ROMA ORIGINI
(secondo gli scrittori antichi)


Origini - "leggende" e "storie" della Storia romana

(Da Erodoto, Storie, I, 94) - L'immigrazione dei Tirreni Lydi in Italia. I Lydi raccontano che essi mandarono una colonia nella Tirrenia. Ecco, secondo come dicono, come andò il fatto:
Sotto il regno di Atys, figlio di Manes, tutta la Lydia fu afflitta da una grande carestia, che i Lydi sopportarono per qualche tempo con pazienza. Ma, poiché durante diciotto anni il male, anziché  diminuire, aumentava, il re divise tutti i Lydi in due parti, delle quali fece tirare a sorte quale dovesse restare in patria e quale partire. Quella che la sorte destinava a restare ebbe per capo il re stesso e suo figlio Lydo, l'altra che doveva emigrare, l'altro figlio di Atys, Tyrreno.
I Lydi che la sorte costringeva ad abbandonare la propria patria andarono dapprima a Smirne, dove costruirono navi, sulle quali, dopo avervi caricata ogni sorta di mobili e cose utili, salparono in cerca  di una terra ospitale. Dopo avere toccati vari paesi, approdarono in Umbria, dove si costruirono delle città che abitano oggi ancora. Senonché, là giunti, essi abbandonarono il nome di Lydi, per assumere quello di Tyrreni, dal nome del loro capo, il principe Tyrreno".

(Da Strabone, libro V) - " I Romani chiamano i Tyrreni Etruschi o Tusci. I Greci hanno 
dato loro questo nome di Tyrreni da Tyrreno, figlio di Atys, che condusse, a quanto si racconta, una colonia di Lydi in quel paese.
Giacché il re Atys, essendo il paese afflitto da carestia, fece tirare a sorte quale dei suoi due figli dovesse emigrare con una gran parte del popolo. Questa sorte toccò a Tyrreno, mentre il fratello Lydo, favorito dalla sorte, rimase in patria col padre."

Le LEGGENDE  relative alla fondazione di Roma
(Da Tito Livio, Istorie, I)

Presa Troia, si fece scempio di tutti gli altri Troiani, ma verso Enea non usarono i Greci alcun diritto della vittoria, sia per ragion di antica ospitalità, sia perché aveva sempre consigliata la pace e la restituzione di Elena. Pertanto Enea, scortato dal destino a dar principio a cose maggiori, dicono che prima calasse in Macedonia; indi cercando dove stabilirsi, fosse balzato in Sicilia, e dalla Sicilia approdasse alle terre di Laurentano. Sbarcati i Troiani e datisi a predare i campi come quelli cui null'altro restava dalla loro quasi interminabile navigazione che le armi e le navi, il re Latino e gli Aborigeni, che tenevano allora quei luoghi, accorsero armati dalla città e dal contado a respingere la violenza degli stranieri: alcuni dicono che, vinto in battaglia, il re Latino stringesse pace, indi affinità con Enea; altri che, come si muovessero gli eserciti, e prima che suonassero le trombe, si avanzasse il re Latino in mezzo ai suoi capitani e chiamasse a parlamento il duce degli stranieri; indi, avendo chiesto chi mortali fossero mai, e da dove e per quale ventura erano partiti dalla loro patria; poi inteso che era gente troiana, che il capitano Enea, figlio di Anchise e di Venere, e che, arsa la patria, andavano peregrinando, cercando dove restare e un sito dove fondarvi una città, ammirando l'alta chiarezza della nazione e dell'eroe, pronto alla guerra del pari che alla pace, porgendogli la destra, giurasse fede di futura amicizia. Quindi i due capi si strinsero in lega, gli eserciti si salutarono. Enea fu accolto in casa dal re Latino, dove questi, davanti agli Dei Penati, aggiunse alla pubblica la domestica alleanza, concedendogli in sposa la propria figlia. In seguito i Troiani costruirono una città che Enea, dal nome della moglie, chiamò Lavinio. 

Indi Turno, rè dei Rutuli, a cui era stata promessa Lavinia innanzi la venuta di Enea, mal soffrendo che gli fosse preferito uno straniero, fece guerra a un tempo ad Enea ed a Latino. Nessuna parte uscì lieta da tale conflitto. I Rutuli furono vinti, i Latini ed i Troiani, vincitori, vi perdettero il capo, Latino. Allora Turno e i Rutuli, temendo per le cose loro, ricorsero alla potenza degli Etruschi, ch'erano in fiore ed al loro re Mesenzio; e questi, che aveva la signoria di Cere, città a quei dì potentissima, sin da principio nulla contento della fondazione della nuova città, vedendo che lo Stato troiano cresceva ormai troppo più che non si convenisse alla sicurezza dei vicini, senza farsi pregare, alleò alle sue armi i Rutuli. Enea, per conciliarsi l'animo degli aborigeni in mezzo al terrore di tanta guerra, e perché avessero tutti non solo uno stesso governo, ma un nome stesso, chiamò Latini l'una e l'altra nazione, né di poi gli aborigeni cedettero ai Troiani in devozione e fedeltà verso di Enea. 
Egli, affidatosi a tali disposizioni dei due popoli, che ogni giorno si univano insieme, benché sì grande fosse la potenza dell'Etruria, che aveva già empito di sua fama non solamente la terra, ma il mare ancora per tutta la lunghezza d'Italia, dall'Alpi al mar di Sicilia, benché potesse dentro le mura ribattere il nemico, trasse fuori l'esercito a battaglia.
Fu questa la seconda guerra dei Latini, e fu anche l'ultima opera mortale di Enea. Egli giace, comunque sia giusto o lecito chiamarlo, in riva al fiume Numide, col nome di Giove Indigete.

Ascanio, figlio di Enea (e non si sa se della prima moglie di costui, Creusa, ovvero di Lavinia), sovrabbondando già Lavinio di popolazione, lasciò alla madre, o matrigna che fosse, il possesso della città, per quei tempi assai florida e doviziosa; egli ne fabbricò un'altra sulla costa del monte Albano, che, dal sito, fu chiamata Albalunga (o Albalonga) come quella che si stendeva lungo il declivio. 

Dalla fondazione di Lavinio al trasporto della colonia in Alba passarono circa trent'anni; e nello stesso tempo era cresciuta la potenza dei Latini, specialmente dopo la rotta degli Etruschi, che né alla morte di Enea, né poi durante la tutela di una donna e la prima esperienza di un re giovanotto, osarono mai muovere in armi contro di essi, né Mesenzio con i suoi Etruschi, né alcun altro confinante. 

Si era con la pace convenuto che il fiume Albula, oggi Tevere, fosse il confine fra gli Etruschi ed i Latini. 
Dopo altri 10 re, tutti discendenti da Ascanio o Giulo, regnò Proca, che generò NUMITORE e AMULIO, e lasciò proprio a Numitore, maggiore di età, il regno. Riuscì peraltro più la violenza che le disposizioni del padre o il riguardo all'età. Amulio, cacciò Numitore, usurpò il regno, e, aggiungendo delitto a delitto, uccise i figli maschi del fratello; poi elesse a Vestale, sotto pretesto di onorarla, la figlia di lui Rea Silvia, e, la costrinse a perpetua verginità, togliendo ad essa ogni possibilità di prole.

 Ma era, io credo, ordinata dai fati l'origine di sì grande città, e il principio di un impero, dopo quello degli Dei, il più possente. 
La Vestale diede alla luce due gemelli, di cui ella disse padre il dio Marte. Ma né gli Dei, né gli uomini sottrassero la madre e la prole alla crudeltà del tiranno Amulio; che fece prendere la sacerdotessa per imprigionarla, e comandò che i due bambini fossero gettati nella corrente dei fiume Tevere. 
Per fortunata sorte, e si dice non senza consiglio divino, il Tevere in quei giorni, straripando, si era sparso in una quieta laguna; non ci si poteva da alcuna parte avvicinare al vero letto e alla corrente del fiume, e quelli che vi portavano i fanciulli credevano che si sarebbero potuti annegare anche là, dove l'acqua invece languidamente stagnava. Così pensando di aver adempiuti gli ordini del re esposero i bambini nella gora più vicina, dov' è ora il fico Ruminale, e se ne andarono
Erano quei luoghi a quel tempo vaste solitudini. Vuole la tradizione che, avendo l'acqua, nel ribassarsi, lasciato in secco il canestro galleggiante, entro cui erano stati esposti i fanciulli, una lupa vagante, scesa dai monti vicini, si accorgesse dei vagiti dei bimbi e porgesse loro in un modo mansueto le penzolanti mammelle; così raccontò un pastore che li trovò in atto di lambirle con la bocca. 

Dicono che il pastore avesse nome Faustolo e che li affidasse alla moglie Larenzia in modo da allevarli per poi condurre le greggia, Così nati, così allevati, appena crebbero in età, pur non trascurando le stalle e i pascoli, presero a cacciare per boschi montani, e quindi, acquistando vigore d'animo e di corpo, non solo abbattevano le fiere, ma coraggiosi si gettavano sui ladroni carichi di preda e spartivano il bottino coi pastori; e con essi, crescendo ogni giorno di più lo stuolo dei giovani, celebravano feste e giuochi. 

Faustolo sin da principio aveva in testa che quella che stava allevando in casa fosse una prole reale; perché  sapeva che erano stati esposti due bambini per ordine del re, e il tempo, in cui li aveva raccolti, concordava perfettamente con quell'ordine; ma era deciso a non rivelar la cosa prima del tempo, se non per favorevole congiuntura o per necessità, 
Questa occasione venne col fatto che Remo  sotto l'imputazione di avere invaso le terre di Numitore  fu arrestato e consegnato a Numitore stesso, che tenne Remo in prigione. Ma udendo che erano gemelli, confrontando l'età e la loro indole tutt'altro che volgare, fu toccato nell'animo dalla memoria dei nipoti fatti uccidere dal fratello; cosicché venne al punto da riconoscere Remo. 
Ma ormai Romolo per liberare Remo, con i suoi giovani a una data ora, piombò nella reggia. Dalla casa di Numitore, con altra gente appostatavi, uscì Remo a sostenerlo. 

Numitore, nella prima confusione, gridando tutto intorno che i nemici erano dentro la città e che avevano assalita la reggia, rivolse l'invito alla gioventù albana di difendere la rocca; e, poiché vide i due giovani che, fatto il colpo, si congratulavano l'un l'altro, chiamato subito il popolo a parlamento, espose le crudeltà usategli dal fratello, l'origine dei nipoti, come erano nati, come allevati, come riconosciuti, indi la uccisione del tiranno, della quale poi si confessò di essere autore egli stesso. 
Avanzatisi il gruppo di giovani  in mezzo all'assemblea del popolo e salutato l'avolo re, si levò da ogni parte un grido concorde che gli raffermò il titolo e la regia podestà. 

Data così a Numitore la signoria di Alba, venne il desiderio a Romolo e a Remo di fondare e costruire una città in quegli stessi luoghi, dov'erano stati esposti ed allevati. E già sovrabbondavano gli abitanti in Alba e nelle altre città del Lazio, accresciuti da molti pastori; e tutti costoro facevano manifestamente prevedere che Alba sarebbe stata piccola, e piccola Lavinio a confronto della città che si sarebbe fondata. Ma si frappose a tali disegni la passione avita della smania di avere un regno, e dopo un principio abbastanza tranquillo, sorse tra i due fratelli una sciagurata contesa. 

Poiché Romolo e Remo erano gemelli, né poteva il rispetto all'età far differenza, affinché gli Dei tutelari di quei luoghi eleggessero con gli auguri quale di loro due dovesse dar nome alla nuova città, e, dopo averla costruita, chi regnare su essa, Romolo scelse il Palatino, Remo l'Aventino, come luoghi da prendere gli auspici. Si narra che prima a Remo apparissero quale augurio sei avvoltoi, e che, dopo annunziato l'auspicio, un doppio numero se ne mostrasse a Romolo; onde i rispettivi partigiani li avevano entrambi salutati re, gli uni aggiudicando il regno a Remo favorito dal tempo, gli altri a Remolo favorito dal numero degli uccelli. 

Affrontatisi prima a parole per questa contesa, nel bollore della lite vennero alle mani e Remo nella mischia cadde trafitto. È tradizione più comune che Remo deridendo il fratello a mo' di sfida varcasse d'un salto le nuove mura, e che  Romolo sdegnato del gesto arrogante  l'uccidesse, aggiungendo anche queste minacciose parole. "tal fine sia di ognuno chi d'ora in poi varcherà le mie mura". 

Così Romolo solo fu padrone del regno, e la città costruita ebbe nome dal fondatore"
(Da Tito Livio, Istorie, I - trad. L. Mabil-T.Gironi, ed. Paravia)

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Fonti:
ERODOTO, STORIE
STRABONE, STORIA ROMANA
TITO LIVIO, ISTORIE
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE