2a GUERRA PUNICA - DALLA TREBBIA ALLA DISFATTA DI CANNE

LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO - RESISTENZA DI SPOLETO - QUINTO FABIO MASSIMO IL TEMPOREGGIATORE - MARCO MINUCIO RUFO - VITTORIA DI LARINO - LA BATTAGLIA DI CANNE - MORTE DEL CONSOLE LUCIO EMILIO PAOLO
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BATTAGLIA DEL TRASIMENO (217 a.C.)

Dopo la sconfitta e la fuga delle legioni nella "battaglia della Trebbia", SCIPIONE, passato il Po, raggiunta Piacenza, si era poi trasferito a Cremona. Come abbiamo già detto nel precedente capitolo, dopo questa "sventura", a Roma - come il solito- furono fatti solenni sacrifici agli dei (perfino umani, seppellendo vivi una coppia di Galli); ma non erano le geremiadi, i piagnistei, gli atti di devozione e le immolazioni a far cambiare la situazione che era molto critica; ora Annibale aveva le porte aperte verso l'Appennino, raggiunto il quale, chi poteva fermarlo se decideva di scendere a Roma? Credendo poco agli dei e di più alla forza, molto più pragmatico il Senato si affrettò a chiamare sotto le armi quattro legioni

Nelle elezioni del 217 a.C., Roma elesse consoli CAJO FLAMINIO II e GNEO SERVILIO GEMINO. Il secondo fu inviato ad Arimino (Rimini) allo scopo di sbarrare con il suo esercito il passaggio dei nemici lungo la costa adriatica, il primo fu invece inviato nelle vicinanze di Arezzo per custodire i varchi dell'Appennino e impedire all'esercito di Annibale di penetrare nell'Etruria.
Ma lo scaltro condottiero cartaginese, che non voleva combattere nei luoghi scelti dal nemico, scese nell'Italia centrale dall'Appennino ligure attraverso la valle del Serchio. Fu una marcia faticosa e disastrosa, e la traversata delle maremme del Valdarno inferiore costò ai Cartaginesi perdite non indifferenti di uomini e di animali. Annibale stesso soffrì molto, e ammalatosi, perse -non si sa come- un occhio.
Solo quando giunse nel fertile, sano e ricco territorio tra Fiesole ed Arezzo, l'esercito barbaro riuscì finalmente a riposarsi e a rifarsi dalle logoranti fatiche.
Scopo di ANNIBALE era costringere FLAMINIO a muoversi e ad attaccarlo, prima che SERVILIO, appresa la sua discesa in Etruria, si muovesse da Rimini per congiungersi con il collega. E siccome conosceva il carattere impaziente dell'ambizioso console e sapeva che questi, malvisto dal Senato, desiderava procurarsi gloria - ma non aveva la virtù della prudenza, un difetto che fu causa degli insuccessi avuti anni prima nella guerra contro i Galli- ANNIBALE lo stuzzicava devastando ed incendiando i territori dove passava.

Nell'agire così, Annibale riuscì a raggiungere lo scopo. Giunto tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, il Cartaginese si fermò ad aspettare nella trappola che gli stava preparando, il vanaglorioso Romano. Il luogo era fatto apposta per un agguato: tra i monti e il lago corre uno stretto passaggio, che sbocca a sud in una pianura circondata da colline. Il gran capitano appostò alle falde di alcuni di questi colli, all'imbocco settentrionale del passo, la cavalleria, abilmente mascherandola; scaglionò sulle colline cortonesi i soldati delle Baleari e le truppe armate leggere, mentre lui, con il grosso dell'esercito composto di Africani e Spagnoli, si accampò bene in vista nella pianura.

Sembra incredibile l'ingenuità del romano, eppure Flaminio, con la sua imprudenza, cadde nel banale tranello. Non potendo sopportare che il nemico devastasse l'Etruria e poi procedere indisturbato verso Roma, disdegnando il saggio parere di coloro che consigliavano di aspettare Servilio, ordinò all'esercito di seguire Annibale, poi dopo averlo visto mettere il campo così bene in vista nella pianura, ordinò di schierarsi per dargli battaglia. Né si curò di certi segni nefasti avvenuti prima della partenza. Gli si annunziava che lo stendardo pur con la fatica non si riusciva a conficcarlo al suolo; lui rispose: "Che adoperino la zappa se per la paura hanno le mani affaticate".
Altro segnale -si narra- che mentre lui balzava a cavallo, questo imbizzarritosi, lo fece capitombolare al suolo. Non importa i presagi e tante simili sciocchezze; si deve partire lo stesso, e si parte.

L'esercito romano giunge al lago sul far della sera e si ferma. Il giorno dopo, prima ancora che spunti l'alba e senza mandare in giro gli esploratori (che avrebbero potuto scoprire le forze appostate nei dintorni), FLAMINIO impartì l'ordine di muoversi. Le legioni marciano attraverso lo stretto passaggio tra il lago e i monti; quando l'avanguardia è appena sboccata nella pianura e la retroguardia ha appena finito di penetrare nell'imbocco, questo è sbarrato dalla cavalleria nemica.
A quel punto al centro della pianura Annibale dà il segnale della battaglia e da tre parti si corre ad assalire impetuosamente l'esercito romano.
Quel giorno una nebbia bassa ricopriva il campo e toglieva la vista ai Romani, i quali, colti alla sprovvista e udendo da ogni parte le grida dei nemici, non sanno neppure da che punto voltarsi per difendersi, se dietro, davanti, al lato destro o a quello sinistro, né hanno il tempo di schierarsi e tirare fuori le armi.

Ciononostante, nello sbigottimento generale, FLAMINIO mantiene una calma ammirevole e fornisce prove di grandissimo coraggio. Ordina, nel caos, come meglio e dove può, la calma alle schiere e prega, conforta, comanda che si stia saldi e si combatta senza angoscia e va affermando che la salvezza è soltanto riposta nel valore e nelle armi e che è inutile pregare gli dei o fare voti; che occorre aprirsi la via con il ferro, ed è minore il pericolo dov' è minore la paura.

Ma il tumulto e il rumore impediscono ai soldati di riconoscere perfino le insegne e le proprie schiere, ed è così fitta la nebbia che usano più gli orecchi che non gli occhi; ed è così grande la confusione che c'è appena lo spazio di sguainare le spade. Alcuni fuggono, ma sono arrestati dai soldati cartaginesi che hanno sferrato l'attacco, altri fuggiaschi tornando a combattere sono respinti da altri che fuggono. Infine, visto che non c' è nessuna speranza di uscire dalla stretta con la fuga, i Romani iniziano veramente a combattere disperatamente, decisi a vender cara la pelle; ed è così accanita la mischia e così alto il fragore delle armi che nessuno dei combattenti avverte in quel preciso istante un terremoto che quel giorno danneggiò molte città d'Italia.

Tre ore di dura e aspra battaglia, più accanita che altrove è quella che infuria attorno al console che fa prodigi di valore. Però, ad un tratto, un Gallo d'Insubria, chiamato DUCARIO, che milita sotto le insegne di Annibale, lo riconosce e, spronato il cavallo, dà addosso al console; ucciso prima un soldato che tentava di proteggere il capitano, trapassa con l'asta da parte a parte FLAMINIO che si abbatte morto al suolo. Non contento di averlo ammazzato, il Gallo tenta di spogliarlo, ma i triari, ricoprendo il cadavere del console con gli scudi, lo difendono.
La morte del console segnò il principio della disfatta e della fuga. Molti cercarono scampo per la via dei monti e caddero uccisi dai nemici, molti altri perirono miseramente nelle acque del lago, i più caddero con le armi disperatamente strette in pugno.

I Cartaginesi subirono solo 1500 morti; i Romani 15.000 vittime e altri 15.000 fatti prigionieri: soltanto diecimila riuscirono, approfittando della nebbia e della confusione, a fuggire e tornare alla spicciolata a Roma a raccontare la disfatta.

Nella battaglia, all'inizio, quando vi era la nebbia, seimila Romani della prima schiera, combattendo ordinatamente, erano riusciti a sfondare le file nemiche dalla parte della pianura; fermatisi sopra un colle, lì rimasero indecisi non sapendo come andavano le cose, ma a metà giornata dissipatasi la nebbia videro con i loro stessi occhi, che l'esercito era stato sconfitto e per non cader prigionieri si erano allontanati. Raggiunti però dalla cavalleria di Maarbale e ricevuta da questo la promessa che se deponevano le armi sarebbero stati messi in libertà e in più in regalo una veste a ciascuno di loro, quelli prestarono fede alle parole del Cartaginese, ma poi giunti al campo di Annibale, questi li trattenne come prigionieri.

Un corpo di quattromila cavalieri, comandati dal vicepretore CAJO CETRONIO spediti pochi giorni prima dal console Servilio, giunse al Trasimeno quando l'esercito di Flaminio era stato distrutto; ripiegarono nell'Umbria, ma, inseguiti e circondati dalla cavalleria cartaginese, superiore di numero, buona parte furono uccisi, il resto catturati o fuggiti.
Con la vittoria del Trasimeno, ora la via di Roma era aperta all'esercito di Annibale.
Si era nell'aprile dell'anno 217.

RESISTENZA DI SPOLETO

Dopo la vittoria conseguita alle rive del lago Trasimeno, Annibale trattenne solo i prigionieri Romani mentre lasciò liberi senza riscatto i prigionieri italici, dicendo loro che lui era sceso nella penisola per combattere solo contro Roma e per rendere la libertà a tutte le popolazioni d' Italia.
Così facendo, Annibale sperava di ingraziarsi l'animo dei popoli della penisola e di riceverne aiuti con i quali potesse poi con maggiore probabilità di successo assalire Roma.
Fu appunto per questo motivo che, dopo la giornata del Trasimeno, anziché puntare su Roma - e lo poteva fare perché in quel momento nessun esercito nemico gli contrastava il passo - si rivolse e marciò verso l'Umbria ed assalì la città di Spoleto, una forte colonia Romana.

Ma gli Spoletini non si lasciarono sgomentare dalla preceduta fama del generale nemico né dalla turba innumerevole del suo esercito. Vollero rimanere fedeli a Roma e difendere la propria libertà; né valsero gli assalti impetuosi delle orde iberiche, galliche e cartaginesi, le quali furono coraggiosamente respinte dai cittadini con abbondante lancio di frecce e di sassi dall'alto delle mura, con olio bollente versato dalle cime delle torri e con audaci sortite.
A ricordare lo scacco subito dai Cartaginesi, Spoleto denominò una delle sue porte, quella della fuga di Annibale, e perpetuò il glorioso fatto su una lapide, la cui epigrafe dice: "Annibale dopo avere sconfitto i Romani al Trasimeno, respinto da Spoleto con grande strage dei suoi mentre ostilmente marciava verso Roma, con la memorabile fuga assegnò il nome alla porta".

Fallita l'impresa di Spoleto, Annibale, sperando di trovar minori difficoltà nell'Italia meridionale e contando sui Sanniti e sui Greci, attraversò l'Appennino, poi, costeggiando l'Adriatico, per le regioni dei Marsi, dei Peligni, dei Marrucini e dei Frencani, giunse nell'Apulia e si accampò tra Arpi e Luceria, aspettando che le popolazioni innalzassero il vessillo della rivolta.

