terra. Ma poi il conflitto tra Francia e Spagna, assopito, non interrotto, si riaccese: e il duca di Savoia si ritrovò alla testa dell' esercito imperiale; in quella campagna che doveva essere la decisiva per sé, per la propria famiglia, per l'Italia, per gran parte d'Europa.

Ecco Emanuele Filiberto in Piccardia: eccolo in prossimità della piazzaforte di San Quintino, che sbarra la via di penetrazione più rapida verso Parigi. Il connestabile francese Anna di Montmorency ne resta sorpreso: invia rinforzi agli assediati, ma poi risolve di andar egli stesso a soccorrere la fortezza: poi il 10 agosto 1557 ordina all'esercito di marciare.

Il Duca di Savoia va ad affrontare il nemico e con una brillante manovra lo costringe a battaglia, nel momento stesso in cui il Montmorency, pago di esser riuscito ad introdurre nella fortezza un contingente di truppa, sta per ritirarsi.

Attaccato da ogni parte, l'esercito francese viene travolto, scompigliato, disperso, annientato. La carneficina dura fino a sera : tutti i cannoni francesi cadono in potere del Duca, il Montmorency e molti gentiluomini vengono catturati, sul campo di battaglia cade il più ed il meglio dell'esercito del re di Francia. E se Filippo II avesse acconsentito alla proposta di Emanuele Filiberto, facile sarebbe riuscito agl'imperiali, guidati dal Principe sabaudo, di raggiungere Parigi e di entrare nella capitale del regno avversario.

La guerra si protrasse ancora per qualche tempo e il Duca di Savoia raccolse qualche nuovo alloro: ma ormai la battaglia di San Quintino aveva deciso delle sorti della campagna, la pace non doveva tardare ad essere stipulata. E il 3 aprile 1559, a Cateau-Cambrésis, la pace fu infatti conclusa; quella pace che consacrò la preponderanza spagnola sull'Italia, e che restituì al Principe piemontese gli Stati aviti. Infatti, nel trattato, fu prevista la reintegrazione del Ducato sabaudo, il quale avrebbe dovuto essere subito sgombrato da francesi e spagnuoli, salvo alcune città (con una fascia di un miglio attorno a ciascuna) e precisamente Torino, Chieri, Chivasso, Pinerolo e Villanova d'Asti, che sarebbero rimaste provvisoriamente occupate dai francesi, e Asti e Vercelli dagli spagnoli, finché i francesi noti fossero usciti dal Piemonte.
Emanuele Filiberto acconsentì a sposare la sorella del re di Francia, Enrico II ; e dopo la celebrazione delle nozze entrò nel suo Stato, insieme a Margherita sua sposa.

La vita di Emanuele Filiberto, condottiero d'eserciti, finisce a questo punto. Adesso il guerriero cede il passo al politico, allo statista, al riformatore, al fondatore di un nuovo ordinamento del suo piccolo Stato, nel quale é pure il germe di una Italia futura. Tornato in Piemonte dopo tanti anni di lontananza e moltissimi di disordini guerreschi, qual' é l'obiettivo fondamentale del Duca? E presto detto : riconquistare tutto il suo Stato, anche quelle città che francesi e spagnoli detengono, anche quelle regioni sabaude di cui gli elvetici si sono impadroniti.
Emanuele Filiberto é serio, riflessivo, riservato nelle cose d'importanza, intorno alle quali é saggio non spendere troppe parole: ma é tenace altresì, tanto che i contemporanei lo appellano "testa di ferro", perché egli non é disposto a rinunciare al suo diritto, é restio a piegarsi alla ragione del più forte. Egli presto si accinge a trattare con la Francia lo sgombero delle città piemontesi che le truppe galliche tengono ancora occupate: ma il governo di Parigi tergiversa, cavilla, procrastina, tenta di sottrarsi all'obbligo che promana dal trattato di Cateau-Cambrésis.

Invano Emanuele Filiberto invoca l'intervento del potente alleato, il re di Spagna : anche Filippo II non ha fretta, perché anch'egli non vuole uscire troppo presto dal Piemonte, e, finché ci sono i francesi, egli ha buon gioco per farci restare i suoi spagnoli. Ma il principe sabaudo insiste, discute, ribatte con argomenti i cavilli dei francesi, fa qualche concessione, riesce finalmente, verso la fine del 1562, ad ottenere la liberazione di Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti : ma Pinerolo, Savigliano, La Perosa, restano ancora in possesso della Francia. Non importa : il Duca di Savoia ritiene che Torino riconquistata valga più d'ogni altra città, e si accinge, rientrando nella capitale del Piemonte, ch'egli fa subito fortificare, a rinnovare gli ordinamenti legislativi, militari, marittimi, culturali del suo Stato.

L'Università piemontese, che, nata a Torino nel secolo precedente, si era poi trasferita a Chieri, indi a Savigliano, per poi tornare a Torino - dove visse finché i francesi non ne soffocarono lo spirito vitale- rinacque a Mondovì, per le cure sollecite di Emanuele Filiberto, non appena questi fece ritorno nel suo Stato. Liberata Torino, fu deciso che l'Università sarebbe tornata alla sua antica sede, e questo avvenne nel 1566: e i migliori docenti vi affluirono, perché il Duca emanò un decreto con cui vietava ai suoi sudditi di dar l'opera propria fuori dello Stato, di modo che alcuni dotti piemontesi che insegnavano in altre università dovettero rientrare in Piemonte e dedicarsi in patria all'insegnamento.

La lingua italiana fu ufficialmente adottata negli atti pubblici in Piemonte. La milizia fu riordinata, con nuovi e così saggi criteri che si può ben riconoscere ad Emanuele Filiberto il grande merito di avere per primo costituito un esercito piemontese. La marina sabauda venne accresciuta, fino al numero di dieci galere, che parteciparono in seguito, comportandosi onorevolmente, ad alcune spedizioni contro i corsari musulmani e contro la flotta turca: anche alla battaglia di Lepanto, a fianco della flotta degli Stati di tutta la Cristianità.
Fu favorita l'agricoltura, soprattutto la coltivazione del gelso; l'industria; i commerci. Le finanze dello Stato esauste al massimo grado, furono riordinate e riassestate.

In mezzo a tanto fervore d'innovazioni e di riforme, Emanuele Filiberto tendeva lo sguardo costantemente al di là dei confini del Ducato. Dopo aver parzialmente conseguito il suo scopo con la Francia, s'indirizzò alla Spagna, perché sgombrasse Asti e Vercelli : ma il re Filippo, allegando la lettera del trattato, che gl'imponeva di sgombrare dopo la completa evacuazione francese, rifiutò. Rivolse allora le sue cure, Emanuele Filiberto, a trattare con Berna, Friburgo e Ginevra, la restituzione dei territori sabaudi che, durante gli anni delle guerre, le città elvetiche protestanti avevano sottratto all' autorità del duca, suo predecessore; e dopo lunghe trattative, durate cinque anni, dal 1562 al 1567, con qualche parziale rinuncia, con qualche sacrificio di denaro, il principe riebbe la massima parte degli antichi domini, fino al lago Lemano ma non Ginevra. Ginevra, la città di Calvino, la piccola Roma della più severa riforma, non doveva più tornar soggetta ai principi sabaudi; e l'ultimo tentativo, diretto alla riconquista della città del Lemano, fatto dal figlio di Ernanuele Filiberto, da Carlo Emanuele, nel 1602, doveva irreparabilmente fallire per la vigilanza dei ginevrini, che ancora oggi festeggiano, ogni anno, la loro notturna vittoria. E fu ventura che questo fosse, perché la Casa di Savoia, respinta da occidente e da settentrione, volse le sue iniziative e le sue ambizioni, sempre più, verso oriente e mezzodì : e da questa fatale inclinazione nacque la storica missione della Famiglia Sabauda, a pro dell'Italia e della sua unità.

Passarono gli anni: a re Francesco II di Francia, succedette sul trono Carlo IX, fratello del precedente. Nel 1574, morto anche questi senza prole, la successione toccò a Enrico III, re, da pochi mesi, di Polonia. S'affrettò il nuovo re dei francesi ad abbandonare la corona polacca per cingere quella più brillante ed ambita di Francia: e il viaggio di ritorno decise di farlo attraverso l'Italia. Emanuele Filiberto, fisso nel suo proposito di conseguire la liberazione del Piemonte, va ad incontrare il re a Venezia, lo accompagna fino a Torino, lo ospita degnamente, e, seguito da un folto stuolo di cavalieri, l'accompagna fino a Lione; tanta tenacia e abilità vien presto premiata dalla liberazione degli ultimi centri piemontesi ancora occupati dalle truppe del re di Francia.
E allora, nel 1575, anche il re di Spagna, dopo alcuni tentativi di prorogare l'esecuzione di quest'obbligo, acconsente alfine a far uscire da Asti e Vercelli i suoi armati.

A sedici anni dal trattato di pace; a trent'anni da quando il giovane principe andò ad offrire a Carlo V i suoi servili e la sua spada, Emanuele Filiberto vide coronato l'intento dalla sua perseverante politica. Tutto lo Stato dei suoi avi era libero ormai dalle armi straniere ! E il Duca, prima di chiudere anzi tempo la sua feconda, operosa giornata (morì il 30 agosto del 1580) poté altresì compiacersi di avere alquanto ampliato, con l'acquisto delle terre liguri di Maro, Oneglia e Tenda, lo Stato paterno, che egli aveva dovuto faticosamente riconquistare, a pezzo, a pezzo.
Questo principe é non soltanto insigne per la sua capacità guerresca, per le sue vittorie militari, per la sua provata saggezza politica all'interno dello Stato sabaudo, per i trionfi onde vide coronati i suoi sforzi e la sua tenace passione, ma anche perché in lui si annunciano i germi di quella politica nazionale che i suoi successori dovranno svolgere e far trionfare.

Egli é bensì il vincitore di San Quintino e l'alleato del re di Spagna, ma allorché ha potuto ricuperare il suo Stato, ha cura d'essere neutrale tra le opposte ambizioni francesi e spagnole; egli ha cura ormai di essere principe italiano, tutore d'interessi e di prerogative particolari italiani; egli si preoccupa in ogni momento di conservare con Venezia i rapporti più cordiali, perché intende che la libertà della Penisola può difendersi solo con la concordia dei governi non soggetti ad influsso straniero.

Ed egli coltiva nel figlio questi suoi medesimi sentimenti ; e noi vedremo in Carlo Emanuele I riaffermate queste illuminate tendenze, che la coscienza degl'italiani migliori di quel tempo - da Alessandro Tassoni a Traiano Boccalini - mostrerà di apprezzare con spirito di generosa previdenza.
Con Emanuele Filiberto, dunque, la Casa di Savoia non soltanto riconquista i suoi Stati, ma concepisce e preannunzia la sua missione d'italianità.

 

Questa biografia fu scritta nel IV centenario della nascita di Emanuele Filiberto,
seguita da una esposizione a Torino, nel maggio-giugno 1928.
Riportata nelle pagine delle Vie d'Italia, del Touring Club Italiano,
rivista n.6 giugno 1928.

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Morto Emanuele Filiberto, il duca di Savoia al figlio CARLO EMANUELE I, non ancora diciannovenne, lasciava  il trono ma  anche le tre questioni insolute e che costituivano pur sempre un grave pericolo per la sopravvivenza del Ducato Piemontese, e quindi prima di passare ad altre vicende dell'Italia dobbiamo passare all'intero periodo di questa reggenza


ed è il periodo che va 1580 al 1601 > > >

 

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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