ROMA E ITALIA

RELIGIONI - DIVINITÁ - CULTI

A parte qualche scarna notizia tramandataci molto più tardi, delle caratteristiche peculiari delle religioni e delle divinità che gli italici veneravano, noi non sappiamo quasi nulla.
Inoltre anche se erano state tramandate notizie dei residui antichi culti, i cristiani in senso dispregiativo hanno designato poi tutte le religioni non bibliche "paganesimo".

Paganesimo deriva da "pagos=contado", quindi "religioni del villaggio" o se vogliamo "credenze di villaggio". Che consistono essenzialmente in cerimonie intese propiziare la fecondità delle greggi e la fertilità dei campi, ma anche a proteggerli da poteri demoniaci, da animali o esseri umani nemici, dalla ostile natura e ad eliminare ogni contaminazione gravante su queste piccole comunità.

Già prima nelle caverne, poi nel villaggio, gli italici veneravano divinità funzionali a determinati atti, legati soprattutto all'agricoltura, che negli ultimi anni della preistoria, stava diventando la loro attività economica principale.
Per una società di questo tipo -di pastori e agricoltori - virtù essenziali sono: l'amore alla terra e al lavoro e il conseguente senso della realtà e del concreto; la temperanza (frugalitas); la serietà (gravitas); il coraggio e la prudenza; la fermezza di carattere; il culto di chi l'ha preceduto, quindi gli antenati; e la "pietas", che è quel sentimento di reverenza dovuto ai genitori, agli antenati e al luogo (poi chiamata Patria - cioè terra dei padri).
Il "paterfamilias" (che è il capo della famiglia, del clan, della comunità, che con il tempo si trasforma in "pagos" (villaggio), oltre che essere il saggio "maestro" nell'insegnare queste virtù e a fare apprendere i primitivi strumenti tecnici, diventa anche un "sacerdote", che per quanto lo faccia in un modo grossolano, permea il sentimento religioso tutta la vita degli individui a lui subordinati, ed è inviolabile ed assoluta la sua autorità, di modo che, sia a lui sia alla collettività è attribuito un carattere sacro.

Nell'uomo primitivo la rigenerazione vegetale era già un mistero, ma poi quando scoprì e si dedicò all'agricoltura - lui diventato stanziale e che diventa sempre di più l'agricoltura un'attività essenziale alla sua vita - e vi opera, interviene direttamente e partecipa a quel mistero, manipolando la rigenerazione (con il seme, il solco, l'irrigazione, la cura ecc.)- l'attività e i risultati che ottiene non sono più dovuti ad un fatto accidentale, ma l'agricoltura è anzitutto un ben preciso rituale spaziale e temporale.

L'agricoltore primitivo, penetra e si integra in una zona ricca di sacro; i suoi gesti, il suo lavoro sa che sono responsabili di conseguenze importantissime, perché si compiono entro un ciclo cosmico, e l'anno, le stagioni, il periodo delle semine e quello del raccolto, fortificano le proprie strutture e prendono ciascuno un suo valore.
Dunque le attenzioni sull'importanza di ogni singola azione non sono solo rivolte al fattore spaziale (terreno, seme, lavoro, ecc.) ma anche a fattori temporali (i mesi, le stagioni). Due fattori considerati entrambi "misteriosi", "sacri".
Anche perché ad aggiungersi a questi due fattori, c'è il terzo, che è causa di momenti drammatici, di angosce e di tensioni: e sono le forze distruttrici della Natura (temporali, alluvioni, gelate, siccità, parassiti ecc.) considerate come collera dello "spirito" che era padrone del terreno prima della coltivazione.

Ed ecco -sia per cattivarsi la benevolenza, sia allontanare la malevolenza - nascere riti semplici o elaborati, che tendono a stabilire relazioni favorevoli fra l'uomo e le "potenze" degli "spiriti"; e all'origine gli omaggi e le invocazioni, non erano per nulla indirizzate ad una precisa figura mitica, ma a degli oggetti (es. il chicco di grano) o agli atti stessi (es. la semina, il raccolto); solo in seguito "personificano" queste "potenze", di modo che l'intensità di queste personificazioni variano; ed è il momento degli dei.
Ci saranno dei e dee protettrici della casa, del giorno, del cielo, dei campi, del fulmine, del fuoco, delle messi, dei pascoli, dei boschi, dei fiori, degli orti, dei frutti, ecc. ecc. Si avvalgono di culti semplici e austeri, creando una "religione", che nell'esperienza del singolo uomo, è una forza che è sentita come superiore e che interviene nella vita umana che non è molto diversa da quella vegetale, con forme nuove e infinite della Vita, dove nulla muore realmente, ma tutto si reintegra nella materia primordiale e riposa aspettando una nuova primavera.
Tutto il mondo è basata sul ritmo, sull'eterno ritorno. E la convinzione che qualcuno governi tutto questo è sempre più forte.

Penetrando queste idee e culti dentro una collettività sempre più grande, è questa poi a fare da sostegno alle religioni.

Erano "religioni primordiali" ("naturalistiche", "popolari", anticamente anche "monoteistiche") che scientificamente non possono essere accertate; proprio per tale ragione la dogmatica, sia quella ecclesiastica-ortodossa, sia quella ispiratisi alle scienze naturali, si è occupata di queste religioni primordiali, e a tal riguardo si ha l'antitesi fra le teorie che concepiscono le origini come uno stato superiore e quelle che invece le concepiscono come uno stato inferiore: nel primo si parla di monoteismo primordiale; nel secondo caso si parla delle forme elementari della fede in una "potenza" o in "anime" (animismo) che a poco a poco hanno dato luogo a forme superiori.
Una concezione in un certo modo intermedia è quella di una "religione naturale" innata nell'uomo. Di modo che, alcuni sostengono che ogni religione, in quanto rivelazione, è primordiale, perché il concetto di rivelazione include quello dell'originario, di ciò che è mai stato.
Ma parlando di monoteismo primordiale, inteso come principio di ogni credenza in Dio, già presupposto della Bibbia (Gen.1 sgg.) in relazione ad una rivelazione originaria, è attestato in diverse popolazioni primitive.

Queste religioni popolari (quindi non nazionali, non universali - per molti il mondo era piccolo, esisteva solo il pagos- e questo era il suo solo mondo) creando poi dei simboli, sembrano poi allontanarsi dal monoteismo primordiale. Così diventerà corrente fare della "religione popolare" del paganesimo, o sinonimo di superstizione. Tesi contestata da molti perché la "religione popolare" comprende tutti i sentimenti, le idee e le attività di quel popolo aventi relazione con la sfera religiosa, ed essi vanno assai al di là da quella che è chiamata "superstizione". Adoravano i loro dei, o l'unico dio, con lo spirito, senza dare a questi nessuna forma materiale. E se prima erano degli oggetti, dopo sono forme astratte, alcuni divinificano l'uomo (in alcuni paesi il grande guerriero, il altri il saggio, in altri ancora il mistico).

Simboli e celebrazioni in loro onore -alcuni banalissimi- che è stato difficile in seguito -nei successivi 2700 anni- sradicare dal "villaggio" e poi dai "popoli" (simboli, riti, feste, ricorrenze, sacrifici) e che alla fine buona parte sono stati inglobati, o semplicemente affiancati (anche se con altri nomi) nei riti, feste, ricorrenze, sacrifici, nelle religioni monoteistiche rivelate (oltre a chiamare pure certe istituzioni e gli addetti con lo stesso nome).

La notevole circolazione di fatti culturali nella penisola, a partire dall'VIII secolo, assicurò una serie di esperienze comuni, nonostante molte divisioni politiche e la perdita delle autonomie locali. Queste esperienze (ma spesso imposizioni dall'alto) ci furono pure nel campo religioso.
Delle altre regioni italiche sappiamo poco e quasi nulla; ci resta però la storia romana, che oltre a farci seguire l'evoluzione religiosa, qui e là, ci narra una miriade di credenze che allora erano presenti e osservate a Roma e nelle numerose regioni conquistate a partire dal V secolo.

Nella metà del IV sec. a. C. i Romani conservavano ancora la loro rozza religione originaria, poco diversa da quella delle altre popolazioni italiche, e solo leggermente influenzata nel culto da qualche abitudine etrusca o greca.
Quasi del tutto prive di mitologia, le divinità romane erano concepite come forze dalle quali dipendono i fenomeni della natura che più da vicino interessano i coltivatori della terra, o presiedenti ai vari momenti della vita umana, "forze occulte, inafferrabili, che si conoscono solo per gli effetti che producono e non si individuano che in un atto determinato; per modo che la personalità di tali dèi non si precisa abbastanza per entrare in una forma umana" (Marquardt). Donde l'assenza assoluta di immagini religiose nel culto latino, accontentandosi i Romani di conoscere dei loro dèi soltanto il nome e le particolari competenze, per poterli invocare a proposito, onde essere da loro protetti. Perché tutto il culto romano si riduce in sostanza a pratiche dirette ad assicurare agli uomini, o meglio ai raggruppamenti umani (famiglia, gente, stato), la benevolenza degli dèi, affinché la vita sociale possa svolgersi felicemente e l'associazione che invoca gli esseri divini possa trionfare su le altre.
Queste usanze religiose, cultuali, a carattere sempre più regolare, definite attraverso una tradizione, diventano riti, che forse in origine erano tenuti segreti dall'unico "sacerdote" del villaggio, ma che poi diventato questo una popolosa "città" s'impose la moltiplicazione degli "officianti", e quindi nacque la necessità di una definizione scritta in libri rituali (Rituale Romanum).

"Religio" infatti, secondo gli stessi Romani (Cicerone la fa derivare da "redigere" cioè "osservanza"; ma in seguito Lattanzio la farà derivare da "religare", cioè da "connettere" vincolarsi a Dio) non significava che cura meticolosa nell'osservare le pratiche dovute verso gli dèi; perché altrimenti le cerimonie avrebbero perduto qualsiasi valore, qualora fossero state menomamente alterate le norme prescritte del culto.
Tali norme erano contenute negli "indigitamenta", redatti dai Pontefici; in questi erano enumerate le forze divine di cui conveniva implorare il soccorso in ogni singolo caso, e di cui nessuna doveva essere omessa, se non si voleva che la preghiera fosse inefficace; ed erano pure prescritte le regole del culto da osservarsi in ogni minima circostanza della vita domestica, quali la celebrazione del matrimonio, la nascita di un bambino, l'inizio di una professione, ovvero nelle diverse età dell'uomo e perfino nelle banalissime cose (nell'odierno Giappone è tuttora così).
Nello stesso modo erano rigorosamente fissate dalla consuetudine le pratiche religiose inerenti alla vita della gente e della "civitas", nessun atto importante della quale si sarebbe iniziato senza che fossero state compiute le pratiche dovute verso le divinità.

LE DIVINITÀ ROMANE

Dato il loro carattere, le divinità romane erano naturalmente molte numerose (in Giappone sono ancora oggi 800!) quantunque molte volte nomi diversi con cui esse si trovano denominate non corrispondano ad altrettante divinità, bensì soltanto a vari attributi di uno stesso dio.
Fra le più antiche divinità romane, di origine latina o sabina, le più importanti erano: GIANO, principio di tutte le cose, dio di ogni inizio (anche dell'anno, "gennaio" che da lui prende il nome), il Sole luminoso da cui tutto ha vita, col nome del quale s'iniziavano cerimonie religiose (e che si credeva essere stato il più antico re del Lazio); DIESPITER (=padre del giorno) o JUPITER, altro dio della luce celeste, forse in origine nient'altro che un attributo di Giano; come pare lo fosse pure la terza grande divinità romana QUIRINO; allo stesso modo che JUNO e DIANA non erano probabilmente che due diverse denominazioni di una stessa divinità femminile, parallela al dio celeste luminoso, corrispondente cioè alla Luna, sorella del sole, considerata protettrice delle donne in procinto di divenire madri. Altre divinità adorate anticamente nel Lazio erano pure VULCANO, dio del fuoco, MINERVA, protettrice degli artigiani, FORTUNA, apportatrice di progenie e di ricchezze.
Ma la maggior parte delle divinità romane erano di carattere agricolo, quali SATURNO, dio dei seminati (che, secondo antiche leggende, diceva avere soggiornato nel Lazio, ospite di Giano, facendovi fiorire la meravigliosa "età dell'oro", quando tutti gli uomini erano buoni e felici; CERERE, dea della fecondità dei campi; VENERE, dea degli orti; FLORA, dei fiori; POMONA, dei frutti; OPS, la terra generatrice ricchezze agli uomini, quindi dèa dell'abbondanza; CONSO, protettore del grano raccolto nei granai e degli animali agricoli; PROSERPINA, presiedente alla germinazione delle messi; LIBER, dio del vino (?), forse così detto in quanto l'ebbrezza libera dalle cure; MARTE, protettore dell'agricoltura primaverile; VERTUNNO, presiedente alla trasformazione dei vegetali nel corso dell'anno; e finalmente TERMINE, protettore dei confini e in origine la pietra stessa dei confini dei campi.
Parecchie altre divinità erano di carattere essenzialmente pastorale o boschereccio, quali PALE, protettrice delle gregge e dei pastori; SILVANO, presiedente alla vegetazione dei boschi; FAUNO, la cui voce misteriosa risuonava nella foresta; mentre altri dèi ancora presiedevano ad un dato fiume o fonte, quali TIBER o RUMON (il Tevere) e le ninfe GIUTURNA (una fonte del Foro romano) ed EGERIA (= che trae fuori le acque dalla terra).

