ANNI 180 - 193 d.C.

COMMODO -  VITA DI COMMODO - CLEANDRO - UCCISIONE DI COMMODO - PERTINACE
GOVERNO E MORTE DI PERTINACE - IMPERO ALL'INCANTO - GIULIANO - 
SI MUOVE SETTIMIO SEVERO  - MORTE DI GIULIANO
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VEDI ANCHE .....
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L’INGRESSO DELLA FILOSOFIA A ROMA"
(bY: Prof. Giovanni Pellegrino - Prof.ssa Mariangela Mangieri)

COMMODO E L'IMPERO

A Marco Aurelio successe lo stravagante figlio, Lucio Aurelio Commodo.

 Egli aveva compiuto da pochi mesi diciannove anni, essendo nato il 21 agosto del 160. Se nelle fattezze somigliava al padre, Commodo era completamente diverso da Marco Aurelio nell' indole: fin da fanciullo aveva dato prova dei suoi istinti malvagi ordinando -che si gettasse nel forno un servo reo di avere riscaldato troppo l'acqua del suo bagno; di studi non aveva voluto saperne e si era dato con passione agli esercizi fisici: al salto, alla danza, ai giuochi e ai piaceri.

C'era anche lui a Vindobona quando morì Marco Aurelio; e assunto all'impero, pronunciò al campo alla presenza delle truppe l'elogio del padre, poi fece noto il suo proposito di tornare a Roma. Invano i suoi generali insistettero affinchè la guerra, così bene iniziata, fosse condotta a termine: egli fu inesorabile e aderì sollecitamente alle proposte di pace che gli erano state fatte dai Marcomanni, dai Quadi e dai Buri.

Non a lui certamente si dovette se la pace fu conclusa a condizioni vantaggiose per i Romani, ma alla stanchezza del nemico che aveva subito dure sconfìtte ed all'abilità dei suoi generali, cui il padre, morendo, lo aveva raccomandato. Erano fra questi i due Quintili, fratelli notissimi più per il loro valore e la concordia che regnava tra loro che per le grandi ricchezze; Salvio Giuliano, Claudio Pompejano, che aveva sposata Annia Lucilia, vedova di Lucio Vero, e il prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno.
Nonostante l'opera di costoro i nemici si impegnarono a restituire i disertori e i prigionieri; mentre i Marcomanni e i Quadi si impegnarono a fornire truppe ausiliarie all' impero e a  riunirsi soltanto una volta l'anno e sotto la sorveglianza d'un centurione romano in un punto designato dalle autorità imperiali; i Buri accettarono di non risiedere o pascolare a meno di cinque miglia dal confine dacico.

Conclusa la pace, Commodo fece ritorno a Roma dove entrò trionfalmente. Con lui rinacquero le orge di sciagurata memoria neroniana o domiziana; e il potere cadde nelle mani di favoriti ingordi, fra cui sono degni di menzione il cubiculario Saotero e Figidio Perenne che alla morte di Marco Aurelio era stato dato come collega a Tarrutenio Paterno nella prefettura del pretorio. 
Il rifiorire dei favoriti, i quali avevano l'interesse di accentrare nelle loro mani l'amministrazione dello stato e di abbassare l'autorità dell'ordine senatorio e dell'equestre, ruppe la concordia che gli Antonini avevano stabilita tra il principe e il Senato e portò come conseguenza una lotta tra i due ordini; inasprita  del rifiorire degli avventurieri che si erano istallati alla corte; dunque una  lotta che doveva naturalmente produrre congiure e persecuzioni.

La prima congiura di cui si abbia notizia sotto l'impero di Commodo fu capitanata da una sorella stessa del principe, Annia Lucilia. Fra i congiurati erano il marito Claudio Pompejano, Unmidio Quadrato, che aveva in moglie un'altra figlia di Marco  Aurelio di nome Annia Faustina, e il senatore Quinziano, genero ed amante di Lucilia.
L'incarico di sopprimere l'imperatore era stato dato a Quinziano che ne godeva l'intimità; ma il colpo fallì: prima di colpire, Quinziano mostrò l'arma al principe esclamando «te la manda il Senato ». Commodo schivò il colpo e, gridando aiuto ai suoi guardiani, riuscì a fare arrestare il senatore (183).

L'attentato ebbe un seguito di processi e di condanne: Lucilia venne relegata a Capri dove fu trucidata; Quinziano fu messo a morte; la medesima sorte toccò ad Unmidio Quadrato; Tarrutenio Paterno, a quanto pare, non aveva preso parte alla congiura, ma era detestato da Perenne che avrebbe voluto da solo avere il comando del pretorio.
In quel tempo venne proditoriamente assalito ed ucciso anche Saotero. Si sparse la voce che autore del delitto fosse Paterno e Commodo, senza dubbio aizzato da Perenne, lo esonerò dal comando dei pretoriani nominandolo senatore. Pochi giorni dopo però, accusato di aver cospirato contro il principe, venne arrestato e messo a morte. La stessa sorte subì Giuliano, comandante delle legioni della Germania.
Né si fermarono qui le persecuzioni e le condanne: i due fratelli Quintini furono uccisi per ordine dell'imperatore e i loro beni, tra cui una magnifica villa nella campagna romana, vennero confiscati. Si ignorano i motivi di questa condanna. A morte fu condannato anche Sesto, figlio di Candiano Massimo, ma non si sa se la condanna abbia avuto esecuzione o se il condannato sia poi riuscito a scampare con la fuga.