QUINTO FABIO MASSIMO, IL "TEMPOREGGIATORE"

A Roma, giunta la notizia della disfatta del Trasimeno, si pensò di affidare le sorti della repubblica ad un dittatore; ma secondo le leggi poiché il console che doveva crearlo, era assente, né si poteva aspettare che tornasse, fu, dietro proposta del Senato, creato dai comizi centuriati un prodittatore nella persona del patrizio QUINTO FABIO MASSIMO al quale fu dato, come maestro della cavalleria, il plebeo MARCO MINUCIO RUFO.
Fatti voti solenni alle divinità, il prodittatore ordinò che si rafforzassero le mura e le torri di Roma e vi si ponessero grosse guardie d'armati e dispose che fossero tagliati i ponti; comandò inoltre che si abbandonassero i paesi e i castelli privi di buone fortificazioni e gli abitanti si ritirassero solo nelle città fornite di opere salde di difesa e che le case e le campagne poste sul cammino di Annibale incendiate affinché al nemico mancassero le vettovaglie.
Arruolò poi due legioni, e con queste andò incontro al console, attraverso la via Flaminia, per ricevere i resti dell'esercito.
Preso, nelle vicinanze di Otricolo, il comando di tutte le truppe, Quinto Fabio Massimo ordinò a SERVILIO di recarsi ad Ostia, di armare quante più navi possibile, e con una parte guardare le coste, un'altra di inseguire la flotta cartaginese che aveva catturate alcune navi romane che portavano viveri in Spagna.
Date queste disposizioni, il prodittatore, attraverso Tivoli e Preneste, marciò con grande circospezione verso l'Apulia.
Proposito di Fabio era quello di non affidare le sorti della guerra ad una battaglia campale, perché sapeva che una terza sconfitta sarebbe stata fatale per Roma, potendo scuotere la fedeltà degli Italici; a lui premeva che da Cartagine non giungessero rinforzi ad Annibale, che l'esercito romano si tenesse in serbo per l'ultimo inevitabile scontro, che il nemico si logorasse da solo a poco a poco, ed infine che si portasse nell'estremità della penisola dove qui poi poteva essere bloccato.
Occorreva pertanto seguirlo da vicino, tenendosi costantemente sulle alture per non essere assalito dalla cavalleria nemica numericamente superiore, sorvegliarlo attentamente e stancarlo con continue schermaglie.
Questa tattica guerresca, che secondo alcuni storici salvò Roma e l'Italia dalla rovina, valse a Quinto Fabio Massimo il nome di "cunctator", il "temporeggiatore".

Ben presto Annibale si accorse di quanta prudenza fosse dotato il nuovo generale romano e come fosse più facile avere ragione della sconsiderata aggressività di un Sempronio e di un Flaminio che della saggia calma di un Fabio. Per questa ragione cercò di attirarlo a battaglia, sfidandolo e molestandolo e devastando e saccheggiando paesi e campagne per provocar l'ira del nemico.
QUINTO FABIO non si lasciava vincere dall'astuzia del Cartaginese, lo seguiva sempre, ma rifiutava ostinatamente di battersi. Teneva le truppe nel campo e le lasciava uscire solo quando vi era costretto dal bisogno e sempre con le precauzioni che il caso richiedeva. Così facendo non rischiava di perdere l'esercito in una battaglia sfortunata, restringeva con la quotidiana minaccia della sua presenza il campo d'azione del nemico e con scaramucce ben preparate e ben condotte abituava i soldati a non temere i Cartaginesi.

Annibale poiché l'Apulia non si ribellava a Roma, varcati gli Appennini, passò nel Sannio seguito sempre dal prodittatore, e saccheggiò orribilmente il territorio di Benevento e conquistò la città di Telesia. Dal Sannio, su consiglio di tre capuani fatti prigionieri al Trasimeno, Annibale marciò verso la Campania e, poiché dalle persone pratiche dei luoghi fu consigliato di andare attraverso il contado casinate, si affidò ad una guida, la quale avendo capito che i Cartaginesi volevano essere condotti a Casilino anziché a Casino, per il contado allifano, calatino e caleno, guidò Annibale nel piano stellatino.

La guida scontò poi con la crocifissione l'errore non suo.
Accampatosi nel piano stellatino, ANNIBALE inviò MAARBALE con parte della cavalleria a predare nel territorio falerno. Maarbale si spinse fino a Sinuessa, bruciando senza pietà le meravigliose campagne della Campania e distruggendo, al suo passaggio, tutti i paesi e le ville non riuscendo però a muovere le popolazioni dalla fede di Roma né ad attirare nella pianura Fabio, il quale dal monte Massico sorvegliava le mosse ed assisteva alla devastazione del nemico.
Intanto era trascorsa l'estate dello stesso anno 217 a.C., ed Annibale, vedendo fallita la speranza di sollevare la Campania e desiderando di trovare un luogo dove mettere al sicuro le prede fatte e anche per svernare, decise di dirigersi verso il mezzogiorno.
Attraverso delle spie queste intenzioni giunsero a conoscenza di QUINTO FABIO MASSIMO e volle approfittare del luogo svantaggioso in cui Annibale si trovava per chiudere l'esercito cartaginese.
Inviò pertanto quattromila uomini sulla strada, che dal Volturno porta ad Allife e chiuse il passo di Casilino, mettendo sulla sinistra del Volturno la guarnigione della città ed occupando con il grosso dell'esercito il monte Callicula sulla destra del fiume.
Annibale si accorse e intuì il piano di Fabio e cercò di farlo fallire con uno stratagemma che gli riuscì a meraviglia. Portatosi di nascosto nelle vicinanze del passo, ordinò, che, durante la notte, ASDRUBALE con alcune schiere armate alla leggera spingessero verso le alture che dominavano la strada, duemila buoi con legati alle corna singolari aggeggi che bruciavano, per far credere ai Romani che il suo esercito, al lume delle fiaccole, marciava in quella direzione.

Giunta la notte e messi in movimento i buoi per le colline, le guardie romane che custodivano i passi, vedendo tante fiaccole sulle alture, lasciarono i posti dove erano stati messi, e per paura di essere circondati, si ritirarono sulle cime più alte, dando così tempo all'esercito cartaginese di raggiungere il territorio allifano.

Qui lo seguì poi Fabio. Annibale giocò ancora d'astuzia: finse di dirigersi per il Sannio alla volta di Roma poi, giunto nel territorio dei Peligni, cambiò strada, puntò verso l'Apulia ed occupò la città di Geronio.

MARCO MINUCIO RUFO

La tattica di Fabio era senza dubbio eccellente e l'unica che si potesse allora usare contro un generale astuto e geniale qual'era Annibale; ma non era da tutti approvata. Nonostante avesse dato fino allora ottimi frutti, l'esercito romano non riusciva ad assistere inoperoso ed indifferente alle devastazioni consumate dalle truppe di Annibale e dentro nelle file delle legioni si era venuta formando una corrente ostile ai metodi del prodittatore, composta di giovani focosi ed impazienti che desideravano di misurarsi in battaglia con il nemico e decidere con le armi, anziché con il temporeggiare, le sorti della lunga guerra.

Alla testa dei malcontenti vi era il maestro della cavalleria, MARCO MINUCIO RUFO, che non si lasciava sfuggire nessuna occasione per criticare la condotta di Fabio.
Accadde che Fabio dovette lasciare l'esercito per recarsi a Roma a causa di alcuni riti religiosi che dovevano essere compiuti e il comando delle legioni rimase a Minucio, che si trovava accampato nel territorio di Larino (Campobasso) a poca distanza da Geronio.

Quantunque avesse ricevuto ordine dal prodittatore di seguire la tattica temporeggiatrice e di non assalire il nemico, Minucio Rufo non seppe resistere al proprio desiderio e a quello dell'esercito di misurarsi con i Cartaginesi e, presentatasi l'occasione, assalì improvvisamente un reparto nemico uscito in cerca di frumento, e violentemente lo sbaragliò, poi scrisse a Roma annunciando questo successo come una grande vittoria.

Il partito popolare esaltò la condotta del plebeo Minucio, condannando così la tattica di Fabio, la quale anche presso i nobili aveva trovato oppositori, e il tribuno della plebe MARCO METELLO propose che MINUCIO RUFO fosse innalzato alla dignità di Fabio e che si dividesse fra i due la dittatura e reclamò inoltre che il "Temporeggiatore", prima di tornare al campo, eleggesse il successore del morto console Flaminio.

La proposta di Metello caldamente appoggiata dal console CAJO TERENZIO VARRONE, demagogo plebeo che, figlio di un macellaio, aveva saputo acquistarsi il favore del popolo e ricoperto la carica di questore, di edile e di pretore, ottenne l'approvazione dei comizi e il maestro della cavalleria fu innalzato al grado di prodittatore.
QUINTO FABIO, creato console MARCO ATTILIO REGOLO, se ne tornò a Larino; e, avendo Minucio proposto che i due prodittatori tenessero un giorno ciascuno il comando supremo, Fabio si oppose e preferì che l'esercito si dividesse in due parti.
Annibale volle trarre profitto dalla nuova situazione dei Romani, fattasi debole per l'improvvisa mancanza dell'unità di comando; collocò cinquemila fanti in una valle per organizzare un agguato, poi inviò una piccolo contingente ad occupare un colle posto tra Geronio e il campo di Minucio allo scopo di provocare a battaglia all'impaziente capitano.

MINUCIO abboccò e inviò un corpo di armati alla leggera affinché cacciassero dalla collina occupata dal nemico. La battaglia, che si era accesa all'inizio fra poche truppe, ben presto assunse in breve vaste proporzioni, quando Minucio fu costretto a impiegare sempre più forze e alla fine tutte; ed è quello che voleva Annibale, che a quel punto ordinò ai cinquemila Cartaginesi posti in agguato di assalire alle spalle i Romani.

Questi sgomenti, iniziarono a ritirarsi dandosi alla fuga, e sarebbero finiti ugualmente in mano al nemico subendo una sanguinosa sconfitta se Quinto Fabio con le sue legioni non fosse intervenuto e costretto il nemico alla ritirata.
Solo allora Minucio si rese conto della bontà del metodo del collega e, Commosso e pentito, rinunziò alla sua nuova carica sostenendo che, non avendo saputo obbedire, non era nemmeno capace di comandare.

Si narra che Annibale, durante il combattimento, vedendo scendere Fabio dall'altura in soccorso di Minucio, disse: "la nuvola che soleva stare sui gioghi dei monti si è finalmente sciolta in tempestosa pioggia"

LA BATTAGLIA DI CANNE

Dopo sei mesi di prodittatura, QUINTO FABIO MASSIMO si dimise dalla carica e consegnò l'esercito ai consoli GNEO SERVILIO GEMINO e MARCO ATTILIO REGOLO.
Questi condussero la guerra secondo la tattica di Fabio, e - se dobbiamo credere a TITO LIVIO - Annibale si ridusse a tanta penuria di viveri che se la sua partenza non fosse sembrata una fuga egli se ne sarebbe ritornato volentieri in Gallia.

La prova migliore delle tristi condizioni in cui versava l'esercito cartaginese noi la troviamo nel contegno di Roma. La repubblica ormai è sicura della fedeltà delle popolazioni italiche, sa che Annibale è completamente isolato e non ha speranza di soccorsi da Cartagine; sa ancora che il nemico non è capace di costringere alla resa le città fortificate. La sua presenza non desta nemmeno le preoccupazioni di un tempo.
Roma agisce come se in Italia i Cartaginesi nemmeno ci fossero; a Penne re d'Illiria chiede il tributo o gli ostaggi; a Filippo il Macedone chiede che consegni Demetrio di Faro; rifiuta da Neapoli offerte di oro e di uomini; e vorrebbe perfino rifiutare gli aiuti del vecchio e fedele Cerone di Siracusa che gli offre una statua d'oro della Vittoria di trecentoventi libbre, trecentomila moggi di grano e duecento d'orzo, mille arcieri e mille frombolieri e venticinque quinqueremi; si lagna con i Liguri perché hanno aiutato Annibale con uomini e denari; manda al Po il pretore Lucio Postumio con una legione per sorvegliare i Galli; e dà facoltà a Marco Ottacilio vicepretore della Sicilia di portare la guerra in Africa.

Roma però pensa anche di finirla una buona volta con Annibale e, pur conoscendo la bontà della tattica temporeggiatrice, è d'avviso che si può sconfiggere il generale cartaginese opponendogli un esercito superiore di forze.
Pertanto alle cinque vecchie legioni ne sono aggiunte altre quattro e i soldati di ciascuna che prima ammontavano a quattromila fanti e a duecento cavalli, accresciute di mille pedoni e cento cavalieri; un numero uguale di fanti e un numero doppio di cavalli forniscono gli Italici. In definitiva fu allestito un poderoso esercito di novantamila soldati e di circa seimila a cavallo.
In un primo tempo è creato dittatore LUCIO VETURIO FILONE e maestro dei cavalieri MARCO POMPONIO MATONE, che durano però in carica soli quattordici giorni; succede un interregno alla fine del quale sono eletti consoli il patrizio LUCIO EMILIO PAOLO II, il vincitore delle seconda guerra illirica, e CAIO TERENZIO VARRONE, plebeo. Gli uscenti SERVILIO e REGOLO sono mantenuti in carica con il titolo di proconsoli.

Nel luglio del 216, i due nuovi consoli - dei quali il patrizio era prudente e seguace del metodo di Fabio, il plebeo impetuoso ma incapace di guidare un esercito in battaglia - a Geronio assunsero il comando delle truppe e stabilirono di tenere un giorno l'uno, un giorno l'altro, il supremo comando. Fin dai primi giorni cominciarono i dissensi tra i due capi ed Annibale, che si accorse subito della diversa indole dei due generali romani, cercò di trarne profitto provocando i nemici e tendendo loro insidie che, per la prudenza di Emilio Paolo, andarono a vuoto.
Trovandosi a corto di viveri, il Cartaginese pensò di trasferirsi nei piani dell'Apulia e levato il campo da Geronio per la via di Luceria condusse l'esercito a Canne, castello che sorgeva sulla riva destra dell'Ofanto tra Canusio (Canosa) e Barduli (Barletta).
Qui lo seguì l'esercito romano e qui il 2 agosto del 216, essendo quel giorno il comando supremo nelle mani del console Terenzio Varrone, avvenne la grande battaglia.
Lo schieramento delle truppe romane fu il seguente: alla destra, la cavalleria romana e le fanterie comandata da EMILIO PAOLO; alla sinistra, la cavalleria italica ed altre fanterie comandata da TERENZIO VARRONE; al centro, sotto il comando del proconsole Servilio, gli arcieri e lanciatori, congiunti con le legioni romane; in prima linea gli armati alla leggiera.

Annibale dispose il suo esercito a cuneo: nel centro le fanterie galliche ed iberiche; alle ali quelle cartaginesi; i cavalieri galli e spagnoli all'estrema sinistra; i Numidi alla destra.
Della sinistra era comandante ASDRUBALE, della destra MAARBALE; al centro stavano ANNIBALE e il fratello MAGONE. Il comando di tutta la cavalleria che raggiungeva il numero di diecimila la prese CARTALONE.

La superiorità numerica era dei Romani, i quali nonostante inferiori per numero di cavalieri, aveva il doppio di fanti; ma la disposizione era del tutto favorevole ai Cartaginesi. I Romani infatti, avevano davanti il sole e un vento che, soffiando da mezzodì, sollevava una densa polvere che accecava.
L'azione cominciò con scontri di avanguardie leggere, poi seguì il cozzo tra la cavalleria romana e quella dei Galli e degli Iberi. Il combattimento dei cavalieri fu breve ma accanito, ma in un ristretto spazio, limitato da un lato dal fiume e quindi non consentiva ai combattenti di distendersi e manovrare liberamente, di modo che i Romani cedettero al numero.
Ben presto, la battaglia infuriò al centro e all'impeto delle fanterie romane i Galli e gli Spagnoli non vollero né riuscirono a resistere, e spinti dai legionari, che assalivano furiosamente il centro nemico indietreggiò considerevolmente trascinandosi dietro i Romani, mentre i Cartaginesi delle due ali, con slancio, guadagnarono terreno alle due estremità.

I Romani, per l'imperizia di TERENZIO, non si accorsero che cadevano nell'insidia tesa da Annibale, il quale, quando vide che il nemico, quasi tutto in avanti e si accaniva al centro, a quel punto fece distendere in avanti le ali ed avvolse l'intero esercito avversario.
Da quel momento per le truppe della repubblica la battaglia era persa. Quando compresero di essere accerchiate era ormai troppo tardi, tuttavia cercarono di rompere l'accerchiamento e la battaglia continuò con un disperato accanimento, che meritava forse una migliore sorte.
Il console EMILIO PAOLO cercò di risollevare le sorti dei suoi uomini e, sebbene ferito, con un drappello di cavalieri ridiede vigore alla battaglia, poi, sceso da cavallo, imitato dai suoi, oppose ai soldati di Annibale una fiera resistenza.
Nobili, ma vani sforzi! Presi anche alle spalle da un corpo appiedato di cinquecento cavalieri numidi, i Romani si lasciarono prendere dalla sfiducia e dal terrore e cercarono scampo nella fuga, che a pochi però riuscì.
Narra TITO LIVIO che il tribuno militare GNEO LENTULO, cercando con la fuga di salvarsi, vide il console EMILIO tutto imbrattato di sangue seduto sopra un sasso e gli disse "O Paolo Emilio, tu che non sei il solo responsabile di questa sconfitta, eccoti il mio cavallo; salvati mentre ancora puoi e non rendere con la tua morte più grave la nostra disfatta!"
Ma il console rifiutò di allontanarsi, rispondendo: "Grazie, Lentulo, ma, pensando a me, non perdere invano il tuo tempo. Va' e di' al Senato che fortifichi Roma e la munisca di difensori prima che arrivi il nemico. E di' a Fabio Massimo che io sempre, in vita e in punto di morire, mi sono ricordato dei suoi precetti. E tu sii lieto che io muoia in mezzo alla strage dei miei soldati, affinché, vivendo, non accusi il mio collega per difendere la mia innocenza con la colpa altrui".

La turba dei Romani in fuga e dei nemici lanciati al loro inseguimento travolse l'infelice ed eroico console e Lentulo ebbe appena il tempo di mettersi in salvo sopra un vicino colle vicino.

Le perdite di Annibale furono lievi: ottomila morti; ma molto gravi quelle dei Romani. Settantamila soldati caddero, diecimila furono fatti prigionieri e solo settemila riuscirono a rifugiarsi a Canusio e a Venusia.
Fra i caduti furono Lucio Paolo Emilio, Gneo Servilio e Attillo Regolo proconsoli, due questori, Lucio Attilio e Lucio Bibaculo, ventuno tribuni militari e ottanta senatori che si erano volontariamente arruolati.
II console Varrone con cinquanta cavalieri riuscì a salvarsi fuggendo a Canusio.
La battaglia era finita con una delle più grandi disfatte. A Roma tacquero gli odi di parte, e fu chiuso nel cuore il dolore per la perdita di così tanti uomini.
Con la tristezza c'era però anche l'angoscia di un attacco alla capitale.

Come reagire davanti ad un'ora così drammatica, che minacciava seriamente l'esistenza stessa della repubblica?

La risposta nel prossimo capitolo….

…il periodo dall'anno 216 al 207 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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