ANNI 1630 - 1648

VITTORIO AMEDEO I DI SAVOIA  -
POI LA REGGENZA di "Madama Reale"

IL PIEMONTE ALLA MORTE DI CARLO EMANUELE I - VITTORIO AMEDEO I - PACE DI RATISBONA - TRATTATI DI CHERASCO, DI MIRAFIORI E DI RIVOLI - BATTAGLIE DI TORNAVENTO E DI MOMBALDONE - MORTE DI VITTORIO AMEDEO I - REGGENZA DI MADAMA REALE - MORTE DI FRANCESCO GIACINTO - CARLO EMANUELE II - GUERRA CIVILE IN PIEMONTE - LA DISFIDA DI CREVACUORE - ASSEDIO DI TORINO - PACE DEL 1642 - I VESPRI MONDOVITI - FINE DELLA REGGENZA

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VITTORIO AMEDEO I - TRATTATI DI CHERASCO E DI MIRAFIORI


CARLO EMANUELE I, morendo, lasciava una triste eredità al figlio Amedeo I: le casse dello stato vuote, l'esercito stanco e forse sfiduciato, il Piemonte desolato dalla carestia e dalla peste, la Savoia invasa, Pinerolo e Susa occupate. 
Continuare la guerra non era possibile, neppure con gli aiuti spagnoli e imperiali che gli erano giunti, ad un principe, che, se era prode nelle armi, era inesperto di politica. Era quindi necessario al giovane duca concludere la pace alle migliori condizioni e poi dedicare tutta la sua attività a risanare le numerose piaghe da cui era afflitto il suo stato.

Nelle condizioni in cui Vittorio Amedeo si trovava fu una fortuna per lui che anche gli altri - nemici e falsi amici- pensassero alla pace. Questa fu conclusa il 13 ottobre del 1630 a Ratisbona ai seguenti patti: il duca di Savoia doveva ricevere Trino ed altre terre del Monferrato del valore di diciottomila scudi di rendita; ai GOZAGA di Guastalla; dovevano esser dati alcuni luoghi del Mantovano del valore di seimila scudi di rendita; al duca di Nevers, ove ne avesse fatta richiesta all'imperatore, questi doveva entro sei settimane concedere l' investitura di Mantova e del Monferrato.

Lo sgombro delle truppe imperiali, spagnole e francesi dal Mantovano, dal Monferrato e dal Piemonte doveva aver luogo contemporaneamente, entro quindici giorni dall' investitura; però l' imperatore e il re di Francia dovevano lasciar presidi uno a Mantova e a Canneto sull'Oglio, l'altro a Pinerolo, Bricherasio, Susa ed Avigliana. Queste piazze dovevano essere sgombrate quando gli altri patti della pace avessero avuto esecuzione.
Inoltre l' imperatore si impegnava a ritirare le sue truppe dalla Valtellina e di abbattere le fortezze in questa valle; in garanzia avrebbe consegnato ostaggi nelle mani del Pontefice e del granduca di Toscana; la pace era estesa anche alla repubblica di Venezia alla quale erano assegnati i confini che aveva prima della guerra.

Con gli accordi di Ratisbona Vittorio Amedeo usciva dalla guerra con un guadagno di tremila scudi annui superiore a quello promesso al padre col trattato di Susa del 1629; se non che, quando nel marzo del 1631 i rappresentanti della Francia, dell' impero, della Spagna, di Torino e di Mantova si riunirono a Cherasco per chiarire gli accordi di Ratisbona nei punti che riguardavano la restituzione delle terre al Savoia e al Nevers, il Richelieu fece sapere a Vittorio Amedeo che la Francia voleva tener per sè Pinerolo e la Valle di Perosa promettendogli in cambio di fargli cedere dal Gonzaga Alba e il suo territorio e di aiutarlo contro Genova.

Queste richieste della Francia erano un'aperta violazione degli accordi di Ratisbona e certamente la Spagna e l' imperatore, se il duca, come doveva e poteva, le avesse palesate, avrebbero obbligato LUIGI XIII a ritirarle le richieste; ma Vittorio Amedeo non protestò, anzi il 31 marzo stipulò con la Francia due trattati segreti.

Con il primo, la Francia e il duca di Savoia si stringevano in una alleanza offensiva e difensiva; inoltre la Francia si impegnava di aiutar l'alleato se entro tre anni avesse mosso guerra a Genova, gli garantiva il possesso di Trino e delle altre terre avute nel Monferrato e gli prometteva di andar contro la Spagna se questa non osservava i patti di Mongon circa la Valtellina.

Con il secondo trattato, si conveniva che Pinerolo e la Val di Perosa sarebbero sempre rimasti in possesso della Francia, la quale in cambio gli avrebbe fatto cedere dal duca di Mantova, Alba ed altre terre monferrine del valore di sedicimila scudi d'oro di rendita, sborsando essa stessa al Nevers il corrispettivo in denaro. Infine se la Francia rifiutava di aiutare contro Genova il Savoia, il trattato si considerava nullo. Sino all'esecuzione dei patti Vittorio Amedeo avrebbe lasciato in ostaggio il cardinale Maurizio.

In un altro trattato segreto si stabilì che il duca di Savoia avrebbe accettato a Susa e ad Avigliana guarnigioni di Svizzeri e che vi sarebbero rimaste fino alla consegna di Pinerolo e della Val Perosa, ma, poiché il governatore di Milano si oppose, Vittorio Amedeo stipulò con la Francia un patto con il quale, oltre Pinerolo, si obbligava di consegnare Susa, Bricherasio ed Avigliana se l'imperatore non manteneva fede agli accordi riguardanti il Mantovano e la Valtellina.

Scrive Callegari: ""...Ma quando i patti contenuti nei vari trattati furono eseguiti e gli imperiali sgombrarono dall' Italia, cominciò la farsa per la restituzione di Pinerolo al Piemonte. Apparentemente la città fu ceduta al Savoia, ma poi la Francia gridò che Vittorio Amedeo era d'intesa cogli Spagnoli, che doveva darle un pegno della sua fede, cedendole Pinerolo e Perosa, mentre essa prometteva di restituire a suo tempo il deposito. Il duca di Savoia fece finta di essere indignato,  domandò consigli e si volse a destra ed a sinistra per aiuti, poi fingendo dolore, firmò un accordo a Mirafiori.

«Si stabiliva: che Vittorio Amedeo darebbe il passo alle truppe francesi, attraverso i suoi stati, verso il Monferrato; che la Francia, per difendere la persona e gli stati di Vittorio Amedeo e le terre assegnategli dal Monferrato, prometteva l'aiuto di ventimila fanti e duemila cavalli. 
Per sicurezza di tutto questo il duca dava in deposito per sei mesi la città e il castello di Pinerolo e la fortezza di Perosa a quegli stessi svizzeri che avevano poco prima presidiata Susa, con facoltà di prolungare il tempo del deposito, se le circostanze lo domandassero. Però in un articolo segreto fu dichiarato che tutti questi patti non avevano valore perché erano stati fatti per nascondere i trattati segreti di Cherasco.
« Scaduti i sei mesi di deposito, si fece sapere che la Francia, avendo bisogno di Pinerolo e di Perosa per difendere i suoi alleati italiani contro la Spagna, aveva chiesto ed ottenuto dal duca di Savoia di cambiare il deposito temporaneo di queste due piazze in cessione definitiva ed irrevocabile mediante conveniente indennità. In tal modo Vittorio Amedeo con una serie di bassi raggiri aveva ottenuto le conseguenze logiche del suo procedere, cioè aveva perduto una provincia e si era posto in balia degli altri (Callegari) ».

TRATTATO DI RIVOLI 
BATTAGLIE DI TORNAVENTO E DI MOMBALDONE 
MORTE DI VITTORIO AMEDEO I

Dai trattati di Cherasco e di Mirafiori (17 ottobre 1931) ebbero origine i dissidi sorti tra i principi della casa regnante e la servitù politica del Piemonte alla Francia durante il regno di Vittorio Amedeo I e dei suoi deboli successori. La prima fase dei dissidi tra i principi sabaudi si chiuse con la partenza di TOMASO e MAURIZIO di Savoia (i due fratelli del defunto duca Carlo), che parteggiavano per la Spagna, dal Piemonte.

Dopo gli infelici trattati del 1631 il duca di Savoia non riuscì più a liberarsi dalle spire della Francia e fare una politica indipendente. Conseguenza dei primi errori fu il trattato di Rivoli dell' 11 luglio del 1635. Con esso veniva costituita una lega offensiva e difensiva della durata di tre anni tra la Francia, il duca di Savoia e i duchi di Mantova e Parma.

I patti del trattato di Rivoli, che erano naturalmente rivolti contro la casa d'Absburgo, erano i seguenti: ognuno degli alleati doveva mettere in campo un certo numero di soldati proporzionato alle proprie forze; il contingente di truppe stabilito per il re di Francia era di dodicimila fanti e millecinquecento cavalli, quello del duca di Savoia di seimila fanti e millecinquecento cavalli; capo supremo dell'esercito alleato era il re, suo luogotenente lo stesso VITTORIO AMEDEO.
In un articolo segreto tra Francia e Savoia era stabilito che, se non si fosse compiuta l'impresa di Genova, il duca avrebbe ricevuti compensi della medesima entità di quelli promessigli coi trattati di Cherasco.
Fu inoltre stabilito che la Francia avrebbe procurato a Vittorio Amedeo il resto del Monferrato, il territorio d'Alessandria e quel tratto della Lombardia posto a destra del Ticino e del Lago Maggiore e gli avrebbe concesso il titolo regio; in compenso della perdita del Monferrato, il duca di Mantova avrebbe avuto Cremona; la Francia invece sarebbe entrata in possesso delle valli del Po e del Pellice fino a Revello e a Cavour.

Il comando supremo dell'esercito alleato in assenza del re, secondo i patti di Rivoli, doveva essere affidato a Vittorio Amedeo I, invece il maresciallo di CREQUI, comandante delle truppe francesi che scese in Italia, non voleva dipendere dal duca di Savoia. Questo fatto originò i primi attriti fra il principe sabaudo e il generale francese che si aggravarono quando si trattò di fare il piano delle operazioni militari.
Vittorio Amedeo era d'avviso che gli alleati dovessero penetrare nella Lombardia per dar la mano al ROHAN che con un altro esercito scendeva dalla Valtellina, il maresciallo di Crequi invece diceva che era meglio assediare Valenza, occupare il territorio di Alessandria, tagliare le comunicazioni tra la Liguria e la Lombardia e prendere in mezzo gli Spagnoli con l'appoggio del Rohan e di ODOARDO FARNESE.
Si impose il parere del Crequi e sul finire dell'estate del 1635 Francesi e Piemontesi andarono ad assediare Valenza sotto le cui mura giunse dopo poco il duca di Parma con cinquemila fanti e mille cavalli. Fu un assedio infelice per le rivalità tra il Savoia e il Crequi e per le numerose diserzioni dei Parmigiani. Un tentativo di sloggiare gli Spagnoli da Frascarolo fallì, Valenza riuscì a ricevere aiuti di uomini e munizioni, e l'assedio, dopo cinquanta giorni fu tolto dai due in continuo contrasto.

Allora i Piemontesi invasero il territorio di Modena, il cui duca parteggiava per gli Spagnoli; questi per costringere il nemico a ritirarsi penetrarono a loro volta nel territorio di Piacenza mettendolo a ferro e a fuoco. Essendo rimasta indifesa la linea del Ticino, i franco-piemontesi varcarono il fiume e a Tornavento diedero battaglia agli Spagnoli. Il combattimento fu  accanito con numerose perdite in entrambi eserciti, ma alla fine la vittoria arrise le truppe del duca di Savoia e del Crequi, ma l'ottennero a così caro prezzo da esser costrette a ritirarsi nel Piemonte, abbandonando la speranza di riunirsi al Rohan (22 giugno 1636).

Dopo questa battaglia la guerra in Italia procedette molto lentamente e non si ebbe nessun fatto d'armi importante per tutto il resto di quell'anno. Riprese più impetuosa però nel 1637, quando Vittorio Amedeo, ripigliando il suo primitivo disegno, alla testa dell'esercito franco-piemontese marciò alla volta di Milano. Il nemico venne a sbarrargli il passo a Mombaldone e qui l'8 settembre ebbe luogo un'accanita battaglia che procurarono alle armi del duca di Savoia la vittoria.

Fu questa l'ultima impresa guerresca di Vittorio Amedeo I: pochi giorni dopo fu colto da una malattia fatale e il 7 ottobre del 1637, dopo sette anni, due mesi ed undici giorni di regno, cessò di vivere.
Era nato a Torino nel 1597, aveva quindi soli 40 anni. (Nel 1619 ricordiamo si era sposato con la 13enne Cristina di Francia, figlia del re Enrico IV, e sorella, al momento della morte del marito, del re di Francia Luigi XIII).

Amedeo non ebbe l'accortezza politica del nonno Emanuele Filiberto, e gli fece difetto anche quella fermezza di propositi e quell' audacia di decisioni di cui tante prove diede suo padre Carlo Emanuele 
Donchisciottesco, arrogante fin che si vuole, tuttavia coraggiosa quel suo "Sebbene questi re sono grandi...io non voglio esser schiavo di nessuno".


REGGENZA DI MADAMA REALE - MORTE DI FRANCESCO GIACINTO
CARLO EMANUELE II -  - GUERRA CIVILE - LA DISFIDA DI CREVACUORE
 ASSEDIO DI TORINO - PACE DEL 1642 - I VESPRI MONDOVITI - 
FINE DELLA REGGENZA

Vittorio Amedeo I lasciava il trono al figlio FRANCESCO GIACINTO, che allora contava cinque anni. Prese così le redini del governo la madre Cristina di Francia, sorella di Luigi XIII, comunemente detta Madama Reale.
MARIA CRISTINA era nata nel 1606 ed era andata sposa -come già accennato- del duca di Savoia nel 1619, a tredici anni. Alla corte di Torino appena arrivata aveva portato la discordia, trattando male le cognate Caterina e Maria e disprezzando Margherita che era tornata nella capitale del Piemonte dopo la morte del marito duca di Mantova.

Vivace, elegante, leggera, era superba dei suoi natali e questa sua alterigia non era l'ultima causa del poco affetto che per lei avevano i sudditi. Altre cause che la rendevano invisa ai Piemontesi erano la sua politica esageratamente (e ovviamente) francofila e la sua condotta non davvero irreprensibile; difatti, mentre il marito ciecamente innamorato la credeva onestissima, la pubblica voce la diceva amante prima di un certo POMMEUSE, poi del conte FILIPPO d'AGLIE'.

Fin da quando viveva il marito, che nulla sapeva negarle, essa si era ingerita negli affari di stato e si deve a lei se Vittorio Amedeo (come abbiamo visto) diede il braccio e la sua anima alla Francia. Diventata ora reggente non si mise di certo a mutare l'indirizzo della sua politica, anzi ad accentuarla, visto che sul trono di Francia dopo il padre c'era salito suo fratello infante Luigi XIII guidato fin da giovinetto oltre che dalla reggente madre (Maria de' Medici) da un astuto cardinale.
Cristina, 33enne, dopo la morte del marito, rifiutò di unirsi in matrimonio con il cognato cardinale MAURIZIO e, guidata dal RICHELIEU, avversò costantemente sia i desideri di questo fratello di Amedeo come quelli dell'altro TOMMASO, i quali volevano che durante la minorità del nipote prendessero anche loro parte, insieme con la duchessa madre, alla reggenza.

Anche se non ce n'era bisogno, alle costole di Maria Cristina il Richelieu aveva messo un suo abilissimo rappresentante, MICHELE PARTICELLI d' Emery, di origine lucchese, il quale, insieme con il favorito della duchessa, conte d'AGLIE', era il vero capo del governo. Mercè l'opera assidua di entrambi, Madama Reale fu indotta a concludere una lega offensiva contro la Spagna, e che con una nuova guerra mise un'altra volta nei guai il Piemonte.

Il 4 ottobre del 1638 morì il piccolo duca Francesco GIACINTO e gli successe il fratello quattrenne CARLO MANUELE II. Siccome questi era gracile e malaticcio e si temeva che non potesse vivere a lungo e poiché di Vittorio Amedeo non rimanevano che tre figlie; il Richelieu mirava a far passare la corona sul capo della maggiore delle tre sorelle, la principessina LUISA; per raggiungere questo scopo il ministro francese strinse un patto con la duchessa, promettendo di mantenerla come reggente purché fossero esclusi dal governo il principe Tomaso e il cardinale Maurizio (quest'ultimo, se, fosse venuto a mancare il piccolo Carlo Emanuele aveva diritto alla successione) e venissero consegnate alla Francia la fortezza di Mommeliano nella Savoia e le principali fortezze del Piemonte.

Il principe Tomaso e il cardinale Maurizio intanto, non potendo tollerare di rimanere fuori degli affari dello stato, non se ne stavano inoperosi; quest'ultimo anzi tramava con alcuni suoi partigiani che si trovavano in Piemonte per impadronirsi di Carmagnola e di Torino cacciando fuori i Francesi che in pratica erano diventati loro i padroni.
 La congiura però venne scoperta, i principali cospiratori furono messi a morte e il cardinale, che era entrato nel Piemonte, fu accompagnato alla frontiera.

Dopo questo fatto i due fratelli, incontratisi a Vaprio e a Melegnano, stabilirono di scendere in armi contro la cognata per mezzo dell'aiuto della Spagna. Inoltre si rivolsero all'imperatore accusando la duchessa di usurpazione della reggenza. L'imperatore, in qualità di signore feudale della Savoia e del Piemonte, intimò a Maria Cristina di sciogliersi dall'alleanza della Francia e di comparire dinanzi a lui per rispondere della reggenza arbitrariamente assunta; inoltre emanò un decreto con il quale nominava tutori e reggenti del piccolo Carlo Emanuele II i due zii Tomaso e Maurizio.

Forte del decreto imperiale, alla testa di alcune schiere spagnole il principe Tomaso entrò in Piemonte, accolto da una buona parte delle popolazioni come un liberatore, ed occupò Chivasso, Ivrea, Biella, Aosta ed Asti. 
Ovviamente nei territori che erano ormai comunicanti, il Piemonte venne invaso dalle soldatesche francesi da una parte, e dalla vicina Lombardia da quelle spagnole. Le prime  parteggianti per la duchessa, le seconde per i due principi sabaudi. 
Ma oltre i due belligeranti, anche il popolo si divise in due campi e sorsero così due fazioni che si chiamarono dei madamisti e dei principisti. Era scoppiata insomma la guerra civile.

Come la guerra tra Francesi e Spagnuoli nell' Italia meridionale ebbe nel 1503 la disfida di Barletta, così questa guerra piemontese, che finì di prostrare la regione in cui infuriò, ebbe una disfida tra i soldati francesi che militavano sotto il maresciallo GASSION e i soldati italiani di OTTAVIO PICCOLOMINI duca d'Amalfi che era al servizio del principe TOMASO di Savoia.
I patti furono che trenta soldati francesi combattessero contro altrettanti italiani a tutta oltranza. Si scelse come campo di battaglia la pianura di Crevacuore, presso il Ticino. 
I capi delle due squadre furono lo stesso maresciallo GASSION della francese, il romano conte ALTIERI dell'italiana. Ancora una volta la presunzione francese venne ridimensionata dalle punte delle spade degli "italiani" in un fiero combattimento che ebbe luogo il 31 agosto del 1638.

Ecco come MESSERE MILIONE nella sua Storia del 1638 descrive la battaglia:
""... Si venne alle mani e al primo scontro, che fu furioso, l'Altieri fu ferito alla pancia; ma non scese da cavallo e così ferito continuò a battersi, a guidare i suoi, a incitarli con l'esempio. Gli italiani, sempre serrati e compatti, sostenevano bravamente la battaglia; gli ordini francesi erano rotti; il combattimento seguiva alla spicciolata: gli Italiani che vedevano arridere alle loro armi incalzando per la vittoria, i Francesi per la disfatta della quale vedevano i primi indizi. Già alcuni francesi erano a terra, già altri si arrendevano; mentre dalla parte italiana erano quasi tutti in piedi; pochi minuti e la vittoria era completa. Quando all'improvviso alcuni soldati delle squadre del Gassion, spettatrici della lotta, si lanciarono nel campo e attaccarono gli Italiani.

"A questa brutta violazione dei patti stabiliti si sollevarono immensi clamori nelle truppe del Piccolomini spettatrici; ma né le grida né gli incitamento valsero a far desistere i nuovi combattenti nell'azione, che anzi altri francesi varcarono i limiti del campo e davano addosso ai campioni italiani. Allora quelli delle truppe del Piccolomini seguirono l'esempio dei Francesi, accorrendo in aiuto dei loro compagni; il combattimento di pochi, man mano crescendo, stava per diventare una battaglia generale. Videro il grave pericolo i capi dei due eserciti ad accorsero. Dalla parte italiana accorse lo stesso principe Tommaso di Savoia, sotto gli ordini del quale militava il Piccolomini. Si lanciarono tutti in mezzo ai combattenti, ed affrontando gravissimi pericoli fra gli uni esasperati dalla vittoria che si vedevano strappare di mano e gli altri esasperati dalla sconfitta, riuscirono, dopo molta fatica, a far cessare l'azione.
Ma non è a credere che i Francesi si mostrassero prostrati da quell'avvenimento, anzi non tardarono molto a trovare una pretestuosa formula per illudersi. La vittoria non era di nessuno perchè -dissero- il combattimento delle squadre non era stato terminato. Ma giustizia vuole che il più indignato contro i Francesi fosse lo stesso maresciallo Gassion, il quale in termini precisi energici e propri del soldato d'onore, inviò manifeste scuse al Piccolomini per il vergognoso comportamento dei suoi soldati..."".

Intanto continuava la guerra civile, con poca fortuna delle armi della reggente, la quale per potere resistere ai cognati, si rivolse per aiuto al Richelieu, ma l'astuto ministro francese volle trarre profitto dalle condizioni in cui la duchessa si trovava e chiese che venissero consegnate in custodia alla Francia alcune fortezze e fosse inviato come ostaggio a Parigi il piccolo duca Carlo Emanuele II.

Il 29 luglio del 1639 il principe Tomaso pose l'assedio a Torino, che avrebbe potuto opporre una lunga resistenza se alcuni ufficiali della guarnigione e un figlio naturale di Vittorio Amedeo che comandava le guardie di Maria Cristina fossero rimasti fedeli alla reggente.
Presa la capitale, Tomaso fece proposte di accordo, ma la cognata, che non voleva cedere alla forza, le respinse e, lasciato il figlio nella fortezza di Mommeliano, si recò in Francia a Grenoble per incontrarsi con Luigi XIII, dal quale sperava aiuti e patti migliori di quelli che voleva imporle il Richelieu.

Riuscito infruttuoso il viaggio della reggente la guerra continuò, ma le armi del principe Tomaso, fino allora vittoriose, in una battaglia combattuta contro l'esercito nemico, comandato dal conte di HARCOURT, al ponte della Rotta, presso Santena, vennero disfatte. Si  iniziarono, nel novembre del 1639, negoziati di pace, si propose di unire in matrimonio il cardinale Maurizio con la principessa Luisa, figlia infante della reggente, ma le trattative non approdarono a nulla e le operazioni di guerra furono ricominciate.

Torino, come abbiamo detto, era stata occupata da Tomaso di Savoia, ma la cittadella, era tuttora occupata. dai Francesi. Nel marzo del 1640 l' Harcourt corse in aiuto dei suoi connazionali e pose l'assedio a Torino, ma a sua volta venne assediato da un esercito spagnolo comandato da don DIEGO FILIPPO di GUZMAN marchese di Leganes.

Dopo parecchi mesi d'assedio, furono intavolate trattative fra l'Harcourt e il principe Tomaso che, continuate con Richelieu, condussero ad un accordo concluso il 2 dicembre del 1640. 
Nel patto si conveniva che Tomaso di Savoia si sarebbe messo sotto la protezione della Francia e sarebbe tornato con la famiglia in Piemonte; Luigi XIII avrebbe restituito a Carlo Emanuele II le piazze occupate, avrebbe allontanato dallo stato sabaudo il Conte Filippo d'Agliè, avrebbe riconosciuta ed assicurata la successione maschile della casa di Savoia e si sarebbe adoperato a conciliare Maria Cristina col cognato.

La pace però durò poco perché il principe TOMASO tornò nuovamente in amicizia con la Spagna e così la guerra tornò a desolare un'altra volta il Piemonte. 
In questa nuova ripresa la fortuna delle armi arrise alla duchessa, la quale scacciò i cognati da tutte le terre occupate salvo che da Nizza, Ivrea, Biella, e Val d'Aosta. Ma la reggente era stanca della lotta, si era finalmente accorta del danno che derivava di essere il suo uno stato dipendente della Francia, e in quanto al dissidio con i principi cognati si era persuasa che solo con un accomodamento equo con questi ultimi si poteva concludere una pace duratura.

La disposizione di Maria Cristina e la mediazione del nunzio pontificio monsignor Cecchinelli resero possibile la conclusione della pace che venne firmata il 14 giugno del 1642. I patti erano i seguenti: la reggenza dello stato e la tutela di Carlo Emanuele II sarebbero rimaste nelle mano di Madama Reale, però i principi Maurizio e Tomaso avrebbero avuto il diritto d'intervenire nel consiglio della Corona; inoltre il primo sarebbe stato eletto luogotenente della contea di Nizza e il secondo luogotenente di Ivrea e Biella con il comando di duemila fanti e mille cavalli. La luogotenenza sarebbe durata fino alla maggiore età del duca; Maurizio avrebbe sposato la principessina Luisa (che era la sua giovanissima nipote); Luigi XIII avrebbe riconosciuta la successione maschile nella casa sabauda, e preso sotto la sua protezione i principi di Piemonte e restituite le piazze non appena la Spagna avesse fatto lo stesso; infine i principi sarebbero entrati al servizio del re di Francia, e Tomaso avrebbe combattuto per lui in Italia contro gli Spagnoli finché non avessero sgomberate le piazze del Piemonte.

Con questa pace terminò la guerra civile in Piemonte che era durata circa cinque anni. Alcuni mesi dopo il principe Tomaso ottenne dalla Spagna la restituzione di Crescentino, Nizza della Paglia, Acqui e Tortona e l'anno seguente, morto Luigi XIII, Maria Cristina ebbe, tramite l'opera avveduta del suo ambasciatore abate SCAGLIA, dalla Francia la restituzione di Savigliano, Chivasso e Villanova d'Asti.

L'anno seguente questo apparente quieto vivere venne funestato dai famosi VESPRI MONDOVITI. Cinquemila Francesi spadroneggiavano da alcuni anni a Mondovì, malgrado la conclusione della pace. La popolazione della città, non potendo più tollerare le rapine e le violenze di quei soldati, decisa a vendicare il proprio onore e la propria libertà, il 21 aprile del 1644 insorse contro i francesi al grido di Mondovì ! Mondovì ! e ne fece un macello. Dei cinquemila francesi soltanto pochi riuscirono a salvarsi con la fuga.
Questo fatto però non turbò le relazioni tra la Francia e il ducato di Savoia, anzi, un anno dopo, il 3 aprile del 1645, veniva conclusa al Valentino tra i due stati una lega offensiva e veniva decisa la restituzione di Torino, Asti, Carmagnola, Demonte, Lauset e Santhià.

Con lo sgombero dei Francesi da Torino, CARLO EMANUELE II (11enne) poteva finalmente, dopo più di quattro anni di assenza, fare ritorno nella sua capitale. Il figlio di Vittorio Amedeo fece il suo ingresso a Torino l' 8 aprile, accolto con grandi manifestazioni di affetto della popolazione, la quale mostrava chiaramente quanto desiderasse che passassero gli ultimi tre anni di reggenza e fosse lo stato retto direttamente dal suo legittimo duca.
Man mano che si avvicinava il termine del governo della reggenza, si ridestavano i dissidi tra i cognati e la duchessa perché questa non osservava i patti del 1642 e governava in modo così autoritario e assoluto da costringere il principe Tomaso a chiedere la convocazione degli Stati Generali.

Il dissidio ebbe un momento di sosta quando il ministro francese Mazarino (successo al Richelieu fin dal 1642) mandò con  una flotta e un corpo di milizie il principe Tomaso a conquistare in Toscana lo Stato dei Presidii e a ridestare la rivoluzione nel napoletano.

Dell'assenza del principe del Piemonte approfittò Maria Cristina per togliere al cognato la luogotenenza d' Ivrea. La sera del 15 giugno del 1648 la corte ducale, facendo mostra di recarsi ad una partita di caccia, partì da Rivoli e la mattina dopo giunse improvvisamente ad Ivrea. 
Tredici giorni dopo, il 29, il Consiglio segreto di Stato dichiarava terminata la tutela del duca e Carlo Emanuele II riebbe nelle sue mani la città di Ivrea.
Con questo colpo di scena aveva fine il governo della reggenza che tanto sventurata era stata per il Piemonte. Ma la ingerenza di Madame Reale non è che era finita, né il figlio, cercò -lieto di potersi dedicare alla vista spensierata- mai di sottrarsi nei successivi 16 anni, cioè fino a quando la madre morì; e che lui, pochi anni dopo seguì nel sepolcro.


Come accennato sopra,  il giovane 14enne duca non riuscì mai sottrarsi 
né dall'autorità materna, né, fino alla morte (prematura anche la sua, a 41 anni) 
dalla quasi completa dipendenza del re di Francia Luigi XIV.

ed è il periodo che va dal 1648 al 1697 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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