L'ANNO 79 - 80 d.C.


ERUZIONE DEL VESUVIO - MUORE PLINIO IL VECCHIO

(LA LETTERA DI PLINIO IL GIOVANE)

Inizia l'anno a Roma con Vespasiano imperatore console per la IX volta con il figlio Tito al suo VII mandato, mentre  suffectus + sempre Domiziano alla sua VI nomina.

Il 23 giugno Vespasiano all'età di 70 anni, dopo essere caduto ammalato in primavera, dal letto sentendo arrivare la morte, volle alzarsi, e come si conviene a un imperatore, disse che voleva morire "in piedi".

Morto Vespasiano, nello stesso giorno sempre il 23, gli successe Tito, senza figli maschi, solo una figlia di nome Giulia ancora tredicenne, quindi non avendo discendenza,  destinato a succedergli era il fratello Domiziano. Ma riparleremo sia di questa elezione, che di Domiziano. L'evento che venne a sconvolgere il mondo romano questa volta non era una guerra ma le forze della natura : Era la....

ERUZIONE DEL VESUVIO

25 Agosto, ore 9 del mattino. Il monte che gli antichi erano oramai avvezzi a vedere sotto il pacifico aspetto di montagna circondata da vigneti che producevano, data la caratteristica del terreno lavico,  il vino più pregiato d'Italia, si risvegliava improvvisamente. Dalla vetta squarciata dal fuoco delle esplosioni e dalla lava, una nuvola immane di lapilli, di cenere e di scorie, oscurò il sole e si riversò tutt'intorno con la furia demolitrice dei grandi cataclismi primordiali della terra.

Alla sera Pompei non esisteva più. Sepolta sotto uno strato di sette metri di lapilli e ceneri caduti dal vulcano e dal cielo. Dei suoi diecimila abitanti presenti (ma forse prima del terremoto del 63 ne contava più del doppio o il triplo), circa settemila riuscirono a fuggire subito, gli altri non si resero conto che il pericolo non era la lenta nevicata delle ceneri, quasi spettacolare pur drammatica, ma erano le esalazioni dei gas venefici che queste ceneri portavano con se', che silenziose e aggressive falciarono quanti si erano attardati a recuperare oggetti prima di fuggire. Molti non capirono subito che anche fuggendo con le ceneri alte solo qualche centimetro, ci si poteva camminare ma  respiravano i veleni, infatti molti morirono proprio durante la fuga.

Si ha di questo dramma una precisa descrizione da parte di PLINIO il GIOVANE in una lettera mandata a Tacito. Plinio era a Capo Miseno con lo zio Plinio Il Vecchio; alla prima piccola eruzione quest'ultimo salpato con una barca, spinto dalla curiosità scientifica volle avvicinarsi alla costa e incurante dei sassi e lapilli che piovevano dal cielo (si riparava con un cuscino legato in testa) rimase intrappolato dalle invisibili esalazioni di gas. 
Il giorno dopo le piogge provocate da una grande perturbazione meteorologica, nel trascinare a valle le ceneri, l'apocalisse compì l'opera. Duro' tre giorni dal 24 al 26 Agosto, e se Pompei era già ricoperta da 7 metri di ceneri e lapilli, Ercolano e Stabia furono invece sepolte da 18-25 metri di fango vulcanico disciolto nell'acqua torrentizia piovana che trascinò a valle dai crinali della montagna tutta la cenere che si era andata depositando sul terreno intorno.

(LA LETTERA DI PLINIO IL GIOVANE INVIATA A TACITO)

""...Tu mi domandi, per poterene trasmettere ai posteri una narrazione quanto mai fedele, che io ti parli della morte di mio zio; te ne ringrazio , sapendo che, divulgata da te, la sua morte farà la sua memoria immortale.
Egli si trovava dunque a Misene, in qualità di comandante della. flotta. Il nono giorno innanzi le calende di Settembre [24 Agosto 79], verso la settima ora (circa luna dopo pranzo) mia madre l'avvertì che si vedeva una nuvola di dimensioni e di aspetto straordinari. Lo zio, che aveva fatto il suo bagno di sole prima e poi d'acqua fredda, e, dopo aver pranzato, si era messo al lavoro, chiese allora i suoi sandali e salì in un luogo dal quale poter meglio osservare questo fenomeno prodigioso. La nuvola s'innalzava da una montagna, che si seppe poi essere il Vesuvio, avendo quasi la forma di un pino marittimo; che proiettata nell'aria come un tronco immenso, si spandeva poi in alto in rami. Io credo che, sollevata da un violento soffio, che poi s'indeboliva e l'abbandonava, ovvero vinta dal suo stesso peso, essa si disperdeva in larghezza: ora bianca, ora scura a macchie, a seconda. che era costituita di terra o cenere.

Poiché si trattava di uno spettacolo grandioso, degno, per uno scienziato, di essere esaminato da vicino, lo zio fece preparare una delle sue navi leggere e mi offerse di accompagnarlo, qualora lo desiderassi. Io risposi che preferivo lavorare, avendo appunto a sbrigare una cosa da lui affidatami. Mentre egli usciva di casa ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Cesio Basso, la quale, spaventata per l'imminenza del pericolo (che la sua villa era situata ai piedi della montagna, cosicché non era possibile abbandonarla se non per mare), lo supplicava di strapparla al flagello che la minacciava. Lo zio allora decise di fare per amicizia ciò che aveva dapprima vagheggiato per curiosità scientifica.
Fatte venire delle quadriremi, vi salì per andare in soccorso di Rectina e di molti altri, essendo quella costa incantevole molto popolata. Egli si affretta verso i luoghi donde gli altri fuggivano, orientando il timone così da dirigere la corsa direttamente verso il luogo del pericolo, talmente libero da timore che tutte le fasi del flagello, tutti gli aspetti mutevoli da lui osservati, le detta o le annota egli stesso. Già le ceneri cadevano sulla nave, più calde e più dense man mano che essa si avvicinava, e con quelle delle pietre pomici, dei sassi neri, infuocati, scoppianti per effetto del calore. Il mare che si ritirava non aveva più sufficiente profondità; rocce staccatesi dalla montagna rendevano la costa inaccessibile. Mio zio pensò un momento di retrocedere ed il suo pilota lo incoraggiava; ma poi mutò parere. ''La fortuna, disse, aiuta gli audaci: dirigi verso la casa di Pomponiano".

Questo Pomponiano abitava a Stabia, dove il pericolo non era ancora imminente, pur tuttavia formidabile e prossimo, poiché avanzava ad ogni momento. Pomponiano aveva caricati tutti i suoi mobili su navi, deciso a fuggire non appena fosse stato possibile. Mio zio lo trovò tutto tremante; l'abbracciò, lo consolò, l'incoraggiò e, per convincerlo della propria tranquillità, si fece portare al bagno. Poi si mise a tavola e mangiò allegramente e, ciò che non è meno grande, dando a credere di essere allegro. 

Frattanto su parecchi punti del monte Vesuvio si vedevano brillare larghe fiamme e vaste chiazze infuocate, di cui la notte aumentava lo splendore e la luminosità. Mio zio, per calmare i timori dei suoi compagni, ripeteva loro che si doveva trattare di case di campagna, già abbandonate dagli abitanti, che bruciavano nella solitudine. Poi si mise a letto e si addormentò di un vero sonno, poiché coloro  che stavano presso la porta della sua camera sentivano la sua respirazione forte e sonora, propria di persona corpulenta qual egli era. Frattanto il peristilio su cui si apriva la sua camera si colmava di ceneri e di pomici, le quali s'innalzavano, così che di lì a poco l'uscita sarebbe stata impossibile. Pertanto egli fu svegliato ed uscì a raggiungere Pomponiano e gli altri che non erano andati a letto. Fu tenuto consiglio: era meglio restare nella casa o errare per la campagna? Le case, agitate da frequenti e lunghe scosse, e come strappate dalle loro fondamenta, s'inclinavano a destra ed a sinistra, minacciando di cadere; fuori c'era da temere la caduta di pietre pomici.

Fra i due pericoli si sceglie il secondo, mio zio attenendosi al partito giudicato migliore, gli altri lasciando un timore per un altro; e così escono tutti, formandosi con dei panni un cuscino sulla testa, per proteggersi dalla pioggia di pietre. Altrove era spuntato il giorno, ma ivi era la notte più nera, più fitta, che si cercava vincere con numerose torce e lumi d'ogni genere. Si ritorna verso la riva, per vedere se il mare permettesse qualche tentativo di fuga; ma esso era ancora agitato. Ivi mio zio si coricò su un lenzuolo steso in terra, poi due volte domandò dell'acqua fresca e ne bevve. Ben presto delle fiamme e l'odore di zolfo, che le preannunzia misero tutti in fuga, costringendo anche lo zio ad alzarsi. Sorretto da due giovani schiavi, si rizzò in piedi e poi subito cadde morto. Io suppongo che il fitto fumo gli togliesse il respiro, chiudendo le sue vie respiratorie, che erano in lui naturalmente deboli e strette, cosicché spesso soffriva d'asma. Quando tre giorni dopo la luce riapparve, il suo corpo fu ritrovato intatto, senza ferite, senza che nulla avesse nemmeno scomposte le sue vesti; così che sembrava addormentato piuttosto che morto"

In una seconda lettera Plinio racconta a Tacito le sue emozioni e quelle 
della popolazione di Misene durante quelle ore sinistre. 

"A causa delle violente e continuate scosse di terremoto mia madre ed io ci eravamo decisi ad abbandonare Miseno. La folla spaventata ci segue, obbedendo a quell'istinto di paura che fa riguardare come prudenza il sottomettersi alle decisioni degli altri: a onde lunghe e serrate essa ci preme e ci sospinge. Una volta fuori delle case noi ci fermiamo. Tutt'attorno a noi nuovi prodigi e terrori: i carri che avevamo fatto venire con noi, quantunque si fosse in piano, erano sballottati in tutti i sensi, di modo che nemmeno con delle pietre non era possibile tenerli diritti. Il mare sembrava rientrare in sé stesso, come respinto dalle scosse della terra, cosicché molti animali marini restavano a secco sulla sabbia. Dall'altra parte una nuvolaglia nera, orribile, squarciata da improvvisi fuochi, che si accendevano subitanei serpeggiando, si apriva ogni tanto, lasciando vedere lunghe fiamme simili a lampi, ma più grandi. Poi la nube scende a terra, copre il mare, circonda l'isola di Capri, togliendola al nostro sguardo e ci nasconde anche il capo Miseno.
Mia madre allora mi prega insistendo, mi ordina di fuggire, che io, giovane, posso farlo; quanto a lei, pesante di corpo, indebolita dagli anni, morirà felice se non sarà causa della mia morte; ma io le rispondo che, se debbo esser salvo, non posso esserlo che con lei, e, prendendola per la mano, la forzo ad affrettare il passo. Ella obbedisce a malincuore, rimproverandosi di farmi ritardare. Ecco le ceneri, rare ancora; ma, volgendomi, vedo dietro a noi, minaccioso, un fumo denso, sparso sulla terra come un torrente, che ci segue.  Entriamo nei campi, mentre ci si vede ancora, dico alla mamma, per non correre rischio, rimanendo sulla via, di essere, nelle tenebre, travolti dalla folla che ci accompagna. Appena fermatici noi siamo avvolti dalla notte: non una notte senza luna o resa fosca dalle nubi, ma l'oscurità di una camera chiusa, senza luce. Non si sentono che le grida acute delle donne, i pianti dei bimbi, i clamori degli uomini. Gli uni chiamavano i loro genitori, altri i loro bambini, altri la moglie, non potendosi riconoscere che dalla voce. Questi piangevano sulla propria sorte, quelli su i loro cari. 

Alcuni, per timore della morte, chiamavano la morte:  molti innalzavano le braccia verso gli dèi; mentre molti altri credevano che non ci fossero più dèi, e che questa notte fosse pel mondo l'ultima, eterna notte. E non mancava chi aggravasse il pericolo reale con terrori falsi e menzogneri; a Misene, dicevano, è crollato il tale edificio, il tal altro è in fiamme; ciò non era vero, ma lo si credeva. Poi si fece un po' di luce, che a noi sembrò essere non il giorno, bensì indizio che il fuoco si avvicinava. Poi di nuovo le tenebre, . mentre le ceneri cadevano abbondanti e pesanti, tanto che occorreva spesso alzarci e scuoterle, per non esser sepolti sotto di esse o schiacciati sotto un tale peso. Io pensavo che io con tutto il mondo e tutto il mondo con me stavamo per perire: miserevole, ma grande consolazione della mia morte. 

Ma finalmente la nuvola che ci avvolgeva si rischiarò; poi, come fumo, si dissipò ed il vero giorno ritornò  si vedeva anche il sole, ma livido, come durante un eclissi. E allora ai nostri occhi, ancora pieni di spavento, tutto sembrò cambiato, come se fosse caduta un'abbondante nevicata, ricoperto di uno spesso strato di cenere. Questo quadro dell'esodo di tutta una popolazione nella campagna, in mezzo alle tenebre, nel terrore di un cataclisma, che l'immaginazione riesce appena a concepire, è un'immagine addolcita di quanto dovette accadere a Pompei, seppellita sotto uno strato troppo alto di ceneri, perché gli abitanti  stessero poi, come fecero quelli di Miseno, ritornare alle loro case; mentre vinche di loro stessi molti perirono nella fuga, soprattutto al porto e dalla  parte di Stabia, ove morì Plinio il Vecchio, nonché sulle rive del Sarno, le cui acque, ingrossate, ostacolarono il cammino dei fuggitivi. Ed anche nella stessa città si sono trovati cadaveri sparsi un po' da per tutto. Gli uni, subitamente asfissiati, sembrano tranquillamente addormenta, come si può vedere dalla loro impronta conservata nelle ceneri induritasi poi attorno al loro corpo; altri per contrario hanno lottato energicamente contro la morte, che li ha colti nelle convulsioni di una crudeleagonia
(Da PLINIO IL GIOVANI, Epistolario - H. THADESAT, Pompei, Edit. Laureila).

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La località abbandonata da tutti, terrorizzati da quella montagna che aveva sputato fuoco, fu completamente dimenticata durante tutto il medioevo e il rinascimento, finche' nel 1747 Carlo di Borbone volle fare alcuni scavi archeologici in base alle letture di alcune opere di Tacito (da poco riapparse a Hersfeld dopo 1700 anni) che  nei suoi scritti storici abbondantemente ne parla citando proprio la lettera di Plinio che abbiamo letto sopra.
Una équipe di Carlo, porto' alla luce i primi reperti, si rinvennero  gli stupendi interni delle prime case, le prime opere d'arte di origine ellenica, gli affreschi, i tesori, e perfino il calco dei morti negli atteggiamenti più strani. L'impatto enorme che si ebbe nel mondo culturale e in quello archeologico che stava appena nascendo, fu immediato, oltre che essere accompagnato da uno straordinario  stupore.
Si suole segnare con questa data l'avvio del nuovo gusto per la riscoperta del mondo antico (greco, romano, etrusco - seguiranno poi le campagne napoleoniche con le riscoperte egizie) una tappa importante per la formulazione delle teorie del neoclassicismo.

Quando si verificò l'eruzione si stavano riparando i danni del terremoto che abbiamo già letto nel 63, 16 anni prima. Si era ricostruito, riparato, ristrutturato, e la vita in parte era ricominciata bella e gioiosa come confermano i reperti che tutti oggi possiamo vedere, compresa la testimonianza di una incredibile campagna elettorale,  molto simile a una delle nostre, con tante promesse dei candidati, riportate su pitture-manifesti elettorali dai media di allora; proprio questi ci danno un panorama  completo di tutto il complesso mondo della vita pubblica quotidiana di una città.

Dopo il terremoto del 63, la città aveva subito un profondo cambiamento; nei primi due tre anni molti avevano abbandonato le case lesionate, poi passata la paura lentamente alcuni vi fecero ritorno, ma non era più la Pompei di prima. I veri ricchi, o quelli che avevano una attività "industriale" - a parte il timore- non vi ritornarono, nè vollero spendere dei denari nella ricostruzione, emigrarono in altri luoghi più sicuri; affittarono le case a una popolazione che andò a mutare l'aspetto socioeconomico della città. I meno abbienti presero in affitto le case ancora in parte abitabili, non curarono molto le altre lesionate, né si preoccuparono di ripristinare i servizi, infatti oggi nella città sepolta troviamo che l'impianto idrico non era stato ancora del tutto ripristinato con i lavori indispensabili del dopo terremoto, nè tanto meno si era provveduto alla ricostruzione di una gran parte dei monumenti pubblici.

Insomma all'eruzione del Vesuvio, la città era ancora un cantiere, e stava riparando solo  l'indispensabile, a rilento e senza un particolare piano urbanistico generale. Infatti abbiamo la chiara impressione che Pompei dovette far fronte da sola agli oneri di ricostruzione impegnando le modeste risorse finanziarie di un ceto piuttosto misero, anche se la presenza di qualche riccone è testimoniata.

La maggior parte dei ricchi era già emigrata. Nerone aveva inviato alcuni funzionari per il dopo terremoto, fra cui Tito Suedio Clemente, per evitare sperperi e abusi nella ricostruzione degli edifici pubblici. Ma dopo la morte di Nerone e il caos che era subentrato, questi funzionari negli appalti dei lavori e nei sussidi statali furono liberi di approfittarne, e sembra che con la distruzione del catasto alcuni si intestarono case e terreni sia municipali che privati.

Del cambiamento radicale ci viene da una testimonianza dell'amministrazione della città; prima c'erano solo i rappresentanti dell'aristocrazia, nomi molto noti,  ma dopo il terremoto negli affari pubblici troviamo invece figli di liberti, di funzionari, di mercanti; la città già non era più una raffinata contrada romana, ma un luogo dove si era diffusa la corruzione e il vizio. Una morale piuttosto grossolana, una popolazione godereccia e anche di bassa lega. (una ottima ricostruzione di questa vita pubblica fatta dai reperti, in tal senso ci viene dal volume di Staccioli del 1979, Pompei, Vita pubblica, che riporta un ricco e preciso catalogo delle scritte murali (in originale) ritrovate a Pompei, quelle politiche, le prosaiche e le erotiche.

I reperti archeologici, edifici, monumenti pubblici, case private, oggetti, suppellettili ci rivelano un "ambiente", le iscrizioni invece ci rivelano la voce stessa di coloro che  in questo ambiente ci vivevano. Una "voce" che continua a fare di Pompei quella che e' stata giustamente chiamata "la più vivente delle città morte". 
Il destino, lì, a Pompei, aveva  fatto una scelta, seppellirla di lapilli e di cenere e riconsegnarcela nel 1748 ancora intatta sotto quella coltre. E se voleva quel destino volutamente stupire noi con quelle testimonianze che oggi tutti possiamo ammirare, c'è riuscito! Non esiste luogo al mondo, dove, guardando soprattutto le insignificanti cose, il tempo sembra immobile. Ed è molto emozionante (chi ha la fortuna)  assistere agli scavi, soprattutto quando viene alla luce un comunissimo oggetto quotidiano, che sembra lasciato lì il giorno prima, mentre sono invece passati quasi duemila anni.
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*** IN CINA un decreto imperiale fissa in modo definitivo i testi dei libri confuciani. I "CINQUE CLASSICI" e i "QUATTRO LIBRI " contenenti l' esposizione della dottrina di CONFUCIO e del suo continuatore MENCIO .

*** Muore nell'Eruzione del Vesuvio, PLINIO IL VECCHIO, 56 enne. Un uomo di cultura impressionante e di straordinaria forza d'applicazione. Soleva dire che da ogni libro che leggeva anche cattivo, magari in una pagina c'era sempre qualcosa di utile. Con alacrità studiava e non leggeva mai nulla senza farne un compendio. Insaziabile di conoscere cose nuove si spinse a compiere numerosi viaggi." Il sapere -scrive- è una condizione fondamentale dell'esistenza, e l'uomo ha bisogno di apprendere tutto ciò che gli è possibile per vivere. L'uomo non sa far nulla se prima non l'impara". Con questa intenzione si dedica alla sua monumentale opera : Historia naturalis, un'opera scientifica a carattere enciclopedico ricavata da circa duemila opere di 146 autori romani e 326 greci, importante anche per le notizie relative alla storia dell'arte. Nei suoi 37 libri spazia su : Nozioni sull'universo- I popoli e i paesi del mondo- L'uomo- Gli animali terrestri, volatili, acquatici e insetti- Gli alberi- Le erbe medicinali- I medicamenti- La magia- La pittura- Le gemme- La natura in generale. 
E fu questa sua curiosità nel volere conoscere da vicino l'eruzione del Vesuvio che andò incontro alla morte.

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