2nda GUERRA PUNICA: DA CANNE ALLA PUGLIA E SICILIA

ROMA DOPO LA SCONFITTA DI CANNE - ANNIBALE A CAPUA - ANNIBALE SCONFITTO A NOLA - BATTAGLIA DELLA SELVA LITANA - ROMA ALLA RISCOSSA - BATTAGLIA DI BENEVENTO - ASSEDIO DI SIRACUSA - ARCHIMEDE - PRESA DI SIRACUSA E MORTE DI ARCHIMEDE - CADUTA DI AGRIGENTO - ANNIBALE A TARANTO - PRESA DI CAPUA - ANNIBALE ALLE PORTE DI ROMA - CADUTA DI TARANTO - MORTE DI CLAUDIO MARCELLO
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ROMA DOPO LA BATTAGLIA DI CANNE

Roma, dopo la grande sconfitta di Canne, riuscì a trovare nelle virtù del suo popolo la forza per resistere ai durissimi colpi del destino; che non si accaniva su questo o quel cittadino, o su questa, o quell'altra città; ora c'era in gioco l'esistenza della repubblica, era minacciata l'intera penisola, che da pochissimo tempo era stata unificata, e già il nome "ITALIA" correva dalla Sicilia alle Alpi.

A questo punto, tacquero gli odi di parte, fu chiuso nel cuore il dolore per la perdita di tanti uomini, né si pensò a criticare l'operato dei capi dell'esercito.
La mente e le opere di tutti i cittadini, ottimati e plebei, uomini e donne, furono rivolte a salvare la patria.

Dietro consiglio di FABIO MASSIMO si stabilì che il lutto per i morti in guerra avesse la durata di soli trenta giorni, si misero numerose sentinelle alle porte affinché nessuno uscisse dalla città e si mandarono uomini a cavallo lungo le vie Appia e Salaria per raccogliere notizie dei superstiti di Canne e sui propositi e movimenti di Annibale.
Poi si pensò a radunare un nuovo esercito e a procurar denaro. Furono chiamati sotto le armi i giovani di diciassette anni, arruolati ottomila schiavi e seimila carcerati ai quali fu promesso il condono dopo la guerra. I creditori rinunziarono alle somme prestate. Fu proibito di tener denari e gioielli oltre un determinato limite. In seguito ad una legge sul lusso delle donne, proposta dal tribuno OPPIO, le matrone diedero alla repubblica una parte delle loro gioie. Si vietò al cartaginese CARTALONE sceso nella capitale per trattare del riscatto dei prigionieri di metter piede nel territorio di Roma e il riscatto fu rifiutato per non arricchire Annibale e per ammonire i soldati a non sperare di ricomprare con l'oro la libertà perduta per viltà.
Più tardi creò non poco conforto la notizia che alcune migliaia di soldati, scampati alla strage, si erano rifugiate a Canusio e quando VARRONE, richiamato, arrivò nelle vicinanze di Roma, il Senato, anziché rimproverarlo come responsabile della sconfitta, gli andò incontro e, confortandolo, lo ringraziò d'avere raccolto i superstiti.
Ritornato Varrone, fu incaricato M. FABIO BUTEONE di colmare i vuoti che la battaglia di Canne aveva fatto tra i senatori (80) e ne furono nominati centosettantasette scelti in gran parte fra i plebei e fra coloro che erano stati tribuni, edili e questori.
Contemporaneamente fu creato dittatore M. GIUNIO PERA e maestro della cavalleria TIBERIO SEMPRONIO GRACCO.

ANNIBALE A CAPUA

Dopo la vittoria di Canne, l'esercito cartaginese avrebbe voluto marciare su Roma, ma ANNIBALE, il quale sapeva che non era cosa facile espugnare una città così forte con truppe che non avevano potuto far cadere Piacenza ed erano state respinte da Spoleto, non volle. Con la sua profonda visione strategica, riconobbe la futilità di una vuota dimostrazione davanti alle mura di Roma, che non avrebbe fatto altro che sminuire le conseguenze morali della vittoria e avrebbe fatto sfuggire all'opportunità di fare più importanti progressi.
In un momento in cui si agitava fortemente la confederazione romana, lui preferì fare un comodo viaggio -trionfale- attraverso il Sannio fino in Campania per raccogliere gli alleati in rivolta.
Infatti, le stirpi più rudi, con forti sentimenti d'indipendenza, che si erano sempre opposti alla dominazione Romana (Hirpini, Pentri, Caudini, Lucania, Bruttium, ecc) la sollevazione fu quasi generale. E una di quelle che rappresentò un vero pericolo di disgregazione fu poi la rivolta di Capua, che allora era la seconda città d'Italia dopo Roma, e per essere un importante centro industriale e commerciale, molto più ricca della stessa Roma.

ANNIBALE partito dall'Apulia, passò nel Sannio e, lasciati Cossa (che spontaneamente gli si era data), i bagagli e il bottino, comandò a MAGONE di procedere con una parte delle truppe a prendere possesso delle città che si davano e di combattere quelle che facevano resistenza. Lui con il grosso dell'esercito andò nella Campania con il proposito d'impadronirsi di Neapoli (Napoli), ma, giunto sotto le mura della città, le forti opere di difesa gli fecero mutar parere e si diresse nella non lontana Capua.

Qui ebbe miglior fortuna che a Napoli. Dopo la battaglia del Trasimeno, il potere della città era venuto in mano al partito popolare, nemico della nobiltà locale; molti di questi, avevano rafforzato il loro potere con le più importanti famiglie di Roma con una serie di matrimoni. Ma non erano certo dei grandi patrioti; nel periodo di queste lunghe guerre, le coscrizioni imposte da Roma, a questa gente amante del lusso, erano particolarmente moleste.
Ma se a loro erano sgradevoli, più spiacevoli e perfino ostili erano al popolo, pur avendo il senso patrio che a Roma (con le guerre diventata più democratica) avevano favorito e coltivato; ma non in Campania che era fortemente limitata dalla giurisdizione di un "praefectus" romano, alla cui elezione, il popolo campano non partecipava, doveva solo e sempre ubbidire.

Fu per quest'ultimo motivo che il popolo aprì le porte ad Annibale, che entrato in trattative, accettò in pieno le condizioni avanzate dai cittadini (popolo) di Capua: nessun arruolamento nell'esercito, completa autonomia, dono di 300 prigionieri romani da scambiare con i cavalieri capuani che erano al servizio di Roma in Sicilia.
L'esempio di Capua fu seguito da altre città minori della Campania, Atella, Calatia, Nuceria, Acerrae. Comunque poca cosa, il nucleo della forza di Roma, Lazio, Umbria ed Etruria, rimaneva ben saldo; e così in Sicilia, Gerone si affrettò a dimostrarsi ancora una volta un fedele alleato.

Quindi la dedizione di Capua e pochi altri centri non erano fatti che avessero gran peso nella guerra. L'Italia si manteneva fedele a Roma e la repubblica rimaneva perciò forte e temibile.
Fallita la speranza di sollevare i popoli italici e di procurarsi soldati per il suo esercito, denari e vettovaglie, Annibale comprese che due sole vie gli rimanevano: o abbandonare il pensiero di sottomettere Roma e tornarsene in Spagna, oppure cercare aiuti in patria e alleanze fuori.

Non volendo lasciare incompiuta un'impresa così felicemente iniziata, Annibale inviò il fratello MAGONE in Africa a chiedere aiuti per l'esercito che guerreggiava in Italia.
Magone magnificò al Senato Cartaginese le vittorie del fratello e fornendo la prova di ciò che asseriva mostrò una montagna di anelli sottratti ai cavalieri romani nella battaglia di Canne, che -si narra - misuravano tre moggi e mezzo.

Invano il partito contrario, capeggiato da ANNONE, si oppose; ma la fazione dei Barca vinse e il Senato deliberò che si mandassero ad Annibale quaranta elefanti e si assoldassero nella Spagna ventimila fanti e quattromila cavalli per la guerra d'Italia e della penisola Iberica.

ANNIBALE SCONFITTO A NOLA

Intanto i Romani non perdono tempo. Il dittatore GIUNIO PERA alla testa di venticinquemila uomini passa nella Campania e si accampa a Teano per sbarrare al nemico la strada del Lazio; il prefetto MARCO GIUNIO SILVANO si reca invece a Neapoli e assume il comando della difesa di questa città fedele a Roma; il pretore CLAUDIO MARCELLO, da Canusio, si porta rapidamente a Nola per tenere a freno la plebe che vorrebbe darsi ai nemici e per opporsi ad Annibale, che per la seconda volta, con Marcello già dentro con le sue schiere, tenta d'impadronirsi della città.

L'esercito di Annibale si schiera davanti a Nola e aspetta che Claudio esca ed accetti battaglia; ma nessuno esce dalle porte; il Cartaginese crede che il nemico abbia paura, manda una parte dei soldati agli alloggiamenti, e ordina loro di portare le macchine da guerra, sperando che, bombardando la città, la plebe si sollevi a faccia aprire le porte.
CLAUDIO MARCELLO però non ha paura; ha schierato di nascosto dietro le mura le sue truppe, suddividendole in tre gruppi e mettendone uno dietro ognuna delle tre porte che guardano il campo nemico: alla porta centrale le legioni e i cavalieri romani, alle due laterali le fanterie e la cavalleria italica e gli armati alla leggiera.
Quando vede che i nemici sono intenti a lavorare intorno alle macchine, Marcello fa aprire la porta di mezzo fa irrompere le legioni e i cavalieri, poi, aperte le altre, fa assalire le ali avversarie. Preso alla sprovveduta, l'esercito cartaginese è sbaragliato, duemila e trecento uomini rimangono sul campo ed Annibale è costretto ad abbandonare la piazza (anno 215 a.C.).

Non è trascorso nemmeno un anno da Canne e la fortuna del generale cartaginese comincia a declinare. Si vuole attribuire il declinare della fortuna di Annibale agli ozi di Capua, alla vita molle che strapazzò e indebolì l'esercito cartaginese.
C' è in quest'asserzione un po' di verità , ma non riposa soltanto in questi famosi ozi la causa del tramonto della potenza militare di Annibale. Ma si deve cercare nel patriottismo di Roma, nelle inesauribili energie e virtù del popolo romano, nella politica saggia ed avveduta della repubblica che aveva saputo farsi amare dalle popolazioni italiche che nei momenti della sventura non la tradirono e si opposero con tutte le loro forze agli invasori.
Di quest'attaccamento a Roma delle città italiane fa fede il contegno di Neapoli e di Acerria e specialmente di Casilino, che tenne in scacco per lungo tempo Annibale nel 216, e di Petelia che l'anno seguente, assediata, resistette eroicamente per circa undici mesi.

BATTAGLIA DELLA SELVA LITANA

Nell'anno 215 l'attività dei Romani aumenta mentre decresce quella di Annibale. Roma trova la forza di fronteggiare non solo il nemico nell'Italia meridionale ma di inviare truppe nella settentrionale contro i Galli. Qui però la fortuna non è favorevole alla repubblica.

LUCIO POSTUMIO, designato console, ma non ancora entrato in carica, guida un esercito di venticinquemila uomini nel paese dei Boi, ma un'insidia lo attende. Lungo la via che deve percorrere attraverso la vastissima Selva Litana gli alberi giganteschi sono stati dai Galli tagliati in modo da rimanere ritti, ma ad essere abbattuti al suolo dalla più piccola spinta, e con la selva piena di nemici in agguato.
Quando l'esercito consolare è dentro nella foresta, cadono con immenso fragore le piante uccidendo uomini ed animali. I superstiti, con la strada sbarrata per la fuga, assaliti dal nemico, sono fatti a pezzi e fra questi è Lucio Postumio.

Grande sbigottimento a Roma all'annunzio di questo nuovo disastro, ma il Senato ordina che dalla città sia tolto ogni segno di mestizia e di lutto. Come con fiero animo sono stati sopportati i disastri della Trebbia, del Trasimeno e di Canne si deve con altrettanta fermezza sopportare quello della Selva Litana. Anziché piangere i morti è necessario intensificare la lotta contro Annibale, il quale ormai non ha più speranza di sostenersi da solo in Italia e cerca alleanze fuori della penisola. Ma sono tutti tentativi inutili!
Riesce a tirare dalla sua parte l'imbelle giovinetto GERONIMO, succeduto nel trono di Siracusa al vecchio e saggio Gerone, con il promettergli il possesso dell'intera Sicilia; ma Geronimo cade ucciso per mano di congiurati e muoiono con lui le speranze di aiuti che Annibale si attendeva.

Né più fortunata e proficua è l'alleanza che stringe con FILIPPO di Macedonia perché gli ambasciatori macedoni e cartaginesi cadono nelle mani dei Romani e il pretore M. VALERIO LEVINO fa buona guardia con la sua flotta nelle acque di Apollonia.
(Questo tentativo di alleanza col re di Macedonia, cui Annibale ha promesso la cessione dell'Illiria romana dopo la sconfitta di Roma -fra breve come vedremo- sarà l'occasione per dare inizio alla prima guerra macedonia)

Intanto in Italia le condizioni di Annibale si fanno più precarie e difficili. Tre eserciti romani gli stanno sempre alle costole e lo sorvegliano: il console FABIO MASSIMO a Teano, il console TIBERIO SEMPRONIO GRACCO a Cuma e a Neapoli e il proconsole CLAUDIO MARCELLO tra Capua e Nola. Annibale cerca di impadronirsi di Cuma e si serve dei capuani, ma questi sono sconfitti da SEMPRONIO, prontamente accorso con le sue truppe, le quali, rimaste a Cuma, la difendono valorosamente dagli assalti dell'esercito cartaginese appena giunto ad assediare la città e subito respinto con gravissime perdite è costretto a ritirarsi sulle montagne di Tifate.

A quest'insuccesso altri e più gravi se n'aggiungono poco tempo dopo: presso a Grumento, in Lucania, il cartaginese ANNONE è sconfitto e perde duemila uomini; tre castelli ribellatisi ai Romani sono riconquistati dal pretore MARCO VALERIO; QUINTO FABIO riprende Compulteria, Trebula e Saticula e Annibale, sotto le mura di Nola, è nuovamente sconfitto da MARCELLO e lascia sul campo cinquemila uomini e nelle mani del proconsole cinquecento prigionieri.
Sconfitto a Nola, Annibale va a svernare in Apulia e mette il campo ad Arpi, incalzato da SEMPRONIO GRACCO che va ad accamparsi a Luceria.
Anche ANNONE lascia la Campania e con l'aiuto dei Bruzi cerca di ridurre in suo potere le città greche sottomesse a Roma. Locri si arrende e si arrende anche Crotone, ma Reggio resiste valorosamente ai ripetuti assalti.

Così finisce l'anno 215 a.C. Nell'Italia Annibale ha fatto il massimo sforzo per attirare a sé i popoli e conquistare città, ma soltanto una piccola parte del Sannio e della regione dei Bruzi è riuscito a far passare dalla sua parte, e delle città che ha potuto amicarsi o sottomettere una sola è importante: Capua.

Ora il gran generale aspetta che le intese da lui promosse fuori della penisola diano buoni risultati. Spera molto dalla Macedonia e dalla Sicilia, e qualcosa ancora da Cartagine. Ma la sua patria, nonostante governata dalla fazione dei Barca, si preoccupa più della Spagna che non dell'Italia, né sa sostenere con aiuti la rivolta della Sardegna che il pretore TITO MANLIO ha soffocato nel sangue.
E intanto Roma è più che mai decisa a fare sforzi giganteschi per condurre a termine vittoriosamente la guerra.

BATTAGLIA DI BENEVENTO

La riscossa, iniziata l'anno precedente, continua nel 214. Al consolato sono chiamati i due più famosi generali che ha Roma: QUINTO FABIO MASSIMO VERRUCOSO IV e CLAUDIO MARCELLO III, e il numero delle legioni da dodici è portato a diciotto. Anche il numero delle navi è accresciuto e portato a centocinquanta e per la prima volta si stabilisce che la flotta sia fornita di ciurma a spese di privati cittadini.
Il vicepretore QUINTO MUCIO è lasciato in Sardegna, MARCO VALERIO a Brindisi per sorvegliare le mosse di Filippo il Macedone, il governo della Sicilia è assegnato al pretore PUBLIO CORNELIO LENTULO, e TITO OTACILIO rimane in carica come comandante della flotta.
Le forze di terra sono divise in cinque corpi: uno, comandato da CAJO TERENZIO VARRONE, ha il compito di campeggiare nel Piceno, il secondo, di volontari, assegnato a Luceria è messo sotto il comando del proconsole SEMPRONIO GRACCO ed il terzo, capitanato da MARCO POMPONIO, è posto alla difesa della Gallia Cisalpina, il quarto, comandato dal pretore QUINTO FABIO, figlio del "Temporeggiatore", è destinato nell'Apulia, gli altri sono affidati ai consoli FABIO MASSIMO e CLAUDIO MARCELLO.

Questi ultimi due Minacciando Capua, Annibale leva il campo da Arpi, passa nella Campania e si ferma nei vecchi alloggiamenti di Tifate; qui lasciata una guardia di Numidi e Iberi, con il resto dell'esercito marcia su Puteoli (Pozzuoli).
Queste mosse di Annibale provocano un parziale dislocamento delle forze romane; il pretore FABIO è mandato a presidiare Luceria e SEMPRONIO GRACCO dovrà marciare su Benevento per tagliare le comunicazioni del nemico tra l'Apulia e la Campania e sorvegliare i Bruzi e Annone che si aggira da quelle parti.
Annibale intanto, danneggiato il territorio di Cuma fino al promontorio Miseno, marcia su Puteoli e la pone in assedio. Puteoli è fortissima per la natura del luogo oltre che per le opere militari ed ha un'agguerrita guarnigione di seimila Romani; assalita per tre giorni consecutivi, si difende splendidamente, spalleggiata dalla vicina Neapoli, e costringe Annibale ad abbandonar l'idea d'impadronirsene.
Fallita l'impresa di Puteoli, Annibale saccheggia il contado di Neapoli e stabilisce di marciare ancora su Nola, mentre Annone dalla Lucania risale verso il Sannio per rompere il cerchio nemico che si sta stringendo minaccioso intorno al generale cartaginese, ma l'uno e l'altro sono preceduti con mosse fulminee da Claudio Marcello, SEMPRONIO GRACCO e Fabio Massimo.
Il primo da Suessola invia a Nola seimila fanti e trecento cavalli; il terzo si avvicina a Casilino; il secondo, corre -come già detto sopra- ad occupare Benevento.
SEMPRONIO, poiché Annone, che si è accampato a tre miglia dalla città, sul Calore, va saccheggiando il territorio, esce da Benevento e pone il campo ad un miglio circa dai Cartaginesi e il giorno dopo, allo spuntar del sole, attacca energicamente il nemico, che dispone di diciassettemila fanti, la maggior parte Bruzi e Lucani, e milleduecento cavalieri Numidi e Mauritani.

La battaglia dura quasi cinque ore ed è di un accanimento straordinario; alla fine i soldati di Annone, decimati, sono messi in fuga e cercano scampo nel campo trincerato; ma i Romani lo prendono d'assalto e ne fanno una strage.
Solo due mila con il generale riescono a fuggire, tutti gli altri, in numero di diciassettemila, sono catturati o uccisi. Trentotto insegne cadono in mano dei Romani e un bottino ricchissimo.

A questa importante vittoria altri successi dei Romani sono da aggiungersi. Annibale, saccheggiato il territorio di Neapoli, muove nuovamente su Nola, ma CLAUDIO MARCELLO gli dà battaglia e lo sconfigge, causandogli la perdita di duemila uomini e costringendolo a ritirarsi.
Dopo il combattimento di Nola, i due consoli, riunite le forze, assaltano e costringono alla resa Casilino; FABIO MASSIMO, passato nel Sannio, riprende a viva forza Telesia, Cossa, Mela, Fulfula ed Orbitania, poi espugna Blanda nella Lucania ed Anca nell'Apulia, infliggendo ai nemici, tra morti e prigionieri, la perdita di venticinquemila uomini; mentre il pretore QUINTO FABIO conquista Acua e si accampa ad Ardonea.
ANNIBALE, dopo tanti insuccessi, rivolge tutte le sue speranze sugli aiuti della Macedonia e della Sicilia; ma a Taranto, dove si avvia allo scopo d'impadronirsene per farne poi la base delle truppe macedoni, è preceduto da un luogotenente di MARCO VALERIO ed alla Sicilia ci ha già pensato il Senato romano deliberando di mandarvi il console MARCELLO con un esercito.

ASSEDIO DI SIRACUSA - ARCHIMEDE

Siracusa, dopo l'uccisione di GERONIMO, era caduta in mano dei nobili, ma questi avevano ben presto dovuto cedere il potere al partito popolare, capeggiato da IPPOCRATE ed EPICIDE, i quali (per rivalsa sui nobili) parteggiando per Cartagine, avendo assalito e tagliato a pezzi il presidio romano di Leontini, furono poi la causa della guerra tra Siracusa e Roma.

Il console MARCELLO, giunto in Sicilia, assali prima Leontini e costretta alla resa, la saccheggiò, poi marciò su Siracusa, la grande e superba città dai tre porti e dai cinque quartieri: Ortigia, Acradina, Tiche, Neapoli ed Epipoli, tutti recintati da consistenti mura.
L'esercito, comandato dal luogotenente APPIO CLAUDIO, si accampò presso l'Anapo, a poca distanza dalla città, la flotta, alle dirette dipendenze del console, si recò nelle acque che bagnavano le mura del quartiere di Acradina e qui iniziarono l'attacco contro Siracusa.
Sessanta erano le navi, numerosi i frombolieri e potentissime le macchine d'assedio e Siracusa non avrebbe potuto resistere a lungo se non fosse stata difesa dal genio di un suo illustre figlio, ARCHIMEDE, celebrato come il più grande matematico del tempo.
Molto gli antichi scrissero di lui e dell'opera da lui prestata in favore della sua patria, ma sono moltissime nelle leggende le cose che si attribuiscono ad Archimede.
Secondo la tradizione egli inventò e costruì gigantesche balestre, che, scagliando grosse pietre sulle navi romane, causarono alla flotta gravissime perdite; costruì degli ordigni meravigliosi che dall'alto delle mura afferravano con uncini le navi, e sollevate in aria per mezzo di contrappesi, le lasciavano poi cadere facendole colare a picco; poi fra le molte altre macchine, mise in azione degli strumenti forniti di specchi concavi, ustori, che riflettevano i raggi del sole concentrati, per mezzo dei quali a grande distanza incendiava le navi romane.
Riuscito vano ogni sforzo di far capitolare la città, Marcello pensò di prenderla per fame e la cinse d'assedio dal mare e dalla terra.
Ma non era un'impresa facile costringere Siracusa alla capitolazione. Cartagine era finalmente intervenuta nella guerra e il teatro delle operazioni si era in breve esteso in tutta la Sicilia.
I Romani assediavano Siracusa quando BOMILCARE con centotrenta navi cartaginesi entrò nel più grande dei tre porti della città e IMILCONE sbarcò con un esercito di venticinquemila fanti e tremila cavalli ad Eraclea Minoa e marciò su Agrigento.
Per andare a difendere questa città si affrettò Marcello, ma, quando giunse, Agrigento era già caduta nelle mani dei Cartaginesi e molte città della Sicilia si erano ribellate a Roma e fra queste Enna contro la cui popolazione il presidio romano esercitò una sanguinosa rappresaglia.
Il console fece ritorno a Siracusa; lungo la via si scontrò con diecimila Siracusani comandati da Ippocrate, li sbaragliò, poi intensificò le operazioni di assedio.
Ma Siracusa resisteva magnificamente: i viveri non le mancavano, alle milizie cittadine si erano aggiunti l'esercito di Imilcone e la flotta di Bomilcare; Archimede, infine, dava gran fastidio agli assedianti con le sue poderose e geniali macchine guerresche.
Il console richiese rinforzi a Roma e contemporaneamente cercò d'impadronirsi della città, mettendosi in segreto rapporto con alcuni nobili siracusani amici della repubblica: ma, scoperta da EPICIDE la congiura, ottanta cittadini furono giustiziati.

PRESA DI SIRACUSA E MORTE DI ARCHIMEDE (211 a.C.)

Quantunque le legioni e le navi romane fossero cresciute di numero, Siracusa continuò a difendersi valorosamente, ma era destino che l'illustre città cadesse in mano di Roma. Si celebravano in Siracusa le feste in onore di Diana e i Siracusani, dopo le abbondanti bevute e lauti pasti, erano immersi nel sonno.

I Romani approfittarono di questa circostanza e scalate, nei punti più bassi, le mura presso il porto di Tragilo, s'impadronirono del quartiere dell'Epipoli. Più tardi anche i quartieri di Tiche e di Neapoli caddero in mano di Marcello e la fortissima rocca di Eurialo, che dominava la città, fu a tradimento dal greco Filodemo consegnata ai Romani.
Solo Ortigia ed Acradina resistevano ancora, ma le condizioni dei difensori erano disperate. Una terribile pestilenza era scoppiata decimando Siracusani e Cartaginesi; Imilcone ed Ippocrate erano morti e gli avanzi delle milizie di Cartagine si erano allontanati; Bomilcare, di ritorno dall'Africa, mentre stava per doppiare il capo Pachino, saputo che le navi romane avanzavano per dargli battaglia, era fuggito con la flotta a Taranto, ed Epicide, disperando di poter difendere Siracusa, aveva lasciato di nascosto la città e si era rifugiato ad Agrigento.
Tuttavia, Ortigia ed Acradina ostinatamente si difendevano ed avrebbero resistito per molto tempo ancora se un traditore non avesse consegnato i due quartieri a Marcello.
Si chiamava costui, MERICO, era di origine iberica ed aveva un fratello che militava nell'esercito romano. Persuaso da questo, Merico aprì le porte di Acradina ai legionari e l'eroica Siracusa si ritrovò con i loro nemici all'interno. I soldati romani, inferociti dalla resistenza, che secondo alcuni storici era durata otto mesi, secondo altri due anni, si riversarono come una fiumana impetuosa nelle vie, penetrarono nelle case, le saccheggiarono, uccisero gli abitanti. Soltanto le case degli amici di Roma furono rispettate. I tesori ingenti della reggia d'Ortigia, le meravigliose statue greche, i quadri, i preziosi ornamenti dei templi che da cinque secoli risplendevano in città, e perfino i simulacri delle divinità furono presi e inviati a Roma.

Archimede, l'illustre scienziato, l'insigne patriota siracusano, trovò la morte durante uno dei tanti saccheggi.
Secondo la tradizione, prima di dar licenza alle truppe di metter a sacco la città, il console Marcello aveva ordinato ai soldati di rispettar la persona del grande cittadino.
Si trovava Archimede nella sua casa, intento a un disegno geometrico, quando un legionario, entrato improvvisamente, gli chiese ripetutamente chi fosse e, non avendo il vegliardo, assorto com'era nelle sue profonde meditazioni, subito risposto, lo uccise.
Narra la storia che Marcello fu molto addolorato nell'apprendere la notizia della fine dell'illustre uomo e volle non solo che avesse degna sepoltura, ma ordinò anche che si cercassero i parenti e, in memoria del loro grande congiunto, giustamente onorati.
Correva l'anno 211 a.C.

CADUTA DI AGRIGENTO - ANNIBALE A TARANTO

Caduta Siracusa, la guerra in Sicilia durò ancora due anni né il console CLAUDIO MARCELLO riuscì vederne la fine. Tornato a Roma il Senato gli negò il trionfo. Chi invece continuò la guerra nell'isola fu un ufficiale di Annibale, MUTINE, accorto e valoroso guerriero, riuscì a tenere sveglia la rivolta anti-romana in molte città e a difendere Agrigento dagli assalti dei Romani.
Ma, avendo Cartagine inviato Annone con un esercito, ben presto tra Annone e Mutine nacquero gravi dissidi che alla fine causarono ai Cartaginesi la perdita della Sicilia. Annone sottrasse il comando della cavalleria a Mutine e questi, per vendicarsi, si accordò segretamente con il console MARCO VALERIO LEVINO e gli aprì le porte di Agrigento, ricevendo, in premio del tradimento, la cittadinanza romana.
Agrigento subì sorte peggiore di Siracusa; la guarnigione cartaginese fu fatta a pezzi; la popolazione fu tratta in schiavitù e la città, saccheggiata, e ricevette poi una colonia romana. Con la caduta di Agrigento la guerra si avviò al suo termine; nello stesso anno, le altre città ribelli si arresero o furono prese con la forza, la Sicilia fu interamente riconquistata.

Nella penisola intanto la guerra proseguiva, e Roma continuava a fare grandi sforzi, portando il numero delle legioni da diciotto a ventitré.
Arpi, nell'Apulia, assalita dal console FABIO, figlio del "Temporeggiatore", scaccia il presidio cartaginese e si consegna ai Romani; Cliterno è espugnata dal pretore SEMPRONIO TUDITANO e Cosenza e Turio si sottomettono a Roma; molti territori della Lucania sono riconquistate dal console SEMPRONIO GRACCO.
Ma cadde però in potere dei Cartaginesi, Taranto.

Da due anni Annibale cercava di impadronirsene ma non gli riuscì che nel 209 ma non con le armi ma con due traditori-vendicatori.
Aveva Roma condannato a morte e fatto precipitare dalla Rupe Tarpeja alcuni ostaggi tarantini che avevano tentato di fuggire. Questo fatto, aveva provocato lo sdegno degli abitanti di Taranto, che decisero di dare la città ad Annibale per vendicare i concittadini uccisi.
Due tarantini, FILOMENE e NICONE, fingendo di andare a caccia, riuscirono a raggiungere il campo cartaginese, posto a non molta distanza dalla città, e si accordarono con Annibale, poi fecero ritorno a Taranto portandosi dietro del bestiame dato dal capitano africano e dissero ai propri concittadini di averlo razziato e che, visto il buon esito dell'impresa, volevano ritentarla. Da allora, ogni notte, uscivano e tornavano con delle prede e quando giungevano, al ritorno, ad una delle porte della città, il guardiano, avvertito da un fischio, apriva.
Una notte però ritornarono dalla finta scorreria alla testa dell'esercito cartaginese e, ucciso il guardiano che come il solito era andato ad aprire, fecero entrare il nemico nella città, che così cadde in potere di Annibale, ma non la fortissima rocca, dove la guarnigione romana era riuscita a rifugiarsi.

PRESA DI CAPUA

A parte Taranto, lo sforzo di Roma si concentrò tutto su Capua difesa da un forte presidio cartaginese comandato da BOSTARE e ANNONE. Tre eserciti sotto il comando dei consoli GNEO FULVIO FLACCO e APPIO CLAUDIO PULERO e del pretore CAJO CLAUDIO NERONE, marciano verso la Campania. All'inizio le cose non vanno molto bene per i Romani. SEMPRONIO GRACCO, chiamato dall'Apulia per sbarrare il passo ad un esercito cartaginese guidato da Magone, cade in un'imboscata preparatagli da un traditore lucano. Credendo alle parole di costui che lo invitava ad un colloquio con i capi Lucani ribelli per trattare la resa, con un drappello di cavalieri si avviò nel luogo stabilito, ma qui fu circondato ed assalito da un gran numero di nemici e, dopo un'eroica resistenza, furono tutti uccisi.

Un rovescio subisce in Apulia un esercito romano, una sconfitta tocca alle truppe consolari presso Capua e sedicimila Romani e Italici sbaragliati in Lucania. Sono perdite gravissime, ma queste sconfitte non intralciano le operazioni intorno a Capua; spronano anzi maggiormente Roma a farla finita una buona volta con la città ribelle, la quale, stretta da tutti i lati, tormentata dai continui assalti dei legionari e dalla penuria di vettovaglie, chiede disperatamente aiuto al capo Cartaginese.
ANNIBALE risponde subito all'appello. Lasciata Taranto, nella cui rocca il presidio romano resiste disperatamente, marcia a grandi giornate verso Capua; passando per Calazia, sorprende la guarnigione romana e la distrugge, poi si accampa sulle montagne di Tifate, nelle vicinanze di Capua sperando di provocare a battaglia i consoli, ma non osa assalire gli eserciti nei campi fortemente trincerati. La sua presenza non reca alcun giovamento alla città assediata. Allora Annibale mette in opera un audacissimo disegno nella speranza che i consoli tolgano l'assedio da Capua. Rimosso il campo, marcia verso il Lazio. Attraversa il Sannio, i territori dei Peligni, dei Marrucini e dei Marsi e, passato l'Aniene, giunge minacciosamente a due miglia da Roma.

L'improvvisa comparsa del temuto capitano suscita lo sgomento nella città, dove si crede che gli eserciti consolari siano stati distrutti; ma, ritornata la calma negli animi, si prepara la difesa. Meraviglioso è il contegno di Roma di fronte al pericolo: per mostrare ad Annibale che non teme nulla, pone in vendita il terreno dove i Cartaginesi si sono accampati e spedisce delle truppe in Spagna.
Ma Annibale non ha alcuna voglia di assalire la città. Fallito il tentativo di distrarre i Romani da Capua, leva il campo pure da Roma e si avvia verso il mezzogiorno d'Italia, seguito da una schiera di legionari, i quali, però, affrontati dai Cartaginesi, con imboscate o attacchi se ne liberano

Ma questo lieve successo del nemico non influisce sull'assedio di Capua. La sorte di questa città è ormai segnata. È inutile ogni resistenza contro un nemico (i romani) deciso a vincere, e contro la fame; meglio arrendersi. Ambasciatori sono inviati al campo romano, nonostante l'opposizione di VIBIO VINIO che vorrebbe che si continuasse a resistere. La resa però è stabilita. Vibio, per non cadere in mano al nemico, si riunisce a banchetto nella propria casa con alcuni amici e, dopo un lauto pranzo, i convitati brindano con un veleno dandosi la morte.
Il giorno dopo Capua apre le porte e subisce la sorte di Agrigento; le case sono abbandonate al saccheggio delle soldatesche, ai cittadini sono sottratte le armi, mentre i ricchissimi tesori e le opere d'arte sono inviati a Roma; cinquantatre senatori sono sommariamente processati e subito giustiziati sulle piazze di Cales e di Teano; parte degli abitanti è ridotta in schiavitù, parte è stipata nelle prigioni, parte è confinata a Vejo, Nepete e Sutrio, parte oltre il Volturno e il Liri.
Soltanto gli operai e i liberti sono lasciati in città; le case dei ricchi sono messe tutte a disposizione di quei Romani che vogliono stabilirsi a Capua. L'anno dopo, Capua è cancellata dal numero delle città e il territorio e le case sono dichiarate patrimonio della repubblica.
La presa di Capua rianima i Romani e scoraggia le città ribelli, che a poco a poco abbandonano Annibale per il contegno delle truppe cartaginesi. Salapia, nell'Apulia, massacra cinquecento cavalieri Numidi, che costituiscono il presidio, e si dà a Claudio Marcello.

Nel 209 a.C. Roma affida il comando di tre eserciti ai consoli QUINTO FABIO MASSIMO e QUINTO FULVIO FLACCO e al proconsole MARCELLO. Il primo, console per la quinta volta, ha il compito di riconquistare Taranto. Perché l'impresa riesca Marcello con le sue truppe costringe Annibale ad allontanarsi da Canusio e a lasciar libero il passo all'esercito di Fabio, mentre dal presidio di Reggio si muovono alcuni reparti su Caulonia per attirarvi il nemico e distrarlo da Taranto.
Così FABIO MASSIMO può avere la via libera e giungere indisturbato a Taranto; se ne impadronisce con lo stesso sistema dei Cartaginesi: con il tradimento di un ufficiale bruzio dei Cartaginesi.
Taranto è spogliata e saccheggiata, un gran numero di abitanti e soldati uccisi e parte del territorio dichiarato dominio della repubblica.

Annibale corre, si precipita in difesa di Taranto, ma quando vi arriva la città è già in potere dei Romani ed il generale Cartaginese si rifugia a Metaponto.
La stella della sua fortuna, va sempre più declinando; ma di tanto in tanto ha qualche improvviso bagliore. Nel 208 Annibale si accampa tra Venusia e Bantia al confine dell'Apulia con la Lucania; gli eserciti dei consoli CLAUDIO MARCELLO e TITO QUINZIO CRISPINO lo tallonano e pongono il campo vicino a lui, ma non di fronte a lui, perché solo un colle boscoso divide gli accampamenti dei Cartaginesi da quelli dei Romani e tra le piante in agguato vi sono alcuni reparti di cavalieri di Numidia.
I due consoli, desiderosi di occupare il colle, vanno ad esplorarlo con un piccolo reparto di cavalleria, ma sono improvvisamente assaliti dai nemici. Si accende la lotta, ma il numero dei Numidi ha il sopravvento; Marcello, dopo una strenua difesa, soccombe e Crispino, ferito, riesce a salvarsi e a riparare con l'esercito in Campania dove muore per le ferite riportate.

Da undici anni dura la guerra in Italia contro Annibale e Roma è quasi esausta dagli immani sforzi; ma il patriottismo dei Romani è grande e i ricchi non esitano a dare alla repubblica tutto l'oro e gli oggetti preziosi posseduti. Le città italiche alleate che fino ad ora hanno sopportato con Roma il peso e i disagi della guerra sono anch'esse stanche ed esauste; dodici dichiarano di non voler più continuar a mandar aiuti d'uomini e di denari e invano la repubblica cerca di farle desistere dai loro propositi. Alla defezione delle città alleate si aggiunge ora il contegno minaccioso dell'Etruria, e Roma quasi da sola è costretta a nuove spese e a nuove leve per mandarvi un esercito.
Così stavano le cose quando una gravissima notizia giunse a Roma: ASDRUBALE, fratello d'Annibale, proveniente dalla Spagna, sta per valicare le Alpi per scendere in Italia in aiuto del grande generale cartaginese.

Come l'ormai celebre fratello, anche lui è un uomo astuto, che in Spagna (come leggeremo nel prossimo capitolo) ha dato del filo da torcere alle legioni che Roma ha continuato a inviare per recuperare i territori dopo la disfatta a Sagunto, ma anche per tenere impegnato l'esercito cartaginese, evitandogli di portare aiuto in Italia al fratello.
Ora, è anche sta discendendo dalle Alpi, e se il suo valore è pari a quello di Annibale, per Roma ci sono davanti altri undici anni di guerre?

La risposta è nel prossimo capitolo…

… nel periodo dall'anno 216 al 205 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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