Morto Paterno, il comando delle coorti pretorie rimase a Figidio Perenne che diventò così il vero padrone dell' impero. Si dice che egli avesse in animo di sbalzare dal trono Commodo e di dare l'impero al proprio figlio; che aveva perfino fatto coniare monete con la sua effigie. 
Non sappiamo però quanto ci sia di vero in queste voci. È certo invece che Perenne si rese inviso al Senato e suscitò un vivissimo malcontento nelle legioni dell' Eritannia sostituendo i comandanti che appartenevano all'ordine senatorio altri dell'ordine equestre. Una deputazione di mille e cinquecento soldati dell'esercito della Britannia venne, tumultuando minacciosamente, in Italia. Commodo andò loro incontro nelle vicinanze di Roma alla testa di un forte gruppo di pretoriani e, ascoltate le lagnanze dei soldati, consegnò loro Perenne, che dalla turba inferocita venne messo a morte insieme con la moglie e due figli (185).

CLEANDRO 

La fine di Figidio Perenne fece salire in grande autorità un cubiculario dell' imperatore, il liberto oriundo della Frigia, di nome CLEANDRO, uomo astuto ed avido che aveva saputo cattivarsi la simpatia e la fiducia di Commodo. Cleandro divenne primo ministro e terzo prefetto del pretorio con l'incarico di difendere il principe.
Il governo di Cleandro fu un turpe mercato: Cleandro vendette di tutto, la carica di senatore, il consolato, i gradi dell'esercito. In un solo anno furono a Roma cambiati venticinque consoli. In tre anni Oleandro riuscì ad accumulare ingenti ricchezze, parte delle quali scaltramente diede a Commodo; spese grosse somme in opere di pubblica autorità che lui diceva essere autorizzate dall'imperatore.
Ma il governo di Cleandro non poteva durare a lungo. Aveva troppi nemici, tra i quali un Dionisio Papirio cui era stata tolta la prefettura d' Egitto. Nemico anche un cognato dell'imperatore: L . Antistio Burro.
Per un certo tempo Cleandro seppe destreggiarsi e mantenersi la stima del principe. Burro, che aveva rivelate al cognato tutte le malefatte del liberto, venne messo a morte; la stessa sorte ebbero una cugina e un nipote di Commodo. Mentre l''imperatrice Crispina, accusata di adulterio, era già stata relegata e poi uccisa.

Chi causò la rovina di Cleandro fu Dionisio Papirio. Correva l'anno 189 e una gravissima carestia travagliava Roma. Papirio, anziché porvi rimedio, l'acuì e sparse la voce che il primo ministro per accumulare altre ricchezze faceva incetta di grano. Durante i giochi del circo la folla si levò a tumulto e, imprecando al liberto, si recò a protestare sotto la villa dei Quintini in cui allora si trovava l'imperatore. Invano Cleandro lanciò contro i tumultuanti alcune schiere di pretoriani, invano il sangue del popolo imporporò le vie della città; la folla ebbe ragione delle truppe e continuò la dimostrazione ostile.
 Commodo ebbe notizia del tumulto dalla sorella Fadilla e dalla concubina Marcia Demetriade e, Impaurito dall'ira popolare, preferì sacrificare il suo ministro consegnandolo alla folla che lo squartò e ne portò in girò la testa infissa sopra una picca.
Un figlio di Oleandro ed altri suoi amici furono uccisi è più tardi anche Dionisio Papirio venne ucciso per ordine dell' imperatore.

Morto Cleandro, il governo passò nelle mani di altri favoriti, come Eletto, l'atleta Narcisso ed Emilio Leto, il quale venne fatto capo dei pretoriani. Commodo non si curava degli interessi dell' impero: viveva nella reggia o nelle sue ville, in compagnia di numerose donnine, immerso nelle crapule e nelle orge, non commuovendosi alle sofferenze del popolo prodotte dalla carestia, dalla pestilenza e da un incendio che procurarono numerose vittime e gravi danni alla città. 
Suoi quotidiani divertimenti erano i giuochi, le corse sui cocchi, i combattimenti contro le belve e i gladiatori. Egli si produceva in pubblico come lottatore e si presentava nelle feste con il caduceo in mano, come Mercurio, o vestito alla foggia di Ercole con una pelle di leone sulle spalle e in mano una clava; quando prendeva parte ai giuochi gladiatori si faceva pagare dalla cassa degli spettacoli un milione di sesterzi. I senatori e i cavalieri assistevano agli spettacoli e temendo l'ira del principe inneggiavano a lui: «Gloria a Cesare, a Commodo-Ercole, Invincibile, Amazonio, sempre primo, sempre signore, Pio, Vittorioso».

Erano questi i titoli che l'imperatore si era dati e non i soli. Egli si faceva chiamare Felice Germanico Massimo, Sarmatico, Invitto, Superatore, Pacificatore del mondo, Nume trionfatore, Padre del Senato, Padre della Patria. Il palazzo per ordine suo, si chiamava commodiano, commodiano il Senato, così il popolo e il secolo, commodiano era l'esercito, commodiana la flotta. Roma prese il nome di Colonia commodiana. 

LA MORTE DI COMMODO 

Commodo assunse anche il titolo di Britannico per alcuni successi militari ottenuti in Britannia dalle legioni. Infatti le guerre, seppure di lieve entità, non mancarono sotto il suo principato: i Romami dovettero sostenere lotte contro i Frisi in Germania, contro i Mauri, in Africa, contro gli Ebrei e i Saraceni in Asia e contro bande numerose di ribelli capitanati da un disertore di nome Materno, il quale, sebbene sconfitto da Pescennio Sigro, passò dalla Gallia in Italia e marciò verso Roma, ma prima di arrivarci venne catturato ed ucciso. 
Degna di nota più che le altre fu la guerra in Britannia, dove i barbari riuscirono a passare il vallum e, sorprese le truppe, ne fecero strage uccidendo anche il comandante. A vendicare l'onta fu mandato Ulpio Marcello, che non smentì la sua fama di prode generale e, sconfitti i nemici, li ricacciò oltre la linea di difesa.

Mentre l'imperatore viveva fra le sue meretrici e sempre impegnato nei divertimenti, covava l'ira nei petti dei sudditi. Ciascuno temeva per sé: i senatori, i cavalieri, i ricchi i cui beni facevano gola al principe e ai suoi malvagi ed ingordi favoriti. E tutti quelli che potevano perdere la vita o le sostanze desideravano la fine del tiranno. Questa venne dopo tredici anni di regno e fu dovuta ad una congiura di palazzo. Avvicinandosi la fine dell'anno 192, Commodo aveva annunziato che il primo giorno dell'anno prossimo, in cui solevano celebrarsi le feste di Giano, egli si sarebbe presentato al pubblico vestito da gladiatore e scortato da un drappello armato di gladiatori invece di pretoriani. Marcia, Leto ed Eletto osarono consigliarlo di non voler prostituire la sua dignità mettendo in esecuzione quel proposito e Commodo, adirato, li minacciò. Temendo essi che l'imperatore mantenesse le minacce, stabilirono di sopprimerlo. Nella notte del 31 dicembre diedero al principe delle vivande avvelenate e, poiché il veleno non produsse l'effetto desiderato, lo fecero strozzare dall'atleta Narcisso mentre prendeva il bagno.
Così, in età di trentadue anni, detestato da tutti, moriva l'ultimo degli Antonini.

(Ma Commodo era proprio quel degenerato soggetto che ci è stato tramandato? VEDI L'ANNO 187) 

ELVIO PERTINACE

Colui che veniva chiamato a succedere a Commodo non era un giovane e non discendeva da illustre famiglia. Elvio Pertinace contava sessantasei anni ed era nato ad Alba Pompeja, in Liguria, da un liberto che aveva esercitato i mestieri di legnaiolo e di tavernaio. Messosi nella carriera delle armi, si era distinto nella guerra contro i Parti, poi era andato in Britannia e da Marco Aurelio, che ne apprezzava i meriti, era stato eletto senatore. Scoppiata la guerra contro i barbari del nord, aveva scacciato i barbari dalla Rezia e dal Norico; aveva poi tenuto il governo della Siria, ma caduto in disgrazia al tempo della potenza di Figidio Perenne, si era ritirato a vita privata nella Liguria; ma fu richiamato con lìavvento di Commodo  per restaurar la disciplina in quelle legioni e in premio dei suoi alti servizi era stato proconsole in Asia, poi prefetto di Roma e console nel 192. 
Publio Elvio Pertinace come persona era alto, dignitoso nell'aspetto, di costumi semplici e, sebbene avanti negli anni e sofferente di una malattia, era vegeto e forte.

Si trovava a casa, quando il 1° gennaio del 193, prima che spuntasse l'alba, vennero da lui Leto ed Eletto, i quali, comunicatagli la notizia dell'assassinio di Commodo, che la città ancora ignorava, gli offrirono l'impero. Accompagnato da Emilio Leto, che era prefetto del pretorio, Pertinace si recò al campo dei pretoriani e per averli dalla sua promise loro tremila denari a testa; essendo poi stato convocato il Senato, egli si recò alla Curia, comunicò ai colleghi di essere stato proclamato imperatore dalle coorti del pretorio e disse di voler deporre la carica. Ma il Senato lo confermò e in quella stessa seduta fece la damnatio memoriae di Commodo e decretò che il cadavere venisse gettato nelle acque del Tevere. Pertinace però disse che il corpo era già stato sepolto e il decreto del senato non ebbe esecuzione.
Fin dal primo giorno Pertinace mostrò chiaramente di voler governare costituzionalmente, con clemenza ma nel medesimo tempo con energia e di voler sanare le piaghe dell' impero.
Ma non era impresa facile la sua: dissestate erano le finanze dello stato nelle cui casse egli non trovò che appena un milione di sesterzi, indisciplinati ed avidi erano i pretoriani, non tutti a lui favorevoli erano i senatori e ancora potenti erano i cortigiani che avevano soppresso Commodo. Tuttavia il nuovo imperatore si accinse all'opera. Prima di ogni altra cosa volle dare esempio di modestia e di onestà. Dal Senato accettò il giorno stesso della sua proclamazione il titolo di Augusto e quello di Padre della patria, ma non volle che il titolo di Augusta fosse conferito alla moglie la cui condotta non era stata morigerata e si oppose che il figlio fosse chiamato Cesare.

Si diede poi a ristabilire la costituzionalità ch'era stata violata da Commodo e a regolare i rapporti tra il Senato e il principe. Prese il titolo di principe del Senato, dichiarò che non avrebbe dato corso a processi di maestà, che non avrebbe giudicato e condannato senatori, che avrebbe restituita alla Curia l'autorità e, con malaccorta politica, — che sarebbe stata forse savia in tempi migliori — mise in primo piano quei senatori che avevano rivestita la carica di pretore. Questo fatto gli suscitò gli odi di quei padri che Commodo aveve introdotti nella Curia col titolo di pretore, ma che non avevano esercitato la carica. Uno dei senatori che fin dall' inizio del governo di Pertinace non nascosero la loro ostilità fu Sorio Falcone. Invece Acilio Glabrione gli si mostrò molto amico e ricevette l'onore di sedere accanto all' imperatore; lo stesso onore fu accordato a Claudio Pompejano che, sotto l'impero di Commodo, si era ritirato in una sua villa. Opportuni provvedimenti furono presi fin dai primi giorni in favore di perseguitati dal suo predecessore: i proscritti furono richiamati, le vittime di Commodo furono riabilitate, i beni confiscati vennero restituiti, pene severe furono comminate contro i delatori.

Le maggiori cure vennero dedicate alla ricostruzione finanziaria. Fece rimuovere le statue di Commodo col cui metallo vennero coniate monete; mise all'incanto le donne, i ragazzi ed i ricchissimi oggetti che erano appartenuti al suo predecessore, obbligò i liberti a restituire le ricchezze che avevano ricevute da Commodo, ridusse della metà le spese della casa imperiale e così facendo riuscì a pagare metà delle somme promesse ai pretoriani e far fronte alle spese più urgenti e più necessarie. Abolì alcune imposte messe da Commodo e per alleviare la miseria e render produttive le terre demaniali fece una distribuzione di terreni dello stato ai cittadini poveri esentandoli dai tributi per un decennio.
Severo fu il suo contegno con i cortigiani e con i pretoriani e questa severità causò la sua rovina. I primi che erano stati gli autori della congiura contro Commodo e della fortuna di Pertinace, credevano di poter continuare sotto il nuovo imperatore ad esercitare il potere che avevano avuto vivendo sotto l'altro; mentre i secondi erano avidi e indisciplinati e comandati, per giunta, da quel Loto che aveva offerto ed assicurato l'impero a Pertinace e che proprio per questo pensava di poter spadroneggiare.

Elio Pertinace invece mostrò subito di voler fare a meno dei liberti e dei consiglieri e proibì tutti gli abusi che solevano esser commessi dai cortigiani, i quali non solo furono costretti -come abbiamo detto- a restituire le ricchezze acquisite, ma si videro precludere ogni via ai quotidiani  illeciti guadagni. Nelle coorti pretorie Pertinace volle restituire la disciplina: promise da un lato premi ai soldati più meritevoli, dall'altro emanò provvedimenti rigorosi rivolti a reprimere la licenza e gli abusi.
Proibì, fra l'altre cose, che i pretoriani percorressero armati le vie di Roma e per mostrare che egli voleva dei veri e propri soldati e non dei prepotenti e dei sediziosi diede loro, come parole d'ordine, il motto militemus (siamo soldati !).

Dai Cortigiani e dai soldati più che dalle file dei senatori ostili partì la lotta contro Pertinace. Trovandosi l'imperatore assente da Roma, i pretoriani tentarono di opporre a Pertinace il senatore Sorio Falcone; Pertinace però venuto a conoscenza delle mene dei soldati si affrettò a ritornare e, convocato il Senato, accusò i cortigiani della loro condotta passata e presente. Falcone fu processato e sarebbe stato senza dubbio condannato a morte se l'imperatore non avesse dichiarato che non tollerava che, sotto il suo governo, un senatore, fosse pure colpevole, venisse condannato alla pena capitale. Vana generosità! Non cessarono anzi si inasprirono gli odi dei partigiani, e poiché si era cominciato a punire con la morte quei soldati che avevano manifestato propositi di sedizione, i pretoriani si ribellarono.

La mattina del 28 marzo del 193 circa duecento pretoriani assalirono la reggia, le cui porte vennero subito spalancate dai cortigiani, e con le armi in pugno invasero il Palazzo. Pertinace avrebbe potuto chiamare le guardie e avere ragione dei ribelli; da vecchio soldato coraggiosamente credendo di poterli ridurre all'obbedienza con la sola sua presenza, seguito da Eletto, il solo fra i cortigiani che gli era rimasto fedele, entrò nella sala di Giove dove i rivoltosi erano giunti.
Il suo coraggio, il suo aspetto maestoso e le sue parole ferme e nello stesso tempo benevole produssero sui soldati l'effetto che l'imperatore aveva sperato: i pretoriani si vergognarono, indietreggiarono e rimisero le armi nel fodero. Tutto sembrava finito quando un soldato, di nome Tausio, di nazionalità batava, fattosi avanti ferì con la spada Pertinace. A quel colpo gli altri pretoriani estrassero le armi e si slanciarono contro l'imperatore che, ricoperto di ferite, cadde a fianco del fedele Eletto.

DIDIO GIULIANO

 GIULIANO  era prefetto della città Flavio Sulpiciano, suocero di Pertinace. Alla morte dell'imperatore, temendo di seguirne la sorte, si presentò al campo dei pretoriani e offrì la sua candidatura all'impero promettendo lauti donativi ai soldati. A competere con Sulpiciano spuntò fuori il ricchissimo consolare Didio Salvie Giuliano spinto dall'ambiziosa moglie Manlia Scantilla e dalla figlia Clara. I pretoriani cercarono di trarre il maggior profitto e misero l'impero all' incanto. Sulpiciano offerse cinquemila denari per testa, Didio Giuliano ne offrì seimila e duecentocinquanta e venne acclamato imperatore. L'impero era stato venduto per trecento milioni di sesterzi.

Nel pomeriggio di quello stesso giorno Didio Giuliano, accompagnato dai pretoriani armati, si recò al Senato. La Curia non era favorevole a lui ed avrebbe visto volentieri a capo dell'impero Pescennio Nigro, governatore della Siria. Neanche dal popolo era ben visto Didio. Ma il Senato, per paura dei pretoriani, ratificò, sebbene malvolentieri, l'elezione del nuovo imperatore; il popolo però, quando Didio, seguito dai soldati e dai senatori, si avviò verso il Campidoglio, lo accolse con molte ostilità. Un sanguinoso conflitto si accese  tra pretoriani e popolani e non pochi furono i morti e i feriti. Tuttavia ben presto i pretoriani ebbero ragione del popolo, ma era da poco domata l'insurrezione popolare quando giunse a Roma la notizia che da varie province le legioni si rifiutavano di riconoscere il nuovo principe imposto dalle coorti pretorie ed acclamavano altri imperatori. L'esercito della Britannia infatti eleggeva il suo generale Clodio Albino, quello della Pannonia Settimio Severo, le legioni della Siria e dell' Egitto Pescennio Nigro.

Dei tre generali colui che godeva le maggiori simpatie tra il Senato e il popolo era Nigro, di famiglia italica. Africani erano gli altri due; ma dei due il più vicino a Roma era Settimio Severo. Questi, senza por tempo in mezzo, stabilì di agire adoperando le armi e la politica; da un canto avviò trattative con Clodio Albino cui concesse, per farselo amico, il titolo di Cesare, dall'altro, alla testa di quattro legioni, mosse verso l'Italia.
Didio Giuliano fece dichiarare dal Senato Severo nemico pubblico e inviò al campo del rivale una commissione di senatori guidata dal consolare Vespronio Candido per notificare ai soldati il decreto della Curia e ingiunger loro di abbandonare il generale ribelle; ma i legionari accolsero ostilmente la commissione e questa, per salvarsi dal pericolo che la minacciava, passò nelle file di Severo.
Allora Didio Giuliano tentò di sbarazzarsi del rivale con il tradimento, ma il suo disegno non fu coronato dal successo. Non gli rimaneva che opporre le armi alle armi. Ordinò perciò che Roma e il palazzo imperiale venissero fortificati, per radunar truppe chiamò sotto le armi i marinai e i gladiatori di Capua e inviò contro l'invasore una schiera di soldati, i quali invece fecero causa comune con Settimio Severo. Questi intanto era sceso in Italia e si era impadronito di Ravenna ingrossando le sue forze con la flotta che stazionava nel porto.

Giuliano si vide perduto. Per calmare i pretoriani che cominciavano ad intiepidirsi e a mormorare, sacrificò ai Mani di Commodo Leto e Marcia e per disarmare Severo se lo associò all'impero e glie ne mandò l'annunzio per mezzo di Tullio Crispino, prefetto del pretorio, che però venne da Settimo Severo arrestato e messo a morte.
Cercò allora Giuliano d'impietosire il suo rivale e ordinò che i consoli, i senatori, i sacerdoti e le vestali andassero incontro a Severo, ma sacerdoti e Senatori si dichiararono contrari. Essi già sapevano che i giorni del principato di Giuliano erano ormai contati e non volevano compromettersi; sapevano forse anche che alcuni emissari di Settimio Severo si trovavano a Roma e trattavano con i pretoriani cui promettevano il perdono se abbandonavano l'imperatore e consegnavano gli uccisori di Elvio Pertinace.

Le trattative furono concluse alla fine del maggio del 193. I pretoriani arrestarono gli assassini di Elvio e ne diedero comunicazione al console Silio Messala. Questi radunò il Senato, il quale decretò onori divini a Pertinace, conferì l'impero a Settimio Severo e condannò Didio Giuliano alla pena capitale.
Il tribuno mandato ad eseguir la condanna trovò a letto Giuliano (2 giugno) e lì lo uccise.
Le ultime parole dell' imperatore furono: «Ma che male ho fatto io?»

FINE PERIODO 180 - 193

 

ANNO 187 d.C.

*** MA COMMODO ERA PROPRIO "IL MALE"? 
*** O FU IL PRIMO EUROPEISTA?

GLI AMMUTINAMENTI in Britannia in Spagna in Gallia e in Germania come abbiamo visto vengono domati. Come abbiano fatto i due generali per quanto capaci non sappiamo, ma è certo, che trattandosi di questioni di denaro, hanno concesso e soprattutto hanno promesso qualcosa a tutti. Non per nulla con l'appoggio di questi soldati presto vedremo entrambi i due generali nella corsa al trono, e uno di loro, PERTINACE, diventare subito imperatore proprio dopo l'assassinio di COMMODO.

Il Clima dell'impero è ormai questo: ambizioni, congiure, assassini, tradimenti, ognuno si sente, e lo maschera bene, il dovere morale di far fuori quello che viene indicato come un "inetto imperatore". Proprio per questo sinistro clima, Commodo inizia a prendere provvedimenti per tutelarsi,  per difendersi, costruendosi una cortina di ferro dove vive, gioca, si sollazza, si autoincensa come divinità non solo facendolo credere (ma non sappiamo fino a che punto siano vere le storie) ma forse credendoci lui stesso. Del resto essere sempre uscito indenne da tutte tre congiure, lui lo attribuisce proprio a questo, e lo ripete spesso: "sono sempre vivo perché ho i favori divini".

Paradossalmente mentre le guerre le stavano combattendo i romani fra di loro, con ammutinamenti e rivolte nelle province,  il più grosso pericolo  per un generale  non era sul campo, ma semmai era quello di stare a Roma, dove si poteva essere attirati e coinvolti in congiure o essere accusati con ragioni o senza ragioni dalle delazioni, di averle organizzate
Il posto più sicuro dunque era semmai  nelle province; quelle che avevano dato tanto preoccupazione a Marco Aurelio. Infatti  queste stanno invece godendosi la pace fatta dai due generali inviati da Commodo. Quelle che sembravano zone inquiete, si erano trasformata in luoghi di tranquillità migliori di Roma; in tutti i limes, danubiani, renani e daci.

Questa tranquillita' non era di casa solo nel nord dell'impero ma anche in Africa e in Asia Minore. Non una guerra, non una rivolta per tutto il periodo di Commodo. E tutto questo quando (ma questo ci giunge dalla letteratura che lo dipinge a tinte fosche o colorite) il potere centrale non era mai stato così assente e vago come dicevano gli oppositori. Lo accusavano perfino di altro: di non essere un "costruttore". Le grandi costruzioni monumentali che i suoi predecessori avevano lasciato ad ogni loro passaggio nelle città delle province e che ci sono pervenute,  di quelle fatte fare da Commodo nemmeno l'ombra. Quasi nulla perfino a Roma. Non aveva Commodo la "malattia della pietra" come i suoi predecessori.

Grandi atti legislativi, grandi leggi, grandi provvedimenti: quasi nulla, salvo pensare che una volta assassinato sia stato fatto sparire e distrutto tutto. Nella storia questo è accaduto spesso, dai primi regni egizi fino a oggi. (Per rimanere nel recente: troviamo nella nostra attuale legislazione ancora ottime leggi emanate da Mussolini durante il fascismo, ma sembra che ci sia una vera e propria idiosincrasia nel citare l'autore di quelle leggi. Cosa che invece si fa subito nel ricordare quelle che invece produssero i malanni nel Paese).

Così a Roma; ma qualcosa sappiamo del governo di Commodo, non era passività, indifferenza verso il mondo esterno come ci è stato tramandato, ma semmai c'erano perfino aperture verso il nuovo modo di vedere l'impero, e questa politica  non era certamente ben vista dai conservatori.

A distanza di secoli vengono alla luce fatti che si incrociano con altri; molti storici stanno rivisitando l'operato di Commodo, che alcuni ormai indicano come un anticipatore di una politica di cooperazione a largo respiro, quella che noi oggi chiamiamo del "villaggio globale". Cioè aveva intuito Commodo -nonostante la giovane età- che era finita non un'epoca ma un' Era, il modello augusteo non era più possibile farlo rivivere dentro queste nuove realtà, il mondo attorno stava cambiando, non era più l'epoca dell'imperialismo e del colonialismo. 
Ma Commodo era andato troppo avanti nei tempi. Era, se dovessimo fare un eufemismo, un uomo troppo moderno, liberale, spregiudicato, cosmopolita.

I governatori che Commodo di persona aveva scelto per ogni provincia, stavano conducendo un ottimo lavoro, si preoccupavano della sicurezza, ma erano attenti alle popolazioni che avanzavano uguaglianza di diritti all'interno dell'impero, e quindi aspiravano a una nuova vita che non doveva essere una palese e umiliante servitù. Stavano cioè crescendo con le stesse concezioni politiche  e stavano mutuando quella stessa cultura filosofica che i romani avevano paradossalmente esportato in ogni contrada: cioè la concezione universalista, quella dottrina etica che teorizza la subordinazione assoluta dell'individuo alla comunità;  non al singolo sovrano che anche se era inetto si sentiva sempre e  arrogantemente "unto dal signore".

Commodo stava abbandonando le idee politiche del passato, le stava combattendo con la sua fede razionale nella libertà e dell'uguaglianza. Non a caso, e sembravano allora bizzarrie, metteva dei plebei nei posti di comando quando in questi riscontrava delle grandi capacità che nulla avevano a che vedere con il censo. Perfino nel mondo degli dei; fece entrare quelli stranieri nel pantheon romano, quando a Roma quelle di provenienza provinciali (dai pagos) erano ormai da tutti disprezzate. Possiamo quindi immaginare le ostilità dei conservatori, dei nobili, dei senatori attaccati alle loro tradizioni da secoli.

La monetazione che ci giunge oggi dagli scavi, molto copiosa, per quanto possa sembrare troppo elogiativa, piene di leggende, miti e allegorie che si accostavano al suo nome, qualcosa di scritto importante c'era, ed era: Felice, Nobilissimus princeps, libertas augusti, salus humani generis, ma soprattutto felicita saeculi; un motto che era da duecento anni che non si scriveva sulle monete, dall'epoca dell'eta' d'oro.

Nella tradizione letteraria, si sono riportati i pettegolezzi, i lati odiosi, quelli ridicoli, le stravaganze; che Commodo era un degenerato e tanti altri slogan degli avversari.

Altri storici dissero in coro che mancava di intuito politico, che era un uomo delle illusioni, un semplice manichino in mano ad altri, degno di commiserazione.

Eppure "sotto l'impero di Commodo tutto il mondo è felice" diceva una stele in una provincia, ma lo ripeteva anche tutto il senato, quello stesso senato che appena Commodo fu assassinato, dopo poche ore, fece abbattere tutti i monumenti (ma allora c'erano!) e fece festa dicendo che l'assassinio era "la vittoria del popolo romano" (frasi simili, e caduta di idoli in poche ore sono molto comuni anche nella storia d'Italia recente. Vedi 25 luglio 1943).

Quando cadono statue di uomini fantocci, questi lasciano nulla nella storia, cadono nell'indifferenza generale, che è il più terribile sentimento. Mentre invece quando concepiscono un valido progetto - spesso in anticipo sui tempi- tornano a far parlare di sè.
Potremmo quindi citare quella frase di Nietzsche: "quando un uomo costruisce qualcosa di valido per l'umanità, va sempre oltre se stesso".

Commodo lasciò infatti in un altra forma quello che aveva detto di lui suo padre: il "sole nascente"; e il primo a esserne "illuminato" fu poi Settimio Severo, ma dopo venti anni, quando l'idea politica progettuale che voleva realizzare Commodo divenne poi la Constitutio antoniniana, che fece diventare "Romani" tutti i provinciali.

W. Weber oggi scrive di lui "Con mano possente egli aveva messo da parte l'intellettualismo, i valori, le sfumature spirituali e religiose del vecchio mondo, aveva addomesticato il senato, assumendo tutti i poteri, che Commodo aveva offerto ai suoi servitori perfino schiavi (ma capaci) affinchè li usassero. Conservò i privilegi delle caste e il diritto dei nobili, ma pose accanto a loro, in numero sempre maggiore, le nuove forze del mondo soggiogato e "straniero", che era stato un tempo schiavo di Roma. Commodo distrusse, in una sola volta e per sempre, l'orgogliosa preminenza di Roma nel mondo e divenne unico padrone dell'impero". Le stesse cose le vedremo con l'avvento di Diocleziano fra 100 anni esatti., nel 286 ; si era accorto che la "romanita'" non esisteva più, ma che esisteva solo Roma, e che la città era solo un simbolo del potere, ma non il potere. Trasferì quasi scusandosi con i romani la capitale di fatto a Nicomedia, poi subito dopo arrivò Costantino a dargli il colpo di grazia e Roma da quel momento si avviava a divenire un piccolo paese che in seguito raggiungerà a mala pena i 30.000 spettrali abitanti che si aggireranno in mezzo a 42.000 edifici che erbacce e sterpi ricopriranno poi per secoli.

Commodo si era preso gioco di tutti, la sua concezione del potere sembrava dover essere accentrata sulla sua persona, persino fisica, perchè possente lo era, poi mistico, bello, sensuale e irrequieto e selvaggio pure; Commodo era quello che uccideva le pantere e i leoni con un sol colpo, che umiliava i senatori e i generali, che non si curava dei freni morali borghesi, che non aveva paura di essere irrazionale, depresso o eccitato, alle volte coraggioso e alle volte codardo; non gli importava nulla della facciata di perbenismo, si faceva vedere semplicemente uomo vero, con le mille contraddizioni e le mille debolezze senza vergognarsene. Ed era anche quello che poi regalava un ministero al suo umile servo perché lo riteneva più capace e migliore di un nobile o di un generale.
Tanto orgoglio ci è stato tramandato per le sue intemperanze, i mitologici divini atteggiamenti, ma guardandolo a tutto tondo, scopriamo che ostentava tanta umiltà quando si circondava di provinciali che provenivano dalle più remote contrade; popoli giovani come i "barbari", che si portavano appresso una dignità e quell'orgoglio che si chiamava autonomia e libertà nella e della propria terra, e volevano a ragione uguaglianza di diritti. Fu uno dei pochi a capire queste sottili sfumature. Popoli millenari come gli Egiziani, Mesopotamici, Persiani, Indiani, con altrettanto orgoglio del loro passato, della loro millenaria cultura, avevano e desideravano gli stessi diritti e ambivano all'uguaglianza.
Ma anche quelli che non avevano alle spalle simili civiltà, che erano "barbari", anche questi avevano i loro orgogli, le loro leggi e diritti consuetudinari (leggi saliche).

Commodo lo accusavano i benpensanti di "aver trasformato Roma in una colonia straniera". In questa frase degli avversari, quelli che lo assassineranno, c'e' il grande ingenuo errore di Commodo, lui era pronto, aveva capito, era forse un realista, Roma non lo era affatto, non basteranno neppure 100 anni, quando Diocleziano ripercorse invano questa strada tracciata dal giovane Commodo. La decadenza era una malattia dentro l'impero che si poteva alleviare ogni tanto e per un certo periodo a secondo del bravo medico curante che accorreva al suo capezzale, ma non eliminava la malattia, questa era cronica e alla fine, al suo ultimo stadio, tolse a Roma la vita.

Forse in alcuni popoli fu proprio Commodo a far nascere il desiderio di conquistare il potere centrale dell'impero. Sotto la sua spinta si sentirono uguali, cittadini di un vero impero apparentemente unificato, parificati, verso una cooperazione globale, militare, politica ed economica. Insomma il decennio di Commodo era l'elemento che mancava loro, e fu quello che i romani seguitarono a non offrire dopo di lui; e loro si organizzarono e si vendicarono; le generazioni che verranno dopo di loro si organizzeranno e si vendicheranno. Non solo, ma misero nei loro geni il rancore e la rabbia; il mondo latino oltre le Alpi non aveva in precedenza proprio per niente trapiantato una civiltà; seguitando a fare imperialismo aveva fatto nascere in quei popoli ancora malleabili perchè semplici, l'incomunicabilità che troveremo per altri 1800 anni.

Era proprio lui, Commodo, per quelle nuove forze, in questo preciso momento storico, il "sole nascente"; ai romani stava indicando la strada da seguire, ma gli indolenti, i nostalgici, ebbero il terrore di perdere l'antico ordine delle cose e lo strangolarono.

Ancora Weber ne fa il ritratto finale "Creatura di un intellettualismo in via di dissoluzione, egli visse in modo istintivo pieno di contraddizioni, dando alle forme del vecchio mondo un contenuto di passione e di entusiasmo che nasceva da una nuova concezione di vita e cercando di creare un impero di felicità guidato da uomini ubbidienti e devoti alla pietà e al divino. Respinto dall'antico, pioniere del nuovo, diversissimo da Adriano, egli fu il "sole nascente di un mondo nuovo".

Un sole che voleva illuminare Roma e invece paradossalmente andò a illuminare il mondo esterno. E questo non era certo il progetto di suo padre Marco Aurelio che aveva idee opposte; ma le sue erano vecchie, non più applicabili, ormai tramontate. Gli eventi successivi ne sono la testimonianza. Roma avrebbe avuto bisogno di "amici", ma si trovò circondata solo di "nemici", quelli che aveva essa stessa creati.

Un grande monarca, quello che poi fondò la Grande Prussia, Federico II, visitando i tanti principi che trattavano i sudditi come bestie rimproverava loro "sbagliate a trattarli da animali, quando avrete bisogno di loro, al vostro fianco solo animali vi ritroverete".

Commodo lo avevano subito condannato alla damnatio memoriae.
Solo dopo molti anni - ma fu un caso isolato- Settimio Severo tornato dalla guerra in Gallia, al Senato che stava quasi per tradirlo per Albino appena aveva perso la sua prima battaglia- fece un durissimo discorso: dichiarò  all'assemblea che preferiva la severità di Silla, di Mario e di Augusto che alla clemenza di Pompeo e di Cesare, tessè quindi l'elogio di Commodo rimpro verando il Senato di averne fatto la damnatio memoriae, ed ordinò che gli venisse fatta l'apoteosi e gli fossero erette statue: da ultimo mise sotto processo sessantaquattro senatori sotto l'accusa di avere parteggiato per Albino e l'atleta Narcisso che aveva soffocato Commodo lo diede in pasto ai leoni.
E se Severo fece questo, un motivo ci doveva essere.


...ci aspetta il periodo (S.SEVERO) dall'anno 193 al 211 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testo
APPIANO - Storia Romana 
CASSIO DIONE - Storia Romana 
SVETONIO - Vita dei Cesari
CIACERI - Tacito Politico - UTET
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
WACHER  -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836

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