LA GUERRA ASIATICA - MORTE DI ANNIBALE E SCIPIONE

ANTIOCO III DI SIRIA E ROMA - ANNIBALE E GLI ETOLI SPINGONO ANTIOCO ALLA GUERRA - GLI ETOLI INIZIANO LE OSTILITÀ - ANTIOCO IN GRECIA - GLI OZI DI CALCIDE - BATTAGLIA DELLE TERMOPILI - LA GUERRA ASIATICA - BATTAGLIE DI CISSONTE, DELL' EURIMEDONTE E DI MIONNESO - LUCIO SCIPIONE SCONFIGGE ANTIOCO A MAGNESIA - ASSETTO DELL'ASIA - SPEDIZIONE CONTRO I GALATI -SOTTOMISSIONE DEGLI ETOLI - MORTE DI ANNIBALE - ESILIO E MORTE DI SCIPIONE L'AFRICANO -IL PROCESSO CONTRO LUCIO PUBLIO SCIPIONe
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ANTIOCO III, RE DELLA SIRIA, e ROMA

Tre anni dopo della fine della prima guerra macedonica (che abbiamo narrato nel precedente capitolo) ebbe inizia la guerra asiatica contro Antioco III re della Siria.
Sebbene fosse amico ed alleato di Roma, Antioco non vedeva di buon occhio i rapporti di amicizia che legavano la repubblica a Rodi, al regno di Pergamo ed all'Egitto e non tralasciava nessuna occasione per danneggiare gli amici dei Romani.
Roma, impegnata contro i Galli e contro FILIPPO di Macedonia, non voleva tirarsi addosso il peso di un'altra guerra, e all'amico ATTALO che si lagnava con il Senato delle molestie di ANTIOCO e chiedeva soccorsi rispondeva di non potere agire ostilmente contro il re della Siria, con il quale era legato da vincoli di amicizia; adoperava con lui una saggia politica di pazienza, ma il contegno di Roma fu interpretato da Antioco come debolezza o timore.
Credendo che Roma non avesse animo o forza di nuocergli ed ostacolarlo nei suoi disegni, nel 198, ANTIOCO III il GRANDE, RE di SIRIA mosse guerra all'Egitto; occupa la città di Gaza, al confine con la penisola del Sinai, gli strappa con le armi la Celesiria (200 a.C.)
Altri scrivono che ciò avvenne nel 198 con la battaglia di Panion, in Palestina; Antioco sconfisse Scopa, generale greco di Tolomeo V, cui sottrasse la Palestina

Poi, passato l'Ellesponto, Antioco ridusse in suo potere parecchie città della Tracia e si accinse a ricostruire la città di Lisimachia, rasa al suolo dai barbari del nord.

Sottomessa la Macedonia, conclusa la pace con Filippo e dato assetto alla Grecia, Roma mutò improvvisamente il contegno che fino allora aveva tenuto verso Antioco e gli spedì in Lisimachia, dove il re si trovava, dieci ambasciatori perché lo inducessero a restituire i territori sottratti a Tolomeo e a Filippo e a non occuparsi più delle cose d'Europa.

La conferenza tra i legati romani e quelli di Siria fu interrotta dall'improvvisa notizia della morte di TOLOMEO, e che Antioco approfittandosi aveva messo in mare una flotta diretto verso l'Egitto; ma ben presto la notizia si scoprì esser falsa e fu ripresa la conferenza.
A capo della legazione romana era questa volta TITO QUINZIO FLAMININO, il vincitore della guerra macedonica, il quale parlò senza sottintesi e con quella energia di cui sempre aveva fornito prova. Ma Antioco rispose che la vertenza con l'Egitto era ormai superata avendo data in moglie al re Tolomeo la sua figliuola CLEOPATRA, e riguardo alle città del Chersoneso e della Tracia egli le aveva avute dal suo bisavolo Seleuco, vincitore di Lisimaco, erano state perse e lui le aveva riconquistate strappandole ai Traci; inoltre disse infine, che per quel che riguardava l'Asia i Romani non avevano nessun diritto di occuparsene né di interessarsene.

Dopo questa altezzosa risposta non poteva Roma, senza compromettere il suo prestigio ed i suoi interessi, non venire ad una guerra.
Ed alla guerra si preparava pure ANTIOCO, arruolando milizie, armando navi, stringendo alleanze con i Galati, con Ariararte re di Cappadocia, al quale aveva dato in sposa un'altra sua figlia, e con i principi e le città della Grecia, spinto anche da un irriducibile nemico dei Romani: da Annibale.

ANNIBALE E GLI ETOLI SPINGONO ANTIOCO ALLA GUERRA

Annibale, dopo la sconfitta toccata a Zama, con seimila e cinquecento veterani si era rifugiato a Cartagine, aveva consigliato il Senato a concludere la pace con Roma, poi, essendo l'uomo più influente della fazione dei Barcidi che aveva allora il potere, prese nelle sue mani le redini del governo.
Desideroso di giovare alla patria e di sollevarla dalle tristissime condizioni in cui versava, Annibale aveva prima rivolto le sue cure a ristorare le finanze della repubblica ed era riuscito a trovare nelle medesime entrate di Cartagine i cespiti occorrenti al pagamento del tributo di guerra senza aggravare i cittadini con nuove imposte. Ma le sue idee democratiche in aperto contrasto con quelle degli avidi oligarchi e la sua maniera di governo che mirava soltanto al bene della patria travolgendo, se occorreva, gl'interessi dei privati, lo avevano reso inviso a tutti coloro che anteponevano gl'interessi propri al supremo interesse della repubblica.
Questi si erano accorti che con la sua politica Annibale mirava a ridar potenza alla patria per lanciarla di nuovo contro Roma in una guerra di rivincita, ed animati com'erano da gretto egoismo e da un eccesso desiderio di tranquillità, non si erano vergognati di avvisare i Romani delle intenzioni del loro concittadino, provocando a Roma l'invio a Cartagine di una commissione, composta da CAJO SERVILIO, MARCO CLAUDIO MARCELLO E QUINTO TERENZIO CULLEONE.
Non desiderando di essere consegnato nelle mani dei Romani, era partito di nascosto (anno 195 a.C.) da Cartagine per una sua terra fra Adrumeto e Tapso, di là era passato con una nave nell'isola di Cercina, donde si era recato prima a Tiro, poi ad Antiochia e ad Efeso dove era stato amichevolmente accolto da Antioco.
Da allora, il fiero cartaginese non aveva cessato un istante di consigliare il re di Siria a muover guerra ai Romani, offrendosi anche di passare in Italia alla testa di un esercito.
Antioco aveva prestato volentieri orecchio ad Annibale ed aveva spedito a Cartagine un emissario per crearvi un'atmosfera favorevole alla guerra contro Roma; sospettando poi di Annibale dopo avere appreso che aveva avuto dei colloqui segreti con certi ambasciatori romani giunti a Efeso, lo aveva tenuto lontano da sé.
Pur non sapendo come muovere contro Roma, Antioco non aveva cessato di accarezzar l'idea di quella guerra, alla quale altri lo spingevano gli Etoli, che avevano avuto miglior fortuna dell'esule cartaginese.
Gli Etoli avevano sperato, dopo la sconfitta di Filippo, di diventare i padroni della Grecia e non essendovi riusciti per il fermo contegno di Flaminino erano divenuti i peggiori nemici di Roma ed avevano cercato di spingere contro i Romani, NABIDE tiranno di Sparta, Filippo di Macedonia e Antioco. Al re della Siria avevano fatto credere, per farlo decidere a rompere gl'indugi, che la Grecia lo aspettava come liberatore, e Antioco aveva risposto che sarebbe presto partito per "liberarli".

Sicuri del prossimo arrivo del sovrano della Siria, gli Etoli erano cresciuti in sfrontatezza e quando FLAMININO, mandato in Grecia, aveva chiesto conto del loro contegno ostile a Roma, avevano arrogantemente risposto che presto gli avrebbero dato conto della loro condotta sulle rive del Tevere.

E alle parole avevano fatto seguire i fatti. Favoriti dal fuoruscito EURILOCO, si erano impadroniti di Demedriade, città della Tessaglia; avevano tentato per mezzo d'insidie di ridurre in loro potere Calcide senza però riuscirvi; né era loro riuscito a prendere Sparta. Su quest'ultima avevano inviato nel 192, ALESSAMENE con mille uomini fingendo di voler con queste milizie aiutare Nabide a riconquistare i territori della Laconia sottrattigli da Flaminino. Penetrati in città gli Etoli avevano invece ucciso il re e si sarebbero impadroniti di Sparta se gli abitanti, corsi alle armi, non li avessero sconfitti e ricacciati, affidandosi poi a FILOPEMENE, generale degli Achei, nella cui lega furono ammessi, perdendo però la loro indipendenza.

ANTIOCO IN GRECIA

Nell'autunno dello stesso anno 192 a.C. Antioco con trecento navi, da guerra e da carico, diecimila fanti, cinquecento cavalli e sei elefanti passò in Grecia. Conduceva un esercito così esiguo credendo di trovare la Grecia tutta in armi schierata con lui, e invece solo gli Etoli e qualche altro popolo avevano fatto dei preparativi di guerra. Cercò all'inizio di trovare alleanze, poi si mosse contro Calcide che riuscì a ridurre in suo potere e di là passò in Tessaglia occupando Fere, Scotussa, Cranone, Cipera e Metropoli, mentre il suo alleato Aminandro con le schiere degli Atamani prendeva Pellineo e gli Etoli si impadronivano di Mallea e Cirezia.
Ottenuti questi successi, Antioco marciò contro Larissa, ma, appreso dell'avvicinarsi di un esercito romano comandato da APPIO CLAUDIO, levò il campo e si ritirò prima a Demedriade e poi a Calcide.
Qui Antioco si innamorò perdutamente della giovane figlia del Calcidese Cleotolemo e, sebbene tra lui e lei ci fosse una grande disparità di anni e di condizione, la sposò, poi passò l'inverno in conviti, bagordi e mollezze, imitato da tutto il suo esercito.
Correva l'anno 191, quando i Romani iniziarono le operazioni di guerra contro Antioco. Marco Bebio e Filippo il Macedone, uniti i loro eserciti, scesero in Tessaglia, presero Pesto, Mallea, Fano, Cirezia, Erizia, Egio, Argissa, Gonfi, Trica, Melibea e assediarono Pellineo dove si trovava Aminandro con i suoi Atamani.
In questo frattempo sbarcava in Grecia il console MANIO CECILIO GLABRIONE, con diecimila fanti, duemila cavalli e quindici elefanti, conducendo con sé in qualità di luogotenenti i consolari MARCO PORCIO CATONE e LUCIO VALERIO FLACCO.
Dopo una rapida marcia il console occupò Limnea e Pellineo, ridusse in suo potere tutta l'Atamania, facendo prigionieri oltre tremila Atamani, e, dopo un breve riposo a Larissa, costringeva alla resa, Cranone, Farsalo, Scotussa, Fere e Taumasto.
Antioco si trovava allora a Calcide. Rinforzato da truppe giuntegli dall'Asia ed ottenuto dagli Etoli un aiuto di quattromila uomini, cercò di fermare l'esercito romano alle Termopili, la stretta che guarda la Grecia, famosa per la battaglia sostenutavi da Tebani e Spartani e per l'eroica morte di Leonida.
Ordinò pertanto agli Etoli di presidiare il monte Oeta, alle cui falde egli schierò il suo esercito, e sostenne l'urto delle truppe consolari. La battaglia, data la fortissima posizione dei luoghi, non avrebbe forse avuto il risultato che ebbe, se gli Etoli avessero eseguito fedelmente gli ordini del re di Siria; di loro, una parte rimase ad Eraclea per essere pronta a saccheggiare il campo romano durante il combattimento e per esser più presta a passare in Etolia se il nemico vinceva; gli altri sul monte Oeta non fecero buona guardia e, sorpresi dalle schiere di PORCIO CATONE, furono sgominati e ricacciati.
In tal modo l'esercito di Antioco, assaltato alle spalle da Catone mentre combatteva contro le truppe del console, subì una durissima disfatta. Di diecimila uomini, quanti erano al principio della battaglia, soli cinquecento con Antioco riuscirono a salvarsi, fuggendo, in Calcide, dove poi il re s'imbarcò per Efeso.

La Grecia rimase alla mercé dei Romani. Occupata Calcide e sottomessa la Beozia, il console mosse contro Eraclea difesa dagli Etoli e con l'esercito diviso in quattro gruppi, comandate da LUCIO VALERIO, SEMPRONIO LONGO, MARCO BEBIO ed APPIO CLAUDIO, tenne assediata la città per ventiquattro giorni; infine la prese d'assalto e fece prigionieri i superstiti della guarnigione, fra cui quel Damocrito che a Quinzio Flaminino aveva affermato che avrebbe reso conto dell'operato degli Etoli sulle rive del Tevere.
Ridotti a mal partito, gli Etoli domandarono la pace, ma non ottennero che una breve tregua.

LA GUERRA ASIATICA
BATTAGLIA DI CISSONTE, DELL'EURIMEDONTE E DI MIONNESO


Tornato in Asia, ANTIOCO consigliato da Annibale cominciò a prepararsi per difendere il suo regno.
La guerra contro di lui intanto prendeva proporzioni più vaste, entrando in azione la flotta romana spalleggiata dalle armate degli alleati d'Oriente.
Comandante della flotta era il pretore CAJO LIVIO, il quale con un centinaio di navi, di cui settantacinque romane, il resto di Cartagine, di Reggio e di Locri, toccato Corfù e saccheggiate Zacinto e Samo, si era portato dentro al porto del Pireo.
Di qui Livio veleggiò verso Delo, poi verso Chio, dove fu raggiunto dai soccorsi navali di EUMENE II re di Pergamo e dai Rodiesi.
La flotta nemica, comandata da Polissenide, si trovava a Cissonte, presso Corico. All'avvicinarsi delle navi romane, essa si schierò in ordine di combattimento, tenendo l'ala destra vicino alla costa.
Polissenide era con la nave ammiraglia alla sinistra dell'armata asiatica e, poiché le navi romane non erano ancora tutte riunite e disposte in battaglia, gli riuscì ad avere il sopravvento sulle navi dell'avanguardia nemiche. Fu però un effimero successo perché, sopraggiunto Cajo Livio con il grosso dell'armata, l'ala sinistra nemica fu messa in poco tempo allo sbaraglio, e uguale sorte toccava alla destra intensamente assalita dalle navi di Eumene.
In quella giornata dieci navi asiatiche furono colate a picco e tredici catturate; il resto riuscì a riparare a Efeso.

Qualche mese dopo però POLISSENIDE, approfittando dell'assenza di LIVIO che con l'armata romana aveva fatto vela per l'Ellesponto, si prese la rivincita a spese della piccola flotta di Rodi e più con l'inganno che con il valore delle armi la distrusse quasi tutta nelle acque di Samo. In quella battaglia morì PAUSISTRATO, valorosissimo capo dell'armata di Rodi.
Appresa la notizia della rotta degli alleati, CAJO LIVIO s'affrettò a ritornare, ma era troppo tardi, poiché Polissenide si era messo già al sicuro nel porto di Efeso.
Della sconfitta a Samo si rifece non molto tempo dopo una nuova flotta di Rodi, la quale affrontò alla foce dell'Eurimedonte, a Side, l'armata di Antioco comandata da Annibale e da Polissenide e la sbaragliò.

A questa vittoria un'altra ne seguì nel medesimo anno (190 a.C.) presso il promontorio Mianneso. La flotta romana era composta di ottanta navi, delle quali ventidue appartenevano alla repubblica di Rodi, ed aveva il comando EMILIO REGELLO, successore di Livio; novantatre erano i navigli nemici. Fu questa la più importante tra le battaglie navali combattute durante la guerra asiatica per le perdite subite dalla flotta di Antioco; ventisette navi colarono a picco e tredici le lasciò in mano ai Romani.
Dopo la battaglia del Mionneso, Roma rimase padrona incontestata del mare e la guerra continuò per terra.

BATTAGLIA DI MAGNESIA

A continuare le operazioni contro Antioco ed a portare le armi in Asia fu nel 189 scelto il console LUCIO CORNELIO SCIPIONE, al quale, in qualità di luogotenente e forse anche per giovargli con la sua preziosa esperienza e il suo provato valore, volle spontaneamente aggiungersi il fratello, SCIPIONE L'AFRICANO.
Le vittorie navali dei Romani avevano consigliato Antioco ad abbandonare Lisimachia e il Chersoneso tracico, nella speranza che i Romani, vedendo sgombra di eserciti della Siria l'Europa, non oltrepassassero il mare.
Ma s'ingannò, anzi lo sgombro, facilitò alle armi della repubblica il passaggio dell'Ellesponto, trovatolo sguarnito di difensori, riuscirono in poco tempo a toccare la costa asiatica.
Dopo l'Africa, Roma sbarcava in Asia!

Il re di Siria, che allora si trovava a Sardi, volendo a tutti i costi evitare che la guerra avesse la sua continuazione in Asia, si affrettò a spedire ambasciatori al console per trattare la pace a condizioni che ad Antioco sembravano vantaggiosissime per Roma.
Dichiarava, infatti, di esser disposto a pagare metà delle spese di guerra, a cedere alla repubblica romana tutti i territori che possedeva in Europa e quelle città dell'Asia Minore che desideravano passare sotto la signoria di Roma.
Si narra che ERACLIDE di Bisanzio, ambasciatore del re di Siria, tentasse di corrompere Scipione - con una gran somma di denaro e il condominio del regno escluso il titolo di re- nella speranza che facesse accettare dal fratello le proposte condizioni e gli promettesse la restituzione del figlio che era caduto, non si sa bene come, prigioniero d'Antioco.
Ma l'africano rispose - "Io riceverò mio figlio per dono grandissimo della munificenza reale; delle altre cose possano gli dèi non farmi mai aver bisogno. L'animo mio certamente non ne avrà mai desiderio. Ad Antioco io sarò grato se lui accetterà la gratitudine privata per un benefizio privato. Quanto al pubblico, non riceverò da lui né gli darò cosa alcuna. Quel che ora gli posso dare è un amichevole consiglio: va' e di' al re da parte mia che cessi la guerra e non rifiuti le condizioni di pace che gli saranno imposte".

E le condizioni furono: pagare tutte le spese di guerra; lasciare libere le città della Jonia e dell'Eolide; cedere tutta la regione a nord del Tauro.
Antioco, era da prevedersi, rifiutò queste durissime condizioni ed affidò le sorti del suo regno alle armi.
La grande battaglia, che doveva segnare l'inizio della dominazione romana in Asia, fu combattuta di lì a poco alle falde del monte Sipilo nella valle dell'Ermo dove sorgeva la città di Magnesia (Lidia).
L'esercito di Antioco era composto di sessantamila fanti e dodicimila cavalli. Il campo fu circondato da un fosso largo e profondo, munito esternamente di un resistente steccato e fortificato all'interno da un muro e da torri. L'esercito romano non superava i trentamila uomini. Scipione andò ad accamparsi a quattro miglia di distanza e al passaggio del fiume avvennero alcune scaramucce di cavalleria; poi seguì una settimana circa di calma, dovuta alla titubanza di Antioco, il quale forse sperava ancora che la contesa potesse esser decisa pacificamente.
Ma, quando s'accorse che il nemico desiderava la battaglia, fidandosi nella superiorità numerica del suo esercito, accettò il combattimento cui i Romani lo provocavano.
Lo schieramento dell'esercito di Scipione fu il seguente: all'ala sinistra, che era protetta dal corso dell'Ermo, alcune schiere di cavalieri; al centro due legioni romane fiancheggiate da due legioni italiche, disposte su due ordini: avanti gli astati, dopo i principi; l'ala destra era costituita da fanti Achei e Cretesi e Pergameni armati alla leggera, comandati da EUMENE II re di Pergamo successo ad Attalo, da ottocento cavalieri di Pergamo e duemila e duecento romani.
I triari formavano la retroguardia e tra questi e i principi erano sedici elefanti. Duemila volontari della Tracia e della Macedonia furono lasciati alla custodia del campo.
Antioco pose al centro del suo schieramento sedicimila falangiti, rafforzati da ventidue elefanti asiatici reggenti torri di legno; all'ala destra mise millecinquecento fanti Galati e tremila fanti loricati, fiancheggiati da un migliaio di cavalieri scelti della Media e seguiti da sedici elefanti. L'estremità della destra era costituita dalla guardia del re, armati di scudi d'argento, da milleduecento arcieri di Scizia a cavallo, da tremila fanti armati alla leggera, duemilacinquecento soldati di Misia e quattromila tra frombolieri cirtei ed arcieri elimei. Formavano l'ala sinistra millecinquecento fanti Galati, duemila pedoni di Cappadocia, millesettecento fanti di varia nazionalità, quattromila cavalieri loricati, e i cavalieri del re, reclutati nella Siria, nella Frigia e nella Lidia, un reparto di carri falcati, una schiera di arcieri arabi montati su dromedari. Chiudevano l'ala sinistra duemilacinquecento Galati, mille Nocreti, millecinquecento soldati di Caria e di Cilicia e altrettanti Tralli, tremila cetrati di Pisidia, di Panfilia e di Licia, quattromila arcieri e frombolieri elimei e cirtei e sedici elefanti.
Aveva il comando della destra ANTIOCO, quello della sinistra il figlio SELEUCO ed ANTIPATRO, quello del centro MINIONE e ZEUSIDE. FILIPPO comandava i cinquantaquattro elefanti.
Era così ampio lo spiegamento dell'esercito di Antioco che il centro non distingueva le ali e queste non si vedevano tra loro.
Antioco faceva grande assegnamento sui carri falcati, che dovevano aprire la battaglia e sfondare il fronte romano, ma i primi all'inizio e gli elefanti poi furono una delle cause della sua disfatta.
EUMENE, infatti, che era pratico dei carri di combattimento, ordinò agli arcieri e frombolieri a cavallo di assalire in ordine sparso il reparto dei carri e di saettare gli animali da cui erano trainati. L'assalto fu cosi irruente e così fitto il lancio delle saette, che i cavalli, feriti, e spaventati, fuggirono scompigliando gli armati alla leggera e i dromedari, lasciando così scoperta la cavalleria pesante dell'ala sinistra asiatica, la quale, assalita dalla cavalleria romana, non riuscì a sostenere, da sola l'urto e parte fu tagliata a pezzi, parte messa in fuga.

Lo sbaraglio dell'ala sinistra scoprì il fianco dei falangiti e portò fra loro un certo disordine, di cui approfittarono le legioni romane, le quali, sbigottite dagli elefanti, diedero di cozzo contro il centro avversario e, aiutati dalla cavalleria di Eumene che lo aveva preso alle spalle, lo scompigliarono.
Non sapendo della sconfitta del centro e della sinistra, Antioco, approfittando delle poche forze che costituivano la sinistra romana, l'avviluppò dal lato del fiume e messa in fuga la inseguì fino agli accampamenti. Fu una fortuna per Romani che il campo era ben difeso da MARCO EMILIO, figlio di Marco Lepido, guerriero valoroso ed energico. Questi con i suoi duemila volontari costrinse i fuggiaschi a tornare alla battaglia e lui, rafforzato da una schiera di cavalli condotti da Attalo, fratello di Eumene, affrontò Antioco e lo mise in fuga.
Un'ultima, disperata resistenza gli asiatici la fecero dopo aver raggiunto il proprio campo, ma questo poi fu attaccato, espugnato e dei difensori fatto un macello.
Secondo TITO LIVIO quel giorno nell'esercito di Antioco, perirono quarantamila fanti e quattromila cavalieri; catturati quattrocento cavalli e quindici elefanti.
Antioco, fuggito con circa diecimila dei suoi soldati, riparò prima a Sardi poi ad Apamea.
Dopo la vittoria di Scipione si arresero le città di Tiatira, Magnesia, Spilo, Sardi, Efeso e parecchie altre.
Ad Antioco non restava altro da fare che chieder pace, e la chiese. Le condizioni che gli furono imposte -alla cosiddetta "pace di Apamea" del 188 a.C., erano le medesime che poco tempo prima lui non aveva voluto accettare. In più doveva mantenere l'esercito romano fino alla ratifica della pace, doveva pagare come indennità di guerra quindicimila talenti in dodici anni, cedere tutti gli elefanti e le navi escluse dieci, obbligarsi a non metter più piede nelle terre di dominio romano o in quelle alleate di Roma, consegnare Annibale e Toante, che aveva istigato gli Etoli ed Antioco contro Roma, e fornire dieci ostaggi fra cui il proprio figlio minore.

Antioco accettò le dure condizioni che gli toglievano circa metà, del regno. I Romani conseguono l'egemonia del mar Mediterraneo orientale.
Poco tempo dopo ANTIOCO morì ad Elimaide, lapidato dagli abitanti di quella città dove si era spinto per andare a saccheggiare il tempio di Belo, per riuscire con i tesori contenuti a pagare l'indennità di guerra.

A LUCIO CORNELIO SCIPIONE fu dal Senato dato il soprannome onorifico di "Asiatico" oltre a tributargli l'anno dopo (187 a.C.) un magnifico trionfo.
Secondo TITO LIVIO, condusse nella pompa del trionfo duecentotrentaquattro insegne militari, centotrentaquattro immagini di città, milleduecentotrentuno zanne d'avorio, duecentoquarantaquattro corone d'oro, centoquarantasettemila e quattrocentoventi libbre d'argento, duecentoventiquattromila tetradammi attici, quattrocentotrentamila cistofori, centoquarantamila nummi d'oro, millequattrocentoventiquattro libbre di vasi d'argento scolpiti e mille ventiquattro libbre di vasi d'oro. Davanti al suo carro lo precedevano in catene trentadue capitani d'Antioco.


ASSETTO DELL'ASIA E SPEDIZIONE CONTRO I GALATI

Nello stesso anno del trionfo di LUCIO CORNELIO SCIPIONE, fu allestito e poi inviato a primavera del successivo anno 186 fu mandato in Asia il console GNEO MANLIO VOLSONE con dieci commissari per dare assetto a quella regione.
Il console, avido di onori e di bottino, senza permesso del Senato, fece una spedizione contro i Galati, che avevano aiutato Antioco nella guerra contro i Romani.
Partito da Efeso con le sue legioni e con alcune truppe fornite dal regno di Pergamo attraversò la Panfilia la Pisidia e la Frigia e, giunto nel territorio di quei barbari, li combatté senza misericordia, uccidendone - secondo quel che narrano gli storici - quarantamila e procurandosi un ricchissimo bottino.
A proposito di questa spedizione TITO LIVIO ci narra un episodio che rivela la ferocia dei Galati ma anche da quale desiderio di preda fossero animati i soldati del console Volsone.
Ad Angira si trovavano fra gli altri prigionieri la moglie di ORTIAGONTE, uno dei principali capi dei Galati, TETTOSAGI, donna di singolare bellezza. Un centurione, preposto alla custodia dei prigionieri, vinto dall'avvenenza della donna, cercò di farla sua ed essendosi lei rifiutata alle voglie del Romano, questi la possedette con la violenza, poi le promise la libertà dietro il compenso di un talento attico. Fu disposto che un prigioniero si recasse dai parenti della donna e ne inviasse altre due, durante la notte, con il danaro del riscatto presso il vicino fiume. All'ora stabilita il centurione condusse la donna al fiume, e mentre veniva contato il denaro, i due tettosagi, avvisati dalla moglie di Ortiagonte, piombarono sul centurione e l'uccisero. Fatta così la sua vendetta, la donna tagliò la testa al romano e, tornata a casa, la presentò al marito, guadagnandosi, per quel suo gesto, anche una grande fama presso il suo popolo.
I Galati furono costretti a chieder la pace e quindi sottomessi, ma il loro paese fu crudelmente saccheggiato. Più tardi MANLIO VOLSONE fu accusato da L . EMILIO PAOLO e da FURIO PORPURIONE di crudeltà e di arbitrio; ma Roma non era più quella di una volta; anche lì la corruzione aveva fatta molta strada nella città e nel Senato, e le ricchezze del console ebbero ragione delle accuse e gli procurarono pure il trionfo.
Nel dare assetto all'Asia, Roma non tralasciò di premiare i suoi amici. Ad EUMENE furono dati il Chersoneso, la Misia, le due Frigie, la Lidia, parte della Caria e della Licia. Le città di Dardano, Ilio, Cime, Smirne, Clazomene, Eritrea, Colofone, Mileto, Chio e molte altre furono restituite a libertà. Ad ARIODARTE, re della Cappadocia, che aveva sostenuto Antioco, fu inflitta una multa di trecento talenti.

SOTTOMISSIONE DEGLI ETOLI E MORTE DI ANNIBALE

Mentre MANLIO VOLSONE era in Asia, l'altro console MARCO FULVIO NOBILIORE, inviato dal Senato in Grecia, combatteva contro gli Etoli.
Accanita fu la resistenza che -questo popolo bellicoso e amante dell'indipendenza- oppose alle armi romane dopo avere aiutato Aminandro a recuperare a Filippo l'Atamania. E specialmente ostinata ed eroica fu la difesa della città di Ambracia attorno alla quale si era trasferita la guerra. Assediata dall'esercito consolare, la fiera città seppe tener testa valorosamente ai Romani, i quali, non potendo farsi una breccia nelle mura e prenderla d'assalto via terra, tentarono di penetrarvi scavando un passaggio sotterraneo. Ma il loro disegno fu sventato dai difensori. Questi, accortisi dei lavori del nemico, scavarono a loro volta un altro passaggio, sorpresero e ricacciarono i Romani e prima difesero il sotterraneo con le armi poi lo resero impraticabile producendovi del fumo puzzolente.
Ma, sebbene fieri e valorosi, gli Etoli erano un piccolo popolo né potevano sperare di far rinunciare ai Romani l'impresa. Chiesero perciò pace alla Repubblica la quale l'accordò alle seguenti condizioni: pagamento, come tributo di guerra, di cinquecento talenti, consegna di quaranta ostaggi e dei prigionieri e disertori, cessione a Roma delle isole dì Zacinto e Cefalonia, divieto di far passare per l'Etolia eserciti nemici dei Romani e dei loro alleati.
A questi patti fu conclusa la pace e gli Etoli, caduti sotto il dominio di Roma, non riuscirono più a riacquistare la loro indipendenza.

Nel 183, dopo sei anni ch'era finita la guerra contro Antioco, si spegneva tragicamente il più grande nemico di Roma: ANNIBALE.
Fra i patti imposti ad Antioco per la pace dopo la sconfitta di Magnesia non ultima era la consegna dell'esule di Cartagine. Annibale, che più di ogni altra cosa amava la sua libertà, si era allontanato dalla Siria ed aveva trovato ricovero in Bitinia alla corte del re PRUSIA. Era questo sovrano nemico di Eumene re di Pergamo. Non potendo direttamente nuocere a Roma, il Cartaginese aveva cercato di nuocere agli alleati dell'odiata Repubblica. Ma, aveva scelto male il suo ospite. Il re Prusia era dotato di una natura bassa e vile; sconosciuto era per lui il dovere dell'amicizia e dell'ospitalità, cui egli anteponeva il proprio interesse. .
Quando Roma, sollecitata da Eumene, mandò in Bitinia una legazione presieduta dal consolare T. Flaminino, per reclamare la consegna di Annibale, Prusia non ebbe nulla da obbiettare. Avrebbe potuto favorire la fuga del Cartaginese, ma temendo di incorrere nello sdegno della potente Repubblica e desiderando di entrare nelle grazie di Roma, non esitò a tradire il suo ospite e affinché non potesse sfuggire fece circondare dai suoi armati la casa del profugo.
Annibale però non era uomo da cader vivo nelle mani dei suoi nemici. Poiché non poteva salvarsi, essendogli preclusa ogni via di scampo, preferì la morte alla prigionia e bevve un potentissimo veleno che conservava in un anello.
Così fini la sua vita il più grande capitano del mondo antico. Con la sua tenacia e con le sue virtù guerriere, aveva saputo sollevare le sorti della sua patria, le aveva conquistato un vasto impero in Spagna, aveva osato, contro il volere della stessa Cartagine e con i mezzi che lui stesso si era procurati, sfidare la potente Roma, era riuscito, attraverso territori stranieri e la barriera delle Alpi a portare la guerra in casa del nemico e a rimanervi per circa tre lustri sconfiggendo poderosi eserciti. Vinto, aveva cercato una seconda volta di portare la sua città alla riscossa; esule, aveva speso gli ultimi anni della sua esistenza nel creare nemici a Roma, della quale era stato perennemente l'incubo minaccioso. Più forte del suo valore e del suo genio era stata solo la cattiva sorte.

ESILIO E MORTE DI SCIPIONE L'AFRICANO

E la sorte volle che nello stesso anno in cui Annibale si toglieva la vita nella lontana Bitinia morisse PUBLIO CORNELIO SCIPIONE L'AFRICANO.
Al pari di Annibale lui moriva in esilio volontario, amareggiato dall'ingratitudine della patria e dall'invidia di alcuni suoi concittadini.
Non pochi erano in Roma quelli che invidiavano la gloria e la potenza alla quale era pervenuto il vincitore di Annibale e fu appunto il malanimo di costoro che causò dolore agli ultimi anni dell'illustre guerriero e cercò di infangarne il nome.

Da piccoli uomini faziosi, che erano al tribunato della plebe, furono rinnovate le vecchie accuse che gli erano state mosse al tempo in cui era console in Sicilia: la vita molle ed oziosa di Siracusa e la complicità con Pleminio nel malgoverno di Locri, alle quali altre e più gravi accuse si aggiunsero.
Fu detto che Scipione aveva partecipato alla guerra asiatica non come luogotenente e consigliere del fratello, ma come dittatore, e che delle somme, realmente pagate da Antioco, e del ricavato del bottino non tutto era stato versato nelle casse della Repubblica.
Si giunse perfino a dire che la restituzione senza riscatto del figlio prigioniero non era stata conseguenza della generosità di Antioco, ma segreti accordi (e forse di denari) intercorsi tra l'Africano e il re di Siria.

Richiesto dal Senato di rendere conto assieme al fratello Lucio dei denari pagati da Antioco e ricavati dalle prede, Scipione, sdegnato, lacerò davanti all'assemblea, il libro dei conti, rispondendo che non aveva conti da rendere colui che dalla guerra aveva portato alla Repubblica la somma di quindicimila talenti. I senatori al fiero gesto del grande generale, meritevole di riprovazione, non protestarono, ma i nemici non disarmarono e lo citarono in giudizio.
Doveva avvenire il processo il 19 ottobre 183. Quel giorno l'Africano, seguito da un immenso stuolo di clienti, di amici e di ammiratori, si presentò nel foro non per sentirsi ripetere pubblicamente le accuse ma per rammentare agli immemori che proprio quel giorno ricorreva l'anniversario della vittoriosa battaglia di Zama.
Seguito dal popolo plaudente, lasciò il foro e si recò sul Campidoglio nei templi delle divinità a rendere grazie della vittoria riportata..
Il giudizio fu rimandato, ma PUBLIO SCIPIONE si rifiutò di comparire. Lasciata l'ingrata città era andato a vivere in volontario esilio nella sua villa in Campania a Literno, e li morì poco dopo all'età di soli 51 anni.

Degna da ricordare fu in quell'occasione la condotta del tribuno TIBERIO SEMPRONIO GRACCO, il quale, sebbene fosse nemico dell'Africano, tuttavia lo difese, svillaneggiando gli accusatori ed opponendosi a coloro che permettevano o volevano che un uomo così grande fosse vergognosamente trascinato al banco degli accusati.
Non tacque l'invidia nemmeno dopo la morte dell'Africano, e, poiché non si poteva più colpire il grande scomparso, si volle colpire suo fratello LUCIO CORNELIO.
Nel processo, suscitato contro l'Asiatico da MARCO PORCIO CATONE, furono trascinati anche LUCIO OSTILIO e CAJO FURIO ACULEONE, luogotenente l'uno, questore di Scipione l'altro. Tutti furono condannati a restituire le somme ricevute da Antioco e non versate nelle casse dello Stato: seimila libbre d'oro e quattrocentottanta d'argento Scipione, ottanta libbre d'oro e quattrocentotre d'argento Ostilio, centotrenta libbre d'oro e duecento d'argento Furio.
Essendosi l'Asiatico rifiutato di pagare ritenendosi ingiustamente condannato, fu dal pretore QUINZIO TERENZIO ordinato che fosse condotto in prigione. Ma SEMPRONIO GRACCO che era sorto in difesa dell'Africano impedì con il suo veto che Lucio Publio Scipione finisse dentro un carcere.

Tutti i beni dell'Asiatico non furono sufficienti a pagare la somma alla quale era stato condannato il che fu una prova dell'innocenza dell'uomo, la quale del resto fu dichiarata dagli stessi questori incaricati della riscossione, che costatarono di non aver trovato "alcun segno delle pecunie del re" nella casa dell'ex-console. Questi fu soccorso dalla solidarietà dei parenti che provvidero al suo mantenimento, e ottenne la soddisfazione e il conforto nella sventura da cui era stato colpito di veder l'odio del popolo rivolgersi ai suoi accusatori.

Era appena finita la guerra contro Antioco, quando iniziava quella contro Filippo re di Macedonia; che non era un nemico di Roma, anzi aveva fornito aiuti all'esercito Romano; li aveva fatti passare dal suo regno, riforniti di vettovagliamento e perfino delle milizie.
Ma alla fine, non era stato bene ricompensato; il suo vicino Eumene di Pergamo, da Roma aveva ricevuto molto di più.

Fu questo malcontento a dare origine alla seconda e alla terza guerra macedonia; che andiamo a narrare nel successivo capitolo…

…il periodo dall'anno 182 al 166 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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