Vi era inoltre tutta una serie di dèi che presiedevano ad ogni momento della vita umana: CUNINA, protettrice del bimbo nella culla, POTINA, che gli insegnava a bere, EDUCA, a mangiare, STATILINO a camminare, ecc. Altre divinità erano in particolare addette alla protezione di ogni casa (LARI), di ogni famiglia (PENATI), di ogni uomo (GENII).
Ed oltre a tutti questi dèi "certi" (di cui si conoscevano esattamente le attribuzioni), i Romani ne avevano molti altri "incerti", la cui competenza cioè non era ben definita.

DIVINITÀ IMMIGRATE

Con l'andare del tempo la cerchia delle divinità romane si andò sempre più allargando, in quanto i Romani erano portati a adorare, per timore di offenderle non facendolo, le divinità di tutti i popoli con cui venivano a contatto; cosicché si ebbe in Roma il culto di JUNO SOSPITA, venerata nella città latina di Lanuvio, della dea FERONIA, propria di Capena; mentre si importò dall'Etruria il culto delle tre divinità JUPITER, JUNO, MINERVA, venerate, come facevano gli Etruschi, in un solo tempio (il più antico che sorgesse sul Capitolino). Ma sopratutto, fin dai più antichi tempi, fu importante 1'importazione in Roma di divinità elleniche. Tali furono VESTA (Hestia), protettrice del focolare, quale simbolo di associazione umana (famiglia, stato), ed ERCOLE (Heracle), venerato in Italia quale dio di ogni insperato guadagno.

Una larga introduzione di culti greci, si ebbe poi verso il 500 a. C. quando furono portati da Cuma a Roma cosiddetti "LIBRI SIBILLINI", che si credevano contenere consigli circa la condotta religiosa cui Roma doveva attenersi nelle più gravi contingenze. Poiché tali libri, di origine egea (si diceva provenissero dalla Troade), e prescrivevano naturalmente il culto di divinità elleniche, Roma prese a venerare tali nuove divinità (APOLLO, LATOVA, DITE o PLUTONE, CASTORE e POLLUCE, ecc.), mentre sul modello di altri dèi greci si modificava la fisionomia di vecchie divinità italiche. Questo si continuò a farlo anche in seguito, man mano che crescevano i rapporti con il mondo greco. Così MARTE si identificò "Ares", SATURNO con "Cronos", VENERE con "Afrodite", DIANA con "Artemide", LIBERO con "Dioniso" o "Bacco", PROSERPINA con "Persefone", CERERE con "Demetra", JUPITES con "Zeus", JIURO con "Hera", VULCANO con "Hefesto", FAUNO con "Pane".

Nello stesso tempo alcune divinità Greche, pur senza confondersi con altre italiche, ricevevano, immigrando a Roma, nomi nuovi latini: così "Hermes" fu detto MERCURIO protettore dei mercanti, "Poseidone" NETTUNO (dio del mare) e "Asclepio" ESCULAPIO (dio della medicina).

IL CULTO

Anticamente, lo abbiamo detto all'inizio, i Romani non rappresentavano i loro dei in aspetto umano, ma ne adoravano lo spirito, senza dare a questo nessuna forma materiale. Fu soltanto in tempi relativamente tardi che al contatto con gli Etruschi prima, con i Greci poi, si presero l'uso di erigere templi ai più importanti fra i loro dèi ("dèi selecti"). Nei templi si celebrava il culto alla divinità il cui tempio era dedicato, come prima si faceva in luoghi sacri all'aperto, sacrificando, su un altare (ara), animali utili (toro, pecora, maiale).
Nel tempio si raccoglievano pure i doni offerti al dio, fra rituali erano anche figure di cera o di pane, rappresentanti animali, in sostituzione di sacrifici cruenti.
Se i sacrifici erano fatti particolarmente nelle cerimonie pubbliche, in ogni casa si facevano agli dèi offerte di vivande; primizie di frutta, latte, vino, focacce.
Ma i sacrifici e le offerte non erano mai fatte senza essere accompagnate da una preghiera, cioè dalla richiesta al dio di un beneficio in cambio del dono fattogli; talora poi, pregando, il Romano prometteva al dio un dono qualora il beneficio gli fosse stato accordato (voto). Né si ammetteva che il dio potesse, senza disdoro da parte sua, venire meno al contratto stipulato con un mortale, che si fosse nella cerimonia attenuto scrupolosamente alle norme prescritte.

Quando più tardi s'introdusse a Roma il culto greco, anche o Romani presero l'uso di rappresentare in forma umana gli dèi, collocandone l'immagine nei templi; pure per influenza dei libri sibillini s'introdusse l'uso di cerimonie evidentemente di origine orientale, come il "lectisternio", consistente in sacrifici ed offerte fatte agli dèi rappresentati sdraiati su un letto, nell'attitudine preferita dai Greci per pranzare; e le supplicazioni fatte da tutto il popolo nei templi, dopo la consultazione dei libri sibillini.

Altre pratiche religiose romane erano le purificazioni o "lustrazioni" (da "lustrare"= espiare, purgare), che si compivano nelle case dopo la nascita di un bambino od una morte, e nella città quando si aveva motivo di credere che l'alleanza con gli dèi fosse stata turbata a causa di qualche sacrilegio avvenuto, o, anche senza che la causa ne fosse conosciuta, quando qualche fenomeno eccezionale desse a temere che gli dèi fossero irritati contro Roma.

SACERDOTI

I singoli Romani non avevano bisogno di sacerdoti per le loro cerimonie religiose, che ogni famiglia celebrava nella propria casa; ma i sacerdoti erano necessari per le funzioni da farsi in nome di tutto lo stato. In origine il supremo moderatore della vita religiosa pubblica era il capo stesso dello stato, il rex; e sempre il re, divenuto "rex sacrificulus", investito cioè di sola autorità religiosa, conservò nominalmente il primo posto fra i sacerdoti romani.
Lo stesso Romolo, aveva alla fondazione di Roma un autorevole potere religioso e sacrale; molto debole invece quello politico, solidamente conservato da un'oligarchia patrizia (patres) già presente in precedenza sul territorio, soprattutto nei vicini villaggi dislocati sui colli Albani (lega latina).

Con l'andare del tempo la maggior somma di autorità passò al PONTEFICE MASSIMO, il quale prese pure, come il re, a risiedere nella Reggia (Regia).

In precedenza, molta dell'autorità di cui godeva il re, lo si deve che lui si considerava anche come capo della religione. Al dissidio con i sacerdoti sono da ascriversi alcuni avvenimenti che indeboliscono e a volte mettono l'autorità regia in serio pericolo. Alla religione si deve anche il prestigio che Roma acquista quando ottiene la supremazia nella Lega Latina (che in origine, era a carattere religioso); supremazia questa che in seguito sarà sfruttata per il raggiungimento di altri scopi.

Il PONTEFICE MASSIMO, assistito dal "Collegio dei Pontefici" (Livio attribuisce a Numa quest'istituzione), presiedeva a tutta la vita religiosa romana, prescrivendone le norme e provvedendo alla nomina di altri sacerdoti.
Fra questi i più importanti erano i tre "Flamini" maggiori, assegnati al culto di Giove, Marte, Quirino (altri dodici Flamini erano addetti ad altrettante divinità minori); i ventiquattro "Salii", sacerdoti di Marte, i quali custodivano i 12 scudi e le lance sacre al dio, che durante il mese di Marzo essi portavano in giro per la città, cantando antichi carmi sacri e danzando; le "Vestali", addette alla conservazione del fuoco sacro della città, acceso nel tempio di Vesta, scelte fra le più giovani delle più autorevoli famiglie romane e fatte segno ai massimi onori, ma soggette ad una disciplina rigorosissima, per cui erano condannate ad essere sepolte vive, qualora venissero meno ai loro doveri; gli "Auguri", i quali avevano l'ufficio di indagare la mente degli dèi, osservando il volo, il canto ed altre manifestazioni della vita degli uccelli ("auspicium" od "avispicium"); perché i Romani non credevano di poter intraprendere nessun atto di una certa importanza senza aver prima preso l'"augurio", né assegnare un'area alla costruzione di un tempio o ad altro uso solenne, senza che questa fosse stata "inaugurata", cioè delimitata dagli auguri per prendervi l'auspicio.

Seguivano per importanza i venti "Feciali", i quali avevano il particolare ufficio di funzionare quali ambasciatori; i "Quindecemviri sacris faciundis", custodi dei libri sibillini ed incaricati della consultazione dei medesimi e del culto delle divinità forestiere ("dei peregrini"); i "Settemviri epuloni", cui spettava il compito di allestire il grande banchetto che nelle Idi di Novembre si offriva in Campidoglio a Giove, Giunone e Minerva, al quale partecipavano i Senatori e tutti i magistrati romani; i "Lucerci", sacerdoti di Fauno (detto anche Luperco, in quanto protettore delle gregge contro i lupi), i quali, durante certe feste di purificazione della città, che si celebravano nel mese di Febbraio ("Lupercalia"), correvano per le vie di Roma recando in mano delle strisce di cuoio o "februe" (donde il nome di febbraio dato al mese), con cui sferzavano tutte le donne che incontravano (queste non si difendevano, convinte che le februe avessero il potere di purificare e conciliare la felicità coniugale); i dodici fratelli "Arvali", cui spettava celebrare sacrifici in un bosco sacro, lungo il Tevere, allo scopo di ottenere la fecondità dei campi e l'abbondanza dei raccolti, eseguendo, durante la cerimonia, danze accompagnate dal canto di un carme (Carmen fratrum Arvalium).

D'altra parte riconoscimento pubblico ebbero pure in Roma gli "Aruspici", sacerdoti etruschi abili nel leggere la mente degli dèi e il destino delle cose umane nelle viscere degli animali sacrificati.

CULTO DEI DEFUNTI

I Romani in origine, come tutti i popoli primitivi, dovevano ritenere la tomba stessa dimora del defunto; donde l'uso di collocarci dentro tutto quanto poteva servire in vita; più tardi immaginarono tutti i morti coabitanti in un luogo comune sottoterra, detto ORCO, in quanto tiene i morti lontani (da arceo = tengo lontano) dal mondo dei vivi: luogo che si personificava talvolta in un dio omonimo, il quale per altro non aveva nessuna importanza circa la sorte dei suoi ospiti. Questi, senza nessun rapporto con la loro condotta in vita, conducevano nel fosco Orco (cimitero) un'esistenza piuttosto triste, a cui era data interruzione nei giorni consacrati al loro culto, quando essi potevano, attraverso qualche spiraglio che comunicasse con il mondo esterno, venire fra i vivi.
La loro condizione sottoterra poteva poi essere alquanto addolcita per mezzo di offerte fatte loro dai parenti, che essi proteggevano quali dèi MANI; laddove li spaventavano con i loro ululati di LÈMURI o LARVE, quando restassero privi delle dovute cerimonie.

COSTUMI

Mentre la religione dei Romani nulla ci dice circa, la loro morale e i loro costumi, in quanto nessun altro dovere la religione romana imponeva se non l'osservanza meticolosa delle forme esteriori del culto; eloquenti per contrario sotto questo rispetto sono le antiche leggende, le quali, quando pure non siano attendibili circa il valore dei fatti storici da queste narrati, c'interessano tuttavia al massimo grado, in quanto riflettono la mentalità, i costumi, i concetti morali dei tempi in cui esse si formarono, cioè dei primi secoli della vita romana.
Ora in tali leggende noi vediamo ritratti costumi quanto mai semplici. Agricoltori e allevatori di bestiame, i Romani di quei tempi, conducevano vita modestissima, attendendo essi stessi ai lavori dei campi (Leggenda di Cincinnato) ed alle faccende domestiche (Leggenda di Curio Dentato).
I costumi raffinati dei vicini Etruschi erano imitati soltanto, e molto modestamente, in qualche forma della vita pubblica (littori, toga pretesta e sedia curule), affatto in quella privata; che anche gli avanzi archeologici conservati nelle antiche tombe romane sono di una povertà del tutto in contrasto con la ricchezza delle coeve etrusche.

Né la coltura intellettuale di quei Romani doveva essere superiore alla modestia della loro vita; perché, mentre non ci restano di quell'età vestigia di altre opere architettoniche, se non delle cloache e delle mura fortificate, costruite probabilmente durante la dominazione etrusca e quasi certamente sotto la direzione di artefici etruschi; non è di quei tempi pervenuta altra opera letteraria all'infuori di qualche rozzo carme sacro e del testo delle leggi delle XII Tavole.
Queste leggi concorrono con le leggende ad attestarci una società civile ancora molto primitiva, quasi barbara. Nella famiglia il padre gode di potere assoluto, con diritto di vita e di morte, su la moglie, i figli, gli schiavi; né il figlio può ottenere di essere emancipato dalla "patria potestà" senza una "deminutio capitis", per cui egli perde il diritto all'eredità paterna ed all'esercizio delle sue funzioni familiari. Poco è tutelata l'incolumità delle persone, in quanto si ammette che ciascuno sappia difendersi da sé; ma severissimamente sono puniti, spesso con la pena di morte, gli attentati contro la proprietà; mentre il debitore insolvibile cade in potere, quale schiavo, del creditore.
Fra le pene non esiste il carcere, bensì soltanto l'ammenda in denaro, la battitura con le verghe, il bando e la morte, per lo più per decapitazione.

MORALE

Ma, se i costumi civili dei Romani nei primi secoli della loro storia poco differiscono da quelli di tutti gli altri popoli primitivi, un carattere tutto particolare ha la loro morale politica. Prima di essere uomo e membro della famiglia, il Romano è cittadino: per lui la città è tutto e nulla vale la sua propria vita e quella dei suoi più cari familiari di fronte allo stato. Così nelle antiche leggende abbondano gli esempi di Romani che, senza esitazione, quasi con gioia, sacrificano o mettono a repentaglio la vita per la patria (Orazio Coclite, Muzio Scevola, gli ottanta senatori che rimangono nella Curia a farsi trucidare durante l'irruzione dei Galli, Marco Curzio, i due Decio Mure, ecc.; e di altri che rinnegano i loro figli, perché rei di condotta riprovevole verso la repubblica, come Giunto Bruto, come Veturia, madre di Coriolano).

L'amore verso la patria non si esplica per altro per il Romano in un insensato fanatismo di sacrificio, bensì sopratutto in un religioso culto della disciplina, ritenuto strumento essenziale della grandezza romana. Così Tito Mando Torquato condanna a morte il proprio figlio, sebbene vincitore del nemico, perché disobbediente agli ordini ricevuti, ed altrettanto fa del proprio luogotenente L. Papirio Cursore .
D'altra parte il Romano antico, pur essendo appassionato alla fortuna della patria, è non meno amante dell'onore, e gli suscita avversione commettere, sia pure a vantaggio dello stato, qualsiasi slealtà. Così il Senato romano, durante la guerra con gli Etruschi di Chiusi, rimanda al nemico Clelia data in ostaggio al lucumone Porsenna, era riuscita, fuggendo a ritornare in Roma;
Camillo respinge sdegnosamente Verta del pedagogo dei Falisci di consegnargli nelle mani i suoi scolaretti; e Fabrizio che rifiuta sdegnato la proposta del medico di Pirro, che vuole avvelenare il proprio padrone. Ed ancora massimo vanto per i Romani antichi l'essere osservanti, anche a costo della vita, della parola data ai nemici (come Attilio Regolo).
Nemmeno la morale privata era in disaccordo con questi severi concetti della morale pubblica: così Lucrezia, si dà la morte piuttosto che sopravvivere al proprio disonore di donna; o come Virginio che uccide la propria figlia, perché essa non sia disonorata cadendo nelle mani del tiranno.
(tutti questi fatti li ritroveremo narrati nelle pagine dei vari periodi).

Insomma la cura dell'onore particolare e familiare non sovrasta mai nel Romano l'interesse per la città, che tiene il primo posto nel suo animo....

ED È QUESTO
UNO DELLE PRIME CAUSE DELLA GRANDEZZA DI ROMA

Ora è appunto in questo amore verso la patria, che soffoca ogni altro sentimento, che va ricercata la causa prima della grandezza di Roma. Con qualunque altro popolo i Romani si misurino essi saranno sempre i più forti per quanti siano le forze e il numero dei nemici, per ciò che essi, come individui, sono disperatamente risoluti a tutto dare per la fortuna della patria; non vi sarà fatica, privazione, sacrificio al quale possono arrestarsi quand'esso giovi allo stato. E poiché nessun altro popolo dell'antichità può con essi rivaleggiare in questo assoluto amore di patria, i Romani riusciranno più forti di tutti e potranno dominare su tutti.

Ma i romani non soltanto seppero sottomettere tutti i popoli civili del loro mondo; essi riuscirono altresì a ciò di cui mai si era avuto fino allora esempio: mantenere con tanti popoli diversi, soggetti per secoli e secoli al loro dominio, così da fonderli in un'unica civiltà, di cui molto sopravvive ancora oggi nella nostra civiltà moderna. E questo fu possibile innanzitutto per quel profondo senso di disciplina, che, conseguenza della devozione per lo stato, è tutto caratteristico dei Romani antichi; i quali soggiogando un altro popolo, non si curano di trarne vantaggi individuali, ma continuano a mantenersi dopo la conquista, come durante la guerra, ossequenti alle disposizioni di chi ha il supremo comando e provvede perché con una razionale sistemazione del paese sottomesso, la conquista possa essere duratura. Al che i legislatori e uomini politici romani riuscivano in grazia di uno spirito di sana praticità, che è pure caratteristico dei Romani; i quali non si accontentavano di creare ai loro sudditi delle condizioni materiali vantaggiose, così da non fare riuscir loro pesante il dominio di Roma, ma, animati da un largo sentimento di tolleranza per le idee ed i costumi altrui, anziché opprimere le civiltà diverse dalla loro, le lasciavano svolgersi liberamente, pronti anzi ad assimilarne quanto loro sembrasse buono, riuscendo pure, in virtù di tale loro tolleranza, ad ottenere per reciprocità che i sudditi accettassero senza ripugnanza la civiltà romana, elaborazione di quanto di meglio avevano offerto a Roma tutti i popoli con cui la città era venuta a contatto.
Per tal modo, più che per il dominio politico, Roma fu potente e grande per l'opera, senza esempio nel mondo, svolta nel campo della civiltà, che con Roma esce dall'era antica, per trasformarsi nella civiltà moderna universale.

Non voglio qui fare della retorica, né enfatizzare, ma chi oggi ha l'occasione di visitare tutti i territori dell'ex Impero Romano (chi scrive ha visitato 25 attuali nazioni) non può che rimanere sbalordito.

Senza dubbio ai Romani fu possibile compiere la loro grande azione nel mondo, in quanto essi abitavano una terra che è nel centro dell'Italia, laddove questa è nel cuore del Mediterraneo, i cui paesi costieri costituivano quasi tutto l' "orbis terrarum" antico; ma la causa efficiente della grandezza di Roma è essenzialmente da ricercarsi nella elevatissima morale politica del suo popolo e nel suo senso di praticità.

Tutti gli stati moderni, anche quando non si compiacciono di ostentare la loro romanità, si possono considerare emanazione, quasi direi continuazione attraverso i secoli, dell'antico impero romano…

… il primo stato universale di cui si avesse esempio nel mondo.

PROSEGUI CON I VARI PERIODI

 

Fonti bibliografiche
A. BERTHOLET - DIZIONARIO DELLE RELIGIONI - Ed. Riuniti
MOTTA-CIACCIO - STORIA E CIVILTA' ROMANA - Ed. Paravia
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
ENCICLOPEDIA EUROPEA - GARZANTI
